“Ti voglio tanto bene nonna!”: l’urna bio per divenire albero

C’è l’albero di coppia, quello per l’intera famiglia e pure quello da dividere col gatto o il cane. Ma c’è anche l’albero personale, “per chi ama un contatto diretto con la natura” e quello di comunità, per chi invece, magari più squattrinato, preferisce “condividere i propri ideali con gli altri”. Sono le tante formule offerte da una piccola, emergente, start up, “Boschi Vivi”.

Azienda che – anche sull’onda del nuovo ambientalismo da riscaldamento globale – propone un’alternativa al cimitero tradizionale: l’interramento delle proprie ceneri in un bosco, ai piedi di un albero scelto in vita. L’idea per ora è limitata al bosco dell’Alta Valle dell’Orba, nel comune di Urbe ma i quattro ragazzi che l’hanno comprato per 36.000 euro guardano all’estero. Dove ormai la morte sostenibile è una tendenza, aiutata anche da leggi che permettono di inumare il corpo sia senza bara (vietato da noi) oppure con un’ecobara biodegradabile, di carta riciclata, bambù, canna, feltro di lana o legno non lavorato. Il trend è talmente in crescita che in Inghilterra è nata un’associazione, la Association of Green Funeral Directors, che premia le imprese funebri virtuose dal punto di vista ambientale.

Che il cimitero classico, con i suoi tetri loculi, stia diventando stretto a molti lo dimostrano i numeri delle cremazioni (70% in Inghilterra, 17 in Italia ma in crescita). Non solo piace sempre meno il fatto di lasciare il proprio caro in un posto freddo e anonimo, così come l’idea di abbattere alberi per una bara; ma c’è anche la ricerca di una, seppure flebile, forma di immortalità. Archiviata, per molti, la cattolica risurrezione della carne, si punta sull’idea che il nostro corpo possa trasformarsi. Magari, appunto, in una pianta e in un albero. E su questo messaggio fanno leva le aziende che sempre più, anche in Italia, producono eco-urne biodegradabili. C’è l’urna in legno “Rinascita”, che promette di “trasformare il parente estinto in una altro essere vivente”, e quella “Bios”, venduta con i semi della pianta preferita e il terreno e che può essere, grazie a sensori, monitorata tramite app. Tra le più suggestive l’urna “Capsula Mundi”, in plastica biodegradabile e a forma di uovo, che va interrata ai piedi di un albero da piantare al momento. Creata da due designer, Anna Citelli e Raoul Bretzel, ha una variante più grande per il corpo non cremato (opzione più ecologica, perché la cremazione produce calore e Co2), da comporre in posizione fetale proprio a simboleggiare la rinascita. Nel paese in cui i morti superano i nati (650.000 nel 2017), la morte green, dalla bara di cartone, ai nuovi boschi mistici, sarà presto un reale business che potrebbe dar fastidio a qualcuno. Il che, unito alla scarsa propensione italica alla manutenzione dei boschi, solleva seri dubbi sulla protezione del caro estinto, a rischio disintegrazione per incendi o alluvioni. Forse, però, il problema è un altro: è vero, il pacchetto eco-bara più nuovo albero piantato è un circolo ecologicamente perfetto. Ma passare dal Paradiso al diventare alberi – “Ti voglio bene, nonna!” recita la didascalia a un’immagine sul sito di “Capsula Mundi” in cui due braccia circondano un tronco – richiede un certo cambiamento culturale e religioso, anche in vita. Per dirla con una battuta del designer e artigiano William Warren, che ha inventato una libreria che si trasforma in bara, “siamo sicuri di avere uno stile di vita adatto a diventare un buon compost?”

Il politico con la febbre ‘social’: “Mussolini ha creato le pensioni”

È arrivato di nuovo. Puntuale come la vendemmia. A Genova lo sanno, prima o poi ritorna: il post pro Mussolini di Francesco Carleo. Mica una persona qualunque, ma il presidente di Municipio con un passato nell’Arma dei Carabinieri. Ogni anno, come le cantine sfornano un bel vinello, lui produce i suoi post non proprio politicamente corretti. Alcuni un po’ acerbi, altri dal sapore forte. Poi ci sono quelli d’annata.

Stavolta, chissà se in onore del Primo Maggio, l’ineffabile Carleo ha puntato sul lavoro: “La tanto attesa tredicesima venne istituita nel 1937, non dai sindacati, ma da Benito Mussolini come regalo di Natale per i lavoratori”. Carleo non demorde. E puntuali arrivano le reazioni: i consiglieri comunali Stefano Giordano (M5S) e Gianni Crivello (Pd-Lista Crivello) propongono interrogazioni. Giordano chiede alla Procura se non si possa ravvisare il reato di apologia del Fascismo.

Oddio, districarsi nella giungla Facebook del ‘socialissimo’ Carleo è un’impresa: decine, centinaia di messaggi condivisi ogni giorno. Altro che Matteo Salvini. C’è da chiedersi dove il politico di Fratelli d’Italia, presidente di un Municipio con decine di migliaia di abitanti, trovi il tempo. C’è di tutto: messaggi mistici in tono vagamente new age, elogi delle forze armate con petto in fuori, decine di fotografie di Giorgia Meloni e Matteo Salvini (una vera infatuazione politica), ma anche preghiere, foto di santi e papi (Giovanni Paolo II, non Francesco!), poi cani, macchine da cucire, ricette di cucina. Di tutto. Un vulcano della tastiera. Ma i tasti qualche volta gli scappano.

In passato il baffuto presidente aveva condiviso messaggi dai toni non proprio istituzionali: “Ospitare immigrati nella tua casa: condividi se anche tu ti sei rotto i coglioni”. Poi: “Zingari nullatenenti pieni di gioielli d’oro”. Potevano mancare profughi e arabi? “Quintali di pane nella spazzatura: i profughi li rifiutano”, “Cento arabi violentano una tredicenne”. E via con la ruspa: “Avete rotto le palle” (con foto di Boldrini e Grasso), “Alzi la mano chi si è rotto i coglioni dell’invasione islamica”, “I veri scafisti sono coop e Caritas”, “Lei deve tornare in Congo” (alla Kyenge). Fino alla ‘chicca’ finale: “Spaccargli il sedere?”, con foto di Vendola. Ma soprattutto immancabile arriva la condivisione del post con il Duce: “Ha creato le pensioni”, “Ha aumentato il pil”, “Ha aumentato la natalità del 74%” e via magnificando. Con qualche scivolone che farebbe venire un coccolone ai prof di storia: “Ha portato le università in Italia”.

Nel 2017 Carleo era già stato pizzicato. Le sue condivisioni spericolate erano finite sul Fatto. Qualcuno si aspettava che il sindaco Marco Bucci lo avrebbe tirato per le orecchie. Silenzio. Del resto Bucci quando c’è di mezzo Benito non mette becco. Come quella volta che un consigliere comunale si era recato con fascia tricolore a rendere omaggio ai Caduti di Salò.

Però Carleo non prese bene l’articolo. Avvicinò il cronista a un paio di centimetri dalla faccia, a portata di alito, urlandogli: “Vergognati, sei un giornalaio”. Ma poi, ahimè, è ricaduto su Benito.

Domenica di ordinaria follia: quando il calcio è furti e botte

La bellezza del calcio giovanile, dicono. La gara under 19 tra Ambrosiana Trebasaleghe-Sacra Famiglia Grandini (Veneto), finisce con il centravanti locale, Gazmend Pali, che fa irruzione nello spogliatoio ospite “brandendo un’asta di ferro con un chiodo all’estremità”. Poi, per fortuna, lo hanno fermato. Lì vicino, under 17 Treviso-Julia Sagittaria, stavolta l’arbitro è un po’ (giusto un po’) inesperto.

Rigore per i padroni di casa, tiro, respinta del portiere, la palla torna sui piedi del calciatore che segna. Chi impreca, chi esulta, l’arbitro fischia: fuorigioco. Gara da rigiocare. Filippo Mancini, attaccante del Lepanto (Lazio) under 16. Sputacchia sulla spalla destra dell’arbitro, da dietro. Espulso, la società presenta un ricorso strambo (“lo sputo è stato causato dal forte raffreddore”), il giudice – clemente – dimezza la pena.

L’arbitro di Virtus Biancoazzurra-Sansovino (Toscana), ha notato che, durante la gara, il custode e altri dirigenti, entravano ripetutamente nel suo spogliatoio. All’intervallo ha chiesto spiegazioni, la risposta: “Nello spogliatoio dell’arbitro ci sono le chiavi degli altri spogliatoi”. Non lo ha convinto. È andata un po’ peggio al collega di Castelforte-Città di Sonnino (Lazio), derubato di 30 euro. Gianni Sensi, dirigente della Pontebuggianese (Toscana) addetto all’arbitro, è entrato nel ruolo, alla lettera e, a fine partita, si è rifiutato di consegnare all’arbitro le chiavi della sua macchina che aveva in custodia. Dopo 20 minuti ha ceduto. Casalanguida-Draghi San Luca (Abruzzo, seconda categoria), gli ospiti a metà ripresa chiedono un cambio, l’arbitro acconsente, lo stopper Francesco Marcolongo fa segno di essere infortunato e chiede di poter lasciare il campo dalla parte opposta le panchine, come si fa di consueto. L’arbitro dice di sì. Ma non si accorge che il Marcolongo rientra, facendo giocare la sua squadra in 12, anche se solo per pochi minuti. Nessuna sanzione, dice il giudice sportivo, visto che la superiorità “non ha influito sul risultato, anzi, il Casalinguida ha pareggiato in superiorità numerica”.

È avviato ad una sicura brillante carriera il mister dello “United Gianni Loia” (Campania), Cesare Geppino, anche lui deluso dalla sconfitta interna per 1-2 contro il San Nicola. Espulso per proteste durante la gara, il Geppino si è appostato all’ingresso degli spogliatoi, ha aspettato che si avvicinasse l’arbitro, gli si è fatto incontro dicendo che voleva salutarlo, poi invece “gli ha strizzato con forza i capezzoli, causando forte dolore”. E ti credo. Roberto Sansone, centrocampista dell’Acerno (Campania), espulso per offese all’arbitro e – già che c’era – “all’intera categoria arbitrale”, a fine gara si è presentato, non tanto per scusarsi, quanto per cercare di convincere il direttore di gara di non andar giù duro nel referto. “Ti bastano 100 euro?”. No, non sono bastati, rigiocherà tra un anno.

Un altro arbitro, Giangranco Spensieri, sezione di Campobasso. Mentre dirigeva una gara di calcio a 5, Saracena-Polisportiva Keramin, ha concesso un tiro libero ai padroni di casa, scatenando le proteste degli ospiti. Per ben tre volte, rivolgendosi ai dirigenti e tesserati del Keramin, sistemati dietro la panchina, l’arbitro ha urlato: “Andate a fare in culo, scemi di merda”. Due mesi di stop dovrebbero farlo rinsavire. Bel clima a Gaeta (Lazio). La stagione non va, malgrado siano stati assoldati calciatori di categoria, pagati con rimborsi mensili, anticipi di due mensilità e assegni post datati a garanzia, da restituire alla scadenza, in cambio di contanti. A metà stagione, falliti gli obbiettivi stagionali, i rimborsi latitano. I giocatori chiedono di essere svincolati, ma rimborsati. Un giro di assegni vorticoso, quelli a garanzia e quelli da riscuotere.

Dopo la sconfitta con l’Arce, allenatore e presidente consigliano così i propri calciatori: “Portate gli assegni indietro sennò vi spariamo in testa”. Si chiude con la squalifica di 9 mesi a Biagio Rispoli, 63 anni, presidente, portiere e allenatore (senza patentino) del Ponza calcio. I solerti ispettori della Figc vengono a sapere dell’iniziativa “venite a giocare con noi, dai 6 ai 12 anni, con mister Biagio” e lo stangano: non è abilitato. A poco vale la difesa: nell’isola nessuno ha patentini per allenare. Ah, dimenticavamo: Biagio è anche il comandante dei vigili urbani.

Serrande giù, immobili in crisi

Già nel 2018 il fatturato dei locali era calato del 60% per gli eccessi della ‘movida’: “Ma dopo Desirée – dice Daniele Brocchi della Fiepet (associazione di Confesercenti) – le vendite sono scese ancora, almeno del 30%”. Ecco la lista dei locali che hanno chiuso: “Il cappellaio matto”, “Mamarò”, “Na’Biretta”, “Mozzico”, “Il pulcino ballerino”, “Mangiarte”, “Legend pub”, “Elvis lives”.
Gli affitti di stanze e appartamenti, intanto, sono crollati per l’effetto mediatico del delitto. “Prima erano alle stelle perché siamo a due passi dall’università La Sapienza”, dice Donato Cappelli, titolare da 20 anni di un’agenzia immobiliare su via Tiburtina: “Molti, spaventati dall’omicidio, hanno disdetto l’appuntamento: anche le vendite degli appartamenti sono diminuite”.

Roma, fuga da San Lorenzo: nel deserto resta lo spaccio

A Roma, rione San Lorenzo, alle 15 di un sabato qualunque è facile comprare eroina. Il Fatto Quotidiano lo ha verificato: 0,28 grammi per 20 euro. Basta girare per le strade del quartiere e chiedere qua e là. Alla fine spunta un ragazzo di colore che ti da appuntamento appena fuori le mura. In bocca tiene delle piccole palline di plastica, così se viene fermato dalle forze dell’ordine in un attimo ingoia tutto. È il “corpo del reato” finisce nel suo stomaco. Quelle palline contengono una bustina piena di eroina, ben incartata con pellicola trasparente e ritagli di plastica, quella dei sacchetti per la spesa. Di sicuro, non è l’unica piazza di spaccio, San Lorenzo. Ma nello storico quartiere di sinistra, il 24 ottobre, Matteo Salvini aveva promesso: “Faremo male agli spacciatori”. Cinque giorni prima, era avvenuto l’omicidio della sedicenne Desirée Mariottini. La ragazza, adescata da un gruppo di spacciatori il 18 ottobre, finisce per seguirli in uno stabile abbandonato in via dei Lucani: viene drogata, stuprata e uccisa. Da allora, il rione delle ‘notti brave’ sembra un deserto, mentre le volanti pattugliano strade vuote. Restano gli spacciatori.

Serate senza drink e controlli continui

“Alcune sere incasso 80 euro, una volta chiudevo con duemila”: Lonardo Botta gestisce un locale storico sulla piazza del quartiere. Da novembre, il crollo: “Almeno del 60-70% – dice Lonardo -. Prima le vie erano piene dal giovedì alla domenica, ora il venerdì e il sabato c’è solo un po’ di movimento”. È l’effetto della cura anti-degrado, un mix di due ingredienti: controlli a tappeto e niente drink. Il 3 novembre scorso infatti è scattata l’ordinanza anti alcol della sindaca Virginia Raggi: vietato bere all’aperto dopo le 21. L’ex prefetto della Capitale, Paola Basilone, il 12 febbraio annunciava, intervistata dal Messaggero: “Serve un ‘modello San Lorenzo’. Il nostro progetto è già stato spedito al Viminale. Interventi rapidi e mirati, con tutte le forze dell’ordine”. Risultato: carabinieri, polizia, Finanza e Municipale perlustrano di continuo il rione. I reati diminuiscono, ma avanza il deserto; lo ha detto Virginia Raggi, il 16 aprile: “Vogliamo evitare una risposta solo di pancia, che ha portato una riduzione degli episodi violenti, ma anche iniziato a desertificare il quartiere”. I dati su arresti, fermi e reati a San Lorenzo, dopo Desirée, “non sono ancora consolidati”, dice la Questura. Col commissariato di Polizia, impossibile parlare, per via delle “indagini in corso”. Nessun commento da Paola Basilone (il suo mandato è scaduto il 17 aprile). Nemmeno la presidente del Municipio, Francesca Del Bello, conosce l’andamento dei reati. “Noi monitoriamo le sanzioni amministrative dei Vigili, ma di sicuro lo spaccio prosegue – dice la minisindaca -. I clienti però sono diminuiti e il rischio è che dall’hashish si passi a scippi e furti. Contro lo smercio, serve la Polizia”. Con le strade poco frequentate, i pusher fanno più paura: “Le persone per bene o con famiglia vengono sempre meno, mentre arrivano quelli in cerca di droga”, dicono commercianti e cittadini. Gli abitanti rifiutano la lettera scarlatta del degrado. Il quartiere ribolle di iniziative dal basso.

Il bersaglio sono volontari e associazioni?

Come l’associazione di volontariato ‘Il Grande Cocomero’: da 25 anni offre assistenza gratuita ad adolescenti con patologie neuropsichiatriche. A novembre ha ricevuto una multa di 425 euro per l’affissione abusiva di un volantino: “Il foglio informava sulla data di un’assemblea con la presidente del Municipio”, racconta Lorenzo Manni, dell’associazione. Sa bene che la multa è ineccepibile, ma ha un dubbio: “La priorità non dovrebbe essere fermare lo spaccio?” . 200 euro di sanzione anche alla libreria Giufà, il 3 novembre scorso: le panche all’ingresso, vicino Piazza dell’Immocalata, occupavano troppo spazio. Anche la palestra popolare in via dei Volsci, dove ci si allena gratis, ha pagato dazio: l’insegna appesa al muro sporgeva qualche centimetro di troppo. L’associazione culturale ‘Le Mura’, su via di Porta Labicana, ha chiuso bottega dal 19 gennaio al 26 gennaio, anche se era tutto in regola. “Appena rialzo la saracinesca, col via libera del commissariato, passa un’altra pattuglia che mi intima di chiudere”, dice Emanuele, a capo dell’associazione: “Avevo già chiarito, ma ho dovuto spiegare tutto da capo”. Dopo il braccio di ferro, la serranda resta alzata: “Mi hanno detto che dovevano solo eseguire un’ordine, i controlli a San Lorenzo sono doverosi”, dice Emanuele.

Via alla riqualificazione ma sale la protesta

“Con le volanti in giro, nessuno entra negli edifici abbandonati su via dei Lucani”, dice Silvio Paone del centro sociale Communia. La Raggi è pronta a riprendersi gli edifici fatiscenti lungo la via del delitto Desirée: “O i privati riqualificano, o sarà esproprio”, ha annunciato il 16 aprile. Ma la riqualificazione passa anche dall’area dell’ex dogana, intestata a Cassa Depositi e Prestiti: dove pulsava la movida sorgerà “The Student Hotel” (filiale di una catena olandese) a metà tra albergo e studentato. Il comitato di quartiere storce il naso: “Volevamo strutture sportive, spazi verdi e per gli artigiani di San Lorenzo”.

Da anni i residenti si battono contro la movida, ma sale la preoccupazione: “Chiudono i locali sani, con la clientela migliore, e le vie si svuotano – dice il presidente del comitato Emanuele Venturini -. L’ordinanza anti alcol forse non è la soluzione”. Fino al 30 settembre, dopo le 21, a San Lorenzo non si beve all’aperto. Ma a 2 chilometri, al Pigneto, i drink in strada sono leciti fino alle 24, nel bicchiere di plastica: ecco perchéì i locali chiudono. “La licenza è costata cara – dice Lonardo Botta – ma a che serve col divieto serale?”. Lonardo sogna San Lorenzo come Berlino o Barcellona: “Lì sono rinati con lo svago all’aperto, noi desertifichiamo”. I commercianti del quartiere, riuniti in chat su WhatsApp, avvertono: “Non siamo i gilet gialli, ma siamo pronti a bloccare tutto”.

Le troppe Notre-Dame d’Italia

Quante Notre-Dame sorgono nella nostra terra, in questa Italia dove cattedrali, basiliche, abbazie, monasteri punteggiano ogni piazza, ogni apertura di paesaggio?

L’Italia sacra – costituita dalle migliaia di spettacolari chiese storiche dove si addensa la storia comune, e si accumula la forza per costruire il futuro – è in pericolo. Crolli, abbandoni, privatizzazioni, inondazioni, incendi, saccheggio: le nostre Notre-Dame muoiono ogni giorno, lontanissime dalle telecamere che, per fortuna, hanno trasmesso in ogni angolo del globo le immagini del rogo di Parigi.

Così diventa importante raccontare la storia di un complesso monumentale monastico che si è finalmente salvato, dopo esser stato per decenni abbandonato e apparentemente condannato.

È il 9 luglio del 998 quando l’imperatore Ottone III prende sotto la sua somma protezione la chiesa posta al settimo miglio a ovest di Firenze. Pochi anni dopo, nel 1011, quella chiesa è già un’abbazia benedettina, guidata dall’abate Guarino: è nata Badia a Settimo. Quasi mille anni dopo, quella stessa chiesa ospita una scena del tutto diversa: Eugenio Montale, Vasco Pratolini, Ottone Rosai assistono alla sepoltura dei resti del grande poeta Dino Campana, morto dieci anni prima nel vicino Ospedale Psichiatrico di Castelpulci. Nel mezzo, una storia densissima di arte: la mirabile tomba romanica delle contesse Cilla e Gasdia, morte nel 1096; nel Rinascimento le pitture di Ghirlandaio, le sculture di Giuliano da Maiano; e poi la gemma seicentesca della Cappella di San Quintino, tutta coperta delle figure nervose e guizzanti di uno degli artisti più simpatici di ogni tempo, Giovanni da San Giovanni. E questa è solo la chiesa: che si è sempre salvata, nonostante che i fiorentini la dimentichino, perché hanno troppa storia e troppa arte dentro le mura, e i più vicini abitanti di Scandicci non si accorgano che esiste, perché troppo convinti di non avere arte e non avere storia.

Quello che invece è stato mutilato, violentato fino a rasentare la perdita definitiva è stato il grandissimo complesso abbaziale fortificato: una gemma rarissima e di importanza capitale. Qua si conservava il sigillo della Repubblica di Firenze; qua se ne amministrava il tesoro; qua, nelle fornaci monastiche, furono cotte le tegole della grande Cupola di Brunelleschi. Eppure, a causa della privatizzazione di metà del complesso e del suo successivo abbandono da parte dei proprietari, vi si possono vedere chiostri monumentali divisi da muri, ambienti protogotici colmi di terra, colonnati medioevali ingombri di detriti.

Sotto la guida di don Carlo Maurizi, il più tenace dei sacerdoti, una comunità ha lottato duramente per salvare la Badia, come si legge sul loro sito: “Questo presidio di altissima luce ha subito troppe umiliazioni, fino alla urbanizzazione selvaggia degli ultimi 30 anni: che l’ha strangolato da ogni parte e privato della sua cornice naturale, depredato, come Firenze, del suo stesso orizzonte. Noi abbiamo fatto di tutto, senza risparmio di energie, per restituire questo patrimonio alla collettività, come tanti in Italia che difendono e valorizzano i beni comuni, spesso ignorati da chi ne avrebbe il dovere costituzionale. Non ci sono ancora risposte concrete per il recupero integrale del complesso per buona parte in abbandono, mentre prosegue senza fine l’orgia degli sprechi di denaro pubblico”.

Ma nonostante le promesse di sindaci, ministri, presidenti della Repubblica, nonostante l’idea di farne la foresteria della Scuola della Magistratura (ora appunto nella vicina Castelpulci), nonostante tutto, lo Stato non ha fatto nulla. Ma quando ormai si disperava di rivedere la Badia nel suo splendore, o almeno in sicurezza, si è fatto avanti un privato cittadino. Non l’amministratore delegato di uno dei colossi di moda impersonali e feroci che fanno a gara a marchiare la ricostruzione di Notre Dame: un uomo in carne e ossa, che ha fatto fortuna con fatica e determinazione. Paolo Nocentini, Presidente della Savino Del Bene Spa.

Nocentini ha acquistato la parte privata, e l’ha donata alla Badia: che ora potrà riunificarsi e salvarsi. “Non commercializzeremo la Badia – ha detto Nocentini, andando in direzione diametralmente opposta al mainstream – Sarà un luogo aperto, ma non per far soldi”. E, annunciando che il progetto è quello di farci tornare una comunità monastica, ha aggiunto: “Io mi considero ateo e per gran parte della mia vita anche anticlericale … Aggiungo, e mi rimane difficile spiegarlo, il mio bisogno di spiritualità. Spero che, quando saranno ritornati i monaci, ci trasmettano una semplicità cristiana di vivere la vita, e che siano un esempio di come si possa coniugare la vita materiale con quella spirituale”.

Una volta tanto, dunque, una storia a lieto fine. Ma una storia che permette di illuminarne altre centinaia che invece rischiano di finire nel peggiore dei modi. Non se sia più raro che lo Stato faccia il proprio dovere (in fondo basterebbero pochi spiccioli, rispetto al gran mare di soldi gettati via nei modi più pittoreschi), o che si faccia avanti un privato mecenate con lo stile e il disinteresse di Paolo Nocentini. Ma so che abbiamo un maledetto bisogno di entrambi, perché le nostre mille Notre-Dame smettano di distruggersi in silenzio.

Salute, antenati e costi alti. Il far west dei test del Dna

“Non è che sei un po’ francese? Forse spagnolo? Parente di un vichingo? Scoprilo adesso!”. La scatola bianca campeggia su Amazon alla voce “test del dna”. Il pacchetto si chiama “Test DNA Salute + Antenati”, è fornito dall’azienda TellmeGen e, oltre ad un’indagine sui propri antenati, sulla predisposizione a obesità e calvizie e sui farmaci personalizzati, promette, per soli 169 euro, grandi cose: “Ti aiutiamo ad aumentare la tua aspettativa di vita […] aiutandoti a prevenire più di 125 malattie e rallentandone lo sviluppo”. L’azienda in questione non è la sola – ce ne sono a decine – a proporre pacchetti di esami del Dna, che puntano sul fascino della parola, da cui ricavare ogni genere di informazioni. Anche 24Genetics, pure presente su Amazon, vola alto: il test del “Dna 6 in 1”, 399 euro, include analisi sul profilo metabolico a su quello cardiovascolare, sul rischio di infortunio, fino alle influenze genetiche sulla salute della pelle e alla predisposizione genetica per 200 malattie. L’azienda MyHeritage, invece, vende, per appena 69 euro, l’analisi genetica del Dna per la ricerca di etnia e parenti, con tanto di “bellissima mappa in 3D interattiva insieme alle relative percentuali e a musiche originali dalle regioni dei tuoi antenati, […] perfetta per essere condivisa sui social media”. Mentre Allelica sponsorizza un pacchetto per scoprire come “il tuo corpo metabolizza gli alimenti per poter vivere a lungo e al meglio” e se sei predisposto a “diabete, tumori ereditari, ipertensione, trombofilia”, per poi fornire un piano alimentare personalizzato a pagamento.

Ce n’è abbastanza per chiedersi se questo tipo di kit fai da te siano utili e soprattutto esaudiscano ciò che promettono, nonostante recensioni tanto entusiastiche quanto generiche sulle pagine Facebook aziendali (“Era il mio sogno conoscere il mio genoma”, “Mi sono fatta un regalo e che regalo”, “Che cosa fantastica la scienza!”).

Gli esperti di genetica, però, sono assai meno ottimisti. “Dobbiamo abbandonare l’idea deterministica, infondata e infantile, che dati certi geni saremo per forza fatti in un certo modo. Oggi la genetica è, al contrario, probabilistica”, dice Guido Barbujani, professore di Genetica a Ferrara. Il problema, come spiega Paolo Peterlongo, biologo genetista dell’Ifom (Istituto Firc di Oncologia Molecolare) “non è avere risultati ma interpretarli dal punto di vista clinico. In ogni gene si possono trovare mutazioni diverse e non è semplice sapere qual è il rischio connesso alla mutazione identificata. È la differenza tra fare una radiografia e leggerla”. Gli esperti si pronunciano anche sulla delicata previsione di malattie, promessa da questi test. “La genetica ha fatto passi da gigante nella diagnosi delle malattie semplici, come la fibrosi cistica, dove è mutato uno specifico gene che determina la malattia”, spiega Bruno Dallapiccola, Direttore scientifico dell’Ospedale Pediatrico Bambin Gesù. “Del tutto diverso è quando si tratta di analizzare malattie complesse come allergie, malattie autoimmuni, diabete, malattie cardiovascolari. Conosciamo mutazioni specifiche che possiamo aggredire attraverso la terapia genica, ma dire cosa sia una persona dal punto di vista genetico è difficile, altro che medicina personalizzata. Il 95% dei tumori non sono ereditari, sono conseguenze di mutazioni somatiche sfortunate”. “Molte malattie, come quelle neurodegenerative, dipendono da tanti geni, e anche da tanti fattori nell’ambiente: dieta, stile di vita e così via. Non c’è alcuna certezza che quella persona sviluppi quella patologia”, conferma Guido Barbujani.

L’altro problema reale di questi test fai da te, che tra l’altro “dovrebbero informare i pazienti nel tempo se la disponibilità di nuovi dati determina una variazione della stima del rischio” (Peterlengo) è la gestione delle informazioni. “Fare un test genetico non è come fare la glicemia, implica entrare in possesso di un’informazione permanente”, spiega Myriam Alcalay, del Comitato Scientifico di Fondazione Veronesi e professore al Dipartimento di Oncologia ed Emato-oncologia di Milano. “Cosa posso fare se so di essere predisposto all’Alzheimer? Figuriamoci che non c’è consenso scientifico neanche su cosa fare se una donna scopre la variante al gene Brca1 (quello di Angelina Jolie)”. Altrettanta prudenza, e un certo scetticismo, gli esperti lo manifestano verso i test del dna per malattie metaboliche: “Ti studio un set di geni metabolici per poi consigliarti una dieta, senza neanche conoscerti? Non mi sembra onesto”, dice Alcalay. “Molte delle diete consigliate su base genetica non hanno alcun fondamento scientifico”, chiosa Barbujani. Per non parlare dei test sulla resistenza sportiva: “È oroscopo genetico, come si fa a predire la capacità di eccellere nello sport? Fake news, per non dire di peggio”.

Sui test che riguardano la parentela, invece, interviene Antonio Torroni, professore di Genetica all’Università di Pavia. “Conoscere l’origine ancestrale della nostra linea materna o paterna ci fornisce solo un ‘pezzetto’ limitato dell’origine ancestrale del nostro genoma”, tanto “che la stessa persona potrebbe ritrovarsi con origini diverse a seconda delle ditte scelte”, precisa Barbujani. Poi c’è la questione non secondaria della privacy, visto che, come nota sempre Alcalay, “le compagnie hanno interesse a ottenere di inserire il campione del Dna nella loro banca dati”. La comunità scientifica, insomma, ha molti dubbi: “Decidere di effettuare dei test genetici inviando materiale biologico alle aziende può essere pericoloso: in molti casi più che dare risposte apre solo nuove domande”, spiega Lucia Del Mastro, coordinatore Centro di Senologia, Policlinico San Martino-Università di Genova e membro del Comitato Scientifico di Fondazione Veronesi. I test genetici utili sono quelli fatti in ambito medico-ospedaliero, “dove si viene preparati a ricevere un risultato e magari ad accedere a protocolli di screening migliori”, dice Alcalay. Si fanno su suggerimento di un genetista e se si ci sono in famiglia due o più persone che si sono ammalate (specie se da giovani).

Tutto ciò non significa che la genetica non serva. “In Italia c’è carenza di genetisti preparati. Altrove cominciano a fare test genetici sulla popolazione giovanile sana”, commenta Peterlongo. “Si fa poca genetica all’Università, privando di conseguenza i pazienti di preziose opportunità”, dice Dallapiccola. In ogni caso, prima di acquistare un test, dice Alcalay, ricordate “che lo stesso James Watson, ‘padre del Dna’, ha donato il suo Dna alla ricerca ma non ha mai voluto sapere tutti i risultati”.

Insomma, conclude Barbujani, “meglio investire quei soldi in una bicicletta: un po’ di attività fisica aiuta molto più di tanti test fatti a caso”.

Paesani contro forestieri: San Luca avrà un sindaco

Paesani contro “forestieri”. L’infermiere in pensione Bruno Bartolo contro il massmediologo Klaus Davi. Tra speranza e sconforto, dopo sei anni di commissariamento per mafia, a San Luca ci saranno le elezioni comunali. L’importante è andare al voto. Forse è anche per questo che, nella piazza centrale davanti al Comune, non si respira aria di campagna elettorale. Piuttosto di collaborazione tra rivali politici che, presentandosi entrambi, hanno già scongiurato il rischio quorum. L’unica certezza, infatti, è che il 27 maggio la cittadina arroccata sulle montagne dell’Aspromonte si sveglierà con un sindaco.

Non avveniva dal 2013 quando, a pochi giorni dalle urne, il ministero dell’Interno bloccò tutto, sospese le elezioni e mandò i prefetti a guidare il Comune “culla della ‘ndrangheta”.

Dai sequestri di persona al traffico internazionale di droga, dai summit a Polsi, dove c’è il santuario della Madonna della montagna, alla strage di Duisburg, nel cuore della Germania. I Nirta-Strangio e i Pelle-Vottari sono i nomi che farebbero alzare le antenne di qualsiasi investigatore. Qui, invece, vengono pronunciati con una certa facilità e le faide sanguinarie sono solo un ricordo.

Dopo il tentativo vano, nel 2015, di eleggere un sindaco alle elezioni “post scioglimento”, il regno delle più feroci cosche mafiose della Locride ha iniziato una protesta silenziosa contro lo Stato. Da allora, per tre volte consecutive, nessuna lista è stata più presentata alle comunali. Il refrain per le strade di San Luca era sempre lo stesso: “Chiunque vince verrà commissariato perché qui siamo tutti parenti”.

Nonostante questo, San Luca ha deciso che il tempo dei prefetti è finito. Lo dice chiaramente il candidato locale Bruno Bartolo. Per l’infermiere in pensione, infatti, “la paura di essere sciolti non è stata superata. Ci abbiamo messo il coraggio perché vogliamo che ritorni la democrazia. È giusto che il Comune venga guidato da un’amministrazione democraticamente eletta”.

Se arrivano di nuovo i commissari? “Questo – chiarisce il candidato “locale” – non lo prendo in considerazione perché noi abbiamo formato una lista di cittadini che hanno avuto sempre rispetto della legalità”.

Non tutti sono d’accordo. Fuori dal palazzo c’è chi festeggia cautamente (“Se si fa il sindaco è buono. Basta che non sciolgono di nuovo il Comune”) e c’è chi ancora insiste che non si doveva votare (“Bisognava fare prima chiarezza all’interno dell’amministrazione, altrimenti si mette il tappo su due gestioni commissariali fallimentari”).

Della stessa opinione è Francesco Anoldo che doveva essere il terzo candidato. Si è ritirato perché “con un bilancio comunale in rosso di un milione di euro – denuncia – non ci sono le condizioni per governare”.

A San Luca Bruno Bartolo conosce anche le pietre. È stato assessore a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 quando il sindaco era Aurelio Pelle. Fuori dal Comune, mentre venivano presentate le liste, c’è pure l’ex sindaco. È tra quelli secondo cui si doveva continuare la protesta contro lo Stato: “Non è possibile – dice Pelle – che sulla base di una simpatia, di una parentela o di una frequentazione si sciolga un Comune. La frequentazione occasionale non è connivenza. Si è criminalizzato tutto e tutti. È per questo che sono contrario alle elezioni. Bisognava esasperare il problema”.

La linea del “ritorno al voto”, però, ha vinto tra abbracci e baci di chi, nelle prossime settimane, dovrebbe rastrellare un voto più dell’altro. Il clima, fin troppo disteso, lo si percepisce dalle parole del candidato Bartolo: “Ringraziamo l’altra lista anche se sono tutte persone non di San Luca. Non mi pongo il problema di chi vince. Chiunque sarà, dobbiamo unirci per la crescita del paese che è in credito verso lo Stato”.

Nella lista “San Luca, Klaus Davi sindaco” ci sono l’ex dirigente della protezione civile calabrese Carlo Tansi, il poliziotto e segretario nazionale del sindacato Coisp Giuseppe Brugnano, l’esponente del Pd Alessia Bausone e alcuni testimoni di giustizia.

La puzza di ‘ndrangheta si respira fin dentro il palazzo comunale. Questo Davi non lo nega: “Noi sappiamo dove siamo e che c’è una componente importante di persone che dal punto di vista della legalità lascia molto a desiderare. Però, lo Stato deve comunque dare un’opportunità. Deve essere punitivo. Dopo di ché, nella Costituzione è scritto chiaramente che dobbiamo pensare alle persone che non hanno responsabilità. Un problema che esiste è quello degli ex detenuti che non riescono a reinserirsi nel mondo del lavoro”.

Musica per le orecchie di Salvatore Giampaolo, ex detenuto che ha scontato 25 anni di carcere e che, nel periodo della semilibertà, è riuscito a sposarsi e mettere su famiglia. “Ho fatto causa a Calabria Verde – racconta – e il giudice mi ha reintegrato. Dal 2014 però non mi assumono. Ci dicono che siamo interdetti e non possiamo lavorare. E come viviamo? Dobbiamo andare a delinquere. Io non posso votare perché sono interdetto dai pubblici uffici, ma adesso che ci sono le elezioni speriamo che cambia tutto e in bene”.

“Bisognerà fare una cooperativa. – spiega Davi – Non siamo negazionisti, ma bisognerà fare lo Stato. Il commissariamento è stato estremamente utile ma ha fatto perdere tante opportunità, bandi, finanziamenti. Che fine hanno fatto i 20 milioni di euro per la strada per Polsi?”.

Appalti per milioni di euro che sono appetibili per la ‘ndrangheta. L’antidoto, per Klaus Davi, è l’Anac: “Ho telefonato a Raffaele Cantone e gli ho detto di darci una mano sul piano della trasparenza”.

“Nel mondo di Internet il pacco l’hanno fatto ai lavoratori: addio diritti”

Daniele Vicari, oggi il lavoro è il grande rimosso?

Ci siamo illusi che negli Anni Novanta insieme alla storia fosse finito anche il lavoro, perché tutte le ideologie postmoderniste parlavano di battaglia vinta, di superamento del lavoro, grazie alle nuove tecnologie.

Invece era il superamento dei lavoratori.

Il dibattito fu ambiguo, approfondii, anche per un film con Guido Chiesa, Non mi basta mai, sugli operai della Fiat. I dati della Ilo (Organizzazione Internazionale del Lavoro) erano incontrovertibili: l’85% del Pil mondiale era da attribuirsi a un pugno di operai, non più di 500 milioni. Che la produttività fosse sganciata dal lavoro materiale era una favola, anche ideologica.

E vissero infelici e scontenti?

Era un modo per conculcare i diritti dei lavoratori, si apriva alla svalutazione del lavoro materiale in favore di quello immateriale. Un’idea astratta che solo ora si sta concretando grazie alla Rete: negli Anni Novanta era una nebulosa di informazioni, oggi vi si comprano beni materiali, e si comprende come le questioni sindacali non vi vengano elise, ma esasperate. Sebbene gestita da esseri umani, me ne sbatto di come avvenga la consegna di un pacco, mi interessano solo celerità e convenienza: lo sfruttamento dei lavoratori non lo prendo in considerazione.

Pacco, doppio pacco e contropaccotto?

Disinformazione o falsa coscienza che sia, divengo parte del problema, anzi, lo riproduco: anziché fine della storia e del lavoro si è realizzata solo la parte più indigesta e inaccettabile, la fine dei diritti dei lavoratori. Complice la vulgata contemporanea per cui ciò che non vedi non esiste, il lavoro ideologicamente parlando è scomparso, anche al cinema.

Arte e cultura non aiutano?

Macché, sono state fatte fuori: esiste solo l’entertainment, e allora perché ci si dovrebbe preoccupare dell’esistente? Un uomo che vola, con un missile agganciato alla schiena, non è forse più interessante di uno che lavora? Ebbene, assomiglia alla favola dell’asino che vola.

Il discorso pubblico ha rimosso, e il cinema s’è messo in scia.

È così in tutto il mondo, e quando uno tenta di riprenderne le fila non se la passa benissimo. Nel racconto delle periferie urbane, la quotidianità è scomparsa, la criminalità ha preso il sopravvento: dolorosa e difficile che sia, è una eccezione, però spettacolare. Due che si sparano attirano di più di due che scavano una buca della fognatura. Così il cinema, ma ancor prima la politica, l’analisi sociologica, il dibattito sociale.

Anche il suo ultimo film, Sole cuore amore, inquadrava il lavoro.

Sì, e c’è chi al riguardo ha scritto che “forse il regista preferirebbe vivere in Corea del Nord”: fa ridere, nemmeno ti arrabbi, ma pensi che quella persona viva in un mondo parallelo. Peccato che vi si siano giocate le ultime elezioni, a un certo punto quel che si è rimosso culturalmente e politicamente travolge tutto: ovvio, chi ha il culo parato, chi non ha bisogno di lavorare, di fare decine e decine di chilometri ogni giorno per raggiungere l’impiego come in Sole cuore amore non lo capirà mai.

La situazione è drammatica, ma per lo più è materia di commedie.

Sul tema il film più famoso degli ultimi vent’anni l’ha fatto Checco Zalone, Quo vado?, con annessa ossessione del posto fisso: per me è una follia, ma ad hoc hanno rispolverato il Neorealismo. Di certo, nelle commedie si lavora molto di più che nei film drammatici: se spari, non lavori.

Eppure, forse non al cinema, qualcosa sta cambiando.

La politica inizia a scannarsi, si discute finalmente: reddito di cittadinanza sì, reddito no; chi lavora ma non arriva alla fine del mese; le pensioni. Certe questioni sono più forti dell’ideologia: se escono dal radar, eruttano e travolgono.

Perfino l’ordinamento democratico?

Sullo scontento sociale si costruiscono i regimi, democratici o meno. Siamo in un momento in cui c’è poco da scherzare, le persone le puoi fregare fino a un certo punto, “è colpa degli stranieri se non hai un lavoro” dopo un po’ non tiene, scatta la rabbia e abbatte tutto. Il lavoro fa da architrave alla nostra Carta, i padri costituenti mica erano scemi, han fatto la guerra per quell’articolo lì.

E oggi?

Stiamo riscoprendo che se un cittadino vive male il rapporto con il proprio lavoro vive male il rapporto con la società.

Un film da vedere il Primo Maggio?

À nous la liberté, diretto dal francese René Clair nel 1931. Una storia meravigliosa, anche nel momento della lotta operaia si esalta il senso profondo dello stare insieme.