“In Rai le solite spartizioni. Foa sta ostacolando Salini”

“Quando in Rai circola il nome di una persona candidata a occupare una posizione, la prima cosa che ti dicono è a quale area politica appartiene. Poi, se avanza tempo, si dice anche se è competente o no…”. Riccardo Laganà è il consigliere di amministrazione della tv pubblica eletto dai dipendenti, l’unico su cui il personale dell’azienda si è espresso con un voto (1.916 consensi). Nelle scorse settimane Laganà ha votato contro il piano industriale presentato dall’ad Fabrizio Salini, approvato dal Cda.

Laganà, sta dicendo che, nonostante le belle parole sulla Rai del cambiamento, l’ingerenza della politica è sempre la stessa?

Per quello che vedo io, sì. Ci si muove, come in passato, solo con logiche spartitorie tra le forze politiche. Quella direzione di rete a Caio, quel Tg a Sempronio. In Viale Mazzini mancano i criteri di trasparenza sulle procedure di nomina, dove c’è troppa discrezionalità. Tutto sembra sempre dipendere dalla politica. A breve ci saranno nomine importanti: utilizzare il job posting sarebbe positivo.

Per esempio?

Le nove direzioni di contenuto, per esempio, potrebbero essere assegnate con questo sistema, così come il personale o il marketing, fino ad autori e registi o ai direttori di reti e Tg. Il job posting ora è usato solo per i livelli intermedi, invece andrebbe utilizzato anche per i dirigenti.

Perché ha votato no al piano industriale?

Pur contenendo diversi aspetti positivi, nel piano manca la trasparenza sui processi aziendali e c’è incertezza sulle risorse economiche per il prossimo triennio. Inoltre non esiste un progetto industriale ed editoriale per le sedi regionali. E ci voleva un po’ più di coraggio…

Dove?

Sull’informazione. Occorreva procedere verso una newsroom unica, senza più le tre principali testate giornalistiche. Il pluralismo non lo si garantisce solo col numero dei Tg. Ma qui è stato il presidente Marcello Foa a opporsi.

Diversi esponenti della commissione di Vigilanza hanno accusato Foa di travalicare il suo ruolo. È così?

Il suo peso sul piano informazione si è fatto sentire. Del resto, in azienda la parte che guarda alla Lega sembra acquisire sempre più spazio. Salini deve andare dritto per la sua strada, in piena autonomia, senza cedere alle pressioni, perché la riforma gli affida pieni poteri. Foa, invece, deve esercitare il suo ruolo di presidente di garanzia: ha già le sue deleghe, non credo se ne debba prendere altre.

Lei ha criticato Foa per la sua presidenza a RaiCom.

Il fatto che il presidente della Rai rivesta un incarico anche nella consociata che commercializza i diritti all’estero può generare un conflitto tra i ruoli. Lo stesso vale per il consigliere Igor De Biasio, che siede anche nel Cda di RaiCom. Si tratta di due nomine legali, ma inopportune. E il canale in inglese (che sarà gestito da RaiCom, ndr) sarebbe dovuto restare sotto Rai Spa, come le altre direzioni.

A proposito, ad di RaiCom è Monica Maggioni (ex presidente Rai), mentre l’ex dg Mario Orfeo è stato nominato alla presidenza di RaiWay. Che ne pensa?

Credo che due grandi professionisti dell’informazione come loro potevano essere impiegati in ruoli più vicini alle loro caratteristiche.

Cosa pensa del caso Fazio e del tetto per gli artisti proposto da Salvini?

Sono contrario a un tetto, ma si può introdurre un sistema di riduzione progressiva negli anni per fasce di compenso. Io non contesto Fazio in quanto tale, ma il sistema che si porta dietro: la società di produzione, gli autori e tutto il resto. In Rai c’è un problema enorme di appalti esterni. Ogni anno l’azienda spende 80 milioni di contratti per collaborazioni artistiche. Si potrebbero ridurre di almeno il 25%, valorizzando le eccellenti professionalità presenti in azienda. Anche perché poi agenti e case di produzione tendono a fare il bello e il cattivo tempo: incidono sui palinsesti e impongono i loro nomi.

Quale sarebbe lo strumento migliore per allontanare la politica dalla Rai?

Ci vorrebbe una seria riforma basata sull’istituzione di un consiglio per le garanzie del servizio pubblico costituito da rappresentanze culturali e sociali del Paese. A questo proposito in Parlamento c’è un’ottima proposta di legge presentata da Sinistra italiana. In tal senso, la commissione di Vigilanza, che ora serve solo a far sentire la pressione dei partiti sull’azienda, verrebbe superata.

Lei è stato eletto dai dipendenti, cosa le dicono quando la incontrano?

Vogliono sapere cosa sto facendo e danno suggerimenti. Ho chiesto di utilizzare uno spazio nel sito intranet aziendale per tenere con loro un dialogo aperto, ma mi è stato negato. Si può parlare coi dipendenti solo incontrandoli o tramite i social. Assurdo, no?

Il vescovo nega la messa che ricorda la morte del Duce

Niente messa in suffragio di Mussolini. Lo ha deciso il vescovo della diocesi di Ventimiglia-Sanremo Antonio Suetta annunciando di aver negato la celebrazione, nei 74 anni dalla morte del Duce, prevista per domani nella chiesa di Sant’Agostino a Ventimiglia. La messa era stata chiesta da un gruppo di nostalgici del ventennio guidati da un avvocato ventimigliese ma i rappresentanti dell’Anpi si erano opposti ne era nata una polemica che il Presule aveva chiuso con la sua decisione. Queste le motivazioni: “L’idea di far celebrare una messa per qualche persona defunta è non solo possibile ma anche buona dal punto vista del suffragio – continua il vescovo Suetta -. Il mio intervento non è nel merito della questione, non vuole affermare che ci siano persone per le quali non sia possibile offrire suffragio cristiano, ma si colloca in un’altra prospettiva che è quella che la messa o un atto religioso e di culto non può e non deve essere strumentalizzato, quando si configura questo tipo di situazione io ritengo per opportunità di soprassedere”.

La Certosa di Bannon: così hanno raggirato Francesco

Con la sua Chiesa di San Bartolomeo, la vecchia farmacia, i due chiostri deliziosi, racchiusa tra mura e querce, la Certosa di Trisulti sorge a Collepardo da quasi mille anni. Oggi in quel prezioso monastero a Frosinone, riconosciuto come monumento nazionale anche dallo Stato, non ci sono più monaci: ci vive solo Benjamin Harnwell, braccio destro di Steve Bannon e presidente del Dignitatis Humanae Institute, che ci aprirà una “scuola di sovranismo”.

Può farlo : l’ha ottenuta in concessione dal Ministero dei Beni culturali per i prossimi 19 anni. Anche grazie a due strane lettere: una firmata da una banca off-shore con sede a Gibilterra, che lascia il sospetto di non valere quasi nulla; l’altra inviata a Francesco, in cui si prende in giro il Papa parlando di dignità umana e comunità francescana, e che potrebbe aver pesato molto. Lo racconterà lunedì sera Report, la trasmissione di Sigfrido Ranucci su Rai 3, con l’inchiesta di Giorgio Mottola e alcuni documenti inediti che addensano più di un’ombra sull’assegnazione. Per alcuni è una questione artistica. Per altri è un intrigo internazionale, tra “zii d’america” che pagano, alte sfere vaticane e ideologhi dell’ultradestra. Forse è solo un problema legale, una procedura che potrebbe essere inficiata da un paio di vizi formali.

C’è un po’ tutto questo nella nuova storia della Certosa di Trisulti, che rischia di compromettere un passato millenario. L’affidamento del monastero al Dignitatis Humanae Institute, che ha avuto tra i suoi padri fondatori Rocco Buttiglione prima di passare nelle mani degli ultraconservatori, aveva già fatto rumore. Quando gli abitanti di Collepardo l’hanno scoperto sono scesi in marcia. Chi era Benjamin Harnwell lo sapevano bene: uomo di fiducia di Bannon, ex guru di Donald Trump, teorico del populismo che ora mette radici nell’Italia di Matteo Salvini, da lui incontrato più volte, pure nei giorni della nascita del governo gialloverde. Bannon ha deciso di spostare la sua roccaforte in Ciociaria. C’è lui dietro l’istituto e il progetto di aprire una scuola politica di sovranismo, che ha già raccolto mille richieste d’iscrizione: anche se Harnwell si trincera dietro la privacy, Bannon ammette candidamente di essere il “benefattore”. Secondo il contratto, l’associazione dovrebbe versare al Ministero un canone di 100 mila euro l’anno, da pagare in ristrutturazioni e tasse comunali. Al momento, però, a Collepardo non hanno visto un euro, e nemmeno un dollaro. Solo una dichiarazione di “coerenza del piano economico”, da parte di un istituto con sede in Gibilterra della Jyske Bank, banca danese coinvolta in una serie di scandali finanziari sul mancato rispetto delle norme anti riciclaggio e all’evasione fiscale.

Lo Stato, dunque, ha ceduto un prezioso monastero del Milleduecento senza avere neanche una fideiussione. Ma non è l’aspetto più oscuro della procedura: secondo Report, il Dignitatis Humanae Institute non avrebbe nemmeno potuto partecipare al bando. Per farlo servivano requisiti ben precisi, innanzitutto avere personalità giuridica: l’associazione dichiara di esserlo da fine 2016, ma dalle carte in Prefettura risulta riconosciuta soltanto a giugno 2017; sei mesi dopo la scadenza dei termini.

L’altro requisito era aver gestito un bene culturale negli ultimi 5 anni. L’istituto dichiara di aver diretto “Il Piccolo Museo di San Nicola”, sempre a Collepardo. Così piccolo, però, che nessuno lo conosce: nemmeno il sindaco Mauro Bussiglieri, che spiega di non aver mai rilasciato alcuna autorizzazione. L’unico atto ufficiale che ne attesta l’esistenza è una scrittura privata firmata dall’abate di Casamari, Eugenio Romagnuolo, che però oggi dice “Non lo so, non c’è niente là”. E, curiosamente, compare proprio nell’organigramma dell’associazione di Bannon e Harnwell.

I titoli della Dignitatis humanae sono quantomeno deboli. Eppure il Ministero si lascia convincere, forse da altre referenze. L’associazione presieduta dal cardinale ultraconservatore Raymond Leo Burke, capo della fronda interna al Vaticano, non è certo vicina a Papa Francesco: annovera pure Walter Branmuller, che con Burke ha denunciato la presenza di una lobby gay nella Santa Sede, e Edwin O’Brien, estremamente critico col papato. Eppure è proprio a Bergoglio che l’Institute scrive nel 2015 per ottenere la certosa: nella missiva firmata dal cardinale Raffaele Martino, però, non si fa alcun riferimento alla scuola di formazione sovranista, solo a una comunità religiosa animata da “carisma francescano”.

Il Papa a quella lettera non ha mai risposto, l’ex ministro Dario Franceschini, allora a capo del Dicastero, giura di non aver ricevuto pressioni. Ma la firma del porporato Martino, che oggi non risulta più presidente onorario (carica ceduta a Burke), pesa. Infatti poco dopo la sua lettera, la Dignitatis Humanae incassa il sostegno del vescovo di Anagni e Alatri, Lorenzo Loppa, che dà la sua benedizione alla concessione. “Era prima che rivelassero le loro alleanze. Venivano da me sempre con il nome di un cardinale, io che dovevo fare?”, si giustifica ora. Ma ora forse è troppo tardi: la Certosa di Trisulti non è più un monastero, è diventato un “club per sovranisti”.

Nessun incontro in agenda Conte e Siri in attesa delle carte

L’appuntamento non è stato ancora fissato: stasera il premier Giuseppe Conte rientra dal viaggio in Cina, ma in agenda non ha ancora segnato l’incontro con il sottosegretario Armando Siri. Nella telefonata di giovedì, l’ultima fatta dal presidente del Consiglio prima di partire, c’è stato solo un generico impegno a vedersi “negli occhi” il prima possibile. Di date, però, non se n’è proprio parlato.

Così, non è escluso che Conte, anziché confrontarsi “al buio” con l’esponente della Lega, voglia aver prima letto almeno qualche carta. Il deposito da parte della Procura di Roma è avvenuto venerdì, ma l’avvocato di Paolo Arata, co-indagato nell’inchiesta che vede il sottosegretario accusato di corruzione, non sembra aver fretta di ritirare gli atti. “Lo faremo all’inizio della settimana”, ha detto ieri. D’altronde, nemmeno il Tribunale del Riesame ha ancora fissato l’udienza “e quindi non è stato possibile neanche visionare il materiale depositato dai pubblici ministeri”. È nelle pagine dell’informativa della Direzione antimafia di Trapani che sarebbe contenuta anche l’intercettazione ambientale tra Arata e suo figlio, quella in cui si parlerebbe dei 30 mila euro “dati o promessi” al sottosegretario, in cambio di un suo interessamento agli incentivi per l’azienda del settore eolico.

Ma anche dal punto di vista politico, non sembra esserci fretta. Ieri il vicepremier Matteo Salvini, che già nei giorni scorsi aveva “raffreddato” la difesa di Siri, ha liquidato la faccenda così: “Conte sta decidendo. Io parlo di vita vera e non di altro”. Non certo gli stessi toni delle dichiarazioni che il premier ha fatto trapelare da Pechino, in cui si è impegnato a “scollare” Siri dalla sedia se dovesse convincersi dell’opportunità delle sue dimissioni. Dopo il colloquio, che a questo punto potrebbe anche arrivare dopo il confronto tra il sottosegretario e i pm, è pronto a revocargli l’incarico di governo. “Dovrà confrontarsi con il partito che lo ha scelto – ha fatto sapere ieri il capogruppo della Lega alla Camera, Riccardo Molinari –. Togliere le deleghe a Siri da parte del ministro Toninelli è stato un gesto non proprio amichevole, sicuramente irrituale”.

Parma, no dei giudici al riconoscimento dei figli delle coppie gay

La Procura della Repubblica di Parma ha presentato ricorso contro quattro atti di riconoscimento effettuati lo scorso 21 dicembre, relativi ad altrettanti bambini, compiuti da donne unite civilmente o conviventi con le madri naturali. riconoscimenti erano stati effettuati dinanzi al sindaco di Parma, Federico Pizzarotti, in qualità di ufficiale dello Stato civile. In uno dei casi, spiega la Procura, si era trattato di una sorta di riconoscimento incrociato, atteso che ciascuna delle due madri – tra loro conviventi – aveva riconosciuto il figlio partorito dall’altra donna. Il caso di Parma, ricorda la Procura, si inserisce “nel solco del delicato problema della possibilità che un bambino, riconosciuto alla nascita soltanto dalla madre (con l’espressa indicazione che il figlio era “nato dall’unione naturale di essa dichiarante con uomo non parente né affine”), venga successivamente riconosciuto come proprio figlio anche dalla donna, convivente o unita civilmente con la madre naturale”. In altri termini, il tema è se un bambino possa essere riconosciuto come figlio di una coppia omosessuale, possibilità che, nell’ordinamento italiano, ad oggi nessuna norma consente o prevede, sottolinea la Procura.

Da Gela a Bagheria fino a Castelvetrano. Le sfide di oggi

Quasi mezzo milione di elettori sono chiamati al voto oggi in Sicilia, dalle 7 alle 23, per eleggere sindaci e consiglieri in 34 comuni. L’unico capoluogo di provincia chiamato alle urne è Caltanissetta che, insieme ad altre sei amministrazioni, sceglie il suo sindaco con il maggioritario a doppio turno: l’eventuale ballottaggio (necessario se nessuno dei candidati ottiene almeno il 40 per cento di consensi) si terrà il 12 maggio. Negli altri 27 comuni, con popolazione inferiore a 15 mila abitanti, invece viene eletto chi prende più voti al primo turno. A Caltanissetta la Lega presenta un proprio candidato, Oscar Aiello, poichè non ha trovato l’accordo con il resto del centrodestra. A Bagheria, il sindaco uscente del M5S, Patrizio Cinque (con pendenze giudiziarie che lo hanno fatto espellere dal Movimento), non si ricandida: lo fa in compenso Romina Aiello, assessore della sua giunta. Anche Gela, che nella scorsa tornata ha eletto un sindaco pentastellato espulso poco dopo l’elezione, il candidato M5S è Simone Morgana. Qui Forza Italia è alleata del Pd, a sostegno di Lucio Greco. I dem presentano il loro simbolo solo a Castelvetrano, comune sciolto per mafia due anni fa, altrove si presentano con le liste civiche.

Il favoloso mondo della Film Commission nelle mani del commercialista Di Rubba

Il favoloso mondo della Film Commission padana è stato il dott. Alberto Di Rubba, commercialista. C’era una volta il cine-porto di Cologno Monzese dove arrivava il carrozzone per i ciak all’ombra della Madonnina. Ora, sul sito ufficiale della fondazione Lombardia Film Commission – costituita da due soli soci, Regione e Comune – compare la voce cine-porto ma nessun produttore o regista interpellati ne conosce l’ubicazione. Al contrario si hanno notizie del palazzo di Cormano sede della Film Commission per la quale è stato coniato il detto: “Per presiederla bisogna capire di cinema non solo andare al cinema”. In barba alla trasparenza, dal sito non sono accessibili statuto e neppure bilancio. L’ultimo bando (di 750 mila euro) è del 2017. Un bando “a sportello” – della serie il primo che arriva, meglio alloggia – è rimasto impresso per il “vuoto di criteri di qualità di accesso”: una produzione di mesi valeva tanto quanto un video di due giorni sul numero delle guglie del Duomo; il punteggio era premiante sulla “stretta territorialità”, tutto made in Lombardia, altrimenti niente.

I bene informati ricordano poi che per la corsa alla presidenza (assegnata a Di Rubba) avesse partecipato anche il tesoriere della Lega Giulio Centemero: candidatura ritirata. Lombardia Film Commission per gli addetti ai lavori è: “Un luogo dove i dipendenti lavorano sodo”. Su vertici e risultati: “Un mistero, peggio di una danza macabra” fatta di spettri.

L’immobile pagato il doppio del prezzo e quel commercialista vicino al Carroccio

C’è un nuovo nodo da sciogliere nella già complicata vicenda dei flussi di denaro riferibili alla Lega di Matteo Salvini. Si tratta della compravendita di un immobile in via Bergamo 7 a Cormano in provincia di Milano. La struttura composta da laboratori e uffici viene acquistata per 800 mila euro dalla fondazione Lombardia Film Commission, ente di diritto privato partecipato anche dalla Regione Lombardia e dal comune di Milano. A vendere è una società immobiliare che lo ha acquistato a esattamente metà del prezzo. La vicenda, che non ha al momento alcun rilievo penale, viene illustrata in parte dall’Espresso in edicola oggi. L’inchiesta del settimanale parte da un tesoretto di 3 milioni di euro di donazioni al partito che secondo la ricostruzione giornalistica sarebbe poi sparito. Per capire la vicenda dell’immobile bisogna mettere in fila date e nomi, alcuni dei quali molto vicini alla cerchia del vicepremier Matteo Salvini. Andiamo con ordine. Il 14 febbraio 2017 la Paloschi srl, società in liquidazione, vende la struttura alla immobiliare Andromeda che in quel momento ha sede in via Turati a Milano ed è amministrata da Fabio Barbarossa. Andromeda acquista al prezzo di 400 mila euro e paga con quattro assegni bancari non trasferibili. I soldi arrivano da unico conto corrente aperto preso la filiale Unicredit di via Carducci a Milano. Un anno e otto mesi dopo e cioé il 13 settembre 2018, Andromeda rivende alla Lombardia Film Commission. Prezzo: 800 mila euro, parte di questi è denaro pubblico. Una lievitazione di costi che potrebbe essere legata a lavori di ristrutturazione.

Il Cda della fondazione delibera l’acquisto il 26 luglio 2018, quando si riunisce nello studio del commercialista Michele Scillieri in via Privata delle Stelline 1 sempre a Milano. Stesso studio presso qui risulta domiciliata la nuova Lega di Salvini. Il dato è noto dai primi di luglio del 2018 quando a darne notizia è il Fatto quotidiano. Successivamente intervistato dal Corriere della Sera Scillieri dirà che fu Andrea Manzoni nel dicembre 2017 a chiedergli di fissare il domicilio del nuovo movimento di Salvini presso il suo studio. Andrea Manzoni, assieme al tesoriere del Carroccio Giulio Centemero e ad Alberto Di Rubba, ha creato l’associazione “Più voci” finita nell’inchiesta romana sull’imprenditore Luca Parnasi perché destinataria di un finanziamento di 250mila euro. Manzoni e Di Rubba sono professionisti vicini a Salvini. E anche Scillieri è gradito alla Lega. Torniamo alla compravendita. Nell’atto notarile del 13 settembre è allegato anche il verbale dell’assemblea del Cda di Lombardia Film Commission che si è tenuto, come detto, il 26 luglio. Qui si legge che “l’assemblea dei soci del 28 novembre 2017 aveva già conferito al Presidente del Cda Alberto Di Rubba ogni potere (..) per rappresentare la Fondazione alla stipula del rogito”. Di Rubba dunque è stato presidente della fondazione. Carica ricoperta quando governatore era Bobo Maroni e poi mantenuta sotto la presidenza di Attilio Fontana fino al 28 giugno 2018. Così come Scillieri che nella fondazione ha avuto il ruolo di sindaco supplente cessato nella stessa data di Di Rubba. L’atto dell’assemblea sulla compravendita sarà poi firmato dall’attuale presidente Giuseppe Alessandro Farinotti. Una settimana dopo l’acquisto, e cioé il 19 settembre 2018, il socio unico di Andromeda diventa la Futuro partecipazioni, società il cui amministratore è sempre Michele Scillieri. La Futuro partecipazioni è detenuta per il 100% dalla fiduciaria Fidirev.

Al momento dell’acquisto da parte di Lombardia Film Commission, la Andromeda è ancora amministrata da Fabio Barbarossa che però non sarebbe più socio unico dal 12 dicembre 2017. Pochi mesi dopo l’acquisto dell’immobile di via Bergamo, il 17 dicembre 2018, la società immobiliare viene messa in liquidazione volontaria, liquidatore risulta essere lo stesso Michele Scillieri.

“Il clan Di Silvio compra voti e punta sul cavallo vincente”

“Qui a Latina il clan Di Silvio si occupa di tutto: attività legali e illegali, anche di politica. Nel 2016 hanno scelto le liste Noi con Salvini, perché scelgono sempre i loro cavalli, qualche volta vincono, altre perdono, certo la Lega col senno di poi pare essere un azzeccato investimento per il futuro”. Quasi nessuno ha voglia di parlare dei Di Silvio in un bar vicino al quartiere Campo Boario, agglomerato di casette basse a due piani, a tre minuti dal centro di Latina, abitate per lo più dalla “famiglia” di etnia sinti. Chi lo fa implora l’anonimato più rigoroso. L’omertà qui è regola, chi la rompe ha paura.

Nelle carte delle varie inchieste della magistratura, da Don’t touch ad Alba pontina, si legge non solo di attacchinaggi, ma anche di voto di scambio: “Nelle elezioni, oltre a mettere i manifesti (uno dei boss, ndr) comprava i voti. Io ad esempio ho ricevuto 50 euro in cambio del voto e così moltissime persone dimoranti in viale Nervi”: ultima dichiarazione a verbale di un pentito, Riccardo Toselli, anzi ex pentito perché dopo due deposizioni nel 2016 ha interrotto la collaborazione “temendo per la mia vita e per quella della mia compagna”. “La provincia di Latina, ponte tra i traffici della camorra tra Roma e Napoli, è terra di nessuno, un porto franco lasciato nelle mani dei Di Silvio da quarant’anni e noi venivamo presi per matti quando denunciavamo”, si sfoga Elvio Di Cesare, corpo e anima dell’associazione antimafia Antonino Caponnetto. E le rivelazioni dei pentiti, come Agostino Riccardo, ex affiliato al feroce clan, che ha raccontato alla Dda di Roma l’attacchinaggio elettorale per Salvini nel 2016, portano alla ribalta nazionale queste strade dove il “forestiero” viene notato subito. Dai ragazzi sul marciapiede attorno a un motorino scassato che lanciano fischi di avvertimento, da volti dietro persiane che immediatamente si chiudono.

Da via Milazzo, imboccata via Epitaffio, superato il rio Martino, c’è via del Pantanaccio. Ecco una serie di villette ordinate. Il vertice del clan Di Silvio, famiglia sinti originaria dell’Abruzzo imparentata con i più noti Casamonica e Spada di Roma, è racchiuso in questo quadrante. Molti altri occupano nei palazzoni Ater di viale Nervi, vicino alla Pontina. Il mese scorso c’è stato qualche sgombero tra urla e resistenze. Un esercito di duecento uomini e donne fino al giugno 2018 comandato da Armando detto Lallà. Poi è scattata l’operazione Alba pontina della Dda di Roma, un mese fa è cominciato il processo, e Lallà è accusato di associazione mafiosa. Il clan di Latina era organizzato come una vera e propria Cupola, al vertice del quale c’era appunto Lallà. Il numero due, Riccardo Agostino, detto Balò, l’unico non sinti, ha scalato le posizioni negli anni. Poi i tre figli Ferdinando detto Pupetto, Gianluca e Samuele.

E le donne, Sabina De Rosa, moglie di Lallà. E le cosiddette operaie della droga. Addette a preparazione, confezionamento e anche spaccio degli stupefacenti. Trovare in questa zona di Latina, ma anche in centro, negozi non riconducibili ai Di Silvio, negli ultimi anni, poteva essere come cercare l’ago in un pagliaio. Molte attività economiche della città, anche per riciclare i proventi dei crimini, sono roba loro. Fiumi di droga, quindi, e prostituzione: il traffico di corpi sulla Pontina è frutto di accordi con i clan della camorra presenti nel Lazio. Donne sfruttate con ferocia, da altre donne magari, perché il clan Di Silvio è quasi matriarcale. Anzi, rinchiuso Lallà oggi, con tutta probabilità lo scettro del comando è stretto proprio da una donna. Pochi giorni fa le testate locali qui hanno pubblicato una lettera di Angelina Di Silvio, la moglie dello storico capostipite Ferdinando, ucciso da una bomba al Lido di Latina nel 2003. Madre di Costantino, detto Patatone, che sta scontando una pena di oltre 50 anni a Rebibbia per l’omicidio nel 2010 di Fabio Buonamano detto Bistecca. E figlia di Vincenzina Spada, ammazzata nel 1999 in casa sua a Cassino. “Sono ancora in attesa di conoscere la verità su queste morti”, scrive Angelina chiedendo giustizia allo Stato.

A Mazara, tra fischi e applausi. La Lega sbarca nella città araba

Erano poco più di una trentina, tutti giovanissimi, circondati da una folla di cinquemila persone. Qualche cartellone con scritto “Orgogliosi di essere terroni”, i cori, i “buuu”: tanto è bastato per fare innervosire Matteo Salvini, giunto all’ultima tappa della suo tour siciliano. “Qui ci sono anche i comunisti che erano a farsi le canne in un centro sociale mentre rubavano il futuro ai loro genitori”, è riuscito a dire il ministro dell’Interno, fischiato mentre inveiva contro la legge Fornero.

Dopo due giorni di selfie, bagni di folla e sudatissimi abbracci tra Corleone e Gela, il leader del Carroccio è inciampato nella prima vera contestazione sull’isola.

A Mazara del Vallo, la città più araba d’Italia, c’è anche chi non vuole foto ma è venuto solo per fischiarlo. “Il buffone deve ricordarsi che ci chiamava terroni”, dicono i più arrabbiati. Niente a che vedere rispetto al 2015, quando nella vicina Marsala una piazza inferocita aveva messo in fuga il “capitano” prima del comizio.

Quattro anni dopo molto è cambiato. La voglia di Lega sembra la Linea della Palma di Leonardo Sciascia ma al contrario: si è spinta a 1.500 chilometri da Milano, è scesa giù fino a 120 miglia da Tunisi. Qui dagli anni ‘70 vivono e lavorano circa tremila maghrebini. Sono andati ad abitare tra i vicoli della Kasbah, il centro storico che testimonia l’antica dominazione islamica della città. A Mazara le culture diverse non esistono più, nel senso che si sono fuse dopo quarant’anni di contaminazione. Le campane della chiesa di San Francesco rimbombano mentre dalla moschea di Ettakwa si avverte il richiamo dei Muezzin, che ricorda ai fedeli le cinque preghiere quotidiane. Tra le viuzze del centro passeggiano tunisini di terza generazione, nati qui da genitori italiani e dunque elettori a tutti gli effetti: voteranno per Salvini? “Non lo so. A nord, dove c’è la Lega, non sono buoni con gli islamici”, dice Ben, 34 anni e un lavoro su un peschereccio. “Però è anche vero che le cose oggi sono cambiate, l’immigrazione va regolamentata”, lo contraddice l’amico che lo accompagna.

Idee contrapposte in quella che è la città dal sangue misto. Ma queste parole Giorgio Randazzo, il leghista candidato sindaco, non le pronuncia mai. Promette soprattutto una “città normale”. “Noi siamo un modello positivo di integrazione perché qui la gente lavora e paga le tasse. L’integrazione qui ha funzionato perché c’era lavoro”, arringa dal palco. E ora? “Oggi il lavoro non c’è neanche per i siciliani. E poi non bisogna confondere l’integrazione con la sicurezza”. Randazzo ha solo 29 anni, ma ne ha già trascorsi cinque in consiglio comunale. Un lustro e tre casacche cambiate, tutte a destra: eletto col sindaco uscente Nicola Cristaldi, passato nella lista del governatore Nello Musumeci, si è anche iscritto al movimento per la sovranità di Gianni Alemanno. Quindi la conversione ad Alberto da Giussano e i complimenti pubblici di Salvini: “L’avessi io a Milano un sindaco così”.

Sotto il palco una ventina di uomini dalla faccia abbronzata rumoreggia più degli altri. Sono i pescatori: Mazara era la prima marineria d’Italia. Aveva 400 imbarcazioni, ora sono meno di cento. “Ma noi siamo di Sciacca, dove le cose vanno pure peggio”, ci tengono a specificare. Reggono uno striscione con scritto: “Legge 154 infame”. Che cos’è la legge 154? “Una porcata europea”, dicono, riferendosi a una norma che recepisce la direttiva Ue sulla pesca. “Ci hanno fatto allargare le maglie delle reti e adesso non prendiamo più niente. Quelle maglie vanno bene per i pesci dell’oceano del Nord non per il Mediterraneo. Ci stanno ammazzando come stavano facendo coi pastori sardi”. Loro sì che voteranno per Salvini. “Vuole andare in Europa a fare bordello. Lo sapete quale è il primo problema della Sicilia, vero?” L’Unione europea? “No, l’autonomia. A Palermo ti dicono di parlare con Roma. A Roma ti dicono che la competenza è di Palermo. Un casino”. Ma non è proprio Salvini il primo sostenitore delle autonomie regionali? Il capo dei pescatori in rivolta liquida l’obiezione: “Quella che dice lui funziona”.

Basta una frase e la linea della Palma in salsa leghista continua ad avanzare. Non la ferma neanche la logica.