Concorrenti feriti a “Ciao Darwin”: aperto un fascicolo

Due concorrenti feriti in poche ore e uno in modo grave. Sugli incidenti occorsi durante la trasmissione Mediaset Ciao Darwin condotta da Paolo Bonolis, la Procura di Roma ha aperto un’inchiesta. Finiscono sotto sequestro i rulli di Genodrome, una delle prove più famose del programma, dopo l’incidente di mercoledì 17 aprile che ha coinvolto il concorrente Gabriele Marchetti, attualmente ricoverato nel reparto di terapia intensiva del Policlinico Umberto I di Roma e che rischia di rimanere paralizzato. Aperta un’inchiesta per lesioni colpose. Per il momento il fascicolo, sul tavolo del procuratore aggiunto Nunzia D’Elia, è contro ignoti, ma è già stata disposta una perizia sui rulli e potrebbero scattare le prime iscrizioni sul registro degli indagati. Dopo Gabriele Marchetti, come detto, anche un’altra concorrente, la personal trainer romana Deborah Bianchi, ha rivelato sul proprio profilo Instagram di essersi fratturata un piede durante il gioco dei rulli, nel corso della registrazione della prima puntata dell’ottava stagione dello show.

Rifiuti, consulenze ai revisori di Ama: ecco l’indagine

Oltre 1 milione di euro in consulenze al gruppo Ernst & Young nel giro di 21 mesi, da aprile 2017 a dicembre 2018. La stessa società che svolge il ruolo di revisore legale di Ama Spa e che ha dato il via libera al progetto di bilancio 2017 firmato dall’ex cda guidato da Lorenzo Bagnacani. Proprio quel documento finanziario che invece la sindaca Raggi riteneva “sbagliato” e che chiedeva di modificare, come si evince dagli audio pubblicati la scorsa settimana dall’Espresso. Il fatto, se confermato, come relazionato agli attuali vertici Ama, metterebbe in dubbio l’indipendenza formale del revisore.

C’è una nuova puntata della querelle sui conti della municipalizzata dei rifiuti romana. La Guardia di Finanza ha acquisito gli incarichi esterni assegnati alle società che orbitano nel gruppo E&Y, e in particolare E&Y Financial-Business Advisor Spa – che attende ancora il pagamento di 8 fatture per 290.200 euro – Axteria Spa e Sei Consulting Srl. Oltre a un’offerta di consulenza da 190.000 euro, sottoposta da Ama a E&Y il 27 settembre 2019, per l’inventario dell’ormai nota partita crediti/debiti da 18,2 milioni di servizi cimiteriali (lavori di manutenzione di tombe e loculi) fra Ama creditrice e Comune debitore, che ha generato tutta l’impasse. Affidamento poi non andato a buon fine per diniego del Collegio sindacale di Ama. Qui la partita sui servizi cimiteriali risalenti al periodo 2008-2014 è centrale. Bagnacani dice che i crediti di Ama verso il Comune sono “certi, liquidi ed esigibili”, il Campidoglio li mette in dubbio sin dal 4 dicembre 2015, data della prima contestazione della Ragioneria generale capitolina. E&Y dà ragione a Bagnacani, il Collegio sindacale è sulle posizioni di Raggi. Ma è sulla “indipendenza formale” del revisore che in queste ore si concentrano gli approfondimenti. L’art. 10 del d.lgs. 39/2010 dice che le due parti non devono avere “relazioni finanziarie dirette o indirette” altrimenti “l’indipendenza del revisore legale o della società di revisione legale risulta compromessa”, mentre il codice interno allarga le maglie al rispetto del 70% dell’importo percepito per i servizi di revisione contabile. In questo caso, il contratto di E&Y con Ama è pari a 144.000 euro l’anno (432.000 per il triennio 2016-2018), periodo in cui Axteria Spa – controllata da E&Y dall’1.05.2016 – ha lavorato al piano industriale di Ama e al servizio informatico e tutto il gruppo ha fatturato un ammontare di almeno 2,5 volte l’ammontare della revisione legale. A una prima contestazione del 13 dicembre 2018 – si legge in un verbale in possesso degli attuali vertici – “il revisore ha negato del tutto l’esistenza di altri incarichi incompatibili”. E contro questa lettura si scaglia anche Vanessa Ranieri, membro del cda e braccio destro di Bagnacani sul fronte legale: “I contratti di consulenza – dice – sono stati assegnati con bando della gestione societaria precedente. La società aggiudicatrice non era la E&Y, ma altra società che nel corso dell’espletamento è stata assorbita. A quel punto sotto la nostra gestione sono stati conclusi i contratti anche prima della naturale scadenza”. Ci sono altre consulenze all’attenzione degli investigatori. In particolare, quelle assegnate all’avvocato Damiano Lipani, che da alcuni anni condivide lo studio con l’ex sottosegretario berlusconiano, Antonio Catricalà. Lipani è consulente legale Ama dal 2006 – la società dei rifiuti non ha una sua avvocatura –, ma è dal 2008 che assume un ruolo più influente, essendo molto vicino all’ex ad Franco Panzironi, a sua volta condannato in appello nel processo di Mafia Capitale. Pur non indagato, il cda all’epoca guidato da Daniele Fortini il 23 dicembre 2014 decide di “emarginare” il legale “per ragioni di opportunità”. “Panzironi era un cliente, noi lavoriamo per mandati legali, non per appartenenze o amicizie”, specifica l’avvocato. In realtà, come conferma Lipani, il rapporto non si interromperà mai veramente. Lo studio Catricalà-Lipani da giugno 2015 fattura ad Ama ben 1.177.000 euro. Pesa sul conto la difesa nel procedimento del “Lodo Colari”, che ha permesso all’azienda di risparmiare quasi 1 miliardo di euro richiesti dal “re della monnezza” Manlio Cerroni. E forse anche per questo Bagnacani si fida di lui. “Sono davvero bravi”, avrà modo di dire più volte.

Tanto che il legale presenzia al cda del 5 dicembre 2018, quello della spaccatura definitiva fra i vertici e il Collegio sindacale. Soprattutto, gli commissiona negli ultimi giorni di mandato cinque pareri pro veritate, pagati da 2.000 a 8.000 euro: uno sulla possibile decadenza del Collegio sindacale (che voleva la modifica del bilancio), uno sui limiti del “controllo analogo” del Comune sulla società e l’altro sulla possibilità che il cda possa presentare domanda di concordato in continuità – stessa procedura di Atac – con un collegio sindacale decaduto. “Avevamo necessità di tutelare l’azienda, il Comune voleva farla fallire”, si giustificheranno gli ex vertici.

Replica ancora l’ex consigliera Ranieri: “Siamo sempre stati attenti sulle consulenze”, e contrattacca: “Non abbiamo mai compreso perché per il presidente del Collegio sindacale (Mauro Lonardo, ndr) fosse necessaria una due diligence a seguito della nostra richiesta di voler consultare il libro sociale delle adunanze del collegio sindacale negli anni 2008-2016. Informazioni utili per capire come si fosse espresso sulla partita dei 18,2 milioni non riconosciuti da Roma Capitale. Voleva chiedere una consulenza esterna per leggere i suoi stessi verbali?”. “Ma è già tutto pubblico”, controreplica Lonardo.

Inps, Tridico aumenta i dirigenti tagliati dal predecessore Boeri

Ai vertici Inps c’è desiderio di cambiamento: il nuovo presidente dell’ente, Pasquale Tridico, lo dimostra aumentando le posizioni dirigenziali della prima fascia da 40 a 43 e quelle della seconda da 440 a 445. Questo ridurrà gli spazi di manovra al suo successore per quanto riguarda l’assetto delle posizioni di vertice. Una decisione in contrasto con quella presa dall’ex presidente Tito Boeri, poco prima che questo abbandonasse la carica. Tridico sottolinea come negli ultimi 5 anni il personale dell’ente è diminuito di circa 5 mila unità, a fronte di un continuo aumento delle attività a cui badare, come la gestione di Ape, Naspi, Rei, Bonus bebè, il Reddito di cittadinanza e Quota 100.

La spesa effettiva, corrispondente a 620,1 milioni, è nettamente inferiore a quella massima potenziale, di 697,6 milioni: questo si tradurrà in un piano di assunzioni che per il 2019 prevede l’immissione di 4.728 unità di cui 35 medici di secondo livello, 4.598 impiegati di aera C, 88 di area B e 16 di area A. In questo modo, la spesa per il personale salirà a 682,5 milioni, rimanendo nei limiti del massimo potenziale sostenibile.

Dal Gps al bagde: il pedinamento dei lavoratori

Non solo app: nell’era della digitalizzazione, i datori di lavoro hanno a disposizione un ampio ventaglio di strumenti per spiare i propri dipendenti. Ma non sempre possono farlo. Trarre informazioni dai profili social dei lavoratori, ad esempio, è legittimo secondo la Corte di Cassazione, purché le modalità non siano “eccessivamente invasive” e rimangano “rispettose delle garanzie di libertà e dignità dei dipendenti”, come dimostra la sentenza che nel 2015 ha confermato il licenziamento di un operaio abruzzese, accusato di allontanarsi puntualmente dal posto di lavoro per andare a chattare su Facebook. Non bisogna però superare i labili confini che trasformano un controllo legittimo in un’azione investigativa atipica: a questo riguardo il monitoraggio di una persona a distanza tramite Gps viene considerato “una forma di pedinamento eseguita con strumenti tecnologici, non assimilabile ad attività di intercettazione”, che pertanto deve essere “soggetta a ferree autorizzazioni” secondo la Corte.

Sul fronte delle mail, la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo nel 2017 ha accolto il ricorso di un ingegnere romeno, licenziato dal capo che aveva monitorato la sua corrispondenza elettronica, stabilendo che bisogna valutare volta per volta l’intensità dei controlli per garantire il rispetto effettivo “della vita privata e familiare”: in casi come quello in esame, questo rispetto era mancato e pertanto il datore di lavoro ha dovuto fare un passo indietro sul licenziamento. Insomma, vigilanza sì purché non venga meno la dignità e la riservatezza del lavoratore: come nel caso del titolare che ha rubato la cronologia delle ricerche sul web al suo impiegato, scoprendo che navigava su siti politici e pornografici negli orari di lavoro. In quell’occasione il Garante della Privacy ha impedito che avvenisse il licenziamento poiché un controllo così invasivo può avvenire solo previo accordo con il lavoratore.

Se, infine, i datori di lavoro vogliono utilizzare il badge per monitorare gli spostamenti dei dipendenti, una sentenza della Corte di Cassazione risalente a due anni fa stabilisce che è possibile farlo, ma solo dopo un accordo con le rappresentanze sindacali.

Altro che email, ora il capo spia anche i dati sul ciclo

Come milioni di donne, anche la 39enne di Los Angeles Diana ha utilizzato quotidianamente un’app per il ciclo mestruale, registrando dati relativi a fertilità, rapporti intimi, farmaci assunti e umore. Poi, quando ha partorito, ha deciso di tracciare anche le informazioni del suo bimbo, compreso nome, luogo di nascita e stato di salute. Ma a monitorare quei dati così sensibili non era sola. Anche qualcun altro li controllava regolarmente: il suo datore di lavoro, che ha pagato i gestori dell’app per conoscere le sue abitudini e discriminarla.
A scoprire la nuova frontiera della cessione dei dati personali è stato il Washington Post che con un’inchiesta di Drew Harwell ha lanciato un nuovo e più sconvolgente allarme sulla privacy dei lavoratori. Il quotidiano americano ha messo sotto accusa l’app Ovia che negli Stati Uniti, con oltre 10 milioni di utenti, è diventata un potente strumento di monitoraggio per i datori di lavoro e gli assicuratori sanitari, che sotto la bandiera del benessere aziendale hanno spinto in modo aggressivo a raccogliere più dati sulla vita delle lavoratrici. Del resto usare un’app Female technology, vale a dire quei prodotti e servizi che ruotano attorno al mondo della salute della donna, significa monitorare quante si volte esce, si beve alcol, si fuma, si prendono medicine, si fa sesso, si ha il ciclo o si è in ovulazione e com’è la qualità del sonno.

In poche parole, dati che – quando vengono trasferiti a pagamento alle aziende – possono essere utilizzati per scoprire se quella dipendente è in grado di reggere a un maggiore stress lavorativo, se sta pensando di rimanere incinta (e allontanarsi mesi dal posto di lavoro), come la neo mamma pianifica di tornare al lavoro o se i figli sono cagionevoli di salute (con la conseguenza che la donna possa prendersi un maggior numero di ferie o di malattia).

Ma il meccanismo scoperto dal Washington Post è ancora più subdolo: Diana, così come altre milioni di donne, aveva deciso di tenere traccia della propria gravidanza, perché l’azienda presso cui lavorava le regalava 1 dollaro al giorno in carte regalo per spingerla a usare l’app, adducendo come giustificazione la possibile riduzione della spesa sanitaria, la scoperta di eventuali problemi medici e una migliore pianificazione dei carichi di lavoro. “Il fatto che le gravidanze delle donne siano seguite da vicino dai datori di lavoro è molto preoccupante”, ha spiegato Deborah C. Peel, una psichiatra e fondatrice del non-profit per i diritti del paziente interpellata dal quotidiano. “È la più grande discriminazione nei confronti delle madri e delle famiglie sul posto di lavoro – ha aggiunto – che le spingerà a non fidarsi più del loro datore di lavoro che, ovviamente, ha a cuore solo i propri profitti economici”.

La Ovia ha spiegato di rispettare le leggi sulla privacy e che fornisce alle aziende solo i dati aggregati in modo che i datori di lavoro possano valutare come è cambiata nel tempo la condizione di salute dei loro dipendenti. Ma la Ovia continua a ingrossare i propri bilanci sia con i soldi che chiede alle aziende che vogliono monitorare le dipendenti che con i ricavi della pubblicità, compresi quelli che arrivano da assicurazioni sulla vita, servizi bancari e prodotti per l’igiene personale. Intanto l’aumento delle app per il benessere fisico e per il ciclo mestruale, sottolinea il quotidiano americano, dimostrano come le aziende considerino sempre più il corpo umano una miniera d’oro tecnologica, ricca di una vasta gamma di dati sulla salute che i loro algoritmi possono tracciare e analizzare. I corpi delle donne sono sempre particolarmente lucrativi anche quando si tratta di tecnologia: per la società di consulenza Frost & Sullivan il mercato Femtech potrebbe valere fino a 50 miliardi di dollari entro il 2025.

Caso spread in salita, infondate le accuse di Lannutti al Corriere

Non sono stati gli articoli apparsi sul Corriere della Sera nei momenti caldi del varo della manovra economica a far schizzare in alto lo spread alla fine dello scorso anno, “al limite” è stata la trattativa tra il governo e l’Unione europea “finalizzata a evitare all’Italia una procedura di infrazione per eccessivo disavanzo”: per la Procura di Milano non hanno alcun fondamento le accuse contenute nell’esposto firmato dal senatore M5S Elio Lannutti, che quindi è stato archiviato nelle scorse settimane, che riguardava su una serie di articoli del vicedirettore del Corriere Federico Fubini. Ad indagare sulla vicenda è stato il sostituto procuratore Stefano Civardi, che fa parte del pool che si occupa dei reati finanziari, dopo che l’esposto era stato classificato nel modello 45 della Procura, quello riservato agli atti in cui non ci sono indagati né ipotesi di reato. La Guardia di finanza ha “monitorato l’andamento dello spread”, ha acquisito la documentazione Ue e numerosi articoli di varie testate per giungere alla conclusione che non sono ipotizzabili reati, neppure una eventuale “manipolazione del mercato”, perché “un giornalista è libero di fare le proprie previsioni di un evento futuro”.

A Taranto record di tumori tra gli operai

Dove più è difficile trovare un posto di lavoro, più è facile rimanere vittime di un infortunio mortale. A certificare questo paradosso solo apparente sono i dati: la provincia italiana con una maggiore la maggiore percentuale di decessi in relazione al totale degli incidenti professionali è Crotone, che tra l’altro fa parte di una delle Regioni maggiormente colpite dalla disoccupazione. Il territorio invece nel quale si registra il più alto numero di tumori determinati da fattori occupazionali è Taranto, e a questo effettivamente non si stenta a credere.

In occasione della giornata mondiale per la salute e la sicurezza sui luoghi di lavoro che si svolge oggi, la Fondazione studi consulenti del lavoro ha presentato uno studio che traccia la mappa delle zone più “pericolose” per chi ha un impiego. Dalla fotografia scattata il Sud ne esce con le ossa a pezzi. Le province più martoriate sono praticamente tutte ubicate nelle Regioni meridionali. Ogni mille denunce di infortunio presentate all’Inail nell’ultimo biennio, 1,4 si riferisce a casi di morte del lavoratore. Come al solito, la media nazionale nasconde grandi divari interni. Se guardiamo le singole province, infatti, notiamo che a Crotone l’incidenza è 6,3; poi 5,9 a Isernia, 4,4 a Caserta, 4,1 a Vibo Valentia. Numeri che fanno rabbia, se confrontati con lo 0,5 per mille di Lecco, Trieste, Bolzano, Como e Reggio Emilia. La più virtuosa è Biella, con zero segnalazioni di decessi nel periodo 2017-2018. Il motivo della maglia nera del Mezzogiorno è prevalentemente dovuto al fatto che in quei territori i posti di lavoro sono concentrati nei settori economici più rischiosi, come l’agricoltura e le costruzioni.

Nel 2018 all’Inail in totale sono arrivate 1.133 denunce di morti sul lavoro, ma come è stato più volte spiegato si tratta di un numero che sottostima il fenomeno perché non tutti gli occupati sono assicurati presso l’istituto pubblico e naturalmente non può contare quelli che svolgono un’attività in nero. Undici anni fa è nato un osservatorio indipendente a Bologna che cerca di tirare fuori la statistica completa. Nel corso dell’anno passato, ne ha conteggiate 1.450, mentre nel 2019 è arrivato già a 400.

Sui tumori professionali, invece, la piramide si ribalta e qui le zone tristemente alte della classifica sono quasi tutte occupate da province del Nord. Come detto, però, c’è la prevedibile eccezione di Taranto, terra che ospita il più grande stabilimento Ilva italiano, con 164 episodi denunciati nel 2018. A seguire Torino, Napoli, Milano, Genova, Venezia e Roma. Praticamente tutte aree che ospitano grandi complessi industriali. Analizzando nel dettaglio i settori correlati alle cause tumorali in tali province, si rileva che il 71% dei lavoratori del settore metalmeccanico sono più esposti al rischio di contrarre un tumore durante l’attività lavorativa. A Taranto, ad esempio, il 70% dei tumori denunciati è correlato al settore metalmeccanico, quota che supera l’80% per le province di Genova (83%), Venezia (87%), Brescia (85%) e Gorizia (93%).

Lotta al caporalato, la legge è solo di carta. Ancora campi abusivi

La morte di Samara, ventiseienne del Gambia che giovedì notte ha perso la vita durante l’incendio nella baraccopoli di Borgo Mezzanone (Foggia), ricorda quanto siamo indietro nella lotta al caporalato. E soprattutto come buona parte della legge di contrasto arrivata a fine 2016 sia rimasta sulla carta. Sono ancora inattuati gli articoli che prevedevano un piano per l’accoglienza e i trasporti sicuri da mettere a disposizione dei braccianti stranieri nelle zone delle raccolte stagionali.

In quasi tre anni, si sono viste solo sporadiche sperimentazioni senza risultati. Passi significativi non li hanno compiuti né gli esecutivi guidati dal Pd, che pure si vanta di aver approvato quella legge né il governo Conte. Anche perché quando si parla di accoglienza la Lega non è particolarmente entusiasta. In più occasioni il ministro dell’Agricoltura Gian Marco Centinaio ha anche detto di voler cambiare la legge, intenzione per ora bloccata dal Movimento Cinque Stelle, che vorrebbe applicarla. Il compromesso tra le due forze si è tradotto nella creazione di un tavolo ministeriale sul caporalato che si è riunito il 3 settembre e poi non ha convocato altre riunioni. Nel frattempo hanno lavorato sei tavoli tematici che nelle prossime settimane presenteranno le proposte. Visto che maggio è alle porte, è impossibile pensare che qualcosa di concreto si muova in tempo per le raccolte dei pomodori e dell’uva. Anche quest’estate, insomma, sarà come le altre.

Tornando alla legge del 2016, questa è composta da due parti. La prima ha stabilito pene fino a 8 anni per i reati di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. La seconda tendeva a estirpare il problema alla radice: “Al fine di migliorare le condizioni dell’attività lavorativa stagionale di raccolta dei prodotti agricoli – recita la legge – i ministeri del Lavoro, dell’Agricoltura e dell’Interno predispongono congiuntamente un apposito piano di interventi che prevede misure per la sistemazione logistica e il supporto dei lavoratori anche ai fini della realizzazione di modalità sperimentali di collocamento agricolo”. Tutto questo andava fatto entro l’inizio di gennaio 2017. L’obiettivo era proprio sostituire le baraccopoli fatiscenti con alloggi a norma, offrire mezzi di trasporto per raggiungere i campi e mettere su un sistema legale di incrocio tra domanda e offerta di lavoro. Tante morti nelle terre colpite dal caporalato, infatti, sono causate da incendi nelle baracche o incidenti dei pullman sulle strade verso i terreni. Mettendo lo Stato a garantire ospitalità e mezzi di trasporto sicuri si sarebbero prevenuti questi episodi.

Quelle disposizione contenute nella legge, però, sono state dimenticate. A Foggia, nella primavera 2018, era partita una sperimentazione che si proponeva di realizzare tutti quegli interventi. Sembrava andare per il verso giusto fino a quando le aziende agricole hanno rifiutato di rivolgersi alla Rete del lavoro agricolo di qualità per reclutare i braccianti. Si sono giustificate dicendo che non avevano bisogno di fare nuove assunzioni. Così l’offerta e la domanda di lavoro hanno continuato a incrociarsi per vie dirette e non mediate dal pubblico. Proprio il metodo preferito dai caporali. Poi a giugno è arrivato Matteo Salvini al Viminale e due mesi dopo il prefetto Iolanda Rolli, che tanto si era spesa in favore della causa dei lavoratori migranti, è stata spostata da Foggia a Macerata. Dopo di che, si è bloccato tutto. Solo la Regione Puglia è andata avanti e a febbraio ha previsto, con una delibera, di installare centinaia di moduli abitativi a San Severo. Dovrebbero arrivare a maggio, ma secondo la Flai Cgil la sistemazione non è congeniale. “Il luogo individuato – spiega il segretario Giovanni Mininni – è lontano da dove servono e, tra l’altro, non è stato predisposto un servizio di pulmini per il trasporto”.

L’Eni: “Fioramonti? Chiamiamo noi…”

I filosofi,si sa, hanno la testa nelle nuvole. E Lorenzo Fioramonti, deputato M5S e viceministro dell’Istruzione, è laureato in Filosofia, anche se in Sudafrica – lontano Paese da cui Luigi Di Maio l’ha riportato a Roma – insegnava Economia politica. Ecco, venerdì sera, mentre pensava ai destini della nazione senza guardare dove metteva i like, Fioramonti ha voluto ritwittare un articolo del Fatto sull’inchiesta per inquinamento che riguarda il Centro Oli di Viggiano dell’Eni corredando il tutto con le seguenti parole: “È arrivato il momento di decidere il futuro di Eni. Nell’era dello sviluppo sostenibile, non può esistere un Ente nazionale per gli ‘idrocarburi’. Ho fatto presente all’azienda che la riconversione non può attendere. Adesso e totale”. Ora, a parte che l’Eni non è più acronimo di Ente nazionale idrocarburi da quasi trent’anni, non si capisce a che titolo il viceministro dell’Istruzione abbia “fatto presente all’azienda” (a chi? in che forma?) che è ora di abbandonare petrolio e gas per dedicarsi alle rinnovabili. Sarebbe bello sapere anche cosa gli hanno risposto, almeno dopo “Fioramonti chi?”. Noi immaginiamo una cosa tipo: “Ah, forse chiama anche lei da parte di Greta? Facciamo così, ora su questa bella idea ci pensiamo su un po’. Cosa? No no, chiamiamo noi…”.

La “palla eolica” di Borgonzoni sulla norma Siri “pro Arata”

Emendamento Arata: “Siri non c’entra nulla. Ha portato un emendamento che era nei programmi di M5S e Lega e nel contratto di governo”
Lucia Borgonzoni, Lega, sottosegretario Cultura

La smentita

La sottosegretaria alla Cultura della Lega, Lucia Borgonzoni, venerdì sera ha pronunciato una sentenza evidentemente mistificatoria durante la puntata di Otto e mezzo su La7. L’argomento è l’indagine sul suo collega del Carroccio Armando Siri e sul suo rapporto con l’imprenditore dell’energia eolica, Paolo Arata, che secondo gli inquirenti gli avrebbe quanto meno promesso una tangente da 30 mila euro in cambio di un emendamento favorevole ai suoi affari. Secondo Borgonzoni, Siri “ha portato avanti un emendamento sulle rinnovabili che è comunque all’interno del programma sia dei 5Stelle che della Lega ed è nel contratto di governo”.

La dichiarazione è falsa. Nel contratto dei gialloverdi infatti si parla in termini piuttosto generici delle energie rinnovabili: “Il nostro compito è quello di sostenere la green economy, la ricerca, l’innovazione e la formazione per lo sviluppo del lavoro ecologico (…) con l’obiettivo di ‘decarbonizzare’ e ‘defossilizzare’ produzione e finanza e promuovendo l’economia circolare” (pagina 10). E poi: “Nelle strategie nazionali di sviluppo economico deve considerarsi prioritaria l’adozione di strumenti normativi efficaci atti a promuovere una sempre maggior diffusione di modelli di sviluppo sostenibili, della green economy e dell’economia circolare” (pagina 11).

L’emendamento proposto da Siri con lo zampino di Arata (come ha riconosciuto lo stesso sottosegretario in un’intervista al Corriere) sarebbe intervenuto sul settore eolico in maniera estremamente dettagliata. Ecco il testo: “Le tariffe incentivanti e i premi di cui al decreto ministeriale 6 luglio 2012 e ai suoi allegati, del ministero dello Sviluppo economico, si applicano agli impianti aventi accesso diretto agli incentivi ai sensi dell’articolo 4 comma 3, del medesimo decreto…”. Questo genere di dettaglio, a differenza di quanto sostiene Borgonzoni, non è nemmeno lontanamente affrontato nel contratto di governo.