Giallo bifronte

La giornata di ieri sembra fatta apposta per confermare ciò che sosteniamo da 11 mesi, contro gli opposti fondamentalismi del “tutto sbagliato” e del “tutto giusto”. E cioè che il Salvimaio è una cosa strana, inedita, contraddittoria che include tutto e il suo opposto: governo e opposizione, istanze di destra e di sinistra, porcherie e norme giuste, gente inguardabile e capace. Perciò il giudizio va dato giorno per giorno, anzi ora per ora, caso per caso, persona per persona. Anzi, scelta per scelta, perché anche i migliori alternano cose condivisibili ad altre sbagliate.

Prendiamo Giuseppe Conte, una delle migliori scoperte della nuova classe dirigente in gran parte improvvisata. Era partito bene su Armando Siri, distinguendo l’aspetto penale (l’accusa di corruzione, tutta da verificare, di cui si occuperanno i magistrati) da quello etico-politico (il conflitto d’interessi della norma “ad Aratam” e il cumulo di menzogne per nasconderlo, già accertati e ammessi dall’interessato). Poi, tornando dalla Cina, ha inviato segnali contraddittori: dall’intenzione di “scollarlo dalla sedia” a quella di rinviare il redde rationem, magari in attesa dell’interrogatorio di Siri. Il che sarebbe un pessimo errore, per due motivi. 1) In questa fase iniziale dell’indagine, non esiste alcun interrogatorio: solo l’intenzione di Siri di rendere dichiarazioni spontanee ai pm, che si limiteranno ad ascoltarlo muti senza muovergli contestazioni; dopodiché Siri uscirà e dirà, come tutti, di avere “chiarito tutto”, mentre i pm – tenuti al segreto – non potranno controbattere che non ha chiarito nulla. 2) Legare la sorte di Siri a un passaggio dell’indagine (peggio se a una dichiarazione spontanea) significa allontanare il campo di gara da quello che correttamente il premier aveva indicato fin dall’inizio: il conflitto d’interessi, che nessuna indagine o sentenza può cancellare, perché si è già verificato col pressing per la norma che favoriva la società di Arata (e di Nicastri, legato a Messina Denaro). Se il premier non si fida più di Siri e vuole recidere ogni legame tra il “governo del cambiamento” e i giri terrificanti di Arata, deve accompagnare il sottosegretario alla porta: ma per l’emendamento, non per l’accusa di corruzione. Se invece si attende la famosa intercettazione, Siri la conosce già: i suoi legali ieri hanno fatto copia degli atti dei pm. Ora Conte deve chiedergli di esibirla, così saprà e sapremo su cosa si fonda l’accusa. I farfugliamenti leghisti sull’“autosospensione” sino a fine indagine sono ridicoli. Siri è già un soprammobile, da quando Toninelli gli ha levato le deleghe.

E poi dev’essere chiaro a tutti che chi governa deve fare gl’interessi della collettività, non di questo o quell’amico, per giunta alle spalle dei colleghi di governo. Lo sa bene Salvini che, per i conflitti d’interessi del centrosinistra, chiese la testa di Alfano, Boschi, Cancellieri, Guidi (indagati o meno che fossero). E ancora il 13 aprile ha chiesto le dimissioni della governatrice umbra Marini, appena indagata per accuse gravi, ma non per corruzione. Dunque non può dire che “i processi non si fanno in Parlamento” e che il suo indagato Siri (per corruzione, al netto del patteggiamento per bancarotta e sottrazione fraudolenta di beni al fisco) deve restare.
Prendiamo ora Di Maio. Fa discutere il duro confronto in diretta streaming con Alessandro Marescotti e gli altri esponenti dei comitati anti-Ilva. Ma nessuno nota che non siamo abituati a ministri (c’erano pure Costa, Grillo e Lezzi) che vanno a prendersi i pesci in faccia da cittadini che si sentono traditi, invitandoli al loro tavolo. Come se Renzi e la Boschi avessero presenziato alle assemblee dei truffati da Etruria&C. Di più. Il 4 marzo, appena Zingaretti fu eletto segretario Pd, Di Maio gli inviò il suo “in bocca al lupo” e lo sfidò a votare insieme il salario minimo: “Una battaglia di tutti su cui auspico un’ampia convergenza parlamentare, a partire da Zingaretti”. Gli rispose, con la consueta volgarità, il capo renziano dei senatori Pd, Andrea Marcucci: “È il M5S che se vuole, potrà votare il nostro ddl sul salario minimo presentato da Mauro Laus”. Ma difficilmente il partito di maggioranza relativa cestina una sua norma per votarne una della minoranza. Eppoi Laus è passato alla storia per i pubblici rimbrotti del regista inglese Ken Loach, che nel 2012 rifiutò un premio al Torino Film Festival per solidarietà ai dipendenti della Rear, la sua cooperativa che aveva sanzionato o licenziato i lavoratori per aver protestato contro le paghe da fame (5,44 euro lordi l’ora, poi anche meno). Ieri però l’altro capogruppo Pd, Graziano Delrio, ha fatto una mossa di segno opposto: s’è detto “pronto a discutere col M5S su salario minimo e conflitto d’interessi”. E stavolta è stato Di Maio a rispondere alla Marcucci: “No, grazie. È curioso che proprio oggi il Pd si svegli dopo che ha avuto 20 anni per concretizzare queste due proposte. Il nostro appello è agli amici della Lega con cui condividiamo un contratto di governo. Ci auguriamo di ricevere presto una risposta”. Peccato che gli “amici della Lega” non abbiano risposto e continuino a fregarsene della lealtà di coalizione, cercando maggioranze alternative in Parlamento per tradire gli accordi di Contratto (vedi il Tav) e di maggioranza (vedi il Taglia-debito di Roma). I 5Stelle dicono sempre di essere al governo per attuare il loro programma: perché allora non presentano in Parlamento le loro nuove cinque leggi (salario minimo, acqua pubblica, taglio dei parlamentari, conflitto d’interessi e sanità senza partiti) per discuterle con chi ci sta? Gli ultimi 20 anni li ricordiamo tutti benissimo: ma chi vuol cambiare le cose deve lasciarli agli storici. Anzi, agli archeologi.

Il Costanzo Show è come la maturità

Andare ospiti al Costanzo Show è come rifare la maturità, con l’aggravante che non hai davanti la commissione esaminatrice, ma l’Italia intera. Il giorno dopo ti salutano tutti: “Ti ho vista da Costanzo!” se non aggiungono “brava, divertente la lite!” li hai delusi. Non si può solo parlare, sei costretta a litigare con qualcuno degli ospiti, a interromperlo mentre parla, o aggredirlo senza pietà strillando come un’ossessa pur di farti notare dal pubblico e guadagnarti un applauso. Io, per esempio, mi considero mediamente spiritosa, ho un discreto senso dell’umorismo, ma le battute fulminanti in diretta non mi vengono! Solo a casa ripensando alla serata, ma è tardi. Invece lì, in quella specie di Circo Massimo popolato da bestie feroci devi essere pronta, non puoi distrarti se vuoi che il prof Costanzo ti conceda un risolino sotto i suoi famosi baffi, o intervenga a sedare la rissa che hai scatenato col suo proverbiale “boni, state bboni!”. Eppure, essere invitati al Costanzo Show è un punto d’arrivo, ci vogliono andare tutti per la popolarità, diventi qualcuno anche se non hai mai combinato nulla. Non importa che tu sia un professionista, conta che tu sia bravo lì, in quell’ora di lotta contro tutto e tutti. È un altro lavoro, è il nuovo professionismo! C’è chi è diventato famoso per essere un collezionista di carillon e ti tormenta per ottenere il famoso risolino del pubblico. Se non appari in tv, non esisti! La gente per strada ti dice “Non lavori più?” anche se stai cantando l’Aida al Covent Garden, quindi sei costretta a fare l’ospite torturato o torturatore pur di affermare la tua esistenza. Meno male che a un certo punto parte la nostalgica passerella, Costanzo saluta il suo pubblico col consueto “… il resto è vita” e io concordo con lui, se il resto è vita io preferisco il resto, cioè la vita!

 

Calamità naturali? Ecco l’Apocalisse, in ritardo di secoli

Nella storia dell’uomo, vi è una tendenza costante, irrazionale, spesso abilmente giocata soprattutto nei momenti di crisi: interpretare calamità naturali, disastri, carestie come indizi dell’imminente collasso, i segni di un ordine naturale sconvolto e dell’ira della divinità offesa. Il motivo ideologico-religioso delle catastrofi naturali quali terribili punizioni di Dio era presente nell’antichità, come testimoniano Sant’Agostino e Orosio, suo affezionato presbitero, e altrettanto ricorrente lo era nel Medioevo. E non è estraneo neppure ai duri tempi della nostra postmodernità. Due esempi. Il primo. Qualche anno fa il Pontefice Benedetto XVI, al secolo Joseph Ratzinger, nel proporre un parallelismo tra la crisi dell’impero romano e la crisi mondiale in atto dalle colonne del Corriere della Sera ammoniva: “Il disfacimento degli ordinamenti portanti del diritto e degli atteggiamenti morali di fondo, che ad essi davano forza, causavano la rottura degli argini che fino a quel momento avevano protetto la convivenza pacifica tra gli uomini. Un mondo stava tramontando. Frequenti cataclismi naturali aumentavano ancora questa esperienza d’insicurezza. Non si vedeva alcuna forza che potesse porre un freno a tale declino”. Ora, un conto è la suggestione avanzata dal solido professore di teologia di Tubinga, altra cosa, quasi una sbertucciata, è il secondo esempio offerto da Guillermo Mariotto del drammatico incendio di Notre Dame: “Come una croce di fuoco. Inequivocabili segnali divini dell’Apocalisse imminente”. E, dunque, Mariotto, alla vigilia dell’Apocalisse si continuerà a ballare con e sotto le stelle oppure si andrà in giro urlando “Penitenziàgite”?

La rivoluzione gentile dello chef: “Alle stelle preferisco mio figlio”

Sarà che mi sono ormai convinto che oggi una delle forme più alte di rivoluzione sia la gentilezza, ma appena l’ho visto mi sono chiesto da dove spuntasse. Modi generosi, cortesi, mai affettati. Fa lo chef, Andrea; uno dei mestieri più celebrati, fucina di opinionisti e star tv. E lo fa con modestia, perfino con pudore. L’ho incontrato a San Vincenzo, provincia di Livorno, l’unico paese che io conosca in cui felicemente abbondano vie dedicate a pescatori e marinai locali. Lavora in uno dei tanti alberghi disseminati su questa fascia di costa tirrenica, dove conduce le sue sperimentazioni, di cui diremo. Nato nella vicina Cecina 34 anni fa, ha frequentato, spiega, un ottimo istituto alberghiero, “erano i tempi in cui si investivano risorse nel lavoro di cucina e di sala”, ma soprattutto è figlio d’arte. La madre era un’antenata degli chef d’oggi, praticando una cucina “molto più semplice”.

“Come mi definisco? Un ricercatore in servizio permanente di qualsiasi cosa esalti il gusto. Il mio segreto? La natura. Per fortuna abito in campagna. E ho in mente tutti i profumi e i sapori che ne possono venire, con cui potrei impreziosire i piatti. Ho un orto specialissimo. I baccelli (le fave) che avete mangiato stasera sono stati colti lì stamattina. Gli ortaggi freschi sono un’altra cosa, bastano due-tre giorni per fare perdere i veri sapori. Pensi ai pomodorini. O alla frutta. Lei ha mai mangiato una pesca calda di sole appena colta dall’albero? E’ un’esperienza unica, irraggiungibile”. Perciò il giovane chef vorrebbe disporre di ogni essenza. Ha perfino piantato un’erba speciale, su cui scriverebbe un trattato, nel giardino dell’albergo.

Gli zoccoli bianchi, una divisa scura, il grande cappello bianco che si alza di sghembo su una bella faccia da calciatore delle vecchie figurine Panini, Andrea Vericondi studia con curiosità le curiosità del suo interlocutore. E snocciola segreti. Con timidezza, mentre Silvia, la giovane signora di sala, gli manda – passandogli alle spalle – un’occhiata intenerita da sorella maggiore. Il segreto più importante, dopo la conoscenza delle risorse della natura? Quella di tutti i luoghi e fornitori della zona. Tutti i migliori: per qualità, per ogni genere di cibo, sulla costa o nell’interno, a sud o a nord, si tratti di pesce o di carni, di carciofi o di vino. E per ogni tipo di vino, per ogni tipo di pesce. Strepitosi produttori che nella grande distribuzione nemmeno ci finiscono “per una questione di centesimi”, dice sconsolato Andrea mettendosi dalla parte del consumatore. Segreto numero due, la fantasia. “Vede, io spesso non so dirle esattamente la ricetta prima di cucinare. Vado per ispirazione, come mi garba in quel momento. Prima lo fo e poi le posso dire come ho fatto, via…Tipo il ravanello e la ricciola, il pesce è molto versatile, sa? Il piatto migliore comunque è quello che esalta la materia prima nella stagionalità giusta”. Così è capace di portare in tavola – scrivo sotto dettatura – “una tartare di tonno con pomodorini confit, cotti al forno in alta temperatura e caramellati con aceto di lampone e zucchero” (ma non provate a imitarlo se non usate quel che usa lui, ho solo sperimentato che è roba buonissima).

Terzo segreto, essere chef e produttore. “Già gliel’ho spiegato. Le erbe aromatiche sono mie, colte in giornata. Ma lei sa le differenze che ci sono tra i vari tipi di menta, per dire? Ci sono le piperite, la menta al pompelmo, con la foglia riccia, quella domestica, con foglia dolce e spessa, la mente addomesticata. E bisogna scegliere. Ricorda il pesce che hanno mangiato quei signori? L’ho pescato io oggi al molo. D’estate vado a prenderlo con la mia barca fino alle acque della Corsica. E la vostra carbonara l’ho fatta con le uova delle mie galline”.

Ascolti e non ci credi, anche perché Andrea non se ne sta felice nella sua campagna, è uno che studia e viaggia, tutte le grandi fiere, inviti in decine di cantine.

Resta però il segreto più importante, almeno quello che mi sembra tale. Perché uno chef così non cerca fama e soldi nei lussi e nelle mode della metropoli? Andrea si fa dolce di colpo. “Il sogno sarebbe gestire una cucina stellata. Però qui ho imparato tutto. E poi avevo provato a costruirmi una famiglia, ma non è andata bene. Ho un figlio. Resto qui perché mi fa piacere vederlo e mi sento un buon padre”. Grandezza di chef.

Famiglie che scoppiano “Malata per colpa dei miei, col tempo mi vendicherò”

Cara Selvaggia, è domenica sera, sono a letto alla fine di una giornata faticosa e penso a quante cose non sono andate con la mia famiglia. Sono figlia unica di genitori poco genitori. Ho vissuto con occhi chiusi per 18 anni fino alla mia iscrizione all’università. Una fuga la mia, da una piccola città verso una grande città, verso gli studi, il lavoro ma soprattutto verso la libertà. Fuga da gente – i miei genitori- che non mi ha permesso di prendere la patente perché “costa” e la patente a 19 anni me la sono pagata da sola. Tramite dispetti vari, i miei non mi permettevano di prendere l’unica macchina di famiglia. Fuga da quel padre che mi giudicava e mi bullizzava, e sempre davanti ai suoi amici per ridicolizzarmi. Fuga da mia madre per cui ero non carina ma passabile e di sicuro non una che avrebbe trovato il meglio. Mi sono ammalata Selvaggia, malata di ansia e attacchi di panico. I primi, a 18 anni, che mi sembravano un infarto dopo l’altro. Perdo il primo anno universitario, non mi era permesso di studiare poiché “ma dove vuoi andare, figurati se aspettano una come te”; il mondo mi faceva paura. Avevo paura di uscire, di bere acqua imbottigliata, di andare al mare. La mia vita era chiusa in casa. E anche in quell’occasione chi doveva amarmi più di tutti (mia madre? Mio padre?) era lì a giudicarmi pazza, strana, esaurita, buona a nulla. Le giornate erano eterne, non potevo star seduta altrimenti “stavo troppo seduta” e se stavo alla finestra era perché ero innamorata del vicino di casa (di anni 44, semianalfabeta). Malata e devastata, riesco a partire per la città che avevo scelto, trovo l’amore delle mie coinquiline e l’abbraccio di quella città che avevo scelto. Lei, come me, fragile, difficile da gestire, affollata di pensieri e piena di caos mi ha ridato quella forza che pensavo di non avere. Esami, borsa di studio, dottorato, allora sono una persona capace? Forse non sono così sbagliata come vogliono farmi credere. Ma nonostante tutto non hanno ancora smesso di insultarmi. Hanno ancora il potere di annientarmi. Mio padre, soprattutto, mi insulta ancora. Pensa, se prima di scendere dal postino mi tolgo il pinzone dai capelli, sono una troia. E io non vedo l’ora di restituirgli tutto ciò che mi è stato fatto. La malata in famiglia sono io, al momento. Quella che non riesce a parlare, ad ammettere di star male per non dargli soddisfazione. Io che invidio agli altri la serenità, il dormire e lo svegliarsi sereni. Invidio da sempre l’amore di una famiglia. Ok, hai contribuito allo tsunami ma almeno porgimi la mano a tempesta “finita”. No. Vanno avanti. Non esistono genitori perfetti e non esistono figli perfetti. Trovo che i primi però per il ruolo che hanno scelto abbiano molte più responsabilità dei secondi. Che una parola, bella o brutta che sia, detta da un genitore pesa sul cuore il triplo, e che non passa mai. I miei genitori mi devono 20 anni di vita, al netto dell’infanzia che è stata tollerabile. Rimando il confronto con loro perché sarebbe tempo perso. Sono arrabbiata, feroce e spietata pensando al futuro. So che un giorno i malati saranno loro. E io per loro non ci sarò.

M., una figlia imperfetta

 

Cara M., sarai anche spietata e feroce, ma dalle tue parole sembra che tu non chieda altro che essere amata da loro, da questi genitori sadici e anaffettivi, nonostante tutto.

 

 

Neymar insulta su Facebook: “La squalifica è lezione etica”

Ciao Selvaggia, sono un assicuratore di mezza età ma nel tempo libero alleno una squadra di calcio, categoria ‘ovetti’ (5-7 anni diciamo), su un campetto d’oratorio di provincia. I bambini passano sul manto d’erba quasi tutto il tempo libero: ma tra poco saranno attirati irrimediabilmente dai cellulari e i videogame. Per ora fanno squadra e credo che sia giusto impartirgli quante più lezioni possibili, specie extra-calcistiche, finché saremo in tempo. I loro idoli son Cristiano Ronaldo, Messi e Neymar. Tramite quest’ultimo proverò a insegnargli qualcosa di molto importante, e non si tratta di trucchetti col pallone. Questo campioncino brasiliano, che per l’età potrebbe essere mio figlio, aveva commentato su Facebook la partita che era costata l’eliminazione della sua squadra dalla Champions League: critiche e insulti all’arbitro che a suo dire aveva concesso un rigore inesistente. Ne avevo parlato (seguo il calcio in modo quasi maniacale) e le loro risposte erano state abbastanza soddisfacenti: sì, aveva sbagliato “a dire le parolacce”, ma “era arrabbiato”, insomma aveva le sue ragioni. Ho spiegato loro che il fallo di reazione è un gesto brutto, da perdenti, ma devo ammettere di aver faticato a trovare l’argomento capace di impressionarli. Oggi finalmente l’ho trovato. La Uefa ha squalificato Neymar per tre giornate di Champions League, solo per le frasi sui social. Nelle massime competizioni ci sono pochi o nessun precedente. La sanzione convincerà i miei bambini di come quel comportamento sia sbagliato. I campioni per loro sono cavalieri senza macchia, e che il fatto passasse in cavalleria sarebbe stato un grave rischio educativo. Non vedo l’ora che sia lunedì, penso di potergli insegnare qualcosa di buono in uno degli ultimi momenti in cui potranno davvero capirlo.

Mauro

 

Caro Mauro, sono felice di sapere che c’è qualcuno che, come si dice, prova a prenderli per tempo. Sappi che cominciano a fare i cretini sui social già a dodici anni, quindi cerca di rimanere il loro allenatore almeno fino alla fine dei pulcini, grazie.

 

Inviate le vostre lettere a: il Fatto Quotidiano 00184 Roma, via di Sant’Erasmo,2. selvaggialucarelli @gmail.com

La “banda dei quattro” che preparò l’attentato a Giovanni Paolo II nel 1981

Tra poco più di due settimane, il 13 maggio – giorno in cui i cattolici ricordano la prima apparizione della Madonna di Fatima -, saranno trascorsi trentotto anni dall’attentato a Giovanni Paolo II, il papa polacco, in piazza San Pietro nel 1981. A sparare fu un ventitreenne turco di nome Mehmet Ali Agca, sicario dei Lupi Grigi, organizzazione neonazista, e che non ha mai rivelato chi fu ad armare la sua mano.

Quell’attentato è l’ennesimo mistero senza soluzione che ha come sfondo il nostro Paese. Una verità giudiziaria non esiste ma forse una verità storica, sedimentatasi nel corso di questi decenni, sì. E tira in ballo ancora una volta poteri occulti come la massoneria e la mafia. Per la precisione la banda dei quattro come la definisce Antonio Ferrari nel suo riuscito Amen (Chiarelettere, 186 pagine, 16,90 ). Ossia la piovra che aveva messo le sue radici affaristiche in Vaticano: “La banda dei quattro (Sindona, Marcinkus, Gelli e Calvi) era pronta a tutto pur di conservare il potere”.

Rispettivamente nell’ordine: il faccendiere della mafia amico di Giulio Andreotti, poi avvelenato in carcere con un caffè al cianuro nel 1986; lo spregiudicato monsignore americano a capo dello Ior; il capo della loggia deviata della P2; il banchiere “impiccato” sotto il ponte dei Frati Neri a Londra nel 1982. Misteri che si sommano ad altri misteri.

Grande firma del Corriere della Sera, Ferrari ha seguito sul terreno l’attentato del 1981, tra la Turchia e l’Italia, e le sue convinzioni supportate da fatti e confidenze, un vero e proprio off the record della Storia, costruiscono una fiction che appunto si avvicina molto alla verità. L’inizio della storia è collocato dal giornalista nel 1956, all’alba della nuova era che si aprì con papa Roncalli, Giovanni XXIII. Con l’artificio letterario di quattro ragazzi religiosi che vogliono una riforma profonda della Chiesa, Ferrari racconta le zone d’ombra di quella modernità anti-tradizionalista: dalla pedofilia clericale negli Stati Uniti alla lobby massonica che conquistò le finanze vaticane.

Papa Wojtyla aveva le idee talmente chiare su questo grumo di potere che mafia e massoneria tentarono di eliminarlo, salvo poi depistare con la fatidica pista bulgara. Una grande bufala.

La propaganda che inganna: guscio moderno, cuore reazionario

Per molti anni, la vera differenza l’ha fatta non il fatto che fosse di destra, ma donna, giovanissima, bionda e soprattutto parlante. Una ragazzina loquace e solare in mezzo a anziani in doppiopetto scuro e mummie di partito.

Tutti, da Berlusconi a La Russa, ci guadagnavano quando nella foto c’era lei, Giorgia Meloni, non spenta quota rosa, ma militante battagliera senza padrini.

Una che da piccola neanche ha avuto un padre e in politica ci è arrivata da sola, mentre lavorava come barista, cameriera, baby sitter. Più del partito, insomma, contava la biografia, unita a una vispolemica capace sempre di stare sul punto e rispondere nel merito, sia pure a suo modo, come pure di sbattere la porta in faccia a Berlusconi quando la misura era colma o rispondere a tono quando Bertolaso la invitò a fare la mamma.

Poi, però, anche Giorgia Meloni è cresciuta e, complice forse il cambio di look curato pare da Santanché, che ha spazzato via code di cavallo e jeans a favore di capello liscio e scuri tailleur, corpo e biografia hanno cominciato a far trapelare i contenuti. E allora, solo per fare qualche esempio, ecco il disprezzo verso i nomadi, invitati a “nomadare”, ecco il reddito di cittadinanza definito “paghetta ai rom”, ecco l’attacco al Global Compact che introdurrebbe il “principio micidiale per cui chiunque può emigrare”, ecco l’attacco “all’indottrinamento gender”, ecco il palco di Verona e l’annuncio: “Difenderemo Dio, patria e famiglia”.

Insomma, un po’ come per Salvini, guardare Meloni – in crescita esponenziale nei sondaggi – oggi significa avere una sorta di allucinazione visiva: perché il fuori è contemporaneo e mediatico, ma la sostanza è decrepita e reazionaria. E allora puoi apparire giovane, donna e solare eppure essere più vecchia di certi dinosauri maschi della politica. Il mezzo è il messaggio, ma fino a un certo punto.

Mastino di destra: le donne a sinistra non hanno grinta, imparino da lei

Quando il saggio indica Giorgia Meloni, lo stolto guarda Giorgia Meloni. Se è un radical chic cinefilo, prima che contro le sue idee patriottarde e razziste si accanirà contro quel mix somatico inquietante, a metà fra la Marnie di Hitchcock e la Mercoledì degli Addams, che però parla come Pippo Franco.

Fosse meno stolto, guarderebbe a casa propria. E si chiederebbe come mai in nessun partito di sinistra, piccolo o grande, una leader donna ha lo spazio e il peso che Giorgia Meloni ha potuto trovare a destra. Che non è un gigante della politica, nemmeno di quella sovranista – e proprio qui sta il punto: nella destra-destra italiana, cioè non liberalconservatrice, ma emanazione neanche tanto annacquata di un’ideologia autoritaria e sessista, una donna senza altre particolari qualità che la tostaggine è riuscita a diventare leader di un partito (e, per inciso, anche in Forza Italia le voci più autorevoli attualmente sono quelle di Mara Carfagna e Anna Maria Bernini).

A sinistra le donne, anche quelle più esperte e preparate, sono ancora allo “scusate se esisto”, praticamente ancillari nelle recenti primarie, autorevoli solo se si occupano di questioni di genere, come Boldrini e Cirinnà. Meloni combatte, si espone, inciampa nell’italiano, incassa frizzi e lazzi, è l’unica donna ad aver espugnato (seppure solo via tweet) il palco tutto maschile di Propaganda Live, che sbeffeggiandola regolarmente ha finito per regalarle un tocco di leggerezza, mentre le brave ragazze di sinistra stanno in platea e parlano solo se interpellate.

Verrebbe voglia di clonarla, Giorgia, e inoculare nel clone valori democratici e progressisti, perché li difenda e li diffonda con quella grinta, e soprattutto con quell’accento alla Pippo Franco. Senonché i primi a tentare di chiuderle la bocca probabilmente non sarebbero gli avversari, ma i suoi compagni di schieramento.

“Sconcerti, perché taci quel che sai?”

Caro Mario Sconcerti, tu che sei stato – e sei – un punto di riferimento per tutti i giornalisti sportivi (negli Anni 80 hai diretto lo sport di Repubblica, poi Il Corriere dello Sport, sei stato opinionista per Sky, Rai e Mediaset e oggi sei prima firma del Corriere della Sera), potresti per favore spiegarci perché coinvolgi tutti noi colleghi in quel che scrivi, quando devi giustificarti di quel che scrivi?

Come in quel passo scritto all’indomani dell’eliminazione della Juventus in Champions per mano dell’Ajax? “Era quasi chiaro dovesse finire così – hai scritto –, credo lo sapesse anche Allegri, anche l’ultimo dei giornalisti, ma nessuno ha avuto il coraggio di dirlo. E poi, in fondo, perchè dirlo?”. Te lo chiediamo perché, facendo questo mestiere da più di 40 anni, non ci è chiaro, tanto per cominciare, come un giornalista cui appaia evidente il profilarsi di un certo evento, di qualunque cosa si tratti, non debba avere il coraggio di dirlo; non trovi un motivo valido per farlo.

A noi, tornando a Juve-Ajax 1-2, non pare affatto che prima della doppia sfida fosse chiaro a tutti, anche all’ultimo dei giornalisti, che “dovesse finire così”: coi ragazzini dell’Ajax che prendono a pallate i campioni della Juve. Tu, che nel nostro orticello sei un’indiscussa autorità, intervistato da calciomercato.com dichiarasti: “Di un bel bambino a Firenze si dice che è bellino, il massimo dei complimenti. Ecco, per me l’Ajax è bellino. Ma la Juventus è nettamente più forte e nel calcio vincono quelli forti, non quelli belli”. Giudizio netto. Come netto fu il giudizio che desti della Juventus prima della finale-Champions 2017 contro il Real (“Una squadra completa, che ha più calcio del Real”), che ti portò a elaborare concetti temerari come “Temo che Cristiano Ronaldo a Torino farebbe o il tornante o la riserva”, forse un po’ spericolati: il Real infatti, pur non disponendo del calcio di Allegri “barocco, metà elementare e metà impossibile, non melodrammatico ma virile, con ampi tratti neoclassici”, si arrangiò con quel che passava il convento, il calcio terra-terra di Zidane, e rifilò alla Juve 4 gol di cui 2 segnati proprio da Ronaldo.

Che guarda caso dopo un anno passò davvero in forza alla Juve, dove trovò i tre attaccanti da te giudicati “i migliori d’Europa”, a cominciare da Dybala, “un giocatore che non esiste altrove”, per proseguire con Higuain e arrivare alla “vera invenzione dell’allenatore, Mandzukic alla Pogba”. Beh, CR7 non finì affatto col fare “il tornante o la riserva”, ma fece vendere Higuain seduta stante, segnò sette volte i gol di Mandzukic e ridusse Dybala a nano da giardino buono per le partite col Sassuolo. “La mia impressione a caldo – hai scritto dopo Juve-Ajax – è che finisca un’epoca”. Quale, di grazia? La sola epoca che il calcio ricorderà a noi pare quella del Real Madrid capace di vincere 3 Champions consecutive – addirittura 4 nelle ultime 5 stagioni – portando il suo miglior giocatore a conquistare 4 Palloni d’Oro in 5 anni. Dell’epoca juventina ti sei accorto soltanto tu. E anche se non c’è più Sturaro, che come tu dicesti a TMW Radio “vale i grandi d’Europa” (sic), chissà che il domani non si apra radioso davanti a tutti noi: a te, nostra guida e bussola, e a noi, gli ultimi dei giornalisti. Che però oggi umilmente ti supplichiamo: per favore Mario, d’ora in poi, parla per te. Preferiamo.

La rapida fine di una moda: addio alla “meritocrazia”

Questa settimana i sindacati di base Cub e Sgb organizzano uno sciopero per boicottare i test Invalsi che misurano le competenze di base degli studenti. Una protesta che ha l’appoggio di molti insegnanti. La sera in cui è bruciata Notre Dame, il presidente francese Emmanuel Macron si preparava ad annunciare l’abolizione dell’Ena, la scuola nazionale di pubblica amministrazione che ha formato la classe dirigente francese e che lui stesso ha frequentato. Il primo passo di una riforma dell’istruzione superiore accelerata dalle proteste dei gilet gialli. Negli Stati Uniti, a marzo, un’inchiesta giudiziaria a Boston ha smascherato un sistema che permetteva a ricche famiglie americane di truccare le ammissioni dei figli nelle migliori università del Paese: le mazzette a esaminatori e allenatori (per gonfiare i meriti sportivi) erano addirittura deducibili dalle tasse. Si moltiplicano i segnali di un cambio di clima culturale: la “meritocrazia” sta passando di moda.

In Italia il profeta del merito è un ex manager della società di consulenza McKinsey, Roger Abravanel. Un suo libro del 2007 ha avuto un enorme impatto: ha alimentato la guerra dell’ex ministro Renato Brunetta contro gli statali “fannulloni”, ha portato all’introduzione dei test Invalsi, ha ispirato la legge per le “quote rosa” nei consigli di amministrazione. In un recente dibattito organizzato dal Consiglio Italia-Stati Uniti, Abravanel ha riconosciuto che oggi c’è un problema con la meritocrazia: si è affermata una “aristocrazia 2.0” che si fonda sul merito, i figli di certe famiglie abbienti hanno più opportunità, più stimoli e quindi riescono meglio nei test standardizzati rispetto a chi viene da contesti disagiati. Questa consapevolezza diffusa ha alimentato la rabbia anti-élite. Abravanel non nega i problemi, così come riconosce che in Italia le politiche per il “merito” hanno generato soprattutto burocrazia. Ma non abbandona la trincea: “La meritocrazia non implica uguali opportunità per tutti, ma buone opportunità per milioni”. Selezionare in base al merito non azzera le disuguaglianze, sostiene Abravanel, talvolta le aumenta, ma almeno offre opportunità che selezioni discrezionali non garantiscono certo. Questa visione della meritocrazia ha ispirato i primi test standardizzati all’università di Harvard nel 1933 e ha permesso agli Stati Uniti di costruire un sistema di istruzione spietato ma capace di produrre una vera élite globale. Nove su dieci tra gli americani più ricchi hanno studiato nelle università dell’Ivy League, ricorda Abravanel.

Dietro questa cultura del merito misurabile, però, c’è una visione del mondo che oggi inizia a sembrare fuori sincrono rispetto alla sensibilità diffusa proprio tra i giovani e i meno abbienti che dovrebbero beneficiare delle virtù della competizione difese da Abravanel. Il dirigente pubblico Mauro Boarelli ha appena pubblicato per Laterza un pamphlet Contro l’ideologia del merito. La tesi è che misurare il merito è stato il modo per portare il mercato là dove non c’era, trasformando complesse interazioni in una dinamica di mera competizione tra individui, chi vince viene premiato, chi perde soccombe (con un corollario molto opinabile: chi è in testa evidentemente se lo “merita”, e così il cerchio si chiude, la meritocrazia finisce per legittimare il privilegio). La confusione tra mezzi e fini ogni tanto si palesa in misure di politica economica come l’incentivo fiscale fino a 8.000 euro introdotto dal governo Conte per le imprese che assumono laureati col massimo dei voti e con un dottorato: è un incentivo ai ragazzi a studiare di più? O è semplicemente una misura sbagliata che offre uno sconto alle imprese per assumere persone che avrebbero comunque assunto? Il merito che diventa ingiustificato privilegio.

Per un ventennio la “meritocrazia” è stata un’idea egemone. O almeno di moda. Dal New Public Management nel governo della cosa pubblica (gestire la pubblica amministrazione come se fosse un’azienda) allo shareholder value per le imprese (se sale il prezzo delle azioni sono tutti contenti e produttivi, anche dipendenti e manager con le stock option). Eppure, proprio ora che grazie alla connessione perenne, ai Big Data e all’intelligenza artificiale, tutto diventa misurabile e verificabile, la religione del merito entra in crisi. E dopo la rivendicazione dell’incompetenza al potere come reazione ai disastri delle élite, nell’attuale fermento a sinistra, cominciato con la campagna del “socialista” Bernie Sanders negli Usa 2016, si afferma una nuova sensibilità che in realtà è antica. Papa Francesco ha spiegato che la meritocrazia non è una cattiva idea, ma finisce per diventare una “legittimazione etica della disuguaglianza”. Per questo il Papa preferisce parlare di “talento” invece che di “merito”: il primo implica gratitudine e la responsabilità di farlo fruttare, il secondo legittima pretese di ricompensa ed esonera da ogni obbligo.

Per essere equa, oltre che efficiente, la competizione sul merito dovrebbe svolgersi tra soggetti che hanno avuto le stesse opportunità di diventare meritevoli. Poiché questa condizione è rispettata solo dai modelli teorici ma non dalla realtà, limitarsi a premiare i meritevoli perpetua le disuguaglianze invece che ridurle. La coesione sociale richiede che la competizione sia temperata dalla redistribuzione. Anche a favore di chi di meriti non ne ha.