Camera deserta: solo in 15 per la legge taglia-onorevoli

Come scolari con scarsa voglia di tornare in classe, ieri mattina nell’aula di Montecitorio c’erano solo una quindicina di deputati per l’inizio della discussione di una riforma costituzionale importante sulla riduzione del numero dei parlamentari. Tra i banchi del governo, il ministro per i Rapporti con il Parlamento Riccardo Fraccaro.

Insomma, in molti hanno fatto il ponte del Primo Maggio anche se domani c’è aula, così come giovedì e venerdì. Ma il deputato del Pd Enrico Borghi, nonostante Montecitorio sia semideserto, se la prende con “i resoconti giornalistici non veri e lesivi dell’istituzione della Camera” quando dicono “che sarebbe stata chiusa per 24 giorni” mentre è aperta. Di fronte a Mara Carfagna che presiede la seduta, attacca il presidente Roberto Fico che “non ha ritenuto di dover dire nulla, forse perché questa bestia dell’antipolitica deve essere pettinata”. La riforma del numero dei parlamentari, targata M5s, già approvata al Senato a febbraio, ha scatenato le proteste del Pd che minaccia ricorso alla Corte costituzionale se l’ufficio di presidenza negherà la possibilità di presentare emendamenti, come è successo in Commissione, dato che sono stati ritenuti fuori tema: riguardano il superamento del bicameralismo perfetto e l’abbassamento a 18 anni dell’età per eleggere i senatori.

“Il Pd dica che voterà la legge sul taglio dei parlamentari. Mi sembra assurdo che non lo voglia fare, visto che il referendum voleva ridurne il numero”, attacca il vicepremier Luigi Di Maio. I dem, però, non ne vogliono sapere, specie l’ala ex renziana, noncurante della bocciatura della riforma voluta dall’ex premier. “Vogliono davvero cambiare in meglio il Parlamento? – intima Maurizio Martina – Allora votiamo una riforma che preveda una sola Camera politica che dia la fiducia al governo, eletta dai cittadini e composta da 500 deputati”. Se dovesse passare il ddl costituzionale in discussione, il numero dei deputati passerebbe da 630 a 400, quello dei senatori da 315 a 200, mentre i senatori a vita potrebbero essere al massimo 5. La relatrice Anna Macina (M5s) ha detto che “l’obiettivo è duplice: da un lato, favorire un miglioramento del processo decisionale delle Camere e dall’altro, ottenere il contenimento della spesa pubblica”. Secondo il ministro Fraccaro si tratta di una riforma che “farà risparmiare ben 500 milioni di euro ogni legislatura. Auspico che tutti i partiti votino questa riforma proposta per anni da centro destra e sinistra”. Duro l’intervento del relatore di minoranza Gennaro Migliore (Pd), secondo il quale la riforma “ha il sapore di un saldo di fine stagione, quella della democrazia rappresentativa come l’hanno scritta i Padri costituenti”. Il testo approdato in aula è lo stesso licenziato dal Senato: in caso di conferma si tratterebbe della prima delle due approvazioni necessarie a modificare la Costituzione.

“Ipocrita attaccare Salvini per i nazisti ma poi non rompere”

Nicola Zingarettiapre la campagna elettorale a Napoli scagliandosi contro il governo gialloverde, in particolar modo contro i suoi due principali esponenti: secondo il segretario del Pd, infatti, il ministro del Lavoro Luigi Di Maio avrebbe tenuto un comportamento incoerente nei confronti del leader del carroccio Matteo Salvini, tacciandolo di alleanze con le forze di estrema destra ma permettendogli di detenere il potere in Italia. “È una vergogna ipocrita che Di Maio dica che Salvini è alleato coi neonazisti in Europa e poi gli permetta di fare il ministro dell’Interno in Italia”, ha detto Zingaretti.

Che si è spinto oltre nell’attacco citando i risultati delle amministrative in Sicilia: “Salvini riempie le piazze in Sicilia, ma il voto da quelle parti per lui è stato un flop. Questo va denunciato”. Il segretario dem conclude: “Il modello proposto da Salvini è fondato solo su una parola, la parola odio. C’è solo una ricerca del capro espiatorio, l’assenza totale di solidarietà, e questo oltre ad essere moralmente inaccettabile è anche stupido – ha concluso – perché l’odio non crea benessere”.

“Zinga, guarda la Spagna: basta corse al centro”

Roberto Speranza cita Carlo Rosselli, partigiano antifranchista nella guerra civile spagnola: “Oggi qui, domani in Italia”. Secondo il segretario di Articolo 1 l’affermazione del Partito socialista iberico è un auspicio e un messaggio per la sinistra italiana: “Si vince quando si ha l’orgoglio delle proprie idee, non ci si nasconde, si smette di essere subalterni alla destra e al pensiero neoliberista”.

La sinistra italiana esulta sempre per le vittorie all’estero (oggi Sánchez, ieri Tsipras) ma poi fatica a fare il suo mestiere in casa propria.

Si guarda fuori per cambiare anche qui. Il messaggio dalla Spagna è chiaro: bisogna puntare sulla propria identità e sulla propria visione del mondo. La parola “socialismo” appartiene al futuro e non al passato. La vittoria del Psoe significa che dobbiamo occuparci di diseguaglianze, di scuola e sanità pubblica, diritti ed economia circolare. Questo messaggio vorrei girarlo anche alla sinistra italiana e a Nicola Zingaretti: è finita la grande corsa ai moderati e al centro. Quella è una stagione politica vecchia, che ormai non esiste più.

Con Zingaretti avete fatto un patto per le Europee, ma nel simbolo del Pd compare – bello grande – quello della lista di Carlo Calenda. Sembra che il nuovo Pd guardi ancora al centro.

È vero che c’è il logo di Calenda, ma c’è pure il simbolo rosso del Pes, il partito dei socialisti europei. È un quadratino rosso ancora troppo piccolo, ma per noi è molto importante. È il simbolo di Pedro Sánchez, di Jeremy Corbyn, di Antonio Costa. L’agenda dei socialisti europei è questa: un’agenda radicale e innovativa.

Dice che Calenda se ne farà una ragione?

Dico che a noi interessa il manifesto dei socialisti europei a cui il Pd ha aderito.

Ricorda quando Sánchez posava insieme a Renzi e Valls in camicia bianca? Sembra passato un secolo…

Era il 2014, era una fotografia del socialismo europeo in quel momento. Il Pd renziano ha disperso un patrimonio di speranza e di consenso con le sue politiche, a iniziare da quelle sul lavoro.

Secondo Massimo Cacciari, al Pd serve un progetto di sinistra – come dice lei – ma per farlo funzionare bisogna riuscire a riprendere gli elettori finiti ai Cinque Stelle. Concorda?

Sì. Nel Movimento ci sono tanti voti di sinistra che sono stati utilizzati, invece, per fare i servi sciocchi di Salvini, la peggiore destra europea. Per riconquistare quei voti bisogna sfidare i Cinque Stelle. Concretamente. Faccio una proposta al M5S: perché non si recupera la Carta dei diritti universali del lavoro scritta dalla Cgil? È ferma in Parlamento dalla passata legislatura, malgrado sia sostenuta da tre milioni di firme.

L’euforia per il successo del Psoe può far sottovalutare l’affermazione clamorosa di Vox. Più che la sinistra, l’estrema destra sembra godere di ottima salute in Europa, non trova?

È la prima volta in una democrazia giovane come quella spagnola che entra in Parlamento un partito vicino al franchismo, ovviamente è un segnale molto preoccupante. Il centro e gli spazi intermedi si stanno svuotando, come dimostra la crisi del Partito popolare. Nel risultato di Vox c’è anche il senso della nostra missione: essere alternativi alla destra, con il coraggio della nostra identità e della nostra visione del mondo.

Delrio pontiere con il M5S, inizia “un processo lungo”

Graziano Delrio non è uomo da colpi di testa. E sa bene che c’è un tempo per seminare e uno, più lungo, per raccogliere. E proprio per questo sono in pochi tra quanti lo conoscono a considerare la sua apertura al Movimento 5 Stelle, ieri su La Stampa, sul salario minimo e il conflitto di interessi un’uscita estemporanea. Anzi, qualcuno si spinge a ipotizzare che non possa che essere stata concordata con il nuovo segretario del Pd, Nicola Zingaretti. Non fosse altro per il ruolo che Delrio ricopre, ossia quello di capo dei deputati dem alla Camera. Un gruppo, giurano i ben informati, in cui “qualcosa di inimmaginabile fino a un anno fa, si sta muovendo: con i pentastellati ci si è messi in ascolto reciproco. Specie sui temi del lavoro, della giustizia e della collocazione in Europa dell’Italia. E che dire dello ius soli che Roberto Fico voterebbe di corsa?”.

Ora, iniziativa estemporanea o meno, la profferta è stata rimandata al mittente stretto giro: Luigi Di Maio ha risposto picche e anzi ha infierito sul Pd arrivando a definirlo un partito bisognoso di “redenzione”. Il che ha suscitato la reazione piccata di Delrio che ha cercato di uscire sano e salvo dal ring: “Se c’è qualcuno che deve chiedere scusa dei propri errori e dei danni causati al Paese questo è Di Maio con il suo alleato Salvini di cui si vergogna”. Un esito che alla fine, più di tutti ha rassicurato i renziani che di trattare con i 5 Stelle non vogliono saperne e che un po’ hanno gongolato per la porta sbattuta in faccia in malo modo da Di Maio a Delrio. Come a esorcizzare un’apertura da parte di Zingaretti che però viene data per certa nei prossimi mesi, specie se il banco del governo dovesse saltare e se Sergio Mattarella sollecitasse una pax politica utile a scongiurare le urne. Certo la tempistica scelta dall’ex ministro delle Infrastrutture per fare da operoso pontiere, ossia a poco meno di un mese dalle elezioni europee dove i dem proveranno a erodere consensi proprio al Movimento 5 Stelle, ha disorientato. Ma si fa fatica a credere che possa aver parlato rappresentando solo se stesso. Fatto sta che per i renziani che siano di stretta osservanza o meno, questo è il terzo schiaffone che ricevono in poche settimane dal cambio della guardia al Nazareno dopo il via libera all’ingresso nelle liste per le europee dei fuoriusciti di Mdp e la nomina dei vicesegretari (Orlando e Paola De Micheli) che ha mandato all’aria la promessa di Zingaretti di una gestione unitaria del partito con l’esclusione degli esponenti di area riformista.

Non per niente il segretario dem annusata la buriana e fedele al soprannome di “Saponetta”, ha cercato di minimizzare. “L’apertura di Delrio ai 5 Stelle è una grande tempesta in un bicchier d’acqua. Il vero problema è che il governo ancora oggi non ha fatto niente per il lavoro, litigano su tutto, si sparano uno con l’altro, non intendono alzarsi dalle proprie poltrone e stanno giocando sulla pelle degli italiani”.

E il suo vice Andrea Orlando ha bollato come “cretinerie” le parole di Di Maio sul Pd bisognoso di redenzione. Ma è pure vero che ha tenuto il punto: “Le misure che sono utili al Paese vanno affrontate. Noi poniamo la questione del conflitto di interessi da 30 anni ed il fatto che questo tema arrivi all’ordine del giorno non è che poi possiamo dire siccome lo propongono lo allora dobbiamo dire di no”. E lo stesso vale sulla “questione di una misura universale che sia contro la povertà e contro la disoccupazione”. Insomma per un pezzo rappresentativo del partito che parla con la voce di Barbara Pollastrini, Delrio ha pronunciato “parole sagge e serie”. E poco importa se l’invito al dialogo non sia stato raccolto. “Sono processi lunghi. Ma la manovra di avvicinamento ai 5 Stelle – si commenta tra i parlamentari dem – è iniziata da tempo. E certi passaggi non sono indolori”.

Il fenomeno Caiata passa alla Meloni

In Parlamento siede un fuoriclasse: si chiama Salvatore Caiata. Il presidente del Potenza calcio è riuscito a farsi cacciare prima del voto dal partito che l’aveva candidato (i 5Stelle) e comunque a farsi eleggere lo stesso. Su di lui pendeva un’indagine per riciclaggio: i grillini l’hanno saputo tardi e l’hanno mandato subito via. Il nostro ha ringraziato, ha preso il taxi elettorale e si è trovato con un posto in Parlamento nel gruppo misto. Ma Caiata è irrequieto, non si ferma: il 18 aprile (12 giorni fa) ha fondato una nuova corrente all’interno del Misto: “Sogno Italia – 10 volte meglio”. I suoi compagni di avventura sono Catello Vitiello (ex massone pure lui eletto e cacciato dal M5S) e Silvia Benedetti (mandata via dal Movimento perché coinvolta nella Rimborsopoli grillina). “10 volte meglio” invece è il partito-start up dell’imprenditore veronese Andrea Dusi. Una lista lanciata con grande entusiasmo prima del 4 marzo, che portò a casa ben 37mila voti in tutta Italia (lo 0,1%). Da un giorno all’altro, “10 volte meglio” si è così ritrovata con tre deputati alla Camera. Splendido. Ma che c’azzecca Caiata con le start up? Mistero. E infatti il nostro se n’è andato ancora. È notizia di ieri il passaggio a Fratelli d’Italia. Giorgia Meloni è entusiasta. Lui ancora di più.

In Trentino FI schiera l’ex dc Mario Malossini, in galera nel ’93

Dalla politica ai tribunali e dai tribunali di nuovo alla politica. Per le Europee, dal cilindro di Forza Italia rispunta Mario Malossini: persona di grande esperienza politica, macchiata però ai tempi di Tangentopoli da una condanna per ricettazione e poi da un’accusa di corruzione, con il reato estinto dalla prescrizione. È in lista nel nord est, candidato unico per Forza Italia in Trentino, dove è stato presidente della Provincia dal 1989 al 1992.

La coordinatrice azzurra Michaela Biancofiore lo presenta sottolineandone i pregi: “È il candidato ideale per farci arrivare al 12% nel nord est e per permetterci di eleggere due o più deputati europei”, dice. Solo che chi ha buona memoria ora può servirsi di Internet: su Facebook stanno infatti girando, senza troppe contestualizzazioni, le vecchie prime pagine del quotidiano locale L’Adige. Ai tempi Malossini fece qualche giorno prima di carcere e poi di arresti domiciliari. Era accusato di concussione per una villa sul Garda, ottenuta in cambio dell’acquisto – da parte della Provincia – di alcuni terreni industriali a nord di Trento. Dopo la condanna in appello nel 1994, la Cassazione lo proscioglierà definitivamente nel 1996, modificando l’accusa da concussione a corruzione: reato estinto per effetto della prescrizione. Nel frattempo Malossini era stato però condannato, insieme ad altri pezzi grossi della Dc come Flaminio Piccoli, per ricettazione nell’ambito di un’altra inchiesta, su un giro di tangenti pagate per i lavori per l’autostrada del Brennero. Peccati che in Trentino saranno presto perdonati: nel 2003, Malossini tornerà in consiglio provinciale, ottenendo più voti di tutti gli altri candidati.

“Volevo morire a 87 anni, ma adesso temo il tiranno”

Lei sarebbe dovuto morire, secondo i suoi stessi calcoli, quattro anni fa. Che ci fa ancora qui a Nusco, nel suo studio, con le immancabili carte napoletane sul tavolo e perdipiù ricandidato a sindaco del paese?

Avevo ipotizzato di morire a 87 anni. Ne ero veramente convinto e mi pareva del resto anche una bella età. Rimango dell’idea che quegli anni fossero giusti.

Ciriaco De Mita è indispettito dei 91 anni che si ritrova.

Sono rimasto sorpreso ma come vede non ne sono affatto dispiaciuto. Vorrei emulare mio nonno che si accomiatò con la preghiera della buona morte. Nel sonno si spense. Non infastidì nessuno, aveva già preparato il viaggio. Anche mio padre morì in modo piuttosto rispettabile. Quando giunse l’ora disse a noi figli: vi ho dimostrato di sapere soffrire. Adesso lasciatemi morire.

Ricandidarsi a sindaco però è una cattiveria.

La scelta risale a tre giorni fa. Neanch’io lo credevo possibile. È stato un atto di resistenza all’oltraggio di un’amicizia sulla quale avevo fatto affidamento.

Purtroppo i cattivi sono più numerosi dei buoni.

Purtroppo conservo la memoria. Dovrei aggiungere un secondo purtroppo: io penso da quando avevo 7 anni.

Molti dei nuovi governanti neanche hanno mai votato una scheda elettorale con il nome del suo partito, la Democrazia cristiana. Twitter nemmeno accetterebbe la sua domanda d’iscrizione.

Di cosa parla?

Ora conta l’istante, contano i selfie, conta parlare alla pancia del Paese. De Mita è fuori sincrono con questo tempo. Lei è come quei blob di Ghezzi.

Le ho già detto che fin da bambino sono stato allenato al pensiero. Chi pensa ha memoria, chi non pensa semplifica rovinosamente. Chi pensa sa che ogni ragione ha un punto d’incontro nel compromesso con l’altro. Chi non pensa banalizza. Banalizzando e semplificando sempre più si esalta il desiderio nella più completa ignoranza del contesto. L’utile netto di questa somma di disgrazie è che otterremo un aumento indiscriminato dei pagliacci.

Lei chiama pagliacci i nuovi governanti?

Onestamente devo dire che Grillo mi è simpatico. È venuto anche qui a Nusco a recitare. Ai tempi dei suoi problemi in Rai l’ho difeso insieme a Biagio Agnes. Ha avuto la capacità di interpretare i bisogni della gente. Per interpretarli li ha dovuti conoscere, quindi è stato bravo.

Grillo è promosso.

Un momento. Grillo conosce i bisogni ma non ha soluzioni. Poi si è messo insieme a un personaggio enigmatico (io penso anche un po’ mostruoso) come quel Casaleggio.

Grillo ha fatto meglio di don Sturzo. È arrivato al 33 per cento in minor tempo.

Concordo sull’enormità del successo. Che forse è stato troppo più grande delle sue stesse aspettative. Tutti questi giovanotti, senza alcuna arte, si sono ritrovati lanciati in cielo. E da lassù, dalle vette incredibili, adesso si schianteranno a terra. È la legge della fisica. Più vai in alto senza aver messo in conto che bisogna saper volare, più la caduta – se sei pesante e ti mancano le ali – sarà rovinosa.

Lei pronostica il disastro. Al tempo della sua Dc uno come Gava l’avrebbe accusato di malocchio.

Non ho alcun dubbio che andranno al disastro, ma per via di un loro difetto genetico. I Cinquestelle sono il medico dolente dell’Italia ammalata. Anziché approntare la terapia aggiungono al dolore altrui il loro lamento. Ha mai visto un medico lamentarsi per i dolori del paziente? Sono destinati a scomparire (detto questo, ripeto: Grillo mi fa simpatia).

E i loro compagni di ventura?

Quel Salvini è assai rozzo, ma il suo movimento ha custodito negli anni un collegamento più solido con gli artigiani, i lavoratori autonomi del Nord. Un corpo sociale importante che gli farà da paracadute. In sintesi: mi sembra meglio messo.

Se la maggioranza è questa, bisognerà guardare all’opposizione.

Il Partito democratico è senza pensiero. Il Pd dunque è il tentativo del niente. E un partito che non ha pensiero semplicemente non esiste.

Non ha mai amato il Pd.

Il Pd lo immaginò per primo Francesco Rutelli come strumento di garanzia verso Prodi. Fallì, arrivò Veltroni e in verità fu assai cortese con me. Mi chiamò e mi disse: vorrei darti l’incarico di formare la nuova classe dirigente. Poi la nebbia.

Presidente De Mita: l’opposizione non esiste, la maggioranza è formata da pagliacci. Non resta che scappare.

Ogni domanda deve avere una risposta. Presto o tardi questo equilibrio si riformerà.

Cosa vuol dire?

Che ci può essere qualcuno che chiederà il ripristino delle regole.

Cioè un tizio.

Le esperienze democratiche possono finire, lo sa?

Lei pensa al moderno tiranno.

Ritengo plausibile che una società lungamente stressata dai bisogni insoddisfatti divenga preda di qualcuno. Io lo dico non perché lo desideri, ma perché lo temo. E se voi giornalisti invece di denunciare unicamente le malefatte non vi sforzate di proporre soluzioni, sappiate che tra dieci anni anche la stampa libera non esisterà più.

Il dittatore prossimo venturo.

La paralisi è un evento possibile, bisogna tenerne conto. E ci sarà chi invocherà una misura di salvaguardia.

Nel Messinese rieletto l’ex sindaco decaduto per incompatibilità

Stessi candidati, stesso risultato e probabilmente stesso esito: sindaco incompatibile. È la bizzarra storia consegnata dalle urne del piccolo centro di Longi, sui monti Nebrodi, in provincia di Messina, uno dei quattro centri della zona famosi per i funci, i funghi, i cui 1.070 elettori hanno ieri eletto sindaco Nino Fabio, l’uomo che aveva già vinto le Comunali nel 2017 a spese di Antonino Miceli. Anzi, Fabio in due anni ha anche aumentato i consensi: la prima volta batté Miceli per 61 voti, stavolta di 110. Qual è il problema? Che il Tribunale di Patti ha fatto decadere il sindaco appena due mesi fa: sentenza di primo grado a marzo 2018, appello rigettato in febbraio. Motivo: Luigi, il fratello del sindaco Nino Fabio, era ed è ancora oggi membro del cda della Banca di credito cooperativo Valle di Fitalia di Longi, che gestisce la tesoreria del comune, un intreccio di parentele che i giudici hanno ritenuto incompatibile con la carica di sindaco. Gli elettori di Longi, però, non possono fare a meno di Nino Fabio come sindaco e ora la faccenda tornerà in Tribunale. La prima tappa è la sentenza della Cassazione sulla prima decadenza.

Il Movimento non presenta liste a Paestum contro il deluchiano “Mr Fritture di pesce”

Tra i cittadinie i portavoce campani della eterna mozione M5S contro Vincenzo De Luca grande è la confusione sotto al cielo delle chat e dei blog di ispirazione grillina. C’è un MoVimento che vorrebbe defenestrare De Luca, togliergli la guida del commissariamento della sanità campana, farlo cadere dalla poltrona di governatore. E c’è un MoVimento che si estranea dalla lotta sul territorio salernitano, dai fortini dove De Luca ha costruito il suo consenso, dai luoghi simbolo del potere deluchiano. I due M5S convivono senza imbarazzo nello stesso gruppo dirigente campano che ha assistito inerte alla mancata presentazione della lista del MoVimento a Capaccio Paestum. È la città famosa per i Templi, dove il Pd (ma senza simbolo) candida a sindaco il capo della segreteria di De Luca, mister “fritture di pesce” Franco Alfieri, l’incarnazione della delucrazia clientelare uscita sconfitta al referendum delle riforme di Matteo Renzi. Qui il candidato sindaco grillino Ernesto Franco non è riuscito a mettere a posto carte, firme e documenti necessari. Quindi a Capaccio niente lista M5S.

Il pensiero corre al 2016, quando a Salerno, guidata ininterrottamente da De Luca e dai suoi fedelissimi sin dal 1993, il sole intorno al quale ruota la galassia del governatore, i parlamentari M5S lasciarono scannare i due aspiranti sindaci Oreste Agosto e Nicola Provenza, ed alla fine lo “staff di Beppe Grillo” decise di non certificare nessuna delle due liste. Lasciando la strada spianata al vicesindaco di De Luca, Vincenzo Napoli. Anche lui senza simbolo Pd.

Sicilia: il centrodestra è liquido, il M5S malato, il Pd moribondo

La Sicilia, e specie la Sicilia delle amministrative, è un mondo fantastico: alleanze, quadro ideologico, magmatica capacità di movimento dei candidati, tutto sembra un racconto paradossale di quell’allucinato voltairismo caro agli scrittori dell’isola. Se però, per quel che vale, uno volesse auscultare le Comunali tenute domenica per anticipare quel che sarà il 26 maggio, potrebbe dire questo: il centrodestra è una coalizione liquida; il M5S non riesce a confermare un sindaco, né l’exploit delle Politiche ma è ancora vivo; il fu patto del Nazareno lotta insieme a noi; il centrosinistra resta moribondo, cioè né morto, né convalescente; la Lega va bene e non poteva che andar bene visto che alle scorse Comunali non c’era e alle Politiche aveva messo assieme meno del 6%; vincono le liste civiche, le semiciviche, i cacicchi e i riciclati e questa non è una sorpresa.

Riassumendo: la dissoluzione in acido del quadro politico – che a livello nazionale trova qualche freno nei meccanismi elettorali – nelle amministrative ha il suo luogo d’elezione, ivi compresa l’affluenza bassa ma non bassissima: 254mila sono andati alle urne (58,4%) e 181mila rimasti a casa, forse in memoria di quella frase di Bufalino per cui “in un mondo di arrivisti buona regola è non partire”. Per dare un’idea della situazione, parleremo dei 7 comuni al voto (su 34) sopra i 15mila abitanti, quelli la cui geografia politica somiglia di più a quella nazionale. Avvertenza: per vincere al primo turno, in Sicilia, basta il 40%.

Caltanissetta. Nell’unico capoluogo al voto si andrà al ballottaggio. Il candidato del centrodestra, ma senza la Lega, Michele Giarratana s’è fermato al 37,4% e dovrà vedersela col grillino Roberto Gambino, fermatosi al 19,9%. Terzo classificato Totò Messana, che fu già sindaco di centrosinistra, col 17,7% davanti al candidato della Lega, Oscar Aiello (12,1%). A Caltanissetta c’è una piccola novità di livello nazionale: in un modo cervellotico, è comunque il primo caso in Italia in cui i 5 Stelle s’alleano con una civica. Come funziona l’ha spiegato il leader regionale Giancarlo Cancelleri: per statuto “non possiamo fare un accordo a tutti gli effetti, cioè non possiamo fare una coalizione con altre liste. Ma un’intesa tecnica c’è: il movimento ‘Più Città’ aderisce senza presentare propri candidati al consiglio, però indica un assessore”. Essendo andati al ballottaggio per soli 653 voti non è stata una brutta idea.

Bagheria. I grillini nel 2014 vinsero le elezioni nel Comune del palermitano in dissesto con Patrizio Cinque, poi un anno fa scomunicato per via di un processo, e i cittadini non hanno voluto fare il bis: Romina Aiello del M5S s’è fermata all’11,3%. Vince al primo turno Filippo Tripoli col 46% e spiccioli, candidato nazareno: lo sostenevano civiche di centrosinistra, ma anche un pezzo di centrodestra. Secondo a 15 punti arriva invece il candidato ufficiale di Forza Italia, Lega eccetera, Gino Di Stefano: la piazza strapiena del 25 aprile di Matteo Salvini ha fruttato al Carroccio un dignitoso (ma non di più) 8,4%. Anche ad Aci Castello (Catania) vittoria al primo turno: il sindaco sarà Carmelo Scandurra, civico di centrosinistra.

Gela. Nella città del petrolchimico sfida Nazareno contro Lega al ballottaggio: al secondo turno vanno, infatti, Lucio Greco (36,2%) – sostenuto dal ras di Forza Italia Gianfranco Miccichè e dal Pd – e Giuseppe Spata (30,5%), sostenuto dai leghisti siciliani e dai berluscones dissidenti. Male il M5S che qui aveva vinto cinque anni, salvo espellere il sindaco Domenico Messinese dopo sei mesi. Anche a Gela gli elettori non hanno gradito: grillini al 15%.

Castelvetrano. Il comune sciolto per mafia due anni fa va al ballottaggio così: il 5 Stelle Enzo Alfano (28,4%) sfida Calogero Martire (30,3%), candidato di un centrodestra con Forza Italia, ma senza Lega e FdI. Notevole che Pasquale Calamia (16,3%), sostenuto solo dalla lista Pd, sia l’unico candidato per cui si sia speso Nicola Zingaretti.

Monreale. In questo paese del palermitano il centrodestra s’è fatto addirittura in tre. Al ballottaggio va Alberto Arcidiacono (24%), candidato da Udc e Sarà Bellissima del governatore Nello Musumeci: restano fuori invece Salvino Caputo (Forza Italia, il primo politico a decadere per la legge Severino dopo una condanna per tentato abuso d’ufficio) e Giuseppe Romanotto (Lega). Lo sfidante sarà il sindaco uscente Pietro Capizzi: eletto 5 anni fa anche col simbolo del Pd, oggi schiera solo civiche.

Mazara del Vallo. In uno dei paesi più arabi d’Italia ci sarà il ballottaggio tra il civico Stefano Quinci e Giorgio Randazzo, sostenuto dalla Lega e da altri, ma non da FI e dal presidente Musumeci.