“Buon Primo Maggio, amici. Prendo lezioni di Ruspa! Faccio bene?”: il provocatorio post di Matteo Salvini è vecchio di un anno ma è rispuntato in Rete in questi ultimi giorni, allegato ad un breve video (35 secondi) in cui si vede il Capitano nella cabina di una macchina per la movimentazione della terra alle prese con le leve della benna. Ma, a guardare con attenzione, si scopre che è solo scena. Il conducator della Lega non aziona nulla. Simula la manovra con la mano sinistra, mentre la benna resta sospesa, tremolante, senza abbassarsi di un solo centimetro…
Salvini è furbo. Allude, con il simbolo della ruspa, a smuovere il mondo della politica senza tanti complimenti. Infatti postò video e messaggio sull’hashtag #andiamoagovernare. Però, a differenza del 25 Aprile, icona della memoria e baluardo della Repubblica nata grazie alla lotta partigiana, non attacca il Primo Maggio, che è festa globale, non lo demonizza e se in qualche circostanza – per ragioni elettorali – è costretto a farlo, si limita a mugugnare seguendo la tradizione delle destre italiote che protestano perché in questa festa “che dovrebbe essere di tutti” predomina una specifica iconografia riconducibile ai loro nemici ideologici. Ossia socialismo e comunismo.
In effetti, durante le celebrazioni del Primo Maggio, nonostante il il malessere e il disorientamento della sinistra, le iconografie delle feste sono in gran parte “rosse”. Nemmeno i megaconcertoni organizzati dal 1990 a Roma in piazza San Giovanni (iniziativa patrocinata dalla triade sindacale Cgil-Cisl-Uil) riescono ad annacquare la matrice da lotta di classe, il clima della protesta, delle rivendicazioni, dell’antifascismo, con le valenze di giustizia sociale e fede nell’avvenire che accompagnano gli interventi dal palco. E tuttavia, per gli irriducibili della sinistra più trinariciuta, proprio questi concertoni dimostrano che non c’è più il Primo Maggio di una volta, trasformato ormai in un evento consumistico, tradendone le radici e la memoria.
Dunque, crisi della sinistra = crisi del Primo Maggio? L’equazione non è così lineare. È più complessa, spiega Cecco Bellosi, scrittore laghée (è di Colonno, sul lago di Como), autore del disincantato Sotto l’ombra di un bel fiore/Il sogno infranto della Resistenza (Milieu, 2018). Bellosi nel 1980 venne arrestato per attività sovversive, scontò dieci anni; da 26 anni coordina le Comunità del Gabbiano. Secondo lui, la rottura col passato dipende da due fattori fondamentali: “Il mondo del lavoro negli ultimi quindici anni è profondamente cambiato, oggi non è né tutelato né garantito; l’appartenenza ai valori mitici del Primo Maggio, si è sfaldata. A Milano, per esempio, non c’è paragone tra come viene ancora vissuto il giorno che celebra la Liberazione, cioè il 25 Aprile, e il Primo Maggio. Il 25 Aprile è giorno di contrapposizione, di fermezza”. Come un presidio della democrazia.
Va da sé che il Primo Maggio si è adeguato ai tempi, aggiornando quella creatività popolare – a volte border line con la sagra paesana – che negli anni d’oro era un tripudio di balli, grandi bevute, profumi di carni alla brace, kermesse ciclistiche, tornei di bocce. Feste collettive all’insegna dell’aggregazione sociale: di città, di quartiere, di rione. Mobilitazione delle sezioni Pci, e degli uffici sindacali. Scadenza annuale di verifiche e confronti.
Uno spirito che va difeso, dice il pittore e scultore Giovanni Rubino, 81 baldi anni e una fede incrollabile nella libertà e nella rivoluzione (comunista): “Lo sapremo quest’anno se la festa del Primo Maggio riuscirà a conservare la tradizione operaia e quella storica della sinistra. Io sono ancora fedelmente legato al bisogno di questa continuità. Fare memoria è il titolo della mia ultima mostra, a Parma. Dove c’è il monumento alle barricate del 1922, quando Italo Balbo, alla testa delle sue bande fasciste, non riuscì ad entrare in città, difesa dagli operai e dai contadini”. Per Rubino, il Primo Maggio è anche questo: ricordare che ogni conquista dei lavoratori è costata scioperi, repressione, sangue…
“Rispetto ad un tempo, il Primo Maggio non è la stessa festa. Sebbene nella mia Emilia conservi parte del suo impatto emotivo di festa laica dei lavoratori, di festa che sta dalla parte degli operai, dei contadini… – commenta lo scrittore Valerio Varesi, celebre per la serie di gialli del commissario buongustaio Soleri (ha ispirato gli sceneggiati tv Nebbie e delitti interpretato da Luca Barbareschi) – se penso ai primi maggio vissuti da mio padre, quando i comunisti andavano nei campi per sollecitare i contadini a smettere di lavorare, e lo facevano non sempre con le buone maniere… Adesso, con il lavoro così parcellizzato, come può festeggiarlo un biker che pedala per ore tutti i giorni? O chi lavora in un centro commerciale anche a Natale? Non esiste più un’idealità collettiva… E il disincanto per il Primo Maggio, una volta capace di unificare grandi masse e di contribuire alla crescita della coscienza civile, accompagna il disincanto per lo sfascio della sinistra che non è più sinistra…”.
Varesi ha scritto una trilogia su questa crisi, partendo dalla fine della guerra ai giorni nostri, per lui la Storia è una passione necessaria. Come in fondo è necessario questo Primo Maggio che fin dalla prima volta, nel 1890, fu presentato come “la Pasqua dei Lavoratori”, “la Pasqua degli sfruttati”, “a‘ Pasca ‘e chi è nnato a stentà”, perché, sancì Andrea Costa nel 1892, “c’è una Pasqua per i cattolici, ci sarà, d’ora in poi, una pasqua per i lavoratori”. Parafrasando Marx, uno spettro si aggira (ancora) per l’Europa, lo spettro… del Primo Maggio.