Lucano si ricandida consigliere, ma senza poter entrare a Riace

alcuni partiti gli avevano offerto il posto di capolista alle Europee. Alcuni nella circoscrizione Sud, altri in tutte. Mimmo Lucano doveva solo scegliere su quale treno salire per arrivare a Bruxelles. E, invece, è rimasto alla stazione di Riace. A tutti ha detto no. Dopo tre mandati consecutivi, non può più ricandidarsi a sindaco. Ma lo farà da consigliere comunale sostenendo la lista “Il cielo sopra Riace”, guidata dalla candidata a sindaco Maria Spanò. Lucano riprenderà il suo percorso dal basso, nel borgo di 1700 anime nella Locride, in provincia di Reggio Calabria. Lo farà nonostante sia sottoposto al divieto di dimora e rinviato a giudizio nel processo “Xenia”, nato da un’inchiesta della Procura di Locri che lo accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e di aver gestito male i fondi dell’accoglienza. “Sarà difficile per me gestire la campagna elettorale senza poter entrare a Riace. – aggiunge – Con il divieto di dimora mi sento limitato rispetto al contributo che potrei dare alla lista”. Così, c’è già chi pensa a collegamenti Skype o ad altre soluzioni per consentire a Lucano di esercitare il suo diritto a candidarsi anche se “al confino”.

“Riace deve resistere. Quello che è stato fatto in questi anni con Mimmo non deve essere buttato via”. Maria Spanò è una degli assessori più vicini a Lucano. Oggi tocca a lei guidare la squadra in una campagna elettorale che vede altre due liste in campo: quella dell’ex Maurizio Cimino (che Lucano aveva allontanato nel 2016) e quella di Antonio Trifoli, un vigile urbano simpatizzante della Lega che candida a consigliere Claudio Falchi, il segretario cittadino del partito di Salvini.

Anche il rischio che la Lega metta il cappello nella sua Riace ha spinto il sindaco “sospeso” a rifiutare la candidatura alle Europee e restare in Calabria: “Sarebbe stato comodo, – spiega – ma non volevo che qualcuno dicesse che avrei approfittato della notorietà avuta involontariamente a causa delle vicende giudiziarie. Visto che l’inchiesta è ancora in corso, non volevo che qualcuno pensasse che puntavo all’immunità parlamentare”. Il riferimento è al caso di Armando Siri: “Il sottosegretario della Lega è indagato per questioni ben più gravi di quelle che mi riguardano – dice Lucano –. Lui però è al governo, mentre io non posso nemmeno andare nel mio paese”.

Verso le Comunali: l’ombra della destra sulle ex città rosse

Si comincia oggi in Sicilia, si prosegue il 26 maggio, si chiude in Sardegna il 16 giugno: la cartina amministrativa d’Italia sarà ridisegnata nel prossimo mese e mezzo. Non saranno solo le Europee a determinare i prossimi equilibri politici: in questo periodo si voterà in Piemonte e in 3.856 Comuni, 30 dei quali capoluoghi di provincia e 6 capoluoghi di regione: Bari, Cagliari, Campobasso, Firenze, Perugia e Potenza. Tra le città con più di 100mila abitanti ci sono anche Bergamo, Ferrara, Foggia, Forlì, Livorno, Modena, Pescara, Prato, Reggio Emilia e Sassari. Ieri scadeva il termine per la presentazione delle candidature: ora la parola passa agli elettori.

La battaglia del Tav. La partita più pesante è quella piemontese. Sergio Chiamparino cerca il bis contro il forzista Alberto Cirio. Entrambi stanno provando a mettere il cappello sul movimento a favore della Torino-Lione: Chiamparino candida la madamina Giovanna Giordano Peretti, Cirio lancia la civica “Sì Tav Sì Lavoro” guidata da Mino Giachino. Anche qui i Cinque Stelle dovrebbero accomodarsi (si fa per dire) al terzo posto con Giorgio Bertola. Un sondaggio che circola nel centrodestra, pubblicato dal sito Affaritaliani.it, pronostica un successo clamoroso del Carroccio (sopra al 35%) e una netta affermazione del centrodestra. Invece per un sondaggio Ipsos pubblicato dal Corriere Torino Chiamparino e Cirio sarebbero appaiati. Non ci sarà CasaPound, che non è riuscita a raccogliere le firme per candidarsi.

Rosso relativo. L’ombra di Salvini si allunga pure su una delle ultimissime regioni rosse: il 26 maggio in Emilia Romagna si scelgono i sindaci di Ferrara, Modena, Reggio Emilia, Forlì e Cesena. Cinque feudi della sinistra a rischio mutazione. A Ferrara, per esempio, il Pd è passato dal 46% delle Comunali del 2014 al 25% delle Politiche del 4 marzo 2018. La Lega nello stesso periodo è salita dal 3 al 23,7%. A Modena un sondaggio del Carroccio promette il sorpasso: quello di Salvini sarebbe il primo partito cittadino con il 28%.

Sfida serrata a Livorno, la città rossa che nel 2013 si è consegnata ai 5Stelle e a Filippo Nogarin. Il sindaco uscente non si ricandida ma ha lasciato l’onere alla sua vice, Stella Sorgente. Al ballottaggio però anche qui potrebbero andare centrodestra e centrosinistra. I dem hanno puntato sul giornalista della rete locale Granducato Tv, Luca Salvetti, a destra il candidato è espressione di Fratelli d’Italia. Dovesse vincere lui, Massimo Romiti, la comunista Livorno si troverebbe in municipio il suo primo sindaco di estrazione post-fascista.

A Firenze, Bari e Bergamo invece il Pd e i suoi alleati partono favoriti: per Dario Nardella, Antonio Decaro e Giorgio Gori la conferma non pare in discussione.

Curiosità. C’è il ritorno del “re delle fritture di pesce” Franco Alfieri, l’uomo che Vincenzo De Luca omaggiava come fuoriclasse della politica clientelare (“Una clientela organizzata, scientifica, razionale come Cristo comanda”). Ex sindaco di Agropoli e capo segreteria dello stesso De Luca, Alfieri si candida a fare il primo cittadino di Capaccio Paestum (Salerno). Lui stesso, d’altra parte, si definisce “un sindaco che sa fare il sindaco”. Sicuramente sa fare le alleanze: a suo sostegno ci sono addirittura 8 liste e 128 candidati. Niente male, in un paese con appena 22mila abitanti.

Grande confusione per il sindaco di Avellino: i candidati sono 8 e il centrodestra è riuscita nell’impresa di spaccarsi in tre. La Lega va da sola con Biancamaria D’Agostino, Fratelli d’Italia, Forza Italia e Udc sostengono Dino Preziosi. Il terzo è l’ex leghista Damiano Genovese, figlio del camorrista Amedeo Genovese, capo dell’omonimo clan, condannato all’ergastolo e recluso in regime di 41 bis. Damiano, malgrado le sollecitazioni, non ha mai voluto prendere le distanze dal padre. Dopo una breve militanza nel Carroccio si è messo in proprio.

A proposito di parentele delicate: a Casal di Principe (Caserta) si candida il 28enne Luigi Cantelli, nipote del boss Francesco Bidognetti, alias “Cicciotto ‘e mezzanotte”, in carcere dal 1993 (quando Cantelli aveva solo 2 anni). E lo fa con Renato Natale, sindaco considerato un simbolo dell’anticamorra che cerca la riconferma nella città dei casalesi. Cantelli ha chiesto di essere candidato con una lunga lettera a Natale: “Nessuno al momento della nascita ha la possibilità di scegliere i propri familiari, ma non ho mai avuto rapporti con lui, ne condanno moralmente le azioni, che hanno danneggiato anche indirettamente la mia persona”. E sempre in tema di questioni familiari: nel piccolo Comune di Perlo (Cuneo) si sfidano per la carica di sindaco addirittura madre e figlia: Graziella Franco e Simona Rossotti. La mamma però è avvantaggiata: nelle sue liste c’è il marito (e papà della sfidante) Franco Rossotti.

Gli enti riformati: meno trasferimenti, meno servizi e pure meno democrazia

Questo non è l’elogio del buon tempo antico, ma va detto chiaramente che la mezza abolizione delle province realizzata nel 2014 semplicemente non funziona. È il parere unanime di chiunque ne abbia studiato gli effetti, persino dell’Ufficio valutazione impatto del Senato, che al tema ha dedicato un dossier nel 2017, a tre anni dalla riforma. Nell’ultimo biennio la situazione è semmai peggiorata.

Fino a 5 anni fa. Le vecchie province, ancora previste in Costituzione con tanto di (negata) autonomia finanziaria per i loro compiti, erano 107 e gestivano (e spesso gestiscono) cose di una certa rilevanza: la sicurezza di 5.179 edifici che ospitano 3.226 scuole superiori frequentate da 2,6 milioni di studenti; la manutenzione di 130mila chilometri di strade e 30mila tra ponti, viadotti e gallerie; la difesa del territorio e la tutela dell’ambiente, più altre cosette.

Dopo il 2014. La legge intitolata a Graziano Delrio, all’epoca ministro di Letta, ha trasformato le 107 province in 14 “città metropolitane” (Roma, Milano, Napoli, etc) e in decine di “enti di area vasta” (tutte le altre), trasformandole contestualmente in “enti di secondo livello”. Tradotto: abolite le elezioni, presidenti e consiglieri vengono votati tra gli eletti dei comuni della zona. Il risparmio sugli stipendi è stato di circa 100 milioni, in compenso (dicono i tecnici del Senato) sono aumentate le spese di funzionamento (+38% nei primi tre anni, chissà dopo).

Le funzioni. La legge Delrio prevedeva che le Regioni decidessero chi faceva cosa delle vecchie competenze provinciali. Risultato: ognuno ha fatto un po’ come gli pare, anche se in generale la tendenza è stata all’accentramento delle responsabilità in capo ai governatori e alle loro giunte.

Il personale. Ovviamente non è stato licenziato: una metà è rimasto nel suo vecchio posto, l’altra è finita nei nuovi enti creati dalle Regioni o in altri enti statali.

I soldi. Sono il vero contenuto della “riforma” delle province: al suo esito si può dire che lo Stato oggi guadagna dalla loro esistenza. Dicono infatti Costituzione e legge che le province sono enti autonomi e devono vivere dei loro tributi (pezzi di imposte sulla Rc auto, rifiuti, spazi pubblici, etc), fatti salvi i radi interventi perequativi dello Stato. Problema: questo è impossibile a parità di funzioni. Secondo problema: oggi i tributi “provinciali” sono superiori e di parecchio a quel che Roma gira agli “enti di area vasta”.

L’Austerità. L’Italia l’ha fatta soprattutto in provincia. Basti dire che ancora nel 2013 il costo degli enti era circa 11 miliardi l’anno e oggi non si arriva alla metà. I trasferimenti dallo Stato sono talmente pochi che ogni anno bisogna fare un decreto per evitare fallimenti a catena (qualcuno c’è già stato): una società del Tesoro ha calcolato che con qualità della spesa ideale e massima aliquota sui tributi propri lo sbilancio delle regioni è comunque poco meno di un miliardo l’anno. Basta farsi due conti per capire di che parliamo: una riforma presentata come un’aggressione alle poltrone, alle maxi indennità e agli sprechi della politica ha prodotto risparmi per circa 100 milioni l’anno sugli amministratori (passati da circa 4mila a circa 900) e per circa sei miliardi su tutto il resto.

Risultato. Ricordate le scuole fatiscenti, i ponti su cui non si fa manutenzione e molte altre cose che si dovrebbero fare e non si fanno? Ecco, stanno anche nei numeri che abbiamo appena elencato, che hanno poi effetti clamorosi sulla vita delle persone: la spesa per investimenti delle province (scuole superiori, strade) nei soli primi tre anni della riforma Delrio è calata di quasi il 70%. E poi c’è la manutenzione: per sapere com’è andata basta ricordarsi, ad esempio, dei mezzi mancanti nei giorni della tragedia dell’hotel Rigopiano. Era l’inizio del 2017 in Abruzzo quando scoprimmo che pure le turbine spazzaneve sono provinciali. O meglio, erano.

Province, ora il governo litiga sull’elezione diretta

La campagna elettorale permanente tra le due forze di maggioranza ieri si è tirata dietro un fantasma: le Province, antico cavallo di battaglia “anti-casta” dei grillini che torna buono oggi, in tempi di battaglie campali per qualche decimale nei sondaggi.

Andiamo con ordine. La colpa, per così dire, è tutta del Sole 24 Ore che ieri riporta come al tavolo tecnico-politico della Conferenza Stato-Città, istituito dall’ultimo decreto Milleproroghe (fine 2018), si stia lavorando a una riforma del Testo unico per gli enti locali in cui finirà anche l’assetto di quel che resta delle Province. Una bozza da tradurre in legge, dice il quotidiano, prevede che gli enti abbiano “un presidente, eletto a suffragio universale dai cittadini dei Comuni che compongono il territorio provinciale, coadiuvato da una giunta da esso nominata” e pure un “Consiglio, avente poteri di indirizzo e controllo, eletto a suffragio universale”. Insomma, si torna all’elezione diretta dopo che la cosiddetta “riforma Delrio” del 2014 aveva trasformato le province in “enti di secondo livello”, il cui personale politico è eletto tra sindaci e consiglieri comunali e non più dai cittadini, e si riapre “la corsa a 2.500 posti fra consiglieri, assessori e presidenti”.

Al tavolo tecnico-politico citato dal Sole partecipano due viceministri, uno per parte: quello della Lega, Stefano Candiani (Interno), rivendica la bontà dell’iniziativa, tanto più che la Lega presentò a inizio legislatura un disegno di legge con contenuti simili; quello dei 5 Stelle, Laura Castelli (Economia), in serata sostiene che “nessuna decisione è stata presa, né mai ho dato il mio ok a elezioni di primo livello: per ora è solo un confronto nel quale sono coinvolte anche le associazioni; è necessario che si trovi una quadra rispetto anche alla nostra posizione per garantire i servizi ai cittadini, senza sprechi”.

Ecco, attorno a questa normale dialettica politica è nata l’ennesima guerra per i voti a mezzo stampa. Ha iniziato Di Maio: “Non se ne parla, l’Italia ha fin troppi problemi. Io non spendo altri soldi degli italiani per rimettere in piedi un carrozzone burocratico: non è così che si danno più servizi ai cittadini. Bisogna tagliarle le poltrone, non aumentarle”. Linea su cui si attesta poi l’intero Movimento.

La Lega, ovviamente, non gradisce e Matteo Salvini punta direttamente l’alleato: “Le province servono a dare i servizi ai cittadini” e a garantire che “scuole e strade d’Italia siano in condizioni normali ed efficienti. L’importante è che i 5 Stelle si mettano d’accordo, perché qualche viceministro dice di sì e qualche viceministro dice di no…”. Tradotto: per i leghisti la Castelli al tavolo tecnico aveva dato il via libera a quella bozza a nome del M5S (la viceministra grillina, come detto, smentisce). I 5 Stelle, intanto, si sono spinti un po’ più in là. Il capogruppo 5 Stelle alla Camera, Francesco D’Uva: “C’è poco da discutere sulle Province: vanno abolite. Un ente inutile e costoso che non ha funzionato per niente”. E già partono le proposte su come utilizzare i risparmi (“giù le tasse sul lavoro”).

Messa così è una critica ingenerosa (il senso di quanto successo in questi anni ve lo spieghiamo qui sotto con un po’ di numeri), mentre parlare di risparmi su enti già oggi al collasso è una pia illusione o una menzogna: quella delle Province – che hanno competenze su strade, scuole e ambiente che oggi non riescono a gestire – è al contrario una vicenda in cui si dimostra di plastica evidenza quanto danno possano fare riforme malscritte e che vengono spacciate come innovazioni istituzionali quando sono in realtà solo manovre di finanza pubblica. C’è poi un altro problema: l’abolizione delle Province – peraltro respinta dagli italiani col No alla riforma di Matteo Renzi – ha bisogno di una legge costituzionale e non porterebbe alcun risparmio futuro. La spesa in più per le elezioni e gli stipendi (che può oscillare tra 50 e 100 milioni annui) si potrebbe chiamare “costo della democrazia”.

Uno sparo nel buio

Leggo sempre Repubblica perché imparo sempre qualcosa di nuovo. Ieri, per esempio, grazie all’amico Massimo Giannini, ho appreso particolari inediti, anzi rivoluzionari, sulla schiforma della (il)legittima difesa e anche sul vero colpevole del governo giallo-verde. Ricapitolando: se l’Italia è governata da M5S e Lega non è colpa degli elettori che diedero all’uno il 33% dei voti e all’altra il 17%. E nemmeno del Pd che respinse gli appelli di Mattarella e Fico e l’offerta di Di Maio per un contratto di governo basato sui punti convergenti o compatibili dei rispettivi programmi, spingendo il M5S tra le braccia dell’unico alleato alternativo possibile, cioè Salvini. No, è colpa mia. Questa coalizione, infatti, “con buona pace del travaglismo in servizio permanente effettivo ha portato il Paese a surfare sulla cresta dell’onda nera montante in Europa”. Io naturalmente ringrazio l’amico Massimo per il peso spropositato che attribuisce ai miei scritti (in grado, addirittura, di fare e disfare governi). Ma faccio sommessamente notare che un anno fa il sottoscritto e il Fatto si batterono quasi da soli (erano con noi Zagrebelsky, Cacciari e pochi altri) per un governo fra i 5Stelle e un centrosinistra rinnovato. Invece il repubblichismo e il gianninismo in servizio permanente effettivo lavoravano alacremente con Renzi per allontanare il Pd dal pericoloso contagio grillino e portare Salvini al governo, salvo poi strillare al fascismo delle “due destre” fin dal giorno dopo.

Giannini riattacca poi la giaculatoria della “netta egemonia politica e mediatica della Lega nel governo”, confermata “una volta di più” dalla (il)legittima difesa. Sull’egemonia mediatica, non ci sono dubbi: solo che è dovuta anche al repubblichismo e al gianninismo in servizio permanente effettivo, che parlano sempre delle uniche due leggi targate Lega (legittima difesa e decreto Sicurezza, oltre alla quota 100 sulle pensioni in condominio col M5S) e dimenticano i ben più numerosi e utili provvedimenti targati 5Stelle (Anticorruzione con blocca-prescrizione, agenti infiltrati, incentivi ai pentiti, esclusione dei condannati dalle pene alternative, daspo a vita per i condannati; reddito di cittadinanza; abolizione dei vitalizi; Dl Dignità; cancellazione della svuota-carceri e del bavaglio sulle intercettazioni; voto di scambio; referendum propositivo, già passato alla Camera; risarcimenti ai truffati dalle banche, in attesa di ok dal Cdm). L’altra rivelazione di Giannini riguarda il monito inviato dal presidente Mattarella alle Camere e al governo mentre promulgava con la sua firma la (il)legittima difesa.

Questo: “La nuova normativa presuppone, in senso conforme alla Costituzione, una portata obiettiva del grave turbamento e che questo sia effettivamente determinato dalla concreta situazione in cui si manifesta”. Modestamente l’avevamo scritto anche noi mesi fa: la promessa salviniana a chiunque spari di non finire più indagato è una balla, perché sarà sempre un pm e poi un giudice a valutare se chi reagisce al ladro o al rapinatore aveva o meno il diritto di farlo. Perciò il monito presidenziale ci era parso un fervorino di buon senso, ma privo di conseguenze pratiche: purtroppo non modifica di una sillaba (né potrebbe farlo) il ddl Salvini, divenuto legge dello Stato con la firma presidenziale. Per modificarlo, Mattarella avrebbe dovuto respingerlo alle Camere con un messaggio motivato. Non l’ha fatto e da ieri vige la legge Salvini-Mattarella. Punto. Ma, come già con Napolitano quando firmava le leggi vergogna di B., c’è sempre qualche corazziere di complemento che finge di non capire; e racconta che il presidente non voleva, ha firmato di malavoglia, incrociando le dita dell’altra mano dietro la schiena, storcendo il naso e corrugando la fronte. Purtroppo le chiacchiere stanno a zero e il risultato non cambia: legge fatta capo ha. Per Giannini, invece, Mattarella ha sì firmato, ma “prima si è preso tutti i 30 giorni canonici”: il che già dovrebbe terrorizzare Salvini. Il quale, ciò non bastando, s’è visto “strozzare in gola il grido di battaglia” e “intralciare il percorso di guerra” dal monito sul “turbamento obiettivo”: un nonsense logico – come ha già scritto Daniela Ranieri –, visto che ogni turbamento è per definizione soggettivo. Dal punto di vista di chi lo prova (lo sparatore), di chi lo diagnostica (gli psicologi dell’accusa, della difesa e del Tribunale) e di chi lo accerta (il giudice).

Invece, per Giannini, la letterina sarebbe una “clausola di salvaguardia” che “neutralizza la legge”. Addirittura! Come se i giudici, fra una norma penale e una lettera di Mattarella, dovessero seguire la seconda, chini e riverenti dinanzi all’“unico argine all’impresario della paura”, simbolo delle “istituzioni democratiche che sono vigili e non arretrano”, portatore sano di una “pedagogia repubblicana” foriera della “mannaia della Consulta” che “presto probabilmente si abbatterà” sulla legge. Ora, non sappiamo cosa farà la Consulta. Sappiamo però che, se boccerà la legge, boccerà implicitamente anche chi l’ha firmata. Ma c’è da dubitare che Mattarella la ritenga incostituzionale: infatti scrive che si può applicare “in senso conforme alla Costituzione” affidando ai magistrati il giudizio sull’effettività del turbamento e la proporzionalità della reazione all’azione. A questo serve il monito: non a neutralizzare una legge appena approvata, ma a smontare la propaganda di chi l’ha voluta. Un atto politico-mediatico, non giuridico, che ribadisce ciò che sapevano già tutti: a ogni ladro ferito o ucciso seguirà un’indagine per accertare la legittimità o meno della difesa. Come avevano già spiegato tutti i giuristi. E persino qualche travaglista in servizio permanente effettivo.

La storia degli Alpini nella matita di Beppe Mora

Verrà presentata oggi pomeriggio, alle 17, a Palazzo Giacomelli di Treviso, la mostra “Un secolo di Alpini interpretato da Beppe Mora”. Partecipa il coro Ana i Gravaioli di Maserada. L’esposizione proseguirà fino al 26 maggio presso lo spazio culturale degli Alpini “Al Portello Sile“. Artista, cartoonist, graphic designer, autore satirico, Beppe Mora collabora con il Fatto Quotidiano. Ha iniziato vent’anni fa con Cuore, poi Comix, il Clandestino, Boxer, l’Unità e il Male. Ho fondato Malox con Sergio Saviane.

Tutto è verità, anche quella terribile che due regimi cercano di cancellare

Primo capitolo, prima riga: “Tutto in questo libro è verità”. Il lettore ci penserà spesso, leggendo, e persino l’autore gli chiederà a un tratto, in mezzo a una storia, di andare a rileggersi quella riga iniziale. Tutto vero, tutto scritto come bisogna scriverlo. Ma prima la storia. Nel settembre del 1941 i nazisti prendono Kiev, Ucraina, nuovi padroni, la grande civiltà germanica. Il 29 settembre convocano la popolazione ebraica dicendo di portare valori, soldi, indumenti pesanti. Si presentano tutti, forse sanno, ma non vogliono sapere. Li mettono in fila a Babij Jar, un grande dirupo nella parte occidentale della città, una gola stretta e profonda, li fanno spogliare, li uccidono a uno a uno con raffiche di mitra, li gettano nel burrone, coprono con uno strato di terra. E ricominciano.

Per giorni. Trentatremila vecchi, donne e bambini. Poi arriveranno gli zingari, poi i bolscevichi, i russi, e poi chiunque trasgredisca a ogni capriccio nazista, colpevole di avere una fetta di pane nascosta, o di possedere una patata, o di avere più di quattordici anni, confine tra vita e morte, oltre il quale ti spedivano in Germania “a lavorare”. Tolik di anni ne ha dodici, e vede, e sguscia in quell’orrore e in quella barbarie con la tenacia del gatto che mira a sopravvivere: indomito, eroico, ironico e spaventato, è lui che racconta “la verità”. Nonno Semerik, che aveva visto cacciare lo zar, e poi venire i bolscevichi, e poi ammazzare i kulaki – contadini con un pezzo di terra come lui avrebbe voluto essere – è la Storia vivente: oppressioni su oppressioni su oppressioni. Quella che vede Tolik, di storia, è la barbarie nazista al culmine del suo delirio: alla fine di tutto, quando i tedeschi creeranno i forni per cancellare le prove, in fondo a Babij Jar si conteranno oltre centomila morti innocenti, ma il numero vero non si saprà mai.

I liberatori – la gloriosa Armata Rossa – portano uno stalinismo al massimo del suo fulgore: altra paura e altra oppressione. Su Babij Jar, invece che un monumento, faranno una diga, che crollerà, infine una strada. Niente più burrone, niente memoria: l’antisemitismo dello stato sovietico era ben vivo, niente da ricordare.

E invece ecco il libro di Anataolij Kuznecov. Cos’è? È una testimonianza, certo, una ricostruzione, documenti, fatti, nomi veri. Ed è anche il racconto tesissimo e spaventoso di un ragazzino – Kuznecov tredicenne – che ha momenti epici e quasi picareschi, personaggi perfetti immersi nella tragedia e nella paura, un popolo di mendicanti finito “tra l’incudine e il martello”. Una scrittura nitida, piana, perfetta, con spaventose impennate, impeccabile, terribile. Ma in Babij Jar c’è anche un’altra storia, che è proprio la storia del libro. Consegnato nel 1965 alla rivista Junost (considerata progressista nell’Urss post-stalinana), fu tagliato, censurato, corretto, mutilato. Tutto ciò che riguardava il potere sovietico, critiche, osservazioni, testimonianze, persino avventure del piccolo Tolik, spariva sotto i colpi della censura (minuscoli segni grafici segnalano i tagli del testo e ci dicono ancora una volta quale ottuso imbecille può essere un censore). Nel 1969 Kuznekov fugge in Occidente e si mette a ricucire tutto, parti cancellate, pagine sparite, testimonianze strappate, e pubblica (1970) Babij Jar nella sua versione definitiva. Quella vera, quella in cui “tutto è verità”.

Libro importante e potentissimo disegno nitido di quella guerra “tra due campi di concentramento” che furono il nazismo prima e lo stalinismo poi. Il calvario di Kiev, la storia del piccolo Tolik. Insomma, un grande, poderoso, romanzo russo.

“Rubavo il lavoro di Morricone spiando durante le proiezioni”

“Maestro” è un termine che usiamo con tanti significati diversi, fin dalla scuola elementare. A me piace usarlo nel senso del “maestro artigiano”, termine col quale venivano chiamati i capireparto delle botteghe d’arte e dei cantieri – il maestro falegname, il maestro di musica, il maestro di ballo. In teatro “maestro” definisce da sempre chi dirige un’esecuzione musicale, sia il maestro in buca nell’avanspettacolo, sia Karajan nel golfo mistico di Salisburgo. Maestro è anche il termine col quale intendiamo l’artista che ci indica la strada, quello che apre nuovi orizzonti a un’arte; che ha seguaci imitatori giovani che dal suo operato prendono insegnamenti; quello che modifica il corso di un’arte. Maestro è anche chi, al di fuori del campo stretto della sua professione, è esempio agli altri per la sua coerenza etica, per la sua capacità di dettarsi leggi severe sul lavoro e rispettarle, per la coerenza con la quale lega la propria partitura – o la propria tela, o la propria poesia – a una organicità non solo estetica. Ecco, posso dire che, quando parlo del Maestro Ennio Morricone, uso il titolo di Maestro in tutti i sensi: quello artigianale, quello artistico e quello etico. Per me egli è tutto questo, e non serve certo che sia io a illustrare quel che tutti sanno, la grandezza della sua arte di risonanza planetaria, la qualità specifica delle sue musiche, la potenza comunicativa di certe sue miracolose invenzioni. E non si tratta certo di frutti caduti dal cielo, frutti dell’ispirazione – parola che il Nostro pronuncia con diffidenza – ma frutti anche di un costante e severo lavoro di ricerca, di studio faticoso, oltre naturalmente che di una genialità innata. Il proverbio dice “Maestro non si nasce, si diventa” e questo proverbio il nostro Maestro penso che lo condivida in pieno. Quello che forse è utile che io qui testimoni è la qualità dell’uomo Ennio Morricone. Sono più volte stato colpito dalla generosità del suo comportamento verso di me e verso altri giovani compositori, da suoi gesti che sfatano il luogo comune dell’artista ipercompetitivo, geloso, invidioso dei successi altrui. Quando Ennio si trova davanti al lavoro riuscito di un “collega”, esprime la sua approvazione con la gioia dello sguardo prima ancora che con le parole dell’elogio. Gli devo molto, più di quanto lui sappia; ho imparato tanto dal suo lavoro, fin dai tempi in cui lui, maestro già affermato, registrava le musiche per Elio Petri e io, musicista alle primissime armi, lo spiavo. Corrompevo, si fa per dire, il proiezionista della sala di registrazione Fono Roma, vicina piazzale Flaminio, e restavo ore a osservare dalla finestrella della proiezione il Maestro al lavoro, per imparare da lui, per rubare. Rubare, sì, in senso buono naturalmente. (Se parliamo di furti verso le sue musiche, non sono certo io il solo ladro del pianeta). Provavo a rubare qualche trucco del mestiere, ma in seguito è stato lui stesso a svelarmi e insegnarmi quei trucchetti di alto artigianato. È nota la franchezza di Ennio Morricone per la quale, se non gli piace quello che hai scritto o fatto, te lo fa capire senza tanti giri di parole. La sua approvazione invece, più che con le parole, la esprime con i fatti: quando è stato direttore artistico di qualche stagione concertistica ha sempre aiutato colleghi più giovani e meno illustri, me compreso, commissionandoci concerti.

Stiamo parlando di un artista che, come tutti sappiamo, nella musica ha toccato in pratica quasi tutti i generi e gli àmbiti possibili, eccellendo comunque, ovunque, sia quando ha scritto l’opera sinfonica Le voci dal silenzio, sia quando ha scritto canzoni per Mina o Joan Baez, sia quando ha musicato il cinema di Pasolini o di Verdone, sia quando ha prestato attività impegnata e impegnativa nel suo amato gruppo sperimentale di Nuova Consonanza. Festeggiamo i novant’anni di un grande Maestro che, quando ancora oggi mette la penna su carta pentagrammata, ci sorprende per la freschezza combattiva della scrittura, per la voglia di sperimentare, di non ripetersi, di stupirci con la bellezza della sua inventiva. Se si vuole sapere qual è l’età artistica di Ennio Morricone, a dispetto di quella anagrafica, si analizzi la recente, magnifica partitura scritta per il film di Tarantino The Hateful Eight, e sarà evidente a chiunque che si tratta di un artista ancora capace di aprire strade nuove a tutti noi che facciamo musica.

“Avrei dovuto fare il mago, ho visto la fine dei Beatles”

A 19 anni è entrato come apprendista negli studi di Abbey Road, l’Eden di ogni musicista dell’epoca essendo gli studi dei Beatles. Osservandoli lavorare ha imparato direttamente dai numeri uno, sino a esprimere tutto il suo talento quale ingegnere del suono di The Dark Side Of The Moon, la pietra miliare del rock. Ma la storia di Alan Parsons era solo agli inizi: con la conoscenza di Eric Woolfson fonda The Alan Parsons Project e pubblica undici concept album, ognuno ispirato da un autore o da un libro. Il suo più grande successo è Eye In The Sky, scritta due anni prima del fatidico 1984 profetizzato da Orwell.

Da due giorni è uscito il suo quinto album solista, The Secret: nella cover c’è un prestigiatore.

È molto collegato al tema della magia. Tutti i trucchi hanno un segreto. Sin da bambino è stata la mia passione: all’età di sei anni ho ricevuto un gioco da prestigiatore e mi divertivo a fare il mago con la mia famiglia. Sono socio del Magic Castle a Hollywood, il club dove si radunano i maghi più famosi e sono un grande ammiratore di Orson Welles, grande appassionato di illusionismo. Se non avesse funzionato con la musica sicuramente sarei un mago professionista.

Anche The Secret è un concept album?

In realtà è un po’ un gioco perché i concept non sono molto di moda in questo momento, ma in fondo io vengo da lontano e posso ancora permettermelo (ride, ndr).

Nei commenti dei fan su YouTube molti la ringraziano perché hanno scoperto Asimov, Poe, Dick, Gaudí…

Sono molto onorato che molte persone si siano aperte al mondo letterario e artistico grazie ai miei album. Eric era ispirato da cose inconsuete: ad esempio il secondo album I Robot è dedicato alla trilogia di Asimov anche se poi abbiamo sviluppato una “nostra” filosofia partendo dai suoi libri.

La sua famiglia lavorava nel mondo dello spettacolo, sua mamma era arpista.

La musica è sempre stata presente in casa mia, soprattutto quella classica. Ed è il motivo per il quale uno dei brani preferiti dell’ultimo disco è The Sorcere’s Apprentice, di impostazione classica.

A 19 anni è entrato negli studi Abbey Road e ha frequentato i Beatles.

Ero in una fase di apprendistato. Ricordo, in particolare, quando decisero di fare il concerto sul tetto del palazzo: tutte le persone presenti in studio erano consapevoli che quella sarebbe stata l’ultima volta che avrebbero suonato dal vivo.

Un clima di tristezza già iniziato durante la registrazione da “separati”.

Durante la registrazione di Abbey Road non li ho mai visti insieme nemmeno una volta, ognuno di loro veniva a registrare singolarmente.

È stato l’ingegnere del suono di The Dark Side Of The Moon dei Pink Floyd.

A differenza dei dischi dei Beatles, in questo album dei Pink Floyd c’è molto di me. Time in particolare sarebbe completamente diversa, senza i ticchettii degli orologi che sentite ma solo con il basso e un plettro che scandiva il tic tac. L’impresa è stata registrare tutti gli orologi di un negozio di antiquariato: ho dovuto farli fermare e registrarli singolarmente per poi poter scegliere quello giusto.

Anche il suono degli spiccioli in Money?

Con la tecnologia odierna ci avrei messo dieci secondi, ma parliamo del 1972. C’è voluto un giorno intero solo per registrare l’intro del pezzo: dovevamo misurare a mano i tempi del nastro analogico per riprodurre i suoni delle monete.

Nessuno avrebbe rifiutato di lavorare anche nel seguente Wish You Were Here, lei invece l’ha fatto.

Essere riconosciuto come esperto del suono non mi bastava, avevo bisogno di estendere la mia personalità di musicista.

Un azzardo poi ampiamente ricompensato.

Quando iniziai a lavorare con Eric a quello che sarebbe poi diventato il primo album, avevo inconsapevolmente creato The Alan Parsons Project.

Ha trovato anche il tempo di produrre John Miles e il suo capolavoro Music.

Music è indubbiamente epica, dedicata alla magia della musica. È anche uno dei pochissimi singoli a superare i cinque minuti. Ho cambiato alcune linee melodiche del brano, ma devo ammettere che il suo provino era a un livello altissimo.


The Year Of The Cat
di Al Stewart è stata un’altra sua produzione.

L’inserimento del sassofono è una mia idea. Al era terrorizzato all’idea di prendere in considerazione uno strumento sino a quel momento completamente ignorato. Mi diceva in continuazione: “Non sono un artista jazz!”.

Non è uno show. Porte chiuse per il processo a Weinstein

Volevano un processo pubblico e a porte a porte aperte, ma hanno perso. Questa la posizione dei media americani, proprio nel momento in cui sia l’accusa che la difesa di Harvey Weinstein, il produttore hollywoodiano caduto in disgrazia, si sono unite nel chiedere al giudice del Tribunale di New York, dove il processo andrà in scena, di bandire pubblico e stampa dall’aula. Una procedura straordinaria, richiesta dai pm per tutelare l’imparzialità del processo e la privacy dell’imputato, necessaria, secondo la difesa, affinché la copertura mediatica non arrivi a condizionare la sentenza. Di parere opposto i gruppi editoriali come New York Times o Associated Press, che hanno sostenuto le loro ragioni di fronte al giudice della Corte suprema di New York, Jason Burke.

“Non esiste base che giustifichi questo tentativo di sopprimere la diffusione di informazioni relative a una vicenda divenuta ormai di dominio pubblico”, ha argomentato il legale che rappresenta l’associazione dei media Usa. Il magistrato ha esaminato e respinto la richiesta nel corso dell’udienza preliminare di ieri in vista del processo vero e proprio, il cui inizio è fissato per il prossimo 3 giugno.

Sono state proprio due inchieste giornalistiche uscite nell’ottobre 2017 a dare voce alle accuse di molestie e violenza sessuale contro l’allora potentissimo di Hollywood: quella del quotidiano New York Times e un’altra del settimanale New Yorker. Da allora, Weinstein – che si è sempre dichiarato innocente – è stato allontanato dalla casa di produzione che porta il suo stesso nome, così come l’espulsione dall’Academy. Il primo processo a suo carico che si aprirà tra poco più di un mese nella metropoli americana potrebbe veder comparire come testimoni decine di attrici che ne hanno denunciato le violenze, prima fra tutte l’italiana Asia Argento.