La giornata di ieri sembra fatta apposta per confermare ciò che sosteniamo da 11 mesi, contro gli opposti fondamentalismi del “tutto sbagliato” e del “tutto giusto”. E cioè che il Salvimaio è una cosa strana, inedita, contraddittoria che include tutto e il suo opposto: governo e opposizione, istanze di destra e di sinistra, porcherie e norme giuste, gente inguardabile e capace. Perciò il giudizio va dato giorno per giorno, anzi ora per ora, caso per caso, persona per persona. Anzi, scelta per scelta, perché anche i migliori alternano cose condivisibili ad altre sbagliate.
Prendiamo Giuseppe Conte, una delle migliori scoperte della nuova classe dirigente in gran parte improvvisata. Era partito bene su Armando Siri, distinguendo l’aspetto penale (l’accusa di corruzione, tutta da verificare, di cui si occuperanno i magistrati) da quello etico-politico (il conflitto d’interessi della norma “ad Aratam” e il cumulo di menzogne per nasconderlo, già accertati e ammessi dall’interessato). Poi, tornando dalla Cina, ha inviato segnali contraddittori: dall’intenzione di “scollarlo dalla sedia” a quella di rinviare il redde rationem, magari in attesa dell’interrogatorio di Siri. Il che sarebbe un pessimo errore, per due motivi. 1) In questa fase iniziale dell’indagine, non esiste alcun interrogatorio: solo l’intenzione di Siri di rendere dichiarazioni spontanee ai pm, che si limiteranno ad ascoltarlo muti senza muovergli contestazioni; dopodiché Siri uscirà e dirà, come tutti, di avere “chiarito tutto”, mentre i pm – tenuti al segreto – non potranno controbattere che non ha chiarito nulla. 2) Legare la sorte di Siri a un passaggio dell’indagine (peggio se a una dichiarazione spontanea) significa allontanare il campo di gara da quello che correttamente il premier aveva indicato fin dall’inizio: il conflitto d’interessi, che nessuna indagine o sentenza può cancellare, perché si è già verificato col pressing per la norma che favoriva la società di Arata (e di Nicastri, legato a Messina Denaro). Se il premier non si fida più di Siri e vuole recidere ogni legame tra il “governo del cambiamento” e i giri terrificanti di Arata, deve accompagnare il sottosegretario alla porta: ma per l’emendamento, non per l’accusa di corruzione. Se invece si attende la famosa intercettazione, Siri la conosce già: i suoi legali ieri hanno fatto copia degli atti dei pm. Ora Conte deve chiedergli di esibirla, così saprà e sapremo su cosa si fonda l’accusa. I farfugliamenti leghisti sull’“autosospensione” sino a fine indagine sono ridicoli. Siri è già un soprammobile, da quando Toninelli gli ha levato le deleghe.
E poi dev’essere chiaro a tutti che chi governa deve fare gl’interessi della collettività, non di questo o quell’amico, per giunta alle spalle dei colleghi di governo. Lo sa bene Salvini che, per i conflitti d’interessi del centrosinistra, chiese la testa di Alfano, Boschi, Cancellieri, Guidi (indagati o meno che fossero). E ancora il 13 aprile ha chiesto le dimissioni della governatrice umbra Marini, appena indagata per accuse gravi, ma non per corruzione. Dunque non può dire che “i processi non si fanno in Parlamento” e che il suo indagato Siri (per corruzione, al netto del patteggiamento per bancarotta e sottrazione fraudolenta di beni al fisco) deve restare.
Prendiamo ora Di Maio. Fa discutere il duro confronto in diretta streaming con Alessandro Marescotti e gli altri esponenti dei comitati anti-Ilva. Ma nessuno nota che non siamo abituati a ministri (c’erano pure Costa, Grillo e Lezzi) che vanno a prendersi i pesci in faccia da cittadini che si sentono traditi, invitandoli al loro tavolo. Come se Renzi e la Boschi avessero presenziato alle assemblee dei truffati da Etruria&C. Di più. Il 4 marzo, appena Zingaretti fu eletto segretario Pd, Di Maio gli inviò il suo “in bocca al lupo” e lo sfidò a votare insieme il salario minimo: “Una battaglia di tutti su cui auspico un’ampia convergenza parlamentare, a partire da Zingaretti”. Gli rispose, con la consueta volgarità, il capo renziano dei senatori Pd, Andrea Marcucci: “È il M5S che se vuole, potrà votare il nostro ddl sul salario minimo presentato da Mauro Laus”. Ma difficilmente il partito di maggioranza relativa cestina una sua norma per votarne una della minoranza. Eppoi Laus è passato alla storia per i pubblici rimbrotti del regista inglese Ken Loach, che nel 2012 rifiutò un premio al Torino Film Festival per solidarietà ai dipendenti della Rear, la sua cooperativa che aveva sanzionato o licenziato i lavoratori per aver protestato contro le paghe da fame (5,44 euro lordi l’ora, poi anche meno). Ieri però l’altro capogruppo Pd, Graziano Delrio, ha fatto una mossa di segno opposto: s’è detto “pronto a discutere col M5S su salario minimo e conflitto d’interessi”. E stavolta è stato Di Maio a rispondere alla Marcucci: “No, grazie. È curioso che proprio oggi il Pd si svegli dopo che ha avuto 20 anni per concretizzare queste due proposte. Il nostro appello è agli amici della Lega con cui condividiamo un contratto di governo. Ci auguriamo di ricevere presto una risposta”. Peccato che gli “amici della Lega” non abbiano risposto e continuino a fregarsene della lealtà di coalizione, cercando maggioranze alternative in Parlamento per tradire gli accordi di Contratto (vedi il Tav) e di maggioranza (vedi il Taglia-debito di Roma). I 5Stelle dicono sempre di essere al governo per attuare il loro programma: perché allora non presentano in Parlamento le loro nuove cinque leggi (salario minimo, acqua pubblica, taglio dei parlamentari, conflitto d’interessi e sanità senza partiti) per discuterle con chi ci sta? Gli ultimi 20 anni li ricordiamo tutti benissimo: ma chi vuol cambiare le cose deve lasciarli agli storici. Anzi, agli archeologi.