Fondi pensione chiusi: meno cari ma dal forte potenziale autodistruttivo

Recentemente la Covip, autorità di vigilanza sulla previdenza integrativa, ha lanciato un allarme sui costi, esplicitamente sconsigliando i piani individuali pensionistici e i fondi pensione aperti e caldeggiando invece quelli detti chiusi o negoziali. Sembrava un comunicato di Assofondipensione, la loro associazione di categoria, per giunta con numeri spaventosi: capitale finale o pensione potrebbero risultare inferiori anche del 40 per cento.

Non è, però, compito di un’authority indirizzare le preferenze dei cittadini. È come se la Consob mettesse in guardia i risparmiatori da alcuni intermediari, spingendoli verso altri, sostenendo che sono meno cari. Infatti proprio per questo sarebbero meglio i fondi chiusi o di categoria (Cometa, Priamo, Fonte, ecc.), istituiti con accordi concertativi fra sindacati e associazioni padronali. Ma ammesso pure che attualmente i loro costi siano minori, essi incorporano però un elemento di rischio aggiuntivo, cosa regolarmente taciuta dall’organo di controllo, dalla stampa e dalla cosiddetta educazione finanziaria.

Aderire alla previdenza integrativa è sempre una scelta azzardata a causa di due gravissime fonti di pericolo: l’assenza di tutele in termini di potere d’acquisto e l’opacità quasi totale della gestione, che impedisce agli interessati di scoprire eventuali ruberie.

Ma i fondi pensione chiusi aggiungono un conflitto d’interessi mastodontico, insito nel loro stesso Dna, ossia nella normativa che li regola. Possono infatti investire fino al 30 per cento del patrimonio in aziende collegate al fondo di categoria (chimiche per Fonchim, edili per Prevedi, ecc.) e sono governati in misura paritetica dai rappresentanti dei lavoratori e delle aziende (una vera assurdità).

Tutto ciò genera un forte potenziale autodistruttivo. Il rischio non è immediato, ma in una futura situazione di crisi agli imprenditori basterà far passare dalla loro parte uno solo degli amministratori di emanazione sindacale, per aver la maggioranza assoluta e usare il risparmio previdenziale dei lavoratori/risparmiatori per puntellare le loro imprese. Né questi ultimi avranno modo di impedirlo, ingabbiati nei rispettivi fondi. Possono solo difendersi prima, evitandoli.

In effetti basta porsi una domanda e darsi l’ovvia risposta. Perché mai gli imprenditori versano soldi nei fondi pensione dei loro dipendenti? Perché sanno che all’occorrenza potranno riprenderseli in misura maggiorata, facendogli comprare titoli delle loro aziende, in situazione critica o addirittura decotte.

Stop nomine politiche: il M5s ci prova

Fuori la politica dalla sanità. È il mantra M5s, ancora di più dopo il caso della Sanitopoli umbra.

Il vicepremier Luigi Di Maio ha promesso una legge entro l’estate per scongiurare la nomina dei direttori generali delle aziende sanitarie da parte dei partiti. In Parlamento ci sono due ddl. Il primo, alla Camera, a prima firma Dalila Nesci, prevede che venga nominato direttore generale il candidato collocato nell’elenco nazionale (istituito con il dlgs 171/2016) con più alto punteggio. Il secondo, in Senato, presentato da Maria Domenica Castellone, intende creare un albo nazionale mdei commissari per la scelta dei vertici (direttore generale, sanitario, amministrativo, e socio-sanitario). Per la nomina del dg il presidente della Regione individua 5 commissari, di cui almeno due di regioni diverse. Stabilisce albi nazionali anche per gli altri tre manager. Presto potrebbero arrivare aggiustamenti. Uno riguarderebbe “la revisione del meccanismo di nomina dei primari” che vorrebbe il presidente della commissione Sanità Pierpaolo Sileri.

Dopo la fattura arriva il caos degli scontrini elettronici

Lo scontrino fiscale, così come lo conosciamo oggi, non festeggerà i suoi 36 anni (l’obbligo è scattato nel 1983 per volontà dell’allora ministro delle Finanze Franco Reviglio, alla cui ombra sono cresciuti Giulio Tremonti, Domenico Siniscalco, Franco Barnabè e Mario Baldassari). Dal 1° luglio entrerà in vigore lo scontrino elettronico o telematico per i commercianti al dettaglio con un volume d’affari annuo superiore ai 400mila euro. Poi sarà esteso a tutti gli esercizi di commercianti e artigiani a partire dal 1° gennaio 2020. La novità, introdotta dalla legge di Bilancio 2019, impatterà da subito su 261mila esercizi commerciali per poi estendersi a 2 milioni di negozianti, senza però cambiare le abitudini dei clienti che continueranno a ricevere comunque una ricevuta cartacea come garanzia dell’acquisto. L’e-scontrino non avrà valore fiscale, ma servirà solo per resi e cambi (dunque avrà valore solo commerciale). Mentre in tutti gli altri casi (ristoranti, locali e così via), quando tutti i cambiamenti saranno a regime, non ci si dovrà più preoccupare di prendere lo scontrino quando si esce dalla struttura. Dal punto di vista fiscale, infatti, i dati verranno comunicati all’Agenzia delle Entrate per via telematica: i nuovi registratori di cassa digitali saranno dotati di un apposito software. Un po’ come succede con gli scontrini delle farmacie, i mutui della casa o le assicurazioni che vengono comunicati per la della dichiarazione dei redditi.

Insomma, l’ennesima rivoluzione fiscale sui cui punta lo Stato per combattere l’evasione e i furbi che non vogliono pagare le tasse, ma che arriva a stretta giro dall’altra sostanziale modifica a cui i contribuenti si stanno ancora abituando: la fattura elettronica che, dopo i primi mesi di caos, sta dimostrando ancora qualche problema tecnico (l’ultimo, in ordine di tempo, è il pagamento dell’imposta di bollo), ma che sta anche dando i primi risultati. Secondo l’Agenzia dell’Entrate, al 15 aprile, sono stati 2,9 milioni i titolari di partita Iva che hanno utilizzato la nuova infrastruttura telematica operativa da gennaio. In media, le fatture emesse finora sono state poco più di 5 milioni al giorno, meno degli 8,2 milioni previsti lo scorso dicembre. Ma secondo le Entrate non si può parlare di dati inferiori alle attese, perché il numero di imprese coinvolte è in linea con le stime e occorre tener conto che per quest’anno sono esentati dall’obbligo anche medici, farmacisti e società sportive dilettantistiche. E non sono tenute a fare fattura elettronica le partite Iva con redditi sotto i 65mila euro che aderiscono al regime dei minimi allargato (quella che è stata presentata come fase uno della flat tax), con il risultato che la rivoluzione digitale non avrà alcun impatto sulla piccola evasione.

Un copione che ora si sta ripetendo anche per l’addio al vecchio scontrino con Confcommercio sul piede di guerra. Il presidente dell’associazione di categoria, Carlo Sangalli negli scorsi giorni ha inviato una lettera al ministro dell’Economia, Giovanni Tria, chiedendo al governo di rinviare al 1° gennaio 2020 l’entrata in vigore dell’obbligo per i commercianti “in considerazione del ritardo nell’emanazione dei decreti attuativi e delle possibili difficoltà operative connesse alle problematiche tecniche che le imprese si troveranno ad affrontare”. Quali sono? I nuovi registratori di cassa costano in media 800 euro, mentre se si adattamento quelli già in uso si arriverà a spendere circa 150 euro. È, comunque, previsto lo stanziamento di un bonus fiscale che ammortizzi il costo del nuovo registratore con credito d’imposta pari al 50% della spesa, ma fino a un massimo di 250 euro.

Ma preoccupazioni ci sono pure tutti: come accade 36 anni quando l’obbligatorietà dello scontrino portò a un aumento dei prezzi – le cronache di allora riferirono che il barbiere aumentò il taglio da 9.500 10.000 lire – anche ora si teme che l’esborso a cui sono chiamati i commercianti possa ricadere sulla clientela.

Intanto sul fronte fiscale, meglio ricordare che domani è l’ultimo giorno per aderire alla rottamazione ter e al saldo e stralci che viaggiano verso un milioni di adesioni. Richieste che permettono di accedere a una definizione agevolata delle cartelle (dal 2000 al 2017) con il taglio di sanzioni e interessi o che riducono le somme da pagare per chi è in una grave e comprovata difficoltà economica. Ma il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti (Cndcec) ha già chiesto al governo di prorogare di almeno un mese la scadenza del 30 aprile per dare modo agli utenti di completare le procedure necessarie.

“Marchionne voleva comprare General Motors”

“John Elkann fu tenuto all’oscuro di tutto per oltre un anno e seppe della malattia a poche settimane dalla morte”. Questa è solo una delle rivelazioni del libro Sergio Marchionne(Sperling&Kupfer), scritto da Tommaso Ebhardt, cronista di Bloomberg, definito dallo stesso manager italo-canadese come ”il suo stalker più affezionato”. Un racconto che inizia nel 2008 con l’acquisizione di Chrysler e termina a fine luglio scorso, con la scomparsa di Marchionne e la scelta del successore. Accantonato Alfredo Altavilla, all’epoca responsabile Emea di Fca, Ebhardt racconta che il dubbio tra Richard Palmer e il numero uno di Jeep Michael Manley si risolse da solo: “Il direttore finanziario non se la sentiva di prendere il posto del dottore, Manley sì”. Troppo impegnativa l’eredità di un uomo che aveva trasferito nel mondo dell’auto quella iperattività nel cogliere occasioni vista fino ad allora solo nella finanza. “Nel 2015 Marchionne pensò a una fusione con VW America puntando sulle difficoltà del gruppo tedesco nel gestire lo scandalo Dieselgate. Lo chiamò Wulf Project, ma non portò frutti”. Ebhardt svela l’esistenza di “una lettera che avrebbe garantito il finanziamento per lanciare una scalata a Gm di Mary Barra”. Marchionne avrebbe trovato 60 miliardi di dollari, ma decise di non agire convinto da John Elkann: che gli ambienti di Washington non avrebbero gradito un’opa ostile contro un’azienda guidata, per la prima volta nella storia, da una donna.

Lancia riesce a fare meglio di Alfa Romeo

Nel primo trimestre dell’anno le vendite complessive del gruppo Fca in Europa sono calate del 10,6% per un totale di 259.733, contro le 290.669 di gennaio-marzo 2018. Al di là del calo Fiat (-14%) e della certezza Jeep (+11,4%), c’è un dato che salta particolarmente all’occhio. Lancia ha fatto registrare 18.554 immatricolazioni, pari ad un aumento del 34,9% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, mentre Alfa Romeo ha subito la battuta d’arresto più pesante di tutti i brand del sodalizio italo-americano con un -40,7%: solo 14.728 auto vendute nel vecchio continente. Il che, uscendo dalla freddezza delle cifre, significa che un marchio agonizzante (pardon, “regionale”) ha performato meglio di uno dei cavalli buoni su cui tutto il top management Fca, dal compianto Sergio Marchionne fino al suo successore Mike Manley, ha costantemente dichiarato di voler puntare.

Tornando ai numeri, possiamo dire che come sempre non mentono, ma in questo caso stonano. Con un rilancio, quello del Biscione, che il piano industriale presentato il primo giugno dello scorso anno da Marchionne accreditava di 400 mila vetture vendute nel mondo entro il 2022, con margini del 10%. Vette ad oggi ancora lontane, che forse potranno essere raggiunte grazie all’apporto del suv compatto Tonale, presentato all’ultimo salone di Ginevra e la cui produzione inizierà il prossimo anno a Pomigliano. Almeno questo è quel che gli amanti di Alfa Romeo si augurano.

Il futuro di Renault. La doppia partita dei francesi

Quella di Renault potrebbe diventare presto una battaglia su due fronti. Da un lato ci sarebbe l’ipotetica conclusione della collaborazione con Gruppo Daimler (che ha marchi come Mercedes Benz e Smart), iniziata nel 2010. Una separazione auspicata dal nuovo ad del gruppo tedesco, Ola Kallenius, che avrebbe teorizzato un piano di taglio dei costi da 6 miliardi di euro entro il 2021, di cui farebbe parte anche l’addio ai francesi. Dall’altro il marchio della Losanga spera di convincere al più presto Nissan affinché l’alleanza coi giapponesi diventi presto una fusione che possa migliorare l’integrazione tra le due aziende automobilistiche. Una prima proposta in questo senso sarebbe già stata rispedita al mittente lo scorso 12 aprile.

Le ultime indiscrezioni parlano della volontà di Renault di creare una holding paritetica controllata da un consiglio di amministrazione equamente suddiviso fra manager transalpini e nipponici. Manovra che sarebbe una conditio sine qua non per convincere Nissan a mettersi l’anello all’anulare: i giapponesi, infatti, ad oggi hanno rifiutato di convolare a nozze soprattutto per il timore di finire sotto il pieno controllo di Renault (e della Francia, che ne possiede il 15%). Paure innescate dall’attuale assetto dell’alleanza, dove la casa di Boulogne-Billancourt controlla, con pieni diritti di voto, il 43% della Nissan e quest’ultima dispone del 15% di Renault ma senza alcun diritto di voto. I fiori d’arancio erano già stati più volte invocati dall’ex numero uno del gruppo, Carlos Ghosn (attualmente alle prese con una serie di accuse di frode e con gli arresti domiciliari), e respinte a più riprese dai giapponesi per le suddette motivazioni. Anzi, alcune voci di corridoio sostengono che Nissan potrebbe essere intenzionata addirittura ad uscire dall’alleanza, rastrellando sul mercato le proprie azioni e facendo, di conseguenza, diminuire l’influenza francese nel management dell’azienda.

“È chiaro che l’alleanza non funziona correttamente”, ha affermato una fonte del Wall Street Journal: “Ci sono dei negoziati in corso che ci dicono alcune cose: dobbiamo cambiare la struttura del capitale oppure avere una migliore integrazione a livello gestionale o garantire che i progetti siano più complementari. Non possiamo restare come siamo”.

Ne va del destino della stessa Renault, che da attore globale rischia di essere fortemente ridimensionata a player di seconda linea. Alla finestra ci sarebbero pure i connazionali di Psa, volenterosi di espandersi ulteriormente dopo l’acquisizione di Opel e le avance a Fca. Chissà che il governo di Parigi, che possiede circa il 13% di Psa, non spinga per la creazione di un supercolosso francese dell’auto.

Facce di casta

Bocciati

Morisi È PER SEMPRE“Salvini prenda le distanze dal post che il suo social media manager ha pubblicato. Lo faccia immediatamente e con chiarezza. Il ministro dell’Interno non può permettere che oggi si istighi alla violenza, specie sui social. Non c’è nessuna guerra in corso contro la Lega, né bisogno di armarsi con mitra ed elmetto”. Nella dichiarazione di Pina Picierno che invita Matteo Salvini a dissociarsi dalla foto che lo ritrae mentre maneggia un mitra durante il giorno di Pasqua e conseguentemente da colui che l’ha postata, ovvero Luca Morisi, il social media manager senza la consulenza del quale il Capitano non sceglie nemmeno la marca di pasta da postare nel selfie del giorno, è insita tutta la naivete di un’opposizione, o almeno di una buona parte di essa, che sembra aver capito davvero molto poco del Capitano e della sua strategia. Matteo Salvini non può prendere le distanze da Luca Morisi, perchè Luca Morisi è Matteo Salvini, o per meglio dire ne è l’alter ego mediatico, colui che l’ha portato da 18mila a 3 milioni e mezzo di follower, l’eminenza grigia che attraverso una strategia comunicativa tanto discutibile quanto determinata ne ha fatto un leader vincente. Credere che Salvini possa dissociarsi da Morisi è come credere che il Segretario possa dissociarsi da se stesso, anzi, peggio, dalla parte più produttiva di sé. Chi ancora non ha capito questo, sulla riva del fiume ad aspettare dovrà starci seduto ancora molto a lungo.

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DIFFIDARE DELLE IMITAZIONI “Secondo i dati ricevuti ieri dal Viminale dal primo gennaio di quest’anno ci sono stati solo 2143 rimpatri, una media di 19 al giorno, contro i 20 di Minniti nel 2017. Andando avanti così saranno 7046 nel 2019. Proprio bravo questo #Salvini eh?!”: davanti a questo tweet di Alessia Morani non si può fare a meno di chiedersi quale sia la faccia che il partito democratico ha in mente d’indossare di qui in avanti, su molti temi, ma in particolar modo su quello dell’immigrazione. Le discusse politiche di Minniti, qualche inciampo renziano sul mantra leghista “aiutiamoli a casa loro”, una coesistenza nelle liste per le elezioni europee di realtà che sul tema si sono sempre poste diversamente; a questo punto la domanda sorge spontanea: il Pd ha intenzione di combattere Salvini giocando ad emularlo o vuole contrapporgli una visione e una strategia che se ne distanzino e marchino una netta differenza? Confidiamo in una risposta.

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Promossi

Il SUPERFLUO È NECESSARIO Se oggi Salvini può girare libero e dire le cose che dice è grazie alla lotta di liberazione che c’è stata, lui che è un ministro così facendo non sta facendo quello che deve fare, sta facendo un errore grave contro la storia di questo paese”: queste parole di Maurizio Landini sono talmente ovvie che dovrebbe essere superfluo riportarle. Beh, in un Paese in cui il ministro degli Interni può permettersi di snobbare il 25 Aprile, sostenendo che “la vera Liberazione è dalla mafia” e che lui di quello si occuperà andando in Sicilia, dove casualmente il 28 Aprile sono andati al voto 24 Comuni, non solo le parole del segretario della Cgil non sono superflue, ma verrebbe da dire che sono altamente necessarie.

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La settimana incom

Bocciati

Cinico tv.
Dunque, accade quanto segue: durante la registrazione di una puntata di “Ciao Darwin” (trasmissione Mediaset condotta da Paolo Bonolis) il concorrente Gabriele Marchetti, 54 anni, ha un incidente molto grave, tanto che è ricoverato in terapia intensiva nel reparto di Neurochirurgia del Policlinico Umberto I di Roma. “Paralizzato dalla testa in giù”, dicono i parenti che ancora non sanno se Gabriele tornerà mai a camminare. Secondo gli altri concorrenti però, nonostante quanto era accaduto, la produzione non ha fermato la puntata: “Ci hanno detto che non era grave, e ci hanno fatto registrare”. E non è tutto: la puntata sarà comunque trasmessa il 10 maggio, spiegano fonti Mediaset riportate dai quotidiani. Lungi da noi il voler fare i moralisti che ignorano i principi fondamentali della televisione, tra cui il noto “The show must go on”. Tra l’altro a noi dei jet, dello champagne e dei mari tropicali della signora Bonolis veramente non potrebbe fregare di meno. È proprio che una cosa così non si fa. Bonolis farebbe bene a riflettere sull’impatto che questa rivoltante storia potrebbe avere sulla sua “immagine”. Ma soprattutto: come fanno a guardarsi allo specchio?Ciao mamma.
Confessione: noi, in questa rubrica, non sapremmo cosa fare senza Barbara D’Urso, impegnata in un eterno gioco a superare se stessa. L’ultima “trouvaille” è un’americanata di prim’ordine. Protagonista una ragazza del Billionaire, assurta alla popolarità grazie a “Uomini e donne” e ad “Avanti un altro” (che pare sia un quiz del sopracitato Bonolis). La fanciulla, tal Paola Caruso, ha scoperto in diretta chi è la sua madre biologica (con tanto di busta contenente il test del Dna). Lei ha dichiarato al Corriere: “Devo tutto a Barbara, senza di lei non l’avrei trovata. Ora mi ritrovo con due mamme, un fratello e una sorella: è sconvolgente”. Non sa quanto siamo sconvolti noi.

Promossi

Un Italiano vero.
Il tour di Mahmood è partito il 25 aprile da Parma. “Sono orgoglioso di dare inizio alla mia attività live proprio in questo giorno in cui si ricorda la liberazione del nostro paese dalla dittatura del fascismo”, ha detto il giovane cantautore a Repubblica. Ecco, tutte le volte che il vincitore di Sanremo rilascia un’intervista, oltre a spiegare con molta semplicità che lui è proprio italiano, dimostra di essere intelligente e coraggioso: “Avevo deciso di tentare il tutto per tutto con questa canzone e così ci ho messo me stesso senza filtri: andare a Sanremo con una canzone che in una parte è cantata in arabo! E poi “Soldi” non parla di soldi: dentro c’è rabbia. La mia rabbia più che la tristezza. È un testo molto personale ma sentivo che dovevo cantarla”. Se Mahmood a maggio vincesse l’Eurovision sarebbe davvero meraviglioso. E Ultimo, con le lagne e le sfuriate non capite dai cattivoni della stampa, ci perdonerà per questo sincero augurio. Vale sempre il “de gustibus”.

Se i libri fuggono senza l’autore: “Le storie sono di chi le vive”

Il caso che sto per raccontare è raro. Di solito l’autore si mette davanti al libro, come certi insegnanti che si piazzano davanti ai bambini nella foto ricordo della classe.

In questo libro (Incontri, di Anna Maria Galleani, nessuna indicazione di editore) l’autrice si nasconde dietro il libro e anzi sembra negarlo. In queste pagine sta facendo esattamente il contrario dei tipici autori volontari: nessuna finzione (tipo “Edizioni Aquila”) e nessuna nota sulla scrivente. Può accadere che qualcuno ne conosca il nome, e allora sa che si tratta di una persona che ha vissuto in buone case, ha fatto buone scuole, è stata fin da giovanissima coinvolta nel mondo del buon giornalismo, ha sposato una firma de L’Unità quando L’Unità era un grande giornale. Ha vissuto colpi di stato e guerre di liberazione, in parte come moglie dell’inviato o e corrispondente, in parte da sola, come “esperta delle Nazioni Unite”, mandata in area di crisi. Incontri è un diario del primo e del secondo gruppo di eventi (la donna che osserva e che rischia, la donna che rischia e che agisce), scritto con un agile cambio di persona, una curiosa contraddizione fra scelta minimalista di narrazione e l’attenzione estrema ai dettagli, mentre sul fondo delle due narrazioni (che si alternano senza identificazioni precise, come se fossero racconti in un libro di avanguardia) c’è un sottovoce della narratrice che sembra non voler coprire il brusio che si sente sempre nelle pagine, il brusio della gente che aspetta qualcuno dal mondo che dica di sì o di no o almeno sia presente a nome di qualcuno per affrontare una ignota e remota pratica di salvezza per qualcuno, un villaggio, un Paese, una minoranza, una piccola ignota questione di vita e di morte.

Il libro sembra camminare da solo, con la stessa solitudine della donna del giornalista di sinistra dislocato in zona di guerra o mandato al golpe, e la donna dell’Onu mandata (mentre mancano forze e mezzi) a impedire lo scontro continuo, perverso e ignoto della povertà. Sono belle le pagine del Cile, e sono belle le pagine in cui varie donne dell’Onu raccontano luoghi, persone, vicende, delle loro tante avventure impossibili.

C’è qualcosa del racconto rituale di certe tradizioni di storia orale e, pur nella laicità totale, un che di religioso, una scelta di clausura: ti racconto quel che è accaduto, ma tu non spargere la voce. Credo di capire che, secondo l’autrice appartata, ogni storia appartiene a chi la vive, non a chi va a visitarla.

Peppino Caldarola, l’ultimo comunista: “A sinistra, solo conformismo liberal”

Il tempo in cui una ragazza ha in sorte il nome Addolorata – presto mutato nel diminutivo Lalata – è l’età splendente dell’Italia che aveva il cesso sul balcone, e di mamma e papà belli come gli attori del cinema mentre nonna, no; è cattiva.

È vecchia come la strega solo che in mano non ha la mela per Biancaneve ma la coroncina del Rosario per se stessa. La nonna costringe tutti ad attendere sul sagrato della chiesa mentre lei va a messa e la stagione dell’infanzia del piccolo eroe – di questo si tratta – prepara l’epica nelle Puglie dove i contadini sono ricchi di ricordi mentre i poveri di città, no, s’inzuppano d’umidità in alloggi inscatolati da saracinesche con le porte a vetri e le tendine.

Ecco la formazione sentimentale di Peppino Caldarola in un libro – Come mi sono perso il fratello greco cercando la sinistra, Progedit 15.00 euro – nel cui titolo già racconta la sua segreta speranza: ritrovare il figlio avuto dal padre negli anni in cui fu aviere di stanza ad Atene, al tempo della guerra. Un titolo, comunque, che in coda urge di precisazione. Eccola: una cosa è la sinistra, ben altro è il comunismo e Caldarola – già redattore presso il catalogo Laterza, due volte a capo de l’Unità, oggi direttore di Civiltà delle Macchine – è comunista. Lo è al modo definitivo, ben oltre l’imprinting di un suo zio ladro che gli parlò per primo del Pci, e lo è nel sentimento perfino tragico ora che il comunismo non c’è più.

Ora che non c’è più il frazionismo delle tante schegge deflagrate in attesa della Rivoluzione – con Beppe Vacca, la sua école barisienne – ora che non c’è più il partito di Botteghe Oscure.

Adesso che la voglia di vivere – per dirla con i versi di Carmela Caldarola, la sorella di Peppino – è quella delle “dieci vite da vivere/con la voglia di vivere intatta”.

Tutta la sua vita di comunista è nella struggente dolcezza di un vissuto speciale, specialissimo. Se la sinistra reclama per se stessa – come la nonna col rosario in mano – la superiorità antropologica a dispetto di tutti, il comunismo dei comunisti invece no, s’immerge nella vita degli altri, come quella dello zio buono di Peppino, il suo zio fascista.

La sinistra adotta il pensiero unico dell’inquisizione liberale e il comunismo del Pci – “come luogo di rottura di coglioni con funzionari privi di sorrisi, donne brutte e militanti carichi di odio”, così scrive Peppino – prende comunque i rivoli degli imprevisti.

Inaspettati cambi di registro esistenziali, sono quelli dei comunisti, tutti aperti, plurali, dialettici nel rispetto proprio dell’etimo: tesi, antitesi e sintesi all’infinito, al punto di sradicare la malapianta della coerenza e così – come dice di se stesso Caldarola – “mentire senza mai mentire”.

Comunisti, al modo di Peppino, come il mio Stefano Di Michele, il quale – lui dall’Unità, io dal Secolo d’Italia, quindi insieme a Il Foglio – si fece gli anni del berlusconismo senza mai diventarne impiegato, anzi. Comunisti, al modo di Peppino, come Giuliano Ferrara: il suo Pci e il mio Msi sullo sfondo – siamo entrambi “relitti del totalitarismo” – in una convivenza non solo di “pacificazione”, ma in un’amicizia di libertà, scambio e vivificante critica.

Comunisti, al modo di Peppino, come quelli del mio paese – ad Agira – che quando dovettero sbarazzarsene del ritratto di Palmiro Togliatti, correva l’anno 1989, mi dissero: “Conservalo tu”.

Non doveva dunque toccare a me, adesso, la gioia di leggere il libro di Peppino?