Bacio saffico davanti a Salvini: “Auguri e figli maschi” la replica

Un bacio saffico all’improvviso ha spiazzato il ministro dell’Interno Salvini dopo il comizio elettorale a Caltanissetta. Avvicinato per un selfie da due ragazze, Gaia e Matilde, al momento della posa del vicepremier, le due giovani si sono baciate. Una inquadratura diventata in breve virale sui social. “Un gesto quasi istintivo, un’idea che ci è venuta mentre partecipavamo alla protesta con gli attivisti del Circolo Arci Aut”, ha raccontato Gaia a Fanpage.it. “Non siamo una coppia, siamo solo amiche. Ma entrambe volevamo lasciare un segno, per ribellarci alle politiche omofobe che questo governo ha dimostrato di supportare, non più tardi di un mese fa, al Congresso di Verona”, ha aggiunto Gaia. Gaia e Matilde vivono e studiano a Torino, rispettivamente design e comunicazione visiva e ingegneria, riferisce Fanpage.it. “Due ragazze mi hanno chiesto di fare una foto e poi si sono baciate pensando che a me desse fastidio – la replica di Matteo Salvini – A me ha fatto piacere e gli ho detto: ‘auguri e figli maschi’. Non si sa mai. Se pensavano di farmi fastidio, a me non interessa minimamente – ha aggiunto – basta che non si faccia finta che non esistono la mamma e il papà. Poi, ama chi vuoi. Peace and love”.

Charlize, vieni via con me! Magari chiedendoti il permesso

“Magari la prossima volta chiedile il permesso”. Lo ha detto Charlize Theron al conduttore di una tv francese che aveva dato in diretta un bacio castissimo alla sua traduttrice. Una cosa da niente, se non fosse che l’ha affermato lei, la donna più solida e sottovalutata di Hollywood, una che non appare mai nella lista virtuosa delle femministe pettinate e osannate, quelle alla Meryl Streep per intenderci. Una che già a 28 anni aveva capito di essere troppo bella per potersi guadagnare sul campo qualche riconoscimento in più senza diventare altro e si era imbruttita per portarsi a casa un Oscar. Eppure, se Charlize è riuscita a essere “abbastanza brava” da vincere una Statuetta, non è ancora abbastanza autorevole perché venga ricordata più spesso come una delle attrici più libere, coraggiose e anticonformiste dei nostri tempi.

Charlize si batte per un sacco di cose e se ne frega di un sacco di cose. Nata nel Sudafrica dell’apartheid, è sempre in prima linea quando si tratta di stare dalla parte di chi è ghettizzato, escluso, emarginato. Cresciuta fino ad arrivare a un metro e settantasette di altezza, incantevole, desiderata, è costantemente in prima linea anche quando si tratta di ammettere di essere sentimentalmente sfigata. E trova sempre le frasi più efficaci per raccontare l’alto e il basso, per rimettere a posto un uomo o un pregiudizio, per redarguire un conduttore esuberante.

“Magari la prossima volta chiedile il permesso”, ha detto. Perché è questo, in fondo, Charlize Theron. Una donna che pretende rispetto. Quello che non aveva sua mamma da un marito alcolizzato, quello che si è guadagnato lei, giovanissima, nel mondo di squali che è la moda. Quello che s’è conquistata a Hollywood, diventando una delle attrici più pagate, quello che ha preteso da se stessa, non accontentandosi mai di relazioni zoppe e di famiglie a tempo. E una delle sue più grandi battaglie è iniziata proprio da lì, dalla sua famiglia.

Da mamma single, Charlize ha adottato due bambini, la piccola August e Jackson. Dopo un po’ sono iniziate a circolare delle foto di Jackson, in giro con sua mamma e sua sorella, vestito da Elsa di Frozen o con gonnelline a fiori, con le treccine lunghe. Poche settimane fa, Charlize ha raccontato con estrema naturalezza che Jackson si sente una femmina e lei la lascia libera di essere ciò che desidera. “Le mie due FIGLIE sono nate così come sono ed esattamente nel luogo del mondo dove, crescendo, possono trovare loro stesse, possono diventare ciò che vogliono. Non sta a me decidere. Il mio compito, come genitore, è onorarle e amarle ed essere sicura che abbiano tutto ciò di cui hanno bisogno perché diventino ciò che vogliono. E io farò qualsiasi cosa in mio potere perché le mie piccole abbiano questo diritto e siano protette”, ha detto.

Una mamma che ha vissuto l’apartheid e la sua bambina di colore che affronta un percorso di gender identity è la risposta più efficace a qualsiasi ghetto, a qualunque pregiudizio, e Charlize lo sa.

Ma Charlize è anche quella che diceva “Vietare il matrimonio è una forma di apartheid, non mi sposerò finché non potranno farlo anche i miei amici gay”. Quella che si dichiara femminista con fierezza, ma – coraggiosamente – senza demonizzare gli uomini: “Si parla di femminismo ma bisogna intendersi sul termine. Io sono una femminista che ama gli uomini e li celebra. Ritengo che le donne abbiano potere solo grazie alla loro capacità di entrare in connessione con gli uomini”.

Charlize è un’anticonformista che non fa mai la morale, che non conduce battaglie senza sporcarsi le mani, che dopo quell’Oscar per Monster vinto a 30 anni imbruttendosi, deformandosi, mascherandosi, non ha voluto dimostrare più nulla. S’è ripresa subito la sua bellezza abbagliante e, a 44 anni, si racconta senza artifizi, senza retorica, senza dover rincorrere una credibilità che possiede, ma che le andrebbe riconosciuta con più convinzione. Ed è così che continua a uscire seminuda, bella in modo devastante, dalla vasca dorata di un hammam per il profumo J’adore, come se dallo spot Martini che l’ha resa famosa fossero passati due giorni.

È così che respinge sdegnata i gossip su un fanta-fidanzamento con Brad Pitt, e si racconta per quello che è: una Bridget Jones rinchiusa in una custodia scintillante. Tanto da arrivare a dichiarare: “Sono single da 10 anni, non è un azzardo corteggiarmi. Sto solo aspettando che qualcuno prenda un po’ di coraggio, si faccia avanti e mi chieda di uscire. Sono scandalosamente disponibile”. Che non è solo una frase di quelle da generare empatia per i prossimi mille anni, ma è anche un messaggio ruvido e sottinteso a chi in questi ultimi dieci anni, accanto a lei, per un po’ ci sarebbe anche stato. Un messaggio a un uomo, Sean Penn, che è stato il suo fidanzato dal 2013 al 2015, ma che non deve averle lasciato un buon ricordo. E che quindi Charlize archivia come le cose che sono esistite solo nel mondo delle sue aspettative, come facciamo noi altre che non ancheggiamo uscendo dall’hammam, ma che, come lei, fingiamo goffamente di cancellare gli uomini che ci hanno fatto male.

È moderna, Charlize Theron, nel senso più profondo del termine. È capace di brandire le armi con fierezza nelle sue battaglie di civiltà e di deporle con docile arrendevolezza quando parla di sè, delle sue fragilità. Perché non c’è un abito, un vestito, una convenzione a cui in vent’anni di carriera sfolgorante sia rimasta impigliata, nonostante tutto sia iniziato da lì, da un filo impigliato in una sedia e una camminata che l’ha portata lontana parecchie miglia da qualsiasi pregiudizio.

Se solo fossi un uomo, io la Theron la prenderei e me la porterei via domani. Anche se fossi donna, in effetti.

Ok. Magari chiedendoti il permesso, Charlize.

Svastica sulla targa per Orsetti, morto in Siria contro l’Isis

Vandalizzata a Torino la targa in corso Allamano che ricorda Lorenzo Orsetti, il combattente anti Isis ucciso il mese scorso in Siria. La lapide, che era stata posata l’8 aprile scorso, si trova a pochi metri dalla sede dell’associazione di estrema desta Legio Subalpina, inaugurata a inizio marzo tra le polemiche, è macchiata da diverse imbrattature di colore verde, compresa una svastica. È inoltre coperta da uno strato di terra, che la rende quasi del tutto illeggibile. Questo il testo della targa: “Lorenzo Orsetti Orso, partigiano di oggi, per la rivoluzione in Kurdistan e contro il fascismo dello Stato islamista dell’Isis, ucciso in combattimento il 18 marzo 2019”, firmato gli antifascisti. “Crediamo sia degno di lode lottare per le proprie idee, qualunque esse siano, in maniera coerente e anche fino all’estremo sacrificio, non possiamo che rispettare la memoria di Orsetti e augurargli sinceramente che la terra gli sia lieve – scriveva Legio Subalpina lo scorso 8 aprile, poche ore dopo la posa della targa –. Ciò che troviamo assai esilarante è invece l’espressione “Il fascismo dello stato islamista”.

I neonazisti di Do.Ra. pagano le tombe dei fascisti, “martiri” uccisi dai partigiani

La provocazioneè arrivata proprio nel giorno della Liberazione: le spese per le tasse cimiteriali di una ventina di gerarchi e comandanti fascisti sepolti a Varese verranno pagate dalla comunità Do.Ra. (Dodici raggi), ufficialmente “associazione culturale”, ufficiosamente formazione neonazista, già nota alla Procura di Busto Arsizio per tentata ricostituzione del partito fascista. Secondo quanto riportato da Repubblica, mentre in tutta Italia sfilavano i cortei dell’Anpi e gli esponenti politici commemoravano con commozione la caduta del governo mussoliniano e dell’occupazione tedesca, in tre cimiteri di Varese (Belforte, Sant’Ambrogio e Solbiate Arno) venivano ricordati 240 “martiri” uccisi dai partigiani. Al termine della celebrazione è avvenuto il lancio dell’iniziativa da parte dei militanti, che si sono dichiarati disponibili a pagare con i loro soldi le tasse di concessione ministeriale per le tombe dei defunti fascisti per i prossimi 30 anni. Il pregiudicato Alessandro Limido, a capo dell’associazione, spiega che la decisione della raccolta fondi nasce per evitare che le tombe vengano rimosse per mancanza di eredi disposti a sobbarcarsi le spese o per scadenza dei termini.

I militanti, di cui 52 sottoposti alla richiesta di rinvio a giudizio da parte della procura di Busto Arsizio, hanno passato il resto della giornata a sistemare le lapidi danneggiate e usurate dagli anni. Del resto i Do.Ra. si distinguono per il loro modo particolare di festeggiare e scegliere le ricorrenze, come testimonia il fatto che ogni anno celebrano il genetliaco di Hitler, il 20 Aprile, con una festa-concerto.

Le loro stravaganze li resero già noti alla Digos e all’Antiterrorismo, che nel 2017 sequestrarono la loro sede e vi reperirono asce, coltelli e svastiche.

Samara, bruciato vivo a 26 anni nella baraccopoli abusiva che deve essere smantellata

Aveva 26 anni Samara, veniva dal Gambia. Fino a poco tempo fa era ospite del Centro richiedenti asilo di Foggia, ma la sua richiesta è stata respinta. Così aveva trovato alloggio in una baracca a Borgo di Mezzanone, dove però giovedì notte è morto, divorato dalla fiamme. A provocare l’incendio potrebbe essere stato un corto circuito partito da uno dei tanti allacci abusivi alla corrente elettrica che si trovano nella baraccopoli foggiana. Gli inquirenti dovranno anche accertare se il 26enne sia morto nel sonno per i fumi sprigionati nell’incendio o per altre cause. Nei prossimi giorni verrà disposta l’autopsia. Diventano una decina gli incendi che hanno interessato il Borgo in un anno e mezzo. Lo scorso 30 ottobre rimasero ferite quattro persone e il giorno successivo un gambiano, di 35 anni, morì a seguito delle gravissime ustioni. A circa 15 km da Foggia il ghetto, sorto nell’ex pista dell’Aeronautica militare, a pochi passi dal Cara dove vivono oggi 150 migranti, ospita 1.500 irregolari che nel periodo della raccolta dei pomodori diventano 4 mila. Da settimane sono stati disposti “abbattimenti controllati” finalizzati allo smantellamento. L’ultimo lo scorso 17 aprile: le operazioni, coordinate dalla Procura, sono iniziate a febbraio, e a marzo erano state scoperte e distrutte alcune strutture ritenute dagli inquirenti base di sfruttamento della prostituzione e spaccio di droga. L’obiettivo finale è chiudere il centro, che negli anni è diventato un contenitore di illegalità. Intanto, però, si continua a morire. Il luogo è sprovvisto di presidi di sicurezza e diogni standard minimo di dignità. Le baracche sono realizzate con materiali di fortuna infiammabili, rifornite di energia elettrica con “cavi volanti”, riscaldate con bombole di gas prive di manutenzione, puntellate da cumuli di rifiuti. Tutte situazioni che creano un concreto pericolo di incendi. Borgo di Mezzanone non è l’unico ghetto della morte nel foggiano. Nel 2016 un ragazzo di 20 anni morì carbonizzato in un rogo nella sua baracca nel “Ghetto dei Bulgari”, a Pescia. Tra San Severo e Rignano Garganico, nel 2017 erano morti bruciati due migranti di 33 e 36 anni del Mali.

Maxi-truffa del cachemire: 40 mila capi lavorati in acrilico. Ora saranno dati in beneficenza

Sull’etichetta e sui cartellini si spiegava che il prodotto era in cachemire, “materiale raro e prezioso dotato di incredibili proprietà che non trovano pari in nessun’altra fibra esistente al mondo”. In realtà, non lo era. Si trattava di un più semplice, economico e artificiale tessuto acrilico.

Eppure quei maglioni, golfini e cardigan erano stati pagati cari e venivano rivenduti a una cifra più alta del loro valore reale. Per questa ragione oltre 40 mila capi d’abbigliamento commercializzati dalla Cotton & Silk, azienda di San Giuseppe Vesuviano (Na), sono stati ritirati dai punti vendita e sequestrati dalla Guardia di finanza.

I baschi verdi, coordinati dalla Procura di Torino, sono intervenuti nei punti vendita del marchio per prendere questi prodotti importati dal Bangladesh.

Il valore totale della merce sequestrata si aggira intorno ai due milioni di euro. La società, che gestisce 125 negozi all’interno di molti centri commerciali in tutta Italia, è risultata estranea alla truffa e il titolare ha subito offerto la sua collaborazione ai finanzieri consegnando loro i documenti utili per risalire la filiera.

L’uomo sarebbe stato molto sorpreso dall’esito dell’inchiesta: le analisi realizzate dal laboratorio chimico “Buzzi” di Prato e i riscontri arrivati da Boston, sede del “Cashmere and Camelhair Manifacturers Institute”, hanno rivelato che i prodotti non erano realizzati con quella fibra tessile di alta qualità. Sarebbe stato raggirato dal produttore, un imprenditore del Bangladesh, che è stato denunciato per frode in commercio. Maglioni, golf e cardigan finiti sotto sequestro saranno consegnati a enti benefici affinché li distribuiscano alle persone che, con la prossima stagione fredda, ne avranno bisogno.

Bullizzato e segregato, muore disabile. Sotto inchiesta quattordici giovanissimi

È sotto choc Manduria, 31 mila abitanti in provincia di Taranto. È terminata in tarda serata l’autopsia sul corpo di Antonio Stano, l’uomo di 66 anni deceduto il 23 aprile presso l’ospedale Giannuzzi di Manduria. Era stato ricoverato dopo il ritrovamento in casa in stato di abbandono da parte delle forze dell’ordine, sollecitate da una vicina. Gli inquirenti indagano su quattordici ragazzi, di cui dodici minorenni e due di 19 e 22 anni. I capi d’accusa sono omicidio preterintenzionale, concorso in rapina, lesioni personali, minacce, danneggiamento, violazione della proprietà privata e stalking.

Le aggressioni ai danni della vittima, un pensionato dell’Arsenale Militare di Taranto, sarebbero iniziate nel 2012, riferiscono i vicini. Gli episodi di violenza e le estorsioni (una di 300 euro confermata dallo stesso Stano agli agenti) avrebbero portato l’uomo, già affetto da disturbi psichici, a barricarsi in casa in condizioni di indigenza e degrado. Aveva anche smesso di nutrirsi da giorni. In questo stato di grave debilitazione lo aveva ritrovato il personale del 118, intervenuto su richiesta delle forze dell’ordine. Di lì il ricovero e due interventi chirurgici per ferite interne all’addome. E poi il decesso. Le indagini sono partite 15 giorni fa. A condurle è la polizia del commissariato di Manduria. Le coordinano i pubblici ministeri, Remo Epifani della Procura della Repubblica ordinaria e il procuratore capo della Repubblica per i minori, Pina Montanaro. Per gli esiti dell’autopsia, eseguita dal medico legale di Bari, Liliana Innamorato, si dovranno attendere i risultati degli esami istologici. I 14 indagati, ai quali due settimane fa gli agenti hanno sequestrato i cellulari, avrebbero registrato a volto scoperto alcuni video delle sevizie ai danni di Stano, fatti circolare dagli stessi su Whatsapp.

In paese in molti si chiedono “come sia potuto accadere”. I profili dei membri della baby gang ritraggono ragazzi di buona famiglia, nati tra il 2001 e il 2003. Privi di precedenti penali. Non legati alla criminalità organizzata. “Sono figli di gente normale, lavoratori”, commentano i concittadini sconvolti. “Il pazzo del Villaggio del fanciullo”, com’era stato soprannominato dalla baby gang Antonio Stano residente di fronte all’oratorio del paese, era abbandonato a se stesso in una casa che descrivono essere fatiscente. Alla sorella e al nipote è stato recapitato l’avviso di accertamento tecnico irripetibile. Restano numerosi i lati oscuri della vicenda, a partire da presunte sollecitazioni fatte da alcuni cittadini ai genitori dei ragazzi e ai servizi sociali a cui non è seguita alcuna risposta. “Personalmente – ha scritto su Facebook un educatore dell’oratorio, Roberto Dimitri – ho ripreso tante volte i ragazzi che bullizzavano il signore, chiamato le forze dell’ordine e chiamato i genitori, ma senza risultati”. “Il mio assistito – fa sapere al Fatto Armando Pasanisi, legale di uno dei due maggiorenni – è di ottima famiglia ed è estraneo ai circuiti criminali”. Cosimo Micera, avvocato di uno dei minorenni di 17 anni, racconta di “famiglie distrutte dall’accaduto”. Al momento – dice – “non abbiamo nessun atto a disposizione, non essendo partita l’ordinanza”.

Il sindaco s’inventa la difesa preventiva dagli attacchi stampa

L’Ordine dei giornalisti della Toscana ha espresso “contrarietà” per la recente adozione da parte del comune di Cecina (Livorno), giunta del Pd, di una determina che incarica un legale per la difesa in via preventiva da eventuali “attacchi” sulla stampa, oltre che sui social media. “In assenza di qualsiasi riferimento a fatti e circostanze precise, la decisione appare intrisa da uno sgradevole sapore intimidatorio, inaccettabile per i giornalisti che svolgono il loro lavoro nel rispetto delle leggi e delle carte deontologiche”, afferma in una nota l’Ordine dei giornalisti della Toscana. “L’articolo 21 della Costituzione garantisce la libera manifestazione del pensiero e l’informazione ne costituisce il pilastro fondamentale. In Italia, come in ogni altro Stato democratico, ai giornalisti sono concessi la libertà di cronaca e il diritto di critica, nel rispetto della verità sostanziale dei fatti, dell’utilità sociale della notizia e della continenza espositiva – continua l’Odg –. Compito dei giornalisti è controllare che il potere sia esercitato nell’interesse collettivo e che le risorse pubbliche siano ben utilizzate. Stupisce che in assenza di episodi specifici e di fatti avvenuti, si dia mandato a un legale per attuare una difesa preventiva”.

Capri, l’inchiesta sul sindaco e la cricca del mattone

Placida al risveglio della bella stagione e pronta a tornare al voto il 26 maggio per eleggere il nuovo sindaco, Capri si affaccia al sole della primavera senza dare uno sguardo al barometro della giustizia che prevede tuoni e fulmini. Secondo quanto risulta al Fatto Quotidiano, i carabinieri della stazione di Capri e della compagnia di Sorrento, sotto il coordinamento della Procura di Napoli guidata da Giovanni Melillo, stanno indagando con l’ipotesi di associazione a delinquere il sindaco di Capri, Giovanni De Martino. È ritenuto il capo di una congrega del mattone composta da ingegneri, architetti, studi professionali, manager pubblici e tecnici municipali, in grado di orientare a piacimento le autorizzazioni edilizie grazie alle proprie infiltrazioni nei gangli dell’amministrazione. L’indagine è in corso da più di un anno ed avrebbe trovato tracce dell’esistenza di un sodalizio finalizzato a far ottenere più facilmente e in fretta le licenze per lavori non eseguibili, aggirando i vincoli ed eludendo i controlli.

Il sindaco De Martino, ingegnere, è stato eletto nel 2014 con la lista civica “La Primavera” e ha tenuto per sé le deleghe all’edilizia e all’urbanistica. Ha ufficializzato che non si ricandiderà, come promesso sin dall’insediamento. Dagli anni 80 fino al 2001, ha diretto l’ufficio tecnico comunale di Capri e poi fino al 2014 ha lavorato da libero professionista nello studio dell’ingegnere Giuseppe Aprea, componente della commissione edilizia comunale presieduta dall’architetto Massimo Stroscio, fino all’anno scorso responsabile municipale dell’edilizia privata. Stroscio fu nominato dal sindaco De Martino, che lo ebbe alle sue dipendenze quando era a capo dell’Utc di Capri. Nell’agosto 2018 Stroscio è finito agli arresti domiciliari con l’accusa di aver chiuso un occhio sul mancato ripristino dello stato dei luoghi dopo l’ampliamento abusivo di una villetta che si trova a metà tra la piazzetta e la zona alta di Capri, di proprietà del manager di un grosso marchio dell’abbigliamento. Da allora è sospeso dal servizio.

L’intreccio di interessi che legano a doppio filo De Martino, Aprea e Stroscio sarebbe il nucleo della cricca di cui fanno parte una decina di persone, tra cui Costanzo Cerrotta, amministratore della municipalizzata Capri Servizi srl, che secondo gli investigatori sarebbe una sorta di “concretizzatore” del piano criminoso. Si indaga intorno ai lavori di quattro immobili (tra i quali la storica Villa Settanni, proprio di fronte ai Faraglioni, direttore dei lavori Aprea, collaudatore sismico De Martino), e di un albergo.

Il malloppo di carte è ora al vaglio dei pm Catello Maresca, Giulio Vanacore e Maria Carolina De Pasquale, un pool che unisce magistrati delle sezioni ambiente e pubblica amministrazione. Alla loro attenzione ci sono anche gli episodi coi quali si è tentato di delegittimare i carabinieri e la Soprintendenza, bombardati di esposti, e un giornalista locale, Felice Spinella, che ha denunciato minacce dopo aver scritto articoli sgraditi.

Perché intorno al mattone qui gira tutto. È il comparto immobiliare, e non il turismo, il fulcro dell’economia caprese. Dà lavoro tutto l’anno, anche quando fa freddo e gli alberghi chiudono, e muove cifre da capogiro: le case possono valere oltre 15 mila euro al metro quadro. E dove c’è lavoro per professionisti e studi tecnici, ricordano gli investigatori, ci sono anche i pacchetti di voti dei loro dipendenti e collaboratori. E il cerchio si chiude.

Il mega-velodromo con soldi pubblici e gestione privata

Spresiano (Treviso): in località Le Bandie, vecchia cava riconvertita in lago artificiale, due passi dalla futura Pedemontana, sta nascendo un velodromo. Con 6mila posti, sarà il più grande d’Italia e tra i più grandi d’Europa; basti dire che il VeloPark di Londra 2012 ha una capienza simile (e qui non c’è nessuna Olimpiade). Costerà circa 27 milioni, si estenderà su un’area di 85mila metri quadri e avrà un enorme parcheggio (dettaglio non marginale, come vedremo). Sarà costruito in buona parte con fondi statali, ma non sarà dello Stato.

In questa storia lo sport si mischia con la politica e gli interessi privati ai fondi pubblici, si inseriscono convenzioni, ricorsi, persino un esposto (dirigenti si sono rivolti alla Procura per presunte irregolarità). Il progetto risale alla finanziaria 2008, in cui il governo stanziò un maxi-contributo di 30 milioni per l’organizzazione del Mondiale di ciclismo su pista 2012, impianto annesso. Son passati 10 anni, i Mondiali non li abbiamo mai visti. Il finanziamento è rimasto, appena ridimensionato, e ha attraversato varie ere politiche trovando sempre consenso: dallo stanziamento di Prodi all’accelerazione sotto Renzi, fino alla posa della prima pietra lo scorso settembre, alla presenza dei leghisti Zaia e Giorgetti.

In questo tempo la FederCiclismo dai conti ballerini si è ritrovata un tesoretto fra le mani. Forse proprio per il buco in bilancio sotto esame Coni, da subito il presidente Renato Di Rocco ha puntato sul project financing: affidare l’opera a un privato e liberarsi dai rischiosi oneri di gestione. Rinunciando, però, alla proprietà.

La prima scelta è quella del terreno: si fa avanti il Comune di San Vendemiano ma la Federazione preferisce l’offerta a Spresiano di Remo Mosole, nome noto nel ciclismo, imprenditore vicino al mondo delle due ruote e alla Federazione, che da quelle parti ha già ospitato eventi e ha presieduto il comitato dei mondiali di ciclocross 2008. Il suo piano sbaraglia la concorrenza, perché dedicato al ciclismo (nell’altro erano coinvolte più discipline) e grazie alla “maggiore disponibilità di parcheggio”. Certo, quel suolo è privato e andrà pagato al proprietario: più di un milione di euro. Ma per la Federazione è un dettaglio. San Vendemiano fa anche ricorso, ma per i giudici è tutto legittimo.

Trovato il terreno, serve il concessionario. Stavolta la scelta è semplicissima: alla gara nel 2016 l’unica offerta è di Pessina. L’azienda non ha bisogno di presentazioni: nota impresa di costruzione, nonché proprietaria de L’Unità, giornale del Pd che a Palazzo Chigi ha avuto in mano lo sport con Luca Lotti, conoscenza comune a costruttore e presidente federale. “Con Di Rocco c’è rapporto collaudato, faremo tante cose insieme”, diceva il ministro. Magari pensava al velodromo.

L’investimento per la costruzione è di 27,1 milioni, il contributo pubblico di 27. Quest’ultimo però non tutto per la realizzazione, a cui sono destinati 18,5 milioni (8,6 a carico del privato); il resto di fondi è per un eventuale campionato del mondo (1,35) e per i primi 5 anni di gestione (7,15). Proprio questa è la ragione del project financing: Pessina gestirà l’impianto per 50 anni, garantendo alla Fci l’utilizzo gratuito per 150 giorni l’anno. Si farà carico dei costi di gestione e manutenzione ma si prenderà gli utili, che per il piano finanziario saranno maggiori. E infine ne diventerà proprietario.

La Federazione, infatti, ha affidato la concessione a Velodromo srl, società costituita da Pessina, che ha comprato il terreno di Mosole e a sua volta ha ceduto il diritto di superficie per 70 anni alla Federazione. Alla scadenza, però, “dovranno essere restituiti alla Velodromo srl il terreno e i soprastanti fabbricati”. Cioè il velodromo. Per il presidente Di Rocco è la soluzione migliore: “La gestione è complicata, rischiavamo di andare in difficoltà. Così avremo un velodromo di ultima generazione a disposizione, senza oneri”. Anche dalla società Pessina sottolineano la “lunga durata dell’accordo”, che copre l’intero ciclo di vita dell’impianto, e la ripartizione dei costi al 61-39% tra Fci e concessionario. La consegna è prevista per la primavera 2020. Ciclismo, imprenditori, privati: in questa storia sono tutti contenti.