Fischiato il prefetto che aveva autorizzato il corteo fascista. Lui denuncia i contestatori Anpi

Durante la manifestazione del 25 Aprile hanno fischiato e chiesto le dimissioni di prefetto e questore per aver autorizzato il corteo di Forza Nuova di fine marzo. Per questo i militanti dell’Anpi di Prato sono stati denunciati dal questore Alessio Cesareo con l’accusa di vilipendio nei confronti delle istituzioni. L’annuncio è stato dato in un telex “urgente” inviato dalla Questura di Prato al ministero dell’Interno proprio giovedì scorso e la denuncia è già arrivata in Procura: adesso il Procuratore Giuseppe Nicolosi sta valutando se ci siano gli estremi per aprire un’indagine.

Nella lettera inviata al Viminale il questore Cesareo denuncia i cori (“vergogna!”, “dimissioni, dimissioni”), i fischi e i cartelli (sequestrati) definiti “non rispondenti alla solennità della manifestazione”. Non solo: secondo la Questura i circa 50 militanti avrebbero la colpa di aver intonato cori per “chiedere le dimissioni del prefetto” e “alcuni canti tipici della lotta partigiana”. Il motivo della contestazione era chiaro: a metà marzo il prefetto Rosalba Scialla aveva autorizzato il corteo nazionale di Forza Nuova per il centenario dei Fasci di Combattimento a cui avevano partecipato solo 150 militanti contro i 3.500 scesi in piazza lo stesso giorno per ribadire l’antifascismo di Prato. Eppure i metodi della contestazione non sono piaciuti né al sindaco Matteo Biffoni (“non è questo il modo”) né al candidato del centrodestra, Daniele Spada, che ha parlato di atto “vergognoso e inaccettabile” da parte di “agitatori che soffiano sul fuoco delle divisioni ideologiche per alimentare tensioni di cui a Prato non abbiamo bisogno”.

L’Anpi locale invece ieri ha definito la denuncia del questore “ridicola e intimidatoria” perché “se si denunciassero i fischi alle iniziative pubbliche tutte le procure sarebbero intasate di lavoro”.

“No africani alla maratona”, poi dietrofront. Ma il problema sono i soldi ai manager

Prima no agli africani alla maratona di Trieste, poi il passo indietro in serata. Per alcuni era razzismo, per altri era diventato un caso politico nazionale, col sottosegretario Giancarlo Giorgetti che aveva parlato addirittura di “scafisti dello sport”, mentre il vicepremier Luigi Di Maio ha risposto dicendo che “è giusto combattere lo sfruttamento dei corridori africani ma non è escludendoli da una gara che si risolve il problema”. Forse, però, era soprattutto una questione di soldi e competitività.

La polemica è esplosa a Trieste per la decisione del Presidente di Apd Miramar, Fabio Carini, di escludere gli atleti africani dalla “Trieste Running Festival” che si terrà dal 3 al 5 maggio. O meglio: più che di esclusione, si trattava di mancato ingaggio. Gli organizzatori avevano deciso di non fare offerte per avere atleti forti dall’Africa. Avrebbero potuto iscriversi autonomamente, ma ovviamente senza una “borsa” è difficile che lo avrebbero fatto. “Era una provocazione su un tema etico fondamentale – ha detto Carini – inviteremo anche gli atleti africani”.

La scelta era stata comunque concordata con la Regione Friuli Venezia Giulia governata da Massimiliano Fedriga della Lega, per cui Carini non ha mai nascosto le sue simpatie: “Finalmente!”, commentava su Facebook la scorsa estate dopo il blocco della nave Aquarius e i “porti chiusi”. Alle amministrative del 2016 aveva pure tentato di candidarsi con la lista Startup Trieste: “No all’accoglienza indiscriminata”, uno degli slogan.

Ma qui non si tratta di una questione politica, non soltano almeno. Carini aveva spiegato di voler “fermare il mercimonio di atleti africani di altissimo valore che vengono semplicemente sfruttati”. Il sistema delle gare di atletica in Italia è complesso: per aumentare il livello, gli organizzatori cercano di ingaggiare gli atleti migliori, proposti da alcuni manager, che contrattano ingaggio, premi e anche la loro “parcella” (di solito si aggira intorno al 15% del totale). Quando si parla di maratona, spesso i più forti sono africani: Kenya, Etiopia i Paesi con più tradizione, ma anche Uganda e Burundi. Per correre è necessario il nullaosta del consolato del Paese di provenienza e poi della Fidal (Federazione Italiana di Atletica Leggera), quindi del Coni. Una lunga catena, in cui lo sfruttamento di giovani africani, molto dotati nella corsa, in grado di alzare il livello di una maratona ma magari non di sfondare come atleti, esiste. Il Fatto, tramite l’allenatore Giuseppe Giambrone, ha contattato Olivier Irabaruta, vincitore della scorsa edizione, originario del Burundi dove si trova al momento: “Fino al 2014 faceva il militare nel suo Paese, da cinque anni è arrivato in Italia per correre. Si alleno al Tuscany Camp di San Roccò a Pilli (Siena), dove ha anche imparato l’italiano”, racconta il tecnico. “Non sono certo sfruttato”, dice lui, pur non sentendosi completamente di escludere la possibilità che a qualcun altro sia andata peggio. Intanto la Maratona di Trieste ha fatto marcia indietro, la Procura Federale ha aperto un’inchiesta per capire se siano stati violate norme o regolamenti delle gare. Un problema evidentemente esiste. Ma forse non è il razzismo.

Roma, spari alla Garbatella, fermato un pregiudicato

Un romano di 41 anni è stato colpito ieri nel quartiere Garbatella da colpi di arma da fuoco nelle prime ore del mattino. Gli agenti della Squadra Mobile, delle Volanti e del Commissariato Colombo, intervenuti sul posto, lo hanno trovato riverso a terra con accanto la madre, accorsa dopo aver udito da casa il colpo. La vittima è stata trasportata all’Ospedale San Camillo dove, a seguito di intervento chirurgico per una pallottola che l’aveva colpita all’addome senza fuoriuscire, è tutt’ora ricoverata in prognosi riservata. Gli agenti della Polizia di Stato hanno individuato e sottoposto a fermo per tentato omicidio, un pregiudicato romano di 43 anni, rintracciato presso un condominio limitrofo mentre tentava di nascondersi nel sottotetto dello stabile dove abita. Dalle ricostruzioni, gli investigatori hanno accertato che la sparatoria era avvenuta nei pressi dell’abitazione della vittima, con la quale l’uomo si era poco prima incontrato. Ulteriori accertamenti gli hanno consentito di risalire all’arma utilizzata: una pistola modello Walther P38, calibro 9 x 21, rinvenuta in un’insenatura del fiume Tevere.

Estradizione: il trattato c’è, ma non è operativo

La neverending story del trattato di estradizione e assistenza giudiziaria tra l’Italia e gli Emirati Arabi Uniti si snoda tra poche novità e piccoli colpi di scena. Nell’ottobre 2018 il Senato ha dato l’ok all’ultima stesura. Nel febbraio scorso anche da Dubai è arrivata l’approvazione. Però non è ancora avvenuto lo scambio degli strumenti di ratifica. Dovrebbe compiersi attraverso le vie diplomatiche ed in mancanza di quest’ultimo passaggio tra i rappresentanti delle cosiddette “autorità centrali”– per l’Italia il ministero di Giustizia retto da Alfonso Bonafede – il trattato non è esecutivo. Per la gioia della quindicina di latitanti vip che al sole di Dubai hanno trovato riparo dalle loro disavventure giudiziarie, aprendo locali e impiantando affari. Imperiale è solo uno dei tanti e nemmeno il più noto. In questa speciale classifica primeggia l’ex deputato di Forza Italia Amedeo Matacena, condannato in via definitiva nel 2013 per concorso esterno in associazione mafiosa. E negli Emirati si era rifugiato Giancarlo Tulliani, il cognato di Gianfranco Fini, entrambi rinviati a giudizio per riciclaggio per l’ormai famosa vicenda della casa di Montecarlo.

L’ultima e si spera definitiva versione del trattato ha risolto alcune lacune del testo dell’accordo sottoscritto nel 2015 dal governo Renzi dopo una laboriosa trattativa condotta dal ministro della Giustizia Andrea Orlando. Mancavano i chiarimenti necessari quando nell’altro stato è in vigore la pena di morte. Come è noto, in virtù di un principio costituzionale, l’Italia non concede l’estradizione di persone destinate ad essere giustiziate se prima non ha assicurazioni sulla commutazione della pena. Assicurazioni non generiche, ma una decisione definitiva dello stato richiedente che attesti che non sarà applicata la pena di morte sulla persona estradata.

Un passaggio non semplice da mettere nero su bianco con sufficiente chiarezza. Ciò ha consentito alle autorità di Dubai di nicchiare per anni. E comunque, ricorda una fonte investigativa, in assenza di trattati bilaterali, i latitanti pericolosi potrebbero comunque essere estradati attraverso i comuni strumenti di cooperazione internazionale giudiziaria. Gli stessi che il 12 luglio 2014 consentirono alla Spagna di chiedere e ottenere una misura cautelare provvisoria di Imperiale a Dubai. Era accusato di narcotraffico internazionale tra la Colombia, Madrid e Napoli nell’ambito dell’operazione “Tarantella”, condotta dalla Guardia Civile e dal Cuerpo Nacional de Policia spagnole, che colpì 32 persone e culminò nel sequestro di quasi tre tonnellate di cocaina colombiana. La droga arrivava a Napoli attraverso i porti spagnoli di Algesiras e Tarragona, e i guadagni della holding venivano riciclati in ristoranti madrileni dai nomi napoletani: “Bella Napoli”, “Totò e Peppino”. Imperiale si fece 40 giorni di comodi arresti domiciliari prima che le autorità spagnole mollassero la presa: il giudice non convalidò 30 arresti. All’epoca “Lelluccio Ferrarelle” si faceva chiamare Rafael Empire ed era titolare di una società di investimenti. La stampa spagnola lo definiva, esagerando, “capo de capos de la camorra y principal objetivo de la operación Tarantela”. Da allora sarebbe cambiato poco o nulla. Imperiale è sempre lì, a macinare affari tramite una decina di conti correnti che gli inquirenti italiani hanno chiesto invano di sequestrare. Ora si starebbe muovendo nel settore del gas naturale. Un intoccabile. Finora. Dubai non ha mai estradato in Italia chi produce ricchezza sul proprio territorio.

Raffaele “Amazon” è il re della coca e se ne sta a Dubai

Il riassunto efficace è nelle parole di un inquirente: “Raffaele Imperiale è l’Amazon della droga a Napoli”. In questa frase è spiegato tutto: capacità di rifornimento illimitate, diffusione universale, certezza e rapidità della consegna all’ingrosso a clienti fedeli e affezionati, i broker delle “paranze” napoletane della camorra, che a sua volta la vende al dettaglio tra piazze e vicoli.

L’Amazon degli stupefacenti è un signore di 45 anni originario di Castellammare di Stabia (Napoli) che dal 2016 vive una latitanza dorata a Dubai, in un albergo extralusso da 4.000 euro a notte, finora protetto dall’assenza di trattati di estradizione efficaci tra l’Italia e gli Emirati Arabi Uniti. E da lì continua a gestire i suoi affari. Imperiale, detto “Lelluccio Ferrarelle” in ricordo dei suoi esordi onesti da distributore di acque minerali, è ritenuto il narcos più potente d’Europa, il punto di riferimento dei traffici di droga di mezzo mondo, e di lui si è tornata a occupare pochi giorni fa la Procura di Napoli guidata da Giovanni Melillo.

Un’ordinanza di dieci arresti in carcere e cinque ai domiciliari firmata dal Gip Annalaura Alfano ed eseguita dai pm anticamorra Maurizio De Marco e Vincenza Marra contro lo spaccio a Napoli, indica Imperiale come superbroker delle forniture di quintali di cocaina al pentito Andrea Lollo e a Raffaele Scognamiglio. A tenere i contatti tra Napoli e Dubai provvedeva Massimo Liuzzi, “referente locale dell’organizzazione di narcotraffico internazionale di Raffaele Imperiale”, che poteva contare su un altro uomo del territorio, Marco Simeoli. La voce di Imperiale, che per cautelarsi aveva consegnato ai suoi rivenditori dei cellulari Blackberry con una app utile a schermare le conversazioni, è stata comunque intercettata. E ascoltandolo, la Procura è convinta che i suoi affari siano sempre in corso. Imperiale è in fuga dal gennaio 2016. Era l’undicesimo e ultimo nome di una lista di arresti contro il traffico di droga del cartello degli Scissionisti, il clan Amato-Pagano, che arrivarono al culmine di quattro anni di indagini di una task force di poliziotti della Narcotici e finanzieri del Gico. Fu l’unico a evitare la cattura, era a Dubai già da quasi 10 anni. I pentiti raccontarono che il gruppo gestito da Imperiale e dal suo socio Mario Cerrone era già all’epoca in grado di trattare circa 4.000 chili di cocaina all’anno. Acquistata a 20 mila euro al chilo e poi rivenduta a 42 mila euro al chilo. Intorno a questi guadagni spaventosi si consumò la scissione tra gli Amato-Pagano e il clan Di Lauro di Scampia, e le faide che ne seguirono.

Su Imperiale grava la misura cautelare e una condanna in appello a 8 anni (in primo grado erano 18). La sua è una storia che parte da lontano. Figlio di Ludovico Imperiale, un imprenditore edile con interessi nelle concessionarie d’auto e nelle assicurazioni rca, e che fu presidente della Juve Stabia insieme a Renato Raffone detto ‘Battifredo’, boss del clan D’Alessandro poi condannato a venti anni per associazione camorristica, da ragazzino subisce la traumatica esperienza del sequestro. Il padre paga il riscatto e poi sparge la voce che il figlio si è liberato da solo, per evitare problemi. Lelluccio decide di non seguire le orme del genitore, si mette in proprio distribuendo bibite e poco alla volta diventa un narcos capace di approvvigionarsi attraverso i cartelli sudamericani, spagnoli e olandesi. Proprio in Olanda alla fine degli anni ‘90, sarebbe cominciata la sua carriera criminale, dopo aver aperto un coffee bar ad Amsterdam. È la città dove nel 2002 vengono rubati dal museo due quadri di Van Gogh.

Saranno ritrovati 14 anni dopo, nascosti in una intercapedine della cucina del villone di Ludovico Imperiale in via Schito a Castellammare di Stabia. L’Amazon della droga aveva reinvestito così una piccola parte dei suoi guadagni.

Cade il cancello al parco giochi, muore una bimba

Tragedia ieri pomeriggio in un parco giochi a Lerici, in Liguria. Una bambina è morta per la caduta del cancello di ingresso. Secondo la ricostruzione fornita dai carabinieri l’incidente è accaduto mentre la bambina, che abita nella zona, stava uscendo dal parco giochi dove era stata fino a quel momento in compagnia del nonno. Per motivi in corso di accertamento il cancello di uscita, di ferro e di tipo scorrevole, è caduto a terra ed ha travolto entrambi. L’uomo è riuscito a chiamare aiuto e la piccola è stata soccorsa e portata all’ospedale locale. A causa delle gravi ferite riportate è stato predisposto subito il suo trasferimento in elicottero all’ospedale Gaslini di Genova ma la piccola è morta prima dello spostamento.

“Mentre usciva dal parco giochi la bimba si è avvicinata al cancello e lo ha toccato, la grata si è mossa ed è precipitata a terra travolgendola”, il racconto fornito da uno de testimoni.

I carabinieri intanto hanno messo sotto sequestro il parco e hanno individuato altre persone da ascoltare per ricostruire esattamente lo svolgimento dei fatti.

Trattativa, l’appello: Dell’Utri chiama B. in aula

C’è un uomo che fino a oggi non ha aperto bocca e che, se volesse, potrebbe raccontare tutti i retroscena del ricatto mafioso allo Stato all’indomani delle stragi: l’ex premier Silvio Berlusconi è infatti uno dei tre presidenti del Consiglio destinatari del messaggio di Cosa Nostra ai governi del ’92-’94, e a volerlo sul banco dei testimoni del processo di appello della Trattativa che si apre domattina nel Palazzo di Giustizia di Palermo sono i difensori del suo storico delfino palermitano, Marcello Dell’Utri, che in primo grado è stato condannato a 12 anni. La richiesta è una delle oltre 50 presentate dalla difesa degli imputati, tra i quali gli ufficiali dei carabinieri Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno (i primi due condannati a 12 anni e il terzo a 8 anni), i boss Leoluca Bagarella e Antonino Cinà, (condannati rispettivamente a 28 e 12 anni), e il figlio di don Vito, Massimo Ciancimino (condannato a 8 anni per calunnia). In aula l’attesa è che si riaccenda lo scontro tra chi in questi anni ha condiviso l’impianto accusatorio del pool Stato-mafia e chi invece lo ha definito “una boiata pazzesca”, sulla scia delle tesi del giurista Giovanni Fiandaca. L’ex Cavaliere di Arcore non è mai stato sentito, né in aula, né in fase di indagine, e ora i legali di Dell’Utri chiedono nel loro atto di impugnazione che questa circostanza possa essere sanata, essendo l’esame di Berlusconi “una logica conseguenza della qualifica di persona offesa attribuita al medesimo nella sentenza impugnata, in quanto destinatario finale della pressione o dei tentativi di pressione di Cosa Nostra”. La sentenza di primo grado, in realtà, attribuisce all’ex Cavaliere di Arcore la piena consapevolezza della minaccia mafiosa indirizzata al suo governo fino al dicembre del ’94 (data della crisi che pose fine al primo esecutivo Berlusconi) e contestualmente illumina le sue condotte omertose. “Ci sono ragioni logico-fattuali – scrivono i giudici della corte d’assise nelle 5252 pagine delle motivazioni – che conducono a non dubitare che Dell’Utri abbia effettivamente riferito a Berlusconi quanto di volta in volta emergeva dai suoi rapporti con Cosa Nostra mediati da Vittorio Mangano (ma, in altri casi, anche da Gaetano Cinà)”.

Sarà la lettura della relazione del giudice a latere Vittorio Anania sulla scorta della monumentale sentenza a riaprire l’esame giudiziario di uno dei capitoli più controversi della storia repubblicana recente: l’interlocuzione sottotraccia tra boss e istituzioni a cavallo delle stragi Falcone e Borsellino, che la Corte d’assise di Palermo presieduta da Alfredo Montalto ha ritenuto ampiamente provata nelle oltre 5000 pagine del verdetto, ancora di recente contestato da Fiandaca che ne ha criticato “l’approccio storiografico di tipo criminalizzante”. Le difese insistono per riaprire l’istruttoria dibattimentale, quella di Dell’Utri chiamando l’uomo di Arcore a dire la sua su quanto accaduto nel dopo-stragi e sul ruolo dell’amico Marcello, ma anche in questo caso, come accaduto in passato, non è escluso che il leader di Forza Italia, essendo attualmente indagato a Firenze come mandante occulto delle stragi, potrebbe comparire sul banco dei testimoni come indagato in procedimento connesso e dunque avvalersi in aula della facoltà di non rispondere.

Sarà il giudice Angelo Pellino, presidente della seconda Corte d’assise d’appello di Palermo, coadiuvato dal giudice a latere e dai sei giudici popolari, dopo circa un mese di schermaglie preliminari a sciogliere i tutti i dubbi legati esclusivamente alle istanze difensive, visto che né la Procura di Palermo, né la Procura generale hanno presentato appello, ritenendo pienamente accolte le loro richieste dal verdetto di primo grado. In aula a rappresentare l’accusa sono i pm Giuseppe Fici e Sergio Barbiera, che il prossimo 6 maggio formuleranno le richieste conclusive della loro requisitoria nell’appello del processo-stralcio sulla Trattativa all’ex ministro Calogero Mannino (assolto in primo grado).

Legittima difesa, giorno 1: spari sul ladro-ragazzino

Adistanza di poche ore dalla promulgazione della nuova legge in materia di legittima difesa, potrebbe esserci già un primo caso: a Tivoli, in provincia di Roma, un uomo ha premuto il grilletto di una pistola regolarmente detenuta, ferendo uno dei ladri entrati nell’abitazione del padre per rubare. È questa l’ipotesi investigativa della Procura di Tivoli. I pm del capoluogo alle porte di Roma indagano sulla faccenda da quando, venerdì notte, un ragazzo è stato abbandonato davanti al policlinico Gemelli. Si tratta di un sedicenne di origini albanesi e, probabilmente, a scaricarlo da un’auto poi dileguatasi sono stati i complici del furto mancato.

La telefonata ai carabinieri venerdì sera: “Un furto”

Sono da poco trascorse le sette di sera quando, venerdì scorso, una telefonata arriva ai carabinieri della stazione di Monterotondo. Al telefono è un ventinovenne, Andrea, figlio di un noto astrofisico, Luigi Pulone. Il giovane, ancora turbato per l’accaduto, ha spiegato ai militari che qualcuno ha provato a svaligiare l’appartamento del padre entrando dalla finestra di quel pianterreno. I genitori non sono in casa, e con lui c’è solo la fidanzata. All’improvviso, accorgendosi che alcuni sconosciuti si aggirano in salotto, avrebbe reagito prendendo la pistola del padre e sparando in direzione degli intrusi, fuggiti non appena il ragazzo ha premuto il grilletto. Dopo la telefonata al 112, le indagini dei carabinieri partono immediatamente. Ma quando gli inquirenti stanno iniziando a lavorare sul caso, al policlinico Gemelli di Roma accade un fatto decisamente inusuale: una macchina fa scendere velocemente un ragazzo in gravi condizioni per poi darsi alla fuga. Il ferito ha sedici anni e si chiama Enrico P.. E’ stato colpito tra l’inguine e l’addome da un proiettile sparato da una pistola. I medici lo hanno operato immediatamente, avvisando subito la polizia. Così anche gli agenti hanno iniziato a indagare e presto le due indagini si sono intrecciate.

Le indagini: ancora non ci sono indagati

Per questo i magistrati, coordinati dal Procuratore Capo di Tivoli, Francesco Menditto, hanno aperto un unico fascicolo, attendendo la prima informativa dei carabinieri per poi eventualmente iscrivere sul registro degli indagati i protagonisti della vicenda. Occorre infatti capire chi ha accompagnato la vittima in ospedale e verificare, anche grazie all’aiuto delle telecamere presenti sia nella zona del furto che in ospedale, se si tratti o meno dei presunti complici.

I pubblici ministeri hanno inoltre sequestrato e disposto una perizia sull’arma che avrebbe sparato. Bisogna anche appurare se la pistola sia stata registrata a nome di Andrea o Luigi Pulone e se il ragazzo avesse un regolare patentino, magari per uso sportivo. E poi c’è la nuova legge: quindi non basterà capire se vi sia stata una colluttazione, ma se chi ha sparato era più o meno turbato dalla situazione. L’articolo 2 della legge, modificando l’articolo 55 del codice penale, attribuisce infatti un importante rilievo allo stato di “grave turbamento psichico” relazionato al pericolo in atto. Nel frattempo, lontano dai codici e dai commi di legge, fortunatamente le condizioni del sedicenne ricoverato nel reparto di terapia intensiva pediatrica appaiono stabili, anche se la prognosi resta riservata.

Alitalia, martedì la scadenza e per ora nessuna vera offerta

Ancora nessuna soluzione per Alitalia, a poche ore dalla scadenza del 30 Aprile quando Ferrovie dello Stato dovrà presentare ai commissari la propria offerta per l’ex compagnia di bandiera. Il vicepremier, Luigi Di Maio, ribadisce in un post su Facebook di non aver incontrato “nessuno” per parlare del dossier Alitalia, “né pregato nessuno a riguardo”, riferendosi a notizie di stampa secondo cui avrebbe visto Riccardo Toto a Taranto mercoledì scorso per coinvolgere il gruppo abruzzese nel salvataggio della compagnia. “Per completare questa operazione, che resta di mercato, stanno arrivando le offerte di altri privati, che andranno a comporre il 100% della società”, afferma Di Maio nel post e sono “tutte offerte – tra cui quelle di alcuni concessionari autostradali – di cui apprendiamo per ora solo a mezzo stampa e che non sono state ancora formalizzate”. I “presupposti”, spiega, sono “una presenza massiccia dello Stato nella newco come garanzia affinché il piano industriale sia coerente e competitivo”. In sintesi: non c’è ancora nulla di concreto.

“Ora il debito di Roma rischia di pagarlo molto caro lo Stato”

Assessore Gianni Lemmetti, che succede ora al debito di Roma?

Nel 2008 l’ammontare del debito del Comune non avrebbe consentito al sindaco di allora, Alemanno, di governare: la città era tecnicamente fallita. Il governo creò una gestione commissariale in cui confluiva tutto il debito maturato prima dell’aprile 2008. Man mano che emergevano debiti di Roma Capitale, venivano assegnati o alla gestione commissariale o al bilancio ordinario. E con i contributi annuali – 300 milioni dallo Stato, 200 dal Comune – i commissari hanno pagato un po’ di debiti finanziari e un po’ commerciali.

E poi cosa è successo?

Quando ci siamo insediati, nel 2016, abbiamo segnalato che la gestione commissariale scricchiolava. Dal 2022 l’importo da pagare, a causa anche degli interessi, sarà superiore alla somma delle risorse fornite da Tesoro e Comune.

E cosa avete fatto?

La legge di Bilancio ha introdotto norme per regolare gli espropri di terreni fatti prima del 2008 e definire finalmente il debito complessivo di Roma Capitale entro dicembre 2021, così da poter chiudere la gestione commissariale.

E arriviamo alla prima versione dell’articolo “Salva Roma” che ha fatto arrabbiare la Lega.

L’articolo “Salva Italia” perché i soldi che mancano alla gestione commissariale sono a carico dello Stato: la legge stabilisce i limiti del contributo di Roma, cioè l’addizionale Irpef e la tassa sui biglietti aerei. Il contributo dello Stato invece non è legato a imposte specifiche. Per questo il Tesoro era favorevole a separare la parte finanziaria, che può rinegoziare con le banche. Inoltre la gestione commissariale ci costa 2,5 milioni l’anno: soldi che possiamo risparmiare.

E ora che succede?

Sono state stralciate le norme rispetto alla parte di competenza dello Stato. Così dal 2022 il bilancio ordinario di Roma dovrebbe farsi carico di una gestione commissariale non in equilibrio. Un guaio per il prossimo sindaco.


Immaginiamo di arrivare così al primo gennaio 2022.

Chiunque sarà il sindaco non potrà chiudere la gestione commissariale e fondere le due contabilità: dovrebbe chiedere allo Stato di metterci i 300 milioni ulteriori che mancano fino al 2034.


La norma stralciata vi avrebbe permesso di ridurre le tasse prima delle elezioni del 2021?

Ci saranno risorse da spendere solo se la ricognizione in corso del debito rivelerà un ammontare complessivo più basso dei 12 miliardi stimati oggi. Potrebbe assestarsi a 9-9,5 miliardi. Ma ogni scelta sul taglio dell’addizionale Irpef comunale sarà dopo il 2022. La campagna elettorale 2021 si terrà a gestione commissariale in corso.


Proverete a ripresentare la norma bocciata dopo le Europee?

C’è tutto il tempo dell’iter di conversione del decreto per modificare il testo. Speriamo che i partiti di opposizione, che ora hanno sostenuto il nostro progetto, confermino la loro linea anche dopo le elezioni.

L’altro fronte caldo è l’Ama. Nessuno ha capito perché avete fatto la guerra all’ex ad Bagnacani su una posta di bilancio modesta come i 18 milioni che l’azienda dei rifiuti chiedeva al Comune per lavori nei cimiteri.

È il granello di sabbia che inceppa il meccanismo. Finalmente Roma Capitale ha gli strumenti per il controllo dei bilanci delle partecipate ed è incappata in questi 18 milioni, restituiti dall’azienda al Comune nel 2017 perché prima trattenuti in modo non idoneo. L’Ama ha fatto il bonifico, ma poi si è iscritta la somma come credito, senza dire niente a nessuno.

Senza i 18 milioni il bilancio di Ama chiude in rosso?

Se dentro il bilancio esiste una posta non corretta, o Ama la stralcia o accantona l’intera somma perché il credito non è riconosciuto dal Comune. Senza i 18 milioni il bilancio sarebbe andato in perdita, ma a noi interessava che fosse corretto: nel bilancio consolidato di Roma Capitale quei debiti verso l’Ama non ci sono e l’Assemblea capitolina non può votare due bilanci opposti, uno in cui non c’è il debito e un altro in cui c’è il credito.


Circola una teoria: con i bilanci di Ama in perdita, la gestione dei rifiuti passerà all’altra controllata, Acea, che avendo gli inceneritori può trarne profitto.

Il cda di Ama faceva una serie di suggestioni e qualcuno le prendeva per buone. Ci raccontavano teorie del complotto, poi abbiamo verificato ed è venuto meno il rapporto di fiducia.

Li avete cacciati per questo?

Si preoccupavano di aggregazioni a livello europeo invece che tenere pulita la città.

L’Ama ora approverà un bilancio in rosso. Con quali conseguenze?

Il Comune ha chiesto all’architetto Bagatti di redigere un bilancio secondo le informazioni emerse dalla due diligence e dal collegio sindacale. Non conosciamo l’esito, ma sosterremo comunque l’azienda. Non ci sono rischi di fallimento o di concordato. E io ai concordati non mi sono mai sottratto, a Livorno con l’Ams e a Roma con l’Atac.