Raffica di raid: “Il capo era un suicida”

L’unica notizia positiva che arriva dallo Sri Lanka dopo la Pasqua di sangue riguarda le indagini sugli autori della strage: sembra che l’estremista islamico, Zahran Hashim – l’unico a volto scoperto nel video postato sul sito dell’Isis, in cui lo si vede circondato da sei kamikaze intento a giurare fedeltà al Califfato e rivendicare gli attacchi – sia morto nel corso dell’attentato a uno dei tre hotel colpiti.

Non sarebbe pertanto ancora in circolazione e in grado di colpire ancora come sembrava dalle prime indagini degli inquirenti. Tuttavia, questa e l’altra notizia che riguarda il numero delle vittime sceso da 360 a un centinaio di meno, non solleva le autorità dalle conseguenze della fatale noncuranza con cui avevano accolto gli avvertimenti dettagliati inviati dai servizi segreti indiani, inglesi e statunitensi circa una serie di attacchi jihadisti imminenti. L’ultimo pare sia stato trasmesso all’intelligence cingalese quattro ore prima delle esplosioni provocate da nove kamikaze.

Per ora, tuttavia, si è dimesso solo il capo della polizia, Pujith Jayasundara. Lo ha reso noto il presidente Maithripala Sirisena spiegando inoltre che un capo dell’intelligence ha ricevuto informazioni “altamente descrittive” il 4 aprile, che includevano gli obiettivi e i metodi dell’attacco. Tuttavia il ministro di Difesa, Hemasiri Fernando, non ha preso sul serio il rapporto e non ha agito con serietà. “Né lui, né l’ispettore generale della polizia mi hanno parlato delle informazioni ricevute. Non lo dico per prendere le distanze, ma questo è quello che è successo”. Sirisena ha poi svelato che la polizia è impegnata nella ricerca di 140 persone che si ritiene abbiano collegamenti con l’Isis, mentre ne sono state già arrestate una settantina. Solo ieri altre sette persone sono state fermate in seguito a un conflitto a fuoco nella città di Sammanthurai, a circa 200 km dalla capitale Colombo. Nelle perquisizioni, sono stati rinvenuti giubbotti esplosivi. “Alcuni giovani dello Sri Lanka, hanno avuto contatti con lo Stato islamico sin dal 2013”, ha dichiarato la polizia. Viene da domandarsi come nessuno se ne sia accorto prima, considerato che i musulmani sono una comunità ristretta nell’isola. Per tentare di placare le accuse di incapacità o, peggio, di sospetto lassismo, il presidente ha quindi avanzato l’ipotesi che la sua campagna contro la droga potrebbe aver innescato la vendetta del gruppo locale affiliato all’Isis. “Non dimentichiamo la connessione tra la guerra alle droghe e il terrorismo”, ha enfatizzato il capo dello Stato. Insomma i kamikaze si sarebbero fatti saltare in aria per danneggiare l’economia locale e, di rimando, le autorità al governo dello Sri Lanka. Del resto il turismo è una delle voci principali dell’economia cingalese. “Gli attentati potrebbero causare da qui alla fine dell’anno fino a 1,5 miliardi di dollari di perdite di entrate nel settore turistico”, ha detto il ministro delle Finanze, Mangala Samaraweera.

Una cifra che potrebbe aumentare se ci saranno nuovi attentati, come temono Australia, Gran Bretagna e Stati Uniti.

Sono questi i Paesi che hanno finora emesso avvisi in cui si sconsiglia ai propri abitanti di recarsi nell’isola, a meno non sia strettamente necessario. E non è escluso che se ne aggiungano degli altri nei prossimi giorni.

Haftar minaccia l’Italia. Sarraj scarica la Francia

Guerra di posizione a Tripoli con attacchi mordi e fuggi da entrambe le parti. Le milizie che sostengono il primo ministro Fayez Al Sarraj, riconosciuto dall’Onu, rafforzano le loro posizioni nel centro della città, mentre gli uomini dell’Esercito Nazionale Libico di Khalifa Haftar cercano di avanzare. L’aeroporto internazionale è fuori uso da quasi 5 anni, quando la pista fu bombardata e crivellata di buche, ora i governativi difendono strenuamente il piccolo scalo di Mitiga nelle loro mani, aperto a intermittenza, unica porta sul mondo.

Se sul campo la situazione è di stallo, sul piano diplomatico va registrata l’avanzata di Haftar che ha incassato l’appoggio degli Stati Uniti. Nei giorni scorsi il presidente Donald Trump e il generale della Cirenaica si sono parlati. Secondo l’agenzia Bloomberg, che cita imprecisate fonti diplomatiche “informate sulla questione”, la Casa Bianca ha assicurato il sostegno militare all’offensiva dell’ufficiale ribelle sulla capitale. In proposito Haftar, sempre secondo l’agenzia, aveva ricevuti pochi giorni prima le assicurazioni anche di John Bolton, consigliere per la sicurezza di Trump. Il cambio di cavallo degli Stati Uniti non ha convinto tutti. È vero che Washington non ha smentito, ma alcuni diplomatici di stanza a Tripoli, sentiti al telefono con la promessa di non rivelare il loro nome, hanno espresso qualche dubbio: “Gli americani usano spesso giocare su due tavoli. In realtà cercano di non schierarsi, o meglio di schierarsi con entrambi i contendenti per non perdere il loro ruolo di arbitri”. Forse per questo ieri, per l’ennesima volta, gli Usa hanno chiesto di deporre le armi. Che la guerra si combatta soprattutto sul piano della propaganda è ogni giorno più chiaro. Nelle prime ore della mattina il network qatariota al Jazeera (Doha sostiene Sarraj) nella sua versione in arabo, ha lanciato la notizia secondo cui una nave francese, con a bordo un arsenale destinato ad Haftar aveva attraccato nel porto di Ras Lanuf. Notizia smentita da Parigi. La risposta dei siti vicini al generale era stata: “Armi destinate al governo Sarraj sono state stoccate in Tunisia, a Gerba”. Stavolta la smentita è arrivata da Tripoli. Poiché il cambio di alleanze di Trump, vero o supposto che sia, potrebbe essere stato determinato da una presunta liaison di Sarraj con gli islamici (cosa che spaventa di americani), il governo di Tripoli ha tenuto a prendere le distanze dagli integralisti. Così ieri un portavoce del ministero degli interni ha annunciato con gran clamore la cattura di Yasser Saleh Kalfeh al Majeri, presentato come il vice capo dell’Isis in Libia. Ovvio, nessuna conferma indipendente della notizia. Di certo c’è solo che Tripoli ha comunicato la sospensione di ogni collaborazione militare con la Francia, anche se il ministro degli esteri italiano, Enzo Moavero Milanesi, poche ore dopo l’annuncio, ha ribadito l’impegno dell’Unione europea – tutta, Francia compresa – per una tregua immediata. Il premier Conte da Pechino ha fatto sapere che “la posizione del governo italiano si sta rivelando la più lungimirante alla luce della concreta evoluzione dello scenario: non è con l’opzione militare che si può stabilizzare la Libia. Né con Haftar, né con Sarraj, ma con il popolo libico”, ha concluso il premier. Mentre in video sul sito del Corriere della Sera il generale Ahmed Mismari, portavoce di Haftar ha intimato all’Italia di ritirare il suo ospedale a Misurata e i 400 militari che vi operano.

Un altro episodio che sarebbe comico, se non si svolgesse nella tragedia, è quello che ha coinvolto Cipro. Il ministro degli interni di Sarraj, Fathi Ali Basha Agha, annuncia che i 4 figli di Haftar hanno chiesto la cittadinanza cipriota. Sostiene di aver mandato un messaggio a Nicosia chiedendo di ignorare la richiesta. Poche ore dopo arriva la doppia smentita dall’isola: i figli di Haftar non hanno mai richiesto la cittadinanza e Tripoli non ha mai chiesto di non concederla.

Spagna, prima prova per i sovranisti europei “È il test del melone”

“Mi vantavo con i miei colleghi europei che in Spagna non avevamo un’estrema destra, che non avevamo Orbán, Salvini, Le Pen. E invece sembra di sì: era nascosta e aspettava solo il momento di uscire allo scoperto”. Se per Josep Borrell, ministro degli Esteri del governo socialista di Pedro Sánchez, già presidente del Parlamento europeo, era difficile immaginare la sola esistenza di un sovranismo spagnolo, pensiamo quanto fosse lontano dal pensare di vederselo in Parlamento. Troppo giovane la democrazia spagnola e troppo recente la memoria del dittatore Francisco Franco con tutta la disputa odierna per l’esumazione, perché rinascesse. Almeno finché Vox, il partito xenofobo, omofobo e ultranazionalista non ha conquistato a dicembre scorso 12 seggi in Andalusia, trentennale feudo socialista, aprendo la strada alla destra al governo della regione. Da Siviglia a Madrid la strada è stata breve. Tutto merito della linea veloce, direbbe Borrell che la inaugurò nel ’92. O di Santiago Abascal, ex deputato popolare che in un triennio è riuscito a dare al suo movimento dignità di partito nazionale.

Nessun vincitore, tranne l’ultradestra di Abascal

Le elezioni politiche di domani sanciranno – comunque vada – l’ingresso del partito di Santiago Abascal nel parlamento nazionale, testa d’ariete del fronte sovranista alle prossime Europee di maggio. Questa, in realtà, pare l’unica certezza a poche ore dalle urne che potrebbero rivelarsi una replica di quelle del 2015: nessun vincitore, tutti vincitori, nuove elezioni. Nessun blocco, infatti, ad oggi, raggiungerebbe la maggioranza dei seggi necessari a governare: 179. Ammesso poi che le alleanze del lunedì post-elettorale coincidano con quelle più o meno esplicitate durante la campagna, infatti, a destra tra i Popolari di Pablo Casado, il partito centrista populista di Albert Rivera e l’ultradestra di Vox, la somma darebbe solo 154. “Non escludiamo la possibilità che riescano a farcela”, si è invece affrettato a dichiarare l’attuale premier e candidato dei socialisti Pedro Sánchez nell’ultima intervista prima del silenzio elettorale. L’intento chiaro è richiamare al voto utile contro l’arrembaggio dei neo-franchisti e convincere gli indecisi di sinistra a non restare sul divano. Ma non è un timore peregrino il suo: molti analisti sono convinti che una delle grandi incognite di queste elezioni siano proprio gli elettori di Vox. Troppo nuovo il partito per prevederne gli esiti e troppo stigmatizzato dalla società civile spagnola il voto per essere dichiarato: a sorprendere tutti sarà proprio il voto nascosto per Abascal. Da parte sua, la sinistra guidata da Sánchez, che non esclude l’alleanza con Unidas Podemos di Pablo Iglesias non darebbe comunque 179, seppure la formazione del leader anti-casta stia guadagnando qualche punto dopo “la vittoria” nel faccia a faccia. A Sánchez, allora, non resterà che chiedere aiuto a Esquerra Repubblicana e Junts per Catalunya, con cui occuperebbe 183 seggi, nel caso in cui questi accettassero.

La Catalogna: il dilemma

Sono proprio i partiti catalani ad aver dato il colpo di grazia al governo Sánchez a febbraio non votando il bilancio per ripicca all’abbandono del tavolo del dialogo sull’indipendenza. E la questione catalana è stata anche il grimaldello con cui le destre sia in Andalusia che a livello nazionale hanno avuto terreno facile per accusare i socialisti di concedere troppo all’indipendenza causando così la spaccatura della Spagna. Eppure sono proprio i due partiti rappresentati dai leader catalani – a processo in questi mesi per ribellione, sedizione e malversazione di fondi pubblici relativamente al referendum per l’indipendenza del 1° ottobre 2016 e la successiva auto-proclamazione di indipendenza – a poter consegnare a Sánchez un nuovo governo. Il processo-vetrina, per paradosso, se aiuta i partiti indipendentisti ad accrescere il loro consenso – in Catalogna lunedì probabilmente il partito più votato sarà Esquerra Repubblicana – ha regalato anche a Vox, costituitosi parte civile nel giudizio, l’opportunità di ergersi a difensore dell’unità della Spagna guadagnando voti trasversali. Questo, sommato all’estromissione del suo leader dai dibattiti tv da parte dell’Authority, ha ammantato la formazione di Abascal di un’aura da martire tanto cara alla destra spagnola post-franchista. All’indipendentismo catalano Sánchez non ha ceduto di una virgola in campagna elettorale, ripetendo il suo “no è no” al referendum separatista. Peccato che nel programma compaia un capitolo sull’aumento delle concessioni all’autonomia della regione di Barcellona, destinato a tradursi in euro.

L’eredità di Sánchez e il nuovo bipolarismo

Sono arrivati a due giorni dalle elezioni i dati sul lavoro in Spagna: nel 2018 si sono creati 600 mila posti, la cifra più alta dal 2007. Sánchez come ultimo atto ha portato il permesso di paternità a 4 mesi e, per finire, anche gli artisti potranno percepire la pensione pur continuando a scrivere. “È la Spagna che ami”, recita lo slogan del Psoe. “È la Spagna dei diritti, del lavoro e della cultura che la Destra vorrebbe riportare indietro”, è l’appello degli intellettuali contro l’astensionismo. “C’è un clima da guerra civile”, criticano gli analisti. Il presidente popolare andaluso, Juanma Moreno, avvisa: “Vox è come un melone chiuso, può uscire buono o sapere di cetriolo”.

In arte Mina, la polvere d’oro conservata nell’aldiquà

Arrivare nel posto giusto al momento giusto è il sogno di molti. Ma andarsene al momento giusto! Quello è un dono degli dèi riservato al mito. Al contrario del coraggio di don Abbondio, se ce l’hai non te lo puoi togliere. Guarda Mina: nessuno c’è stata quanto lei, finché c’è stata. E da quando la sua immagine è diventata pura voce, c’è ancora di più. Il ritiro avveniva 41anni fa, ha ricordato Pino Strabioli in apertura di In arte Mina (Rai3, lunedì sera); correva l’anno 1978: un attimo dopo sarebbero arrivati il telecomando, l’Auditel, le piramidi di Panseca, la neo-Italia degli Ottanta. Un attimo prima che nello showbiz la plastica sostituisse la polvere d’oro Mina è rimasta aldiquà, nell’aldilà ci siamo andati noi. Lei non poteva saperlo; ma si è comportata come se lo avesse sempre saputo. “Non gioco più, me ne vado. La vita è un letto sfatto, io prendo quel che trovo e lascio quel che prendo dietro di me”. Strabioli viene dalla scuola di Paolo Limiti; si occupa di ciò che conosce, conosce ciò anche ama; la serata d’onore in contumacia aveva un taglio antico, classico, colto e popolare, bianco e nero e colori, frammenti di repertorio e testimoni di oggi. Nell’aldiquà Sordi, Luttazzi, Celentano; nell’aldilà Fiorello, Giorgia, Barbara Alberti. Mina mette d’accordo la nostalgia del passato e con quella del futuro. La cosa più vera l’ha detta Daniele Sangiorgi spiegando perché aveva declinato l’invito di Mina: “Non ho paura di vederla, ho voglia di non vederla”.

Mail Box

 

Facebook censura la memoria di mio padre

Ogni anno, il 25 aprile, ho condiviso su Facebook dei contenuti in ricordo di mio padre Giuseppe e del suo internamento nei campi nazisti in Polonia e Germania, come I.M.I (Internato Militare Italiano), insieme ad altri 650.000 militari italiani che rifiutarono di aderire alle SS, alla Wehrmacht e di giurare fedeltà alla Repubblica sociale italiana. L’altro giorno ho provato a condividere il post di mia sorella Cristina che nel suo blog ha raccontato queste memorie paterne. Facebook, per la prima volta, me lo ha impedito, nella condivisione diretta dal blog alla mia pagina. La motivazione, fornita dal pop-up, è che i contenuti sono stati “segnalati come offensivi da altri utenti”. Nei confronti di chi? Dei nazisti e dei fascisti?

Giovanni Rinaldi

 

L’esperienza nel corpo degli Alpini: una lezione di vita

Tutti sappiamo chi sono gli Alpini, un corpo dell’esercito profondamente radicato con l’ambiente montano e un po’ fuori dalle righe. Ma chi è stato alpino lo rimane per sempre perché ha vissuto una parte della sua vita dove esisteva un codice morale che tutto avvolgeva. Attenzione, non tutti lo hanno capito, c’era chi ci sputava sopra e chi voleva fuggirne. Alla base di questo spirito c’è la montagna da rispettare. Poi c’è la responsabilità, il capire che ognuno di noi ha un compito. Ed Viesturs, il primo americano ad aver scalato tutti le 14 vette da ottomila metri senza ossigeno, ha scritto un libro dal titolo significativo In vetta senza scorciatoie. Il fine non è il raggiungimento dello scopo finale a qualsiasi costo, ma il non venir mai meno ai propri principi. Infine non darsi mai troppa importanza, vedere il bello nelle cose semplici, ridere perché la vita non è solo sacrificio e regole ma anche gioia e amore per l’avventura. Invito chiunque si riconosce in tutto questo, a gioire quando vede passare un alpino perché a loro non piacciono gli onori o i discorsi ufficiali, a loro piace il sorriso della gente, la curiosità di un bambino e il rispetto di un anziano.

Luca Cozzaglio

 

Giovani in piazza il 25 aprile: forse non tutto è perduto

A sentire la televisione, alcuni ragazzi intervistati non sapevano spiegare bene il vero senso del 25 aprile. Un po’ di vergogna la dovrebbero provare: bastava cercare su Internet. Ma sappiamo che tira di più il Grande Fratello che un momento di informazione sulla storia italiana che cambiò la nostra vita quotidiana. Storia fatta di dolore, sangue e ideali. Fortunatamente non tutti i giovani sono così confusi dalla inutile informazione e dall’intontimento del nulla, e vederli nelle piazze accanto agli ultimi partigiani, mi ha fatto bene al cuore.

Gianni Dal Corso

 

DIRITTO DI REPLICA

Sono d’accordo con Stefano Feltri: Il Sole 24 Ore è un giornale autorevole, e specialmente lo è oggi. Ma anche alla Bibbia è capitato di essere in parte riscritta ed assestata. Dunque, “i calcoli del Sole 24 Ore” citati da Feltri nella sua replica al mio “diritto di replica” (Il Fatto, 26 aprile) sono stati pubblicati nel 2015, ma smentiti due volte sullo stesso quotidiano (“Concordiamo con Francesco Rutelli che a oggi non esistono dati omogenei per ricostruire e confrontare in modo oggettivo tutte le fasi della serie storica del debito”. Il Sole 24 Ore, 9 aprile 2016). Il punto, però, non risiede nella citazione di indagini smentite più di tre anni fa. Di cosa ci occupiamo oggi? Dei circa 12 miliardi di debiti del Comune di Roma, oggetto dello scontro all’interno del governo. Ebbene: in questa cifra non compaiono mutui contratti dalla mia amministrazione, poiché essi sono estinti. Di cos’altro dobbiamo parlare? Perché io debbo essere chiamato in causa nel contesto di queste polemiche? Forse, volete affrontare il tema dell’attivazione di mutui da parte delle Amministrazioni pubbliche? Ma, se sono trasparenti e sostenibili (come nel caso della mia Giunta), ciò fa parte dei diritti/doveri di un’amministrazione. Salvo si pensi che – ad esempio – per realizzare l’Auditorium di Roma ci sia un signore che versa l’intera cifra necessaria per la costruzione il giorno dell’affidamento della gara, anziché ricorrere a un finanziamento pluriennale (così come una famiglia che compera una casa, fa ricorso a un mutuo)!

Francesco Rutelli

Il Sole 24 Ore non ha mai smentito i dati che ho citato. Il bravo giornalista Gianni Dragoni ha soltanto riconosciuto, come ho fatto peraltro anche io, che la storia del debito di Roma è così opaca e le variabili che hanno determinato i saldi finanziari sono così tante che i raffronti tra anni e giunte diverse sono difficili. Neppure la gestione commissariale del debito di Roma è oggi in grado di dire esattamente chi ha contratto quali debiti perché molti finanziamenti sono stati rinegoziati più volte negli anni. Nell’articolo del 2015 che ho citato, il Sole dava conto di numeri che non ha mai smentito: nel primo anno della giunta Rutelli (1993) il debito finanziario del Comune era a 3,6 miliardi, a fine 2000 5,93 miliardi. E questo nonostante 1,2 miliardi di privatizzazioni, tra cui il 49 per cento di Acea. Questo non implica che Rutelli sia stato un cattivo sindaco o peggiore di quelli successivi (gli alti oneri sui mutui in essere risalgono a mutui stipulati dalla giunta Veltroni). Ma le responsabilità del debito di Roma sono, per la parte che compete a ciascuno, di tutti quelli che hanno governato la Capitale.

Ste. Fel.

Salvini a Corleone. Dopo arabi e normanni, la Sicilia invasa è dai nuovi viceré leghisti

 

Chi avrebbe potuto immaginare, solo fino a pochi anni fa, di sentire nella mia terra – la Sicilia – tanta ammirazione per Salvini? E poi si dice che siamo un popolo orgoglioso. Dopo tante dominazioni (greci, arabi, normanni, angioini, aragonesi…), ci mancavano solo i padani leghisti. Dev’essere il nostro Karma. Ci è bastato essere promossi da “invasori” del nord a “invasi” del sud e noi ce la siamo bevuta. Ma almeno quei popoli ci hanno lasciato testimonianze artistico-culturali importanti, qualche traccia positiva anche nel Dna: siamo brunissimi, biondissimi, con magnifici occhi verdi, azzurri o neri. Cosa ci lascerà in eredità questa nuova dominazione? Mah! I nuovi possibili “viceré” che si stanno posizionando (ex cuffariani, ex lombardiani) non mi fanno sperare nulla di buono. E il problema della mafia? Salvini diserta la manifestazione del 25 aprile per andarne a parlare a Palermo, ma intanto imbarca gente discutibile e resiste sul caso Siri. Aiuto, arrivano i lumbard!

Enza Ferro

 

Carissima Enza, le rispondo da siciliano. Tutti quegli aragonesi, quei normanni, quei greci e quegli arabi – ha ragione, la lista è molto più lunga – in verità sono solo e soltanto siciliani. Abbiamo il privilegio dell’universalità e solo per “civetteria” li consideriamo invasori. Riusciamo a contenere l’intero mondo, siamo un popolo fatto di tutti i popoli e quell’Ibn Hamdis, il poeta, che solo i professori pigri liquidano come un “arabo” invasore, era nato e cresciuto a Noto. Per non dire di Federico II che volle – lui così tedesco – farsi siciliano. E poi ancora Empedocle, gettatosi tra le braci di Etna, o Archimede, o lo stesso Platone, venuto a Siracusa per fare il suo esperimento politico… sicilianissimi erano, tanto quanto lo saranno i paladini, i re e le donne dei mazzi di carte, quelli dell’Opera dei Pupi e quelli le cui “pupiate”, ancora oggi – ahinoi – costringono la nostra incantevole terra a essere periferia del nulla. Brunissimi e biondissimi siamo. Abbiamo occhi verdi, azzurri e poi ancora neri e neppure possiamo dirci meridionali, tanto restiamo frullati nell’impasto di albagia. Quanto ai lumbard, infine – gentile Enza Ferro – dobbiamo ben considerare un fatto: anche la Lombardia ci appartiene ma la Lega non lo sa. Non dico il Castello di Lombardia a Enna, la città più fredda e più nebbiosa come neppure Bergamo può essere ma il “Gran Lombardo” – se ne ricorda?– quel tipo umano, quella schiatta, di cui riferisce Elio Vittorini in “Conversazioni in Sicilia”. Come quelli di Leonforte. Giusto il paese da dove sto scrivendo adesso io.

Pietrangelo Buttafuoco

Povera Italia, Paese che ha perso l’identità nazionale

 

“Gli italiani sembrano riscoprire il valore dell’identità nazionale solo quando hanno paura di perderla”

(da Sentimento italiano di Valerio Massimo Manfredi – Sem, 2019 – pag. 54)

 

Abbiamo appena celebrato il più cupo 25 Aprile della storia d’Italia. Senza governo. O meglio, con un governo diviso su tutto e perfino sull’anniversario della Liberazione. Ma il peggio è che il Paese è diviso su tutto, mentre si registra un’escalation degli atti vandalici di stampo fascista e gli ultrà laziali inneggiano a Mussolini, proprio a Milano, a due passi da piazzale Loreto.

In una visione campanilistica della politica, i partner della maggioranza gialloverde continuano a litigare ogni giorno su qualsiasi argomento, dai “porti chiusi” al decreto “salva Roma”. E di riflesso, litigano gli italiani, nella babele mediatica dei social, nei circoli e nei condomini. Sembra di assistere a un derby permanente, fra due squadre contrapposte di tifosi fanatici e irriducibili.

I debiti del Campidoglio, accumulati negli anni dalle amministrazioni di centrosinistra e centrodestra, diventano così il pomo della discordia fra la Lega e i Cinquestelle. La cartina di tornasole che denota la spaccatura del Paese, fra la rivendicazione dell’egoismo nordista e l’inclinazione meridionale all’assistenzialismo.

Ma la crisi della Capitale non è che il sintomo di una crisi nazionale, di un’Italia che ha perso il senso dell’identità e della convivenza civile. Un popolo disorientato e smarrito, in preda a un’inquietudine esistenziale collettiva. C’è un clima di tensione, di rabbia, di odio sociale che incombe come una nube tossica o una minaccia nucleare.

“Che cosa manca dunque in un Paese che ha di tutto senza disporre di materie prime e risorse naturali, e che in molte parti del suo territorio sembra un paradiso?”, si chiede Valerio Massimo Manfredi, archeologo e scrittore di successo, nel suo libro Sentimento italiano. E risponde: “Manca lo spirito dell’unità, l’orgoglio di essere cittadini di un paese che ha creato culture sfolgoranti, che non ha mai perso né interrotto in ventotto secoli di storia il filo rosso della civiltà”.

Ecco, la cultura come fondamento della civiltà. E Roma, nel corso dei secoli, è diventata Caput mundi proprio per questo, oltre che per la sua potenza economica e militare. Ma oggi il suo declino è tale da far pensare o temere che una città che ha raggiunto duemila anni fa questa vetta, ma da sei mesi è rimasta praticamente senza metrò, non possa che precipitare nell’abisso dell’abbandono e del degrado.

Salvare Roma, dunque, vuol dire salvare l’Italia e gli italiani. Vuol dire recuperare quel “sentimento italiano” che racchiude la nostra identità, il senso di appartenenza a una storia e a una comunità. Salvaguardare quel patrimonio inestimabile di arte e di cultura che tutto il mondo ci invidia, a cominciare dalle città e dai borghi, dai monumenti, dalle chiese, dai musei e dalle gallerie. E ovviamente, tutelare la natura e il territorio che custodiscono la nostra Grande Bellezza.

Saremo capaci questa volta di riscoprire il valore dell’identità nazionale, come auspica Valerio Massimo Manfredi nel suo saggio, prima di avere paura di perderla? È una domanda a cui solo noi, ognuno di noi e tutti noi insieme, possiamo rispondere. Ma più che le parole servono atti concreti e comportamenti conseguenti. Riscoprire l’identità nazionale significa, innanzitutto, tornare alle radici della nostra storia e della nostra cultura. In altre parole, ritrovare quella coesione sociale che costituisce il nerbo di un popolo.

Mattarella e il turbamento del “boh”

Boh. È il commento che prorompe dall’attenta lettura della nota con cui il presidente della Repubblica ha accompagnato la firma della nuova legge sulla legittima difesa che modifica la legge sulla legittima difesa del governo Berlusconi (2006) che a sua volta modificava il codice Rocco e che due anni fa il Pd aveva tentato (per fortuna invano) di modificare con la demenziale trovata di non punire chi uccide malintenzionati introdottisi in casa sua “in tempo di notte”, non un minuto di meno (pure quella volta: boh).

Le tenebre stavolta sono linguistiche e la nota di Mattarella ce le aggrava vieppiù. La prima parte è trasparente: “La nuova normativa non indebolisce né attenua la primaria ed esclusiva responsabilità dello Stato nella tutela della incolumità e della sicurezza dei cittadini”, vivaddio. Mattarella tiene a rimarcare di non stare firmando l’introduzione nel sistema normativo italiano del principio della giustizia sommaria e privata, ammettendo implicitamente che non era affatto scontato. Ma è la seconda parte a suscitare il grande boh, specie perché dell’autore conoscevamo la misura nell’uso delle parole. “L’art.2 della legge”, ha scritto Mattarella, “attribuisce rilievo decisivo ‘allo stato di grave turbamento derivante dalla situazione di pericolo in atto’: è evidente che la nuova normativa presuppone… una portata obiettiva del grave turbamento e che questo sia effettivamente determinato dalla concreta situazione in cui si manifesta”. Se “è evidente” che “la legge presuppone”, non si vede perché scrivere una nota che evidenzi l’evidente e il presupposto. Ma tralasciando la forma, e dunque la sostanza che vuole le Camere e il presidente del Consiglio, a cui la nota è rivolta, incapaci d’intendere una legge votata da loro, interessante è il riferimento alla “portata obiettiva” del famigerato “grave turbamento”, e al suo essere “effettivamente determinato dalla concreta situazione”. Ora, per sua natura una entità qualitativa come un “turbamento” (secondo la Treccani “stato di alterazione psichica provocato da fatti emotivi”) è sempre soggettiva.

Sfugge come potrebbe mai stabilirsi l’obiettività (Treccani: “l’essere obiettivo, cioè vero o valido per sé stesso, indipendentemente dal giudizio o dall’interpretazione che altri ne possa dare”) dello stato d’animo al quale vada soggetto chi si trovi in casa un ladro o un assassino. C’è forse una misura standard internazionale dei turbamenti su cui i giudici dovranno valutare la proporzionalità della difesa? I legislatori leghisti hanno previsto di allegare alla legge sulla Gazzetta Ufficiale un turbamentometro in regalo? Forse la gente facile a emozionarsi non avrà diritto alla non punibilità? Boh. Quanto alla “effettività” della “concreta” (“non indefinita, non astratta”) situazione, c’era bisogno di una nota del Quirinale per dire che non saranno considerati impunibili i cittadini che spareranno a casaccio vedendo ladri immaginari, o spareranno il giorno dopo, o si definiranno gravemente turbati mentre sta suonando il postino (il quale farà bene d’ora in poi, a scanso d’equivoci, a suonare sempre due volte come prescrivono film e romanzo omonimi)?

Spiace far la parte dei cacadubbi in questo clima di riconciliate “evidenze” tra istituzioni; ma precisando che non è inaugurata la legge del Far West, Mattarella sembra rispondere più a un’esigenza interiore di riduzione della dissonanza cognitiva generata in un giurista e cultore della Costituzione come lui dal promulgare una legge simile (puro ciarpame propagandistico), che ai doveri del suo ruolo; tutti i rilievi che avrebbe potuto muovere alla legge e usare per rinviarla alle Camere li cela in una nota capziosa che “obiettivizza” giocoforza quel turbamento che persino la semiotica delle passioni rinuncia a definire (e che la Lega usa come cavillo cui si appelleranno tutti gli sparacchiatori d’Italia), e soprattutto arriva contestualmente alla firma, il che è a dir poco puro esprit d’escalier.

caro pd, ma davvero “Siamo Europei”?

È stato detto che il nome della lista elettorale “Siamo Europei” rappresenta uno slogan debole e tautologico. Potrebbe essere piuttosto una spia rivelatrice del vicolo cieco in cui si è cacciata l’idea di un’Europa unita negli ultimi anni: nello stimolare un’appartenenza, con quella prima plurale che sembra coniugata al congiuntivo esortativo anziché all’indicativo, il nome della lista cerca di promuovere dall’alto un’utopia identitaria da sempre orfana di alcuni pilastri (una squadra di calcio, un giornale, un seggio all’Onu), di una frontiera chiara (svanite le paure nucleari, ogni Stato ormai consolida la propria), di quell’entusiasmo che accompagna di norma il riconoscersi di un popolo anche per alterità rispetto agli altri. Un’utopia fiaccata in re dallo strapotere delle lobby, dai finanziamenti delle multinazionali, dalle porte girevoli, dai conflitti d’interesse.

Nel libro Ho tirato il filo della menzogna ed è venuto giù tutto (Fayard, 2019) Philippe de Villiers offre un resoconto largamente discutibile dei complotti (la Cia, i paralipomeni del progetto nazista, il gruppo Bilderberg) che avrebbero portato alla nascita e al consolidamento dell’Unione europea. Dopo aver attaccato l’etilismo di Juncker, De Villiers discute documenti più o meno riservati delle cancellerie europee e americane, al fine di mettere in pessima luce gli eroi fondatori del progetto europeo, da Robert Schuman (già ministro di Pétain nel regime di Vichy) a Jean Monnet (dipinto come un burattino al soldo degli Americani che avevano bisogno di un’Europa coesa al tempo della guerra fredda). Le repliche indignate di una folta pattuglia di storici hanno sgombrato il campo da una serie di assunti infondati. La mera uscita del libro, e il suo successo, s’inquadrano tuttavia in un clima di sfiducia che dall’opaco presente arriva a interessare retrospettivamente i momenti-chiave della storia dell’Europa unita, a “sporcare” quel processo eroico che negli anni 50 e 60 fu “seguito” da Washington come indispensabile alla propria egemonia.

Proprio sulle conseguenze della subalternità all’America, e al modello economicista di Unione che fu portato avanti, ben prima di Maastricht, da un freddo prodotto dell’ “era dei manager” come Monnet, insiste sconsolato il pamphlet dell’ex guevarista Régis Debray, L’Europa fantasma (Gallimard 2019). Alcune delle argomentazioni di Debray sono note: l’Europa è un culto civico debole, uno slogan senza carne né vita che promana dai gabinetti presidenziali, dalle Fondazioni bancarie e dalle élite, e (come ricorda anche Javier Cercas) non è mai davvero diventato un progetto popolare; l’Europa è la fusione fredda del millenarismo cattolico e delle speranze illuministiche social-democratiche, una fusione travolta dalla triste burocrazia gestionale non appena è venuto meno il congelamento dei blocchi: “si aspettava l’avvento di Erasmo, è arrivato Moscovici”.

In questa cornice si situa per Debray la trasformazione dell’Europa in un dominion degli Usa, culturalmente subalterno, dotato di libertà al proprio interno ma sostanzialmente vassallo nell’ideologia e nell’azione esterna; una diplomazia senza dietro una politica né un esercito ha l’autorità che si può immaginare.

Caduta l’Unione Sovietica, e in un orizzonte ormai mondializzato, forse proprio l’America poteva rappresentare per l’Europa il modello rispetto al quale distinguersi all’interno di una dialettica pacifica. Assimilato l’americanismo nel Dna, si è invece puntato come bersagli sull’Islam e sulla pigrizia del Sud, con esiti che hanno finito per dar fiato alle destre peggiori.

L’abbandono dell’ideale di una “Europa sociale”, soprattutto ad opera di quella sinistra social-democratica diventata neoliberale e – dopo la crisi greca e quella dei migranti – ormai priva di credibilità nei suoi timidi passi in senso contrario, ha ulteriormente svuotato di senso la “pantomima” europea, una “commedia dell’arte” (così Debray) in cui il Parlamento non ha iniziativa legislativa e la partecipazione democratica si risolve in un’allegra sfilata di bandiere all’ombra del duo Parigi-Berlino – un’operetta ormai nemmeno tanto coperta, se è vero che il 25 marzo scorso è stata inaugurata l’assemblea parlamentare franco-tedesca, nata per discutere a livello dei due soli Paesi alcuni dei dossier più urgenti, con buona pace di chi minimizzava il pomposo accordo di Aquisgrana di gennaio.

Al fondo di un percorso che ha esaltato la società civile contro lo Stato, la tecnologia contro le lettere e la cultura, la realizzazione personale contro le aspettative e i progetti condivisi, l’Unione senza testa si ritrova inerme contro i particolarismi, infirmata nei suoi stessi capisaldi, e costretta a imbarazzanti esortazioni (“siamo Europei”) per sopperire a un deficit identitario che era forse insito nelle premesse, e che non si sa quale scatto ideale potrebbe redimere.

La democrazia è contare le teste e non romperle

È stato detto che la democrazia è il sistema di contare le teste invece che di romperle. Vediamo che cosa implica questa definizione dall’aspetto bizzarro. Anzitutto, per rompere o per contare le teste ci vuole qualcuno che le rompa o le conti. Ogni atto di questo genere è un atto di una determinata persona.

Ecco dunque un primo punto, che è bene ricordare anche se può sembrare inutile il farlo. La democrazia, e in genere la politica, non è una cosa che stia per conto proprio, come una stella o come un pezzo di pane. La democrazia è una maniera di comportarsi, un modo di agire di Caio o di Tizio o di Sempronio rispetto a Sempronio o a Tizio o a Caio o al loro gruppo riunito.

Non c’è la democrazia o la non-democrazia, c’è l’uomo che agisce più o meno democraticamente. La domanda “Che cosa è la democrazia?” si risolve perciò in quest’altra domanda: “Che cosa debbo fare per essere un buon democratico?”. “Tu devi – si risponderà – non rompere le teste degli altri, ma contarle”. Però, siccome non capita tutti i giorni di rompere le teste degli altri, e nemmeno di essere sul punto di farlo o con la tentazione di farlo, bisognerà capire qual è il senso più generale di questo consiglio, espresso in termini così immaginosi.

Ora, se è raro che noi sentiamo proprio il desiderio di eliminare a colpi di bastone il fatto che un’altra persona si opponga con la sua volontà alla nostra volontà, è molto meno raro, invece, che noi ci sentiamo comunque spinti a non tener conto di quella sua volontà, a fare in modo che essa non ostacoli per nulla il raggiungimento dei nostri fini. Istintivamente, noi siamo dei sopraffattori. Istintivamente, noi siamo come i bambini, che devono fare un certo sforzo per capire che non debbono mangiarsi tutta la torta se ci sono altri bambini che ne desiderano un po’ anche loro. E tanto più ci allontaniamo dalla barbarie della fanciullezza, tanto più cessiamo di essere piccoli cuccioli di una specie di animali un po’ più intelligenti degli altri e diventiamo uomini, uomini civili, quanto più comprendiamo che c’è una altrui volontà, quanto più cerchiamo di tenerne conto.

Questo è dunque, intanto, l’atteggiamento fondamentale dello spirito democratico: il tener conto degli altri. Per che motivo io ne tenga conto, è un’altra questione, è una grossa questione di filosofia o di morale o di religione o comunque si voglia dire; e si potrà anche rispondere che la persona veramente civile, l’uomo davvero buono e onesto e disinteressato, è quello che non ha bisogno di nessun altro motivo per sentirsi indotto a tener conto della volontà altrui, giacché sente di doverlo fare per se stesso, perché è una cosa che va fatta e basta. In ogni modo derivi questo mio atteggiamento di considerazione e di rispetto della volontà altrui dal fatto che io lo sento doveroso senz’altro, oppure da quello che lo ritengo dettato da certi ragionamenti teorici o suggerito da ragioni di convenienza pratica o ordinato da precetti e comandamenti religiosi, quel che caratterizza lo spirito democratico è che questo atteggiamento abbia luogo. Al di sotto di questo atteggiamento possono stare le sue varie giustificazioni teoriche: ma la democrazia comincia col suo manifestarsi.

L’unità della democrazia è l’unità degli uomini che, per qualunque motivo, sentono questo dovere di capirsi a vicenda, e di tenere reciprocamente conto delle proprie opinioni e delle proprie preferenze. Ma come si tiene conto della volontà degli altri? Anzitutto, ascoltandoli. Prima ancora che nella bocca, la democrazia sta nelle orecchie. La vera democrazia non è il paese degli oratori, è il paese degli ascoltatori. Naturalmente, perché qualcuno ascolti, bisogna bene che qualcuno parli: ma certe volte si capisce anche senza che gli altri parlino, e non per nulla si sente fastidio per i chiacchieroni e reverenza per i taciturni attenti. La democrazia è dunque, in primo luogo, colloquio. E qui vediamo subito che gli uomini di scarso senso democratico son già coloro che tendono a sopraffare gli altri nella conversazione, che non stanno a sentire quello che gli altri dicono, che tagliano loro la parola prima che essi abbiano finito di esporre il loro pensiero.

La realtà è che la democrazia vera consiste tanto nel diritto di parlare, quanto nel dovere di lasciar parlare gli altri. È un dovere tanto più delicato, in quanto molto spesso le persone più riflessive, e quindi più capaci di dir qualcosa di utile, sono anche le più riguardose e le meno disposte a compiere un atto di forza per inserirsi nell’eloquenza dell’interlocutore e strappargli la parola. Così i mediocri verbosi riescono spesso a sopraffare gl’intelligenti timidi. Ma naturalmente questo non va inteso come una specie di giustificazione per i timidi. Chi è timido deve imparare a non esserlo, non foss’altro per abituare l’interlocutore a moderare la sua invadenza, allo stesso modo che si ha il dovere di far valere i propri diritti per non avvezzar male i prepotenti. E d’altra parte bisogna anche evitare quella che potrebbe dirsi la pigrizia oratoria, o l’astensionismo dell’opinione: cioè l’atteggiamento di chi s’interessa sì alle opinioni altrui ma non fa nessuno sforzo per pensare con la propria testa e prendere la responsabilità delle sue idee e contribuire con esse al miglioramento delle idee comuni. A certe persone lo spirito democratico ordina di parlare un po’ di meno, a certe altre consiglia di parlare un po’ di più. C’è una scuola anche in questo, per raggiungere quell’equilibrio del colloquio, quell’armonico contemperamento fra intervento proprio e cordiale attenzione per l’intervento altrui, che è, per così dire, la cellula elementarissima della democrazia.

Prima regola quindi: parlare solo se si ha veramente qualcosa da dire, cioè qualcosa che possa efficacemente contribuire al dibattito e non soltanto soddisfare l’ambizione dell’oratore desideroso di esservi intervenuto.

Seconda regola: contenere il proprio intervento in quei limiti di tempo, per cui si possa presumere che anche gli altri partecipanti al dibattito abbiano la stessa possibilità d’intervento.

Terza regola: cercar d’esprimere il proprio punto di vista non solo in forma chiara e concisa, ma anche con quella compiutezza che possa rendere meno necessario e prevedibile un secondo intervento nella discussione.

Quarta regola: rinunciare senz’altro a parlare tutte le volte in cui il proprio punto di vista sia stato già adeguatamente espresso da un precedente oratore, o tutt’al più limitarsi a dichiarare il proprio consenso con esso.

L’osservanza di queste regole presuppone naturalmente non solo la buona volontà di rispettarle, ma anche una certa capacità personale, che è dovere democratico cercare di accrescere con l’esercizio.