Ma mi faccia il piacere

Voce del verbo pagare. “I giudici che sbagliano devono pagare” (Matteo Salvini, Lega, vicepremier e ministro dell’Interno, Il Dubbio, 26.4). Quarantanove milioni in comode rate di 79 anni.

Il dito nell’Ocse. “L’Ocse critica il reddito di cittadinanza: ‘Troppo elevato’” (Corriere della Sera, 26.4). Allora facciamo così: quelli dell’Ocse prendono il Reddito di cittadinanza e gli italiani poveri prendono lo stipendio medio dell’Ocse.

Duce tu sei la Luce. “‘Dalle parole ai fatti’: più che uno slogan è il simbolo della politica di Salvini… Né le inchieste né i tentennamenti della maggioranza lo smuovono” (Tg2, citato da www.nonleggerlo.it, 18.4). Dal Vangelo secondo Sangiuliano.

Colpa di Virginia. “La Roma oggi ha pareggiato con l’Inter… non male, ma non bene! Forse anche questo però è colpa della pessima gestione della città, del traffico impazzito, del caos e dei cassonetti fetidi e puzzolenti, dannosi per la salute… tutti sotto stress!” (Paola Binetti, senatrice Noi con l’Italia, Twitter, 21.4). Quando la Roma pareggia o perde è colpa della Raggi. Invece quando vince è merito della Binetti.

Pisachi? “Tra gli investimenti europei che portano sviluppo in Italia c’è anche la Tav. Un’opera che ora va terminata” (Giuliano Pisapia, ex Democrazia Proletaria, ex Rifondazione comunista, ex Sel, ora Pd, La Stampa, 24.4). Da Democrazia proletaria a Democrazia proprietaria.

Aspirina Radicale. “Radio Radicale è un farmaco. Si tratta di una medicina originale che difende la democrazia. Chiuderla è come togliere dal mercato l’aspirina” (Luca Landò, Repubblica, 26.4). No, è come dire a chi va in farmacia che l’Aspirina deve pagarsela lui, non noi.

Micron. “Giuste le rivendicazioni dei Gilet gialli” (Emmanuel Macron, presidente della Repubblica Francese, 26.4). Ora i discorsi glieli scrive Di Battista.

Speriamo che sia femmina. “Io, costretta a lasciare perchè sono una donna” (Catiuscia Marini, Pd, presidente dimissionaria dell’Umbria, Il Messaggero, 17.4). In effetti è indagata per abuso d’ufficio, favoreggiamento, falso ideologico e materiale: tutti reati al maschile, dunque sessisti.

Pesi massimi. “Mio figlio è andato alla manifestazione (degli ambientalisti con Greta Thunberg, ndr). A casa parliamo di ambiente e sviluppo. Lui sostiene scelte radicali, io spiego la complessità di tali scelte. Felice del suo idealismo. Ma non facciamo i paternalisti rincorrendo Greta. Lasciamo ai giovani lo spazio x i loro ideali” (Carlo Calenda, Pd, Twitter, 20.4). “Picchialo! Buona Pasqua” (Giuliano Ferrara, Twitter, 20.4). “Quello sempre. Di base. Almeno due volte al giorno. Buona Pasqua anche a te”, “Sono anche molto severo. Ieri per l’appunto si è beccato un bel ceffone per aver risposto male alla madre. E gli ha fatto un gran bene”, “Ogni tanto anche un bel calcione nel sedere funziona. Ma dà meno soddisfazione”, “Ceffone ben assestato a adolescente grosso e turbolento… Non farlo quando c’è necessità è una grave responsabilità”, “E ora scusate ma devo andare a picchiare i figli, distruggere videogiochi e rubare uova di Pasqua alle signore anziane. Buona Pasqua” (Calenda, 20.4). Delle due l’una: o Calenda, da piccolo, ha preso troppe botte, o ne ha prese troppo poche.

Pesi minimi. “Piero Pelù, Marco Travaglio, il Fatto Quotidiano, le giornaliste D’Eusanio e Miriano, il Corriere di Caserta, Panorama, il ministro Trenta, la senatrice Lupo, lo chef Vissani” (Matteo Renzi, senatore Pd, elenca i destinatari delle sue ultime querele, Facebook, 17.4). Vedi sopra.

Tutta invidia. “L’Italia a rischio bancarotta. Se la Lega non staccherà la spina sarà corresponsabile dei disastri di un governo che ci sta trascinando nel baratro” (Silvio Berlusconi, FI, Il Foglio, 25.4). Gelosone.

Schifio. “Schifani: chi pensa di cannibalizzare FI si sbaglia di grosso. Meloni? Irriconoscente” (Corriere della Sera, 16.4). Ha parlato il riconoscente che nel 2013 mollò B. per andare con Alfano e poi mollò Alfano per tornare con B.

Il titolo della settimana. “‘Formigoni va liberato’: 3mila firme per la grazia. Il gruppo Facebook dell’amico Cenicola: ‘Petizione a Mattarella, il carcere è spropositato’” (il Giornale, 26.4). Essendo stato condannato a soli 5 anni e 10 mesi di galera per corruzione e concussione per aver intascato appena 6 milioni di tangenti, in un Paese civile sarebbe, come minimo, presidente della Repubblica.

Alla ricerca del tempio perduto: riapre il sito turco di Gobekli Tepe

Nel mese di marzo è stata diffusa la notizia che il sito archeologico di Gobekli Tepe, del quale si temeva fosse per essere chiuso o distrutto, sarà invece aperto alle pubbliche visite. È uno dei luoghi che più desidero visitare. Si trova in quella che attualmente è la parte sud-orientale della Turchia; secondo la geografia del mondo antico, apparteneva alla regione mesopotamica. E non deve meravigliare.

La scoperta del tempio al centro dell’area è, per i tempi dell’archeologia, relativamente recente. Si deve all’archeologo tedesco Klaus Schmidt e risale al 1993. La storia, insieme con le sue dotte teorie cultuali, è raccontata dallo Schmidt, nel frattempo scomparso, in uno straordinario libro del 2007 che una piccola e benemerita casa editrice, Oltre Edizioni, ha tradotto nel 2011, Costruirono i primi templi. E il tempio al centro dell’area ha completamente cambiato le nostre nozioni non solo sull’archeologia, ma sulla stessa storia dell’uomo.

La città organizzata in quanto tale, con “nozze, tribunali ed are”, nasce sempre in Mesopotamia attorno al 4000 a. Ch. Si deve alla civiltà dei Sumeri, dei quali sappiamo non essere di stirpe semitica, come i loro successori Assiri, ma provenire dalla valle dell’Indo prima della discesa degli Indoeuropei. Erano astronomi, ingegneri idraulici, legislatori e inventori della scrittura cuneiforme; e furono i primi a praticare scientificamente l’agopuntura. Ma il tempio di Gobekli Tepe è sicuramente datato al 9500 a. Ch. È una struttura di 300 metri quadrati con enormi blocchi di pietra scolpiti con arte raffinata e persino delicata.

Il primo mistero è sulla tecnica della costruzione: come facevano quegli uomini, i quali giusta la storia “normale” erano ancora cacciatori nomadi, a tagliare, trasportare ed erigere massi di tale grandezza? Eppure sono lì. A questo si aggiunge la tesi, avanzata dallo stesso Schmidt, che le sculture di animali non abbiano una funzione ornamentale, ma siano simboli astronomici – dico astronomici, non astrologici. Più di recente, un astrofisico del politecnico di Milano, Giulio Magli, ha compiuto uno studio affascinante. La posizione delle stalle varia, dalla nostra prospettiva, per i moti dell’asse terrestre. Egli ha ricostruito quale doveva essere la visione del cielo da quel luogo e, appunto, verso il 9500 prima della nostra era. E si è accorto che la stella Sirio, la più brillante di tutto il cielo, è divenuta visibile proprio allora. Poi è scomparsa, e due volte è tornata nella prospettiva. Il tempio era dunque dedicato al culto di Sirio. Verso l’anno 8000 venne ricoperto di terra, evidentemente dagli stessi che l’avevano costruito, erigendo una collina alta 150 metri.

La storia della civiltà, sempre rinnovantesi, ci costringe a spostare sempre più indietro l’epoca dell’origine; o delle origini. Pensiamo che l’Anatolia è anche il luogo di una delle più grandi civiltà antiche, quella degli Ittiti, indoeuropei, dei quali fino a cento anni fa non si sospettava nemmeno l’esistenza. Ebbero relazioni diplomatiche e guerre con l’Egitto, e nei loro archivi leggiamo anche ch’erano in rapporti diplomatici con la città-Stato di Ilio, ossia la Troia donde proviene Enea. La cosa terribile è che l’avanzare della scienza, specie grazie alla libertà di blaterare creata da Internet, fornisce argomenti a quelli sicuri che noi discendiamo dagli “alieni”: e si danno la mano con i fedeli dell’idea che la terra sia piatta. In fondo, negli Stati Uniti milioni di persone credono alla Bibbia e quindi situano la “Creazione” seimila anni fa. Il cardinale Federico Borromeo, tanto caro a Manzoni, era certo che la peste fosse operazione diabolica degli untori; e si urtava con Don Ferrante, che la attribuiva alla congiunzione di Giove e Saturno. L’accanimento nella follia è una delle forze dell’umanità.

 

Uno spettro si aggira per Sanremo: Mina

A fari spenti. Ma la trattativa per incoronare Mina direttrice artistica di Sanremo n. 70 procede. Uno studio legale sta mediando tra la richiesta della Tigre di avere totale libertà di manovra e della Rai di garantirsi un risultato accettabile sulla “visibilità” dell’elusiva vocalist.

L’ipotesi era nata dopo una non casuale dichiarazione di Massimiliano Pani. Un “perché no?” che sapeva di contatti già avviati: solo a quel punto l’ad di Viale Mazzini Fabrizio Salini è uscito allo scoperto. Ora il dialogo si avvia verso il punto di non ritorno. Alla Rai conviene? Sì, per il lustro che Mina conferirebbe a un’edizione celebrativa come quella del prossimo Festival. Nì, perché si legherebbe mani e piedi a Tim (di cui Mina è testimonial), di nuovo sponsor unico: la compagnia telefonica potrebbe togliere residui spazi di investimento agli altri inserzionisti (e nell’ultima kermesse la raccolta pubblicitaria era stata di 25 milioni di euro). No, infine, perché una direttrice artistica che non si fa vedere all’Ariston rischia di rivelarsi un flop. Al massimo, la fantasmatica Mina concederebbe qualche guizzo vocale, mostrandosi in brevi animazioni: una silhouette, un’aliena, vai a sapere. Governerebbe il Festival dall’inviolabile bunker di Lugano, mandando in Riviera il figlio luogotenente, chiamato a smistare le scelte di pezzi e di interpreti, pescati anche tra gli illustri sconosciuti che a Mina e a Pani mandano migliaia di brani. Lodevolmente, madre e figlio li ascoltano tutti (si dice), e qualcuno finisce nei dischi, non sempre memorabili, che la signora sforna con cadenza fiscale. Ma la Rai accetterà di far salire su quel palco alcuni nomi non di primissimo piano? Mettendosi contro le corazzate discografico-manageriali della scena tricolore in nome della Libertà di Mina? Decisione spinosa, ma alla fine i vertici della tv pubblica potrebbero davvero consegnare le chiavi di Sanremo alla Grande Assente, limitando il ruolo dei candidati conduttori.

Dai corridoi di Viale Mazzini trapela il malcontento di Amadeus, che ambisce anche alla direzione artistica, come era stato per Conti e Baglioni. Con Mina immanente plenipotenziaria, a chi affidare l’incombenza di annunciare chi dirige l’orchestra? I bookmaker valutano bene Cattelan, altri sognano il dream team delle comari Venier-D’Urso, ma non sarebbe male far presentare una serata a testa a figure storiche della canzone, affiancate da più giovani colleghi: una conduzione “a turno” con Zanicchi, Pravo, Pooh, Paoli, Cutugno, Albano, in coppia con Pausini, Ferro, Mengoni, Emma, e via elencando. Senza dimenticare la formidabile Vanoni, che ha già bocciato l’idea Mina: “Non può fare la direttrice da casa, anche se per la Rai sarebbe clamoroso. Ma in quel ruolo hai a che fare con scelte non tue”.

E questo è il punto. La vera priorità di Salini e Teresa De Santis è timonare il vascello del Festival lontano dalle acque tempestose delle polemiche, quasi letali per l’edizione 2019. Il ruolo preponderante della scuderia di artisti di Ferdinando Salzano, impresario tra l’altro di Baglioni, aveva indotto molti a dubitare della regolarità della competizione, in un quasi-monopolio nelle scelte di concorrenti e ospiti, poco allineato al costume di spartizione tacita tra i diversi attori (etichette, manager, produttori) di ogni Sanremo. La corazzata Salzano aveva silurato tutti i rivali, che avevano gridato al conflitto d’interessi. Per soprammercato, gli anatemi dello sconfitto Ultimo contro i votanti della Sala stampa e della Giuria di qualità avevano provocato una sollevazione via social un minuto dopo la vittoria di Mahmood, sospetta di essere stata sollecitata per far dispetto a Salvini.

Per questo, l’ad Salini ha convocato il 7 maggio a Milano gli Stati Generali festivalieri. Un tavolo consultivo con addetti ai lavori di riconosciuta onestà intellettuale: operatori, discografici, autori, organizzatori di eventi, e perfino un rappresentante dei vituperati giornalisti. Tra tante voci, spicca l’assenza di Salzano. E incombe l’ombra di Mina, lassù nel Canton Ticino.

“Non sono affatto una diva. Presto farò la regista e temo la cicoria tra i denti”

Il direttore del ristorante romano è agitato, Paola Cortellesi è in arrivo, non resiste, lui ci tiene a offrire la sua classifica delle emozioni: “Qui vengono tanti vippe, ma lei è eccezionale, la numero uno. Posso chiederle una foto?”. Boh, veda lei.

Paola Cortellesi si presenta con mezz’ora di ritardo, è disperata, non ci vuole credere e, mentre toglie il soprabito, riesce a scusarsi tre volte (“detesto queste figuracce, sono una precisa”); poi si siede, e non ha neanche il tempo di prendere cognizione del luogo, che arriva il direttore. “Mi scusi, la posso disturbare per un selfie? Però quando vuole”. “Meglio subito”.

Click. Finalmente è a tavola.

Perché subito? “Dopo temo la cicoria tra i denti, evito di sorridere, preferisco scongiurare questi rischi”. È già successo? “Eh, sì”.

Giudizio del direttore o meno, la Cortellesi è una mano santa per il botteghino e le tv a pagamento, i film con lei protagonista segnano sempre risultati rassicuranti, e anche quest’ultimo, Ma cosa ci dice il cervello ha vinto nel weekend di Pasqua, nonostante un titolo non proprio riuscito; non importa, basta la sua presenza e la regia del marito, binomio già testato più e più volte. Come un gatto in tangenziale è oramai un classico della nuova commedia.

Terminato il pericolo “cicoria”, torna sul ritardo, e per la quarta volta: “Mi dispiace veramente”. Succede. “No, non è proprio da me. Sul lavoro sono rigorosa”.

Rigorosa per indole?

No, a scuola non ero proprio una studentessa modello; lo sono diventata con gli anni, ora ci tengo molto, per questo motivo spesso mi chiamano “signorina Rottenmeier”.

Da chi ha imparato?

All’inizio dal teatro, dove ci sono regole ferree; ai tempi del Sistina se incappavi in un “buco di scena” dovevi dargli la paga della giornata, se arrivavi in ritardo scattava la multa.

A lei è toccato?

Mai… Comunque quella degli attori sregolati è solo una leggenda legata a un’altra epoca.

Professionisti.

Quando lavori con Pierfrancesco Favino affronti solo piacevoli certezze, stessa situazione con Antonio Albanese, Alessandro Gassmann, Claudia Pandolfi e Carla Signoris.

L’arrembaggio è figlio di un’altra epoca.

Secondo me sì, e non è solo questione di età, ma di formazione; e poi non siamo più negli anni Cinquanta, l’epoca dei divi è finita.

Lei non è diva?

Sono solo una con una carriera riconosciuta e riconoscibile.

Nazionalpopolare.

Sì, ma la vera diva non è essere celebri, è atteggiarsi a tale (A tavola arriva la cicoria. “Se finisce tra i denti me lo dovete segnalare, altrimenti è da infami, anzi da merde”. Non sia mai. “Tanto giro sempre con lo spazzolino da denti nello zaino”).

Anche con sua figlia è così attenta?

No! In casa sono disordinatissima, lì entro in una differente dimensione; però uno non può andare in giro, dopo aver mangiato, senza pulizia, è da maleducati.

Giusto.

Oggigiorno una deve dasse ‘na regolata.

In questo film è un agente segreto, sembra Tom Cruise in “Mission impossible”.

E cavolo se mi sono preparata; i saltoni (tipo dalla barca al molo) sono gli stessi suoi, poi ho corso tantissimo, in alcune giornate di ripresa non mi toccava altro.

È credibile.

Davvero? Non mi ci sento mai. Comunque ho imparato a saltare, a rotolare a terra e subito in piedi; poi a tirare di boxe, ad arrampicarmi.

Quando si è rivista?

Sono scoppiata a ridere, e mi capita sempre, perché il senso del ridicolo lo salvaguardo in tutti i modi: aiuta nella vita, altrimenti perdi cognizione della realtà (si ferma). Sento la verdura che si insinua.

Non è così. Stia serena.

Poi fa tanto bene alla salute.

Massimiliano Bruno racconta dei vostri primi anni Novanta: “In scena avremmo dovuto darci un bacio, ma eravamo come fratelli e ci sembrava innaturale; così nel bel mezzo della prova, il teatro venne squassato da una bestemmia del regista”.

Se c’è la bestemmia, so di chi è, ma non pronuncio il nome, altrimenti lei lo scrive e domani il protagonista del fattaccio mi chiama per protestare.

Ma il nome lo ha già rivelato Bruno…

Allora è colpa sua! Tanto Massimiliano nun se tiene un cecio in bocca.

Insomma, il bacio?

Con lui siamo veramente molto amici e da tanto tempo, siamo cresciuti insieme, ci siamo confrontati e spalleggiati, e quando è arrivata quella fatidica scena, la sensazione era di incesto: non potevamo; e in assoluto non sono brava in quelle situazioni.

Non le piace.

Non ci prenderò mai confidenza, e al cinema di scene del genere se ne sono viste talmente tante che o viene fuori una situazione meravigliosa, o preferisco farne a meno.

Si imbarazza.

Tantissimo, e non sempre riesco a evitarle.

La Incontrada non le disdegna.

Vabbè, lo dice per giocare, anche io l’ho dichiarato, ma non è vero. Eppure ho baciato tutti i più fighi…

Dichiariamoli.

Raoul Bova, Alessandro Gassmann, Luca Argentero ben due volte e Alessandro Preziosi.

È curriculum.

Eh, e nonostante tutto mi imbarazzo: sono una cojona.

È pronta per la regia?

Credo di sì, lo voglio; il problema è che non mi sento mai abbastanza preparata, e non mi riferisco all’aspetto tecnico, piuttosto nella comprensione degli attori che amo.

Gli attori secondo lei.

Animali strani, grati ai registi quando sanno dirigere.

Lei è sceneggiatrice del film.

Sì, ma quando sono sul set non importa, voglio avere una guida, voglio rispondere a chi ha una visione d’insieme.

Muccino abbraccia i suoi attori; lei da regista lo farebbe?

Solo se è bono (diventa rossa). Oh, sto scherzando.

Serena Dandini sostiene: “Lei e la Raffaele ribaltano lo stereotipo secondo il quale chi è bello non fa ridere”.

Lei ci vuole molto bene.

Detto questo.

Su Virginia ha ragione, oltre a essere straordinariamente brava, è una ragazza bellissima, con un fisico atletico…

E lei?

Negli anni ho potuto essere carina, quando sono stata ben acconciata da chi sa farlo…

C’è il però.

Non sono mai stata bella, neanche da giovane, una di quelle che entra nella stanza e gli uomini si girano: ero una ragazzona un po’ sgraziata, iper sportiva, senza il visetto dolce, gli occhi chiari e i modi affettati; insomma ero fuori da ogni stereotipo adatto a film o pubblicità.

Eppure.

È stata la mia fortuna: come dicevo prima, se mi mettono su bene divento carina, o bruttissima se serve, buffa quando è utile, mentre se uno in assoluto è bello come il sole, è complicato portarlo fuori da certi binari legati all’estetica.

L’attore è un foglio bianco in mano al regista.

La mia prima insegnante di recitazione ci sconsigliava pure i tatuaggi.

Mimetizzata.

Un esempio? Brad Pitt non può mutare molto, ha i tratti perfetti, gli occhi riconoscibili…

Giusto: che ci facciamo con Brad Pitt?

Non lo puoi imbruttire.

Non lo ha ancora baciato.

No, non mi è mai capitato.

Lo buttiamo via?

No! Nun se butta via niente. Però non è il mio tipo.

No?

Meglio Bruce Willis, più macho (per la cronaca: il marito ha qualcosa di Bruce Willis).

Mina nel 2004 l’ha definita la più bella voce di Sanremo.

Lo scrisse in una sua rubrica su La Stampa. Quel pezzo l’ho incorniciato e attaccato in cameretta, io che in casa non tengo nulla, nemmeno i David di Donatello.

Nulla.

No, altrimenti uno diventa come Manuel Fantoni (personaggio in Borotalco di Verdone celebre perché millantava amicizie importanti). Quando ho saputo di Mina neanche ci credevo, ero convinta fosse uno scherzo di Rocco Tanica e Furio Andreotti.

Ma era su un articolo di giornale.

Appunto, ero convinta avessero stampato un giornale finto. Questa è la mia autostima.

Resta il giudizio di Mina.

Il problema è che da ragazza non avevo il fuoco dentro per la musica; un giorno un produttore mi disse: “Decidi quale genere musicale vuoi cantare, e punta su quello”. Ecco, non lo sapevo, quindi mi sono buttata sull’attrice.

Quanti Manuel Fantoni ha conosciuto?

Ce ne sono, ma non del livello meraviglioso raggiunto con Carletto (Carlo Verdone); il suo è il massimo.

Va al supermercato?

Sì, tranquillamente, nel mio quartiere oramai mi conoscono tutti, passo quasi inosservata.

Quasi.

Ogni tanto qualcuno mi indica e spara la solita frase: “Guarda, fa la spesa!!!”. E io gli rispondo: “Sì, anche io me devo alimentà”.

Cucina anche, dicono bene.

Mi piace tantissimo, specialmente quando ci sono gli amici; peccato, non capita spesso, quando giro la sveglia è alle cinque del mattino e al massimo la sera mangio in maniera grigia, da ospedale, magari una sogliola.

Un collega che stima.

Ecco, ora scattano i nomi e rischio di offendere qualcuno.

Un inattaccabile.

Rosario Fiorello, l’altra settimana sono andata in trasmissione da lui (Il Rosario della sera) ed è stato divertimento puro, avrei proseguito per ore.

(Squilla il suo cellulare. È casa. La figlia sta preparando una recita scolastica, interpreta un topino quando avrebbe preferito il ruolo da principessa).

E lei, tra topino e principessa?

Il topino tutta la vita per il timore della parte da principessa, ma con il desiderio di farla.

Si sarebbe nascosta?

È paura di andare in scena.

Da quella non si scappa.

Resta per sempre: ricordo una sera prima di un debutto, io con Dario Fo, lui già 89enne, già Nobel, eppure per la tensione mi ha stritolato la mano fino all’apertura del sipario; quel momento mi ha emozionato più di tutto il resto delle spettacolo, e ancora oggi mi commuove quando ci penso.

Secondo molti critici lei è ancor più brava come attrice drammatica.

Mi fa molto piacere, però non credo esistano soltanto parti drammatiche o comiche: nei nostri film ci sono sempre delle dosi di malinconia, si ride sempre delle miserie.

Monicelli insegna.

E questo stiamo cercando di portare avanti, non al loro livello, ma su quel filone.

Manca il loro cinismo.

Un po’ è così.

Vede mai i suoi film in sala?

Per forza, devo capire come reagisce il pubblico, mica siamo a teatro dove il “polso” è immediato; quindi mi infilo di nascosto tra le ultime file e ascolto le risate o i mugugni.

Chi riesce a strapparle una risata?

Nella vita di tutti i giorni?

Va bene.

Allora Massimiliano Bruno: per me è importantissimo, rappresenta quell’amico in grado di sdrammatizzare le situazioni, in grado di ascoltarti, di affrontare i rodimenti di culo altrui, e non è comune.

Al cinema?

Ci sono film di Carlo Verdone, come Borotalco, che conosco a memoria, e quando mi sono ritrovata sul set con lui, e mi trattava da collega, restavo in silenzio per rendermi conto della situazione. Non ci credevo. Ero terrorizzata.

Come ha risolto?

Quando sono in crisi penso sempre a Roger Rabbit e alla scena di “ammazza la vecchia”. Quella mi rilassa; sorrido, mi calmo, e tutto ha inizio.

(Tra il topino e la principessa, con lei vince il coniglietto).

 

Bolsonaro (se) la prende con Filosofia

La filosofia? Inutile. L’ultimo a sostenerlo è il presidente del Brasile Jair Bolsonaro, che in un tweet annuncia: “Il ministro dell’Istruzione sta studiando la decentralizzazione degli investimenti dalle facoltà di filosofia e sociologia… L’obiettivo è concentrarsi su materie che generano un ritorno immediato per il contribuente, come veterinaria, ingegneria e medicina”.

Già Aristotele pensava più o meno lo stesso – “conoscere solo al fine di sapere e non per conseguire qualche utilità pratica” –, solo che per lui l’inservibilità della metafisica la rendeva libera e prima tra le scienze. Bolsonaro si sarà fermato a pagina due, ma tant’è: “Il ruolo del governo è rispettare il denaro del contribuente, insegnando ai giovani a leggere, scrivere e fare di conto e aiutandoli a trovare un lavoro che generi reddito per loro, le famiglie e la società”. Seguono rinforzi – degni di cotanto, muscolare governo – da parte del neoministro dell’Istruzione Abraham Weintraub (in carica dall’8 aprile, dopo che il predecessore Ricardo Vélez è stato silurato perché “onesto, ma incapace”): “Puoi studiare filosofia? Puoi. Con i soldi tuoi”.

Immediata e indignata la reazione di intellettuali e vip, come l’attrice Cláudia Abreu, laureata appunto in teoretica, e come l’Associazione nazionale dei dottorati di ricerca in filosofia (Anpof): “Le dichiarazioni di ministro e presidente rivelano una totale ignoranza: inaccettabile in persone che rivestono incarichi pubblici così importanti per il futuro del Paese… Il riflesso delle scienze umane e sociali è fondamentale… È vergognoso che queste discipline siano considerate un lusso, che si può tagliare in tempi di crisi o declassare per motivi politico-ideologici”.

Sono lontani i tempi in cui Dilma Rousseff prometteva di portare i finanziamenti di istruzione ed educazione al 10% del Pil entro il 2020; eppure, va detto, il Brasile rimane un Paese virtuoso, investendo solo a livello federale (quindi escluse le tante scuole e università sovvenzionate da Stati e Comuni) oltre il 5,5% del Pil (l’Italia è al 3,5%, ndr); il ministero preposto ha cioè a disposizione quasi 3 miliardi di dollari. L’istruzione superiore, inoltre, è gratuita in tutte le istituzioni pubbliche (Università federali e statali, Istituti, Centri tecnologici), che godono, internazionalmente, di “ottima reputazione”: lo dice un report del Politecnico di Milano, che elogia pure la ricerca, il costante incremento degli addottorati e il programma “Ciência sem Fronteiras”, promosso sempre dalla Rousseff nel 2011 per stanziare borse di studio e incoraggiare gli studenti a perfezionarsi all’estero, proprio in quelle discipline scientifiche e pragmatiche tanto care a Bolsonaro, dall’Ingegneria alle Scienze della salute e biomediche.

Il piano sarebbe piaciuto a un altro filosofo (ai filosofi, a differenza dei premier, piace un po’ tutto), Platone, tanto che fuori dall’Accademia affisse un minaccioso cartello: “Non entri chi non è geometra”. Pure Nietzsche avrebbe avuto da ridire sull’utilità ma, soprattutto, sul danno della storia, e delle scienze umane, sulla vita: d’altronde, “ci sono più cose in cielo e in terra di quante ne sogni la filosofia”. Perché dunque insegnarla, studiarla, foraggiarla, incentivarla? È giusto “un prurito” (© Wittgenstein): lasciamolo lì; al più, grattiamolo via.

Conte ad al Sisi: “Senza verità su Regeni non avremo pace”

Irritatissimo appare Giuseppe Conte quando nella conferenza stampa tenuta a Pechino – dove si trova per il Belt and Road Forum for International Cooperation – deve affrontare il caso Regeni. Il premier racconta di aver appena incontrato il presidente egiziano al-Sisi, e di aver discusso della terribile vicenda. Ieri è stata pubblicata una lettera di Paola e Claudio Regeni, genitori del ricercatore triestino assassinato tra il gennaio e il febbraio del 2016. “Quella lettera di chi ha perso un figlio in quel modo, è terribile – ha raccontato Conte –. Racconta circostanze e dettagli che mi hanno turbato. Quando ho incontrato al-Sisi gli spiegato che gli parlavo di Giulio non per mera ritualità, ma per una mia personale attenzione, quella del governo e di tutta la popolazione italiana. L’Italia non potrà mai ritrovare pace finché la vicenda non sarà chiarita, finché non ci sarà una verità acclarata che regga sul piano giudiziario”.

Insomma l’Italia non è contenta di come l’Egitto sta gestendo le cose: “Gli ho manifestato tutta la mia insoddisfazione. Non c’è stato nessun concreto passo avanti. E gli ho detto che l’Italia non verrà mai meno all’impegno di cercare la verità, fatta di rilievi oggettivi e inoppugnabili”. L’Italia quindi non si accontenterà di una verità di comodo che lasci impuniti i veri responsabili dell’omicidio del ricercatore: “Vogliamo riscontri plausibili e oggettivi”.

Al-Sisi ha replicato a Conte che le investigazioni continuano ma dalle parole del premier è apparso chiaro che non ci sono grandi aspettative. In riferimento alle dichiarazioni di Di Maio di qualche tempo fa che aveva minacciato ritorsioni diplomatiche ed economiche, Conte non ha mostrato grande fiducia. “Non abbiamo strumenti diretti per ottenere una verità giudiziaria – ha spiegato – anche la nostra magistratura ha avviato un dialogo con quella egiziana, ma non abbiamo nessun mezzo per sostituirci al potere giudiziario di quel Paese. L’unica cosa che possiamo fare è continuare a fare pressioni sul presidente al-Sisi e cercare di esercitare su di lui tutta l’influenza possibile”. Con il presidente egiziano, che governa il suo Paese con il pugno di ferro e reprime ogni dissenso con la forza riempiendo le galere di oppositori, dissidenti, contestatori e critici, Conte ha affrontato anche il problema della guerra in Libia. Al-Sisi, assieme a Russia, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita e Francia sostiene il generale della cirenaica Khalifa Haftar che dal 3 aprile sta cercando con la forza di conquistare Tripoli. L’Italia invece è schierata, assieme a Gran Bretagna, Unione Europea, Qatar, Turchia e movimenti islamisti, con il governo di Fayaz Serraj, riconosciuto dall’ONU. Gli Stati Uniti, dopo che Donald Trump – cambiando alleanza – ha manifestato il sostegno a Haftar abbandonando Serraj, non si sa bene da che parte stiano. L’Italia sembra che sia rimasta disorientata dal cambio di rotta di Washington. Haftar ha chiesto il ritiro del piccolo contingente italiano (400 uomini) che proteggono l’ospedale organizzato dal nostro Paese a Misurata. “Il nostro personale – ha assicurato Conte – non fornisce alcun supporto militare ai combattenti. Aiutiamo la popolazione e i feriti da entrambe le parti. Anzi, poiché siamo in una zona controllata dal governo di Tripoli abbiamo offerto ai feriti di Haftar la possibilità di raggiungere il nostro ospedale via mare. I nostri medici sono a disposizione di chiunque ne abbia bisogno”. Secondo Conte “Al-Sisi è preoccupato dalla possibilità di infiltrazioni di miliziani dell’Isis o di Al Qaeda in Egitto, ma ha assicurato che non interverrà mai direttamente; non intende farsi coinvolgere”. Probabilmente è vero che truppe egiziane non andranno mai a combattere al fronte ma, secondo fonti diplomatiche contattate dal Fatto Quotidiano, da tempo consiglieri e istruttori militari inviati dal Cairo sono già presenti nelle retrovie a fianco dei soldati di Haftar.

Raid nel covo jihadista: 15 morti, 6 bambini

È trascorsa una settimana dagli attentati jihadisti che hanno devastato lo Sri Lanka, ma la tensione anziché scemare è andata aumentando. Nella notte tra venerdì e sabato 15 persone, fra cui sei bambini, sono state uccise nel corso di un blitz della polizia in alcune abitazioni private. A provocarne la morte sarebbero stati alcuni kamikaze che si trovavano con le vittime in quanto membri dei nuclei familiari residenti in queste case o perché vi erano entrati per trovare un nascondiglio. Il raid è avvenuto nella città di Kalmunai, nell’est del Paese: l’omonima provincia, principalmente abitata da musulmani, è la zona di provenienza di Zahran Hashim, il jihadista morto come kamikaze all’hotel Shangri-La sospettato di avere organizzato gli attacchi che hanno preso di mira chiese cristiane e hotel di lusso provocando 253 morti. L’operazione seguiva un’informazione secondo cui degli estremisti legati agli attentati di Pasqua erano nascosti a Kalmunai, a 370 chilometri dalla capitale. A raccontare la dinamica è l’esercito: uomini armati hanno aperto il fuoco sulle forze dell’ordine che tentavano l’assalto alla casa, approfittando del buio. All’interno dell’abitazione sono stati trovati esplosivi, un generatore, un drone e una grande quantità di pile. Alcuni residenti hanno raccontato che, mentre i raid erano in corso, circa 600 musulmani sono fuggiti dall’area e si sono rifugiati in una scuola. Venerdì in un altro blitz, a Sammanthurai, erano stati sequestrati esplosivi e una bandiera dell’Isis nella casa in cui si ritiene sia stato girato il video della rivendicazione degli attentati diffuso via internet da Amaq, il sito di riferimento dell’Isis. Finora sono circa 74 le persone arrestate in relazione agli attacchi.

L’esercito sta facendo perquisizioni a tappeto per prevenire nuovi attentati, una probabilità che le cancellerie di molti Paesi ritengono realistica e, per questo, sconsigliano vivamente ai propri cittadini di recarsi nell’isola. Ieri anche gli Stati Uniti si sono aggiunti alla lista. “I musulmani fanno molti più figli di noi cristiani e di conseguenza il loro numero è aumentato anche qui. Ma le autorità erano troppo impegnate a litigare tra di loro per sprecare il loro tempo a verificare se gli avvertimenti arrivati dall’estero fossero concreti. A meno che non facesse comodo a qualcuno di loro che questa strage accadesse. Proprio perché noi cristiani non contiano più nulla, forse qualcuno ha pensato di poterci sacrificare per ottenerne vantaggi politici”, dice Dilan, un giovane cingalese neolaureato in teologia che chiede non venga rivelato il cognome. La comunità cristiana è sgomenta ma è troppo esigua per avere la forza di boicottare le autorità. L’11 aprile il capo della polizia aveva emesso un’allerta sulla base di informazioni di intelligence, ma né il premier né la maggior parte dei ministri erano fra i destinatari. Dall’anno scorso è in atto un’aspra lotta di potere fra primo ministro Ranil Wickemesinghe e il presidente Sirisena, che è anche ministro dell’Interno e della Difesa. Il presidente Sirisena in quanto titolare dei due principali dicasteri del governo cingalese avrebbe dovuto essere informato dalla polizia per primo, ma lui nega. Dallo Sri Lanka all’Europa: “A Bruxelles e a Liegi ci sono rientri praticamente ogni settimana. I reduci fanno proselitismo e sono pronti a colpire di nuovo, se riceveranno l’ordine di farlo”, ha detto all’Adnkronos Redouane Ahrouch, fondatore di ‘Islam’, un piccolo partito islamico belga con una presenza concentrata nelle municipalità a densa presenza musulmana.

Trump e il trattato sulle armi: “Non vale più”. La lobby esulta

Col senso dello spettacolo che lo caratterizza, Donald Trump firma l’atto che vincola gli Stati Uniti a ritirarsi dal trattato sul commercio delle armi davanti alla convention annuale della National Rifle Association, la Nra, lobby delle armi: ora, il presidente chiederà al Senato di bloccare il processo di ratifica.

Il trattato, entrato in vigore nel 2014 e già ratificato da 101 Stati, regola il commercio internazionale delle armi convenzionali. Dal punto di vista del disarmo, questa decisione di Trump è meno grave del ritiro degli Usa del trattato sugli euromissili o dall’accordo con l’Iran sul nucleare, ma suscita comunque timori e interrogativi. Il commercio internazionale delle armi convenzionali è stimato circa 70 miliardi di dollari l’anno, secondo fonti dell’Onu.

Entusiasta, ovviamente, la reazione del pubblico della Nra. Trump, più candidato che presidente, blandisce l’audience di Indianapolis: “Il secondo emendamento della Costituzione non si tocca”, assicura, riferendosi al diritto di possedere armi da fuoco. E aggiunge: “Quando le armi sono fuorilegge, solo i fuorilegge hanno le armi”, accusando i radicali di volere levare le armi agli americani. Trump accompagna l’abbandono del trattato con il rilancio della proposta alla Russia di negoziare un nuovo accordo per il controllo delle armi nucleari. Il Cremlino non si mostra contrario, ma precisa che l’idea “non può ancora essere considerata una iniziativa seria, perché priva al momento di ogni dettaglio”: parole del portavoce di Vladimir Putin, Dmitri Peskov, che è a Pechino, dove c’è il forum sulla nuova Via della Seta, la Belt and Road Initiative.

L’ATT, Arms Trade Treaty, rappresenta un tentativo di regolamentare il commercio internazionale delle armi convenzionali. Fra i 101 Paesi che l’hanno ratificato, c’è l’Italia con tutti quelli dell’Ue; e ce ne sono decine, fra cui appunto gli Stati Uniti, ma anche Israele, che l’hanno firmato, ma non ratificato. I negoziati si svolsero a New York e a Ginevra tra il 2012 e il 2013, in una conferenza globale sotto l’egida delle Nazioni Unite. Il 2 aprile 2013, il Trattato fu approvato dall’Assemblea generale dell’Onu.

La Cina e la Russia, ma anche l’India, l’Indonesia e altri Paesi asiatici e i Paesi arabi s’astennero, Corea del Nord e Iran votarono contro. La partecipazione alla convention della Nra, che ha 5,5 milioni di iscritti, è stata un’occasione per il presidente candidato di fare un bagno di folla fra i suoi sostenitori, di esaltare i dati dell’economia cresciuta nel primo trimestre 2019 del 3,2%, più del previsto, e di tornare sull’esito dell’inchiesta sul Russiagate: “Hanno tentato di fare un colpo di Stato, ma non ci sono riusciti. Dunque, non ho bisogno di una pistola”, ha detto, facendo ridere il suo pubblico.

C’è da scommettere che Trump tornerà a parlare alla Nra l’anno prossimo, a sei mesi più o meno dall’Election Day del 3 novembre. Ma, stavolta, è stato lui a dare una mano all’Associazione, invece del contrario. La Nra è nelle peste: i capi sono l’un contro l’altro armati – è il caso di dirlo –, l’amministratore delegato Wayne LaPierre è ai ferri corti col presidente Oliver North, il colonnello dello scandalo Iran-Contra degli anni Ottanta. La convention di Indianapolis e le sortite di Trump coincidono con l’allarme lanciato dal capo dell’Fbi Christopher Wray: Mosca si prepara a interferire sul voto del 2020 come fece nel 2016. Marco Rubio, senatore della Florida, repubblicano, ha appena denunciato che hacker russi violarono il sistema elettorale nel suo Stato, dove Trump batté Hillary Clinton con appena l’1,2% di margine. Robert Mueller, il procuratore speciale del Russiagate, parla nel suo rapporto di software utilizzati per il voto in Florida e manomessi da hacker russi.

Gilet, prova generale del 1° maggio

Le misure annunciate da Emmanuel Macron giovedì scorso non sono bastate: i gilet gialli sono tornati nelle strade ieri per l’atto 24 della protesta ma questa volta con loro c’erano anche i sindacati dei lavoratori e degli studenti e i responsabili della sinistra radicale e ecologisti. Una sorta di prova generale della grande manifestazione del primo maggio, a cui Parigi guarda con sospetto. Dopo un sabato di relativa calma è mercoledì prossimo che si teme il ritorno dei black bloc. Il discorso di Macron, seguito in diretta tv, non ha convinto. “Non ha ascoltato ciò che gli diciamo nelle strade da 5 mesi – ha detto Maxime Nicolle, uno delle figure più radicali della protesta in giallo – pensa di accontentarci con quattro briciole concesse ai pensionati”. Ingrid Levavasseur è “delusa”: “Prima di aumentare il tempo di lavoro, Macron dovrebbe creare lavoro. Dove sono le riforme d’urgenza?”. Priscilla Ludowski ha risposto pubblicando su Facebook la liste delle date delle prossime manifestazioni. Con loro ormai c’è la CGT: “Le misure elencate da Macron sono solo cosmetiche, c’è un abisso tra le sue conclusione e le attese”, ha comunicato il sindacato. Ieri la “capitale” dei gilet era Strasburgo. È qui che si sono registrate tensioni, con le forze dell’ordine che hanno bloccato con i lacrimogeni il corteo di circa 2.000 manifestanti che volevano raggiungere il Parlamento Ue. A Parigi è sulla place de la République che sono confluiti i cortei. Non più di 3.000 persone. Tra loro, anche Jean-Luc Mélenchon, leader della France Insoumise.