Diritto d’asilo, sentenza Cassazione annulla la stretta

Per negarel’asilo a un richiedente deve essere provata l’assenza di pericolo nel paese di provenienza. Per respingere le richieste non basterà la base di generiche “fonti internazionali” che attesterebbero l’assenza di conflitti nei paesi di provenienza dei migranti che chiedono di rimanere in Italia perché in patria la loro vita è a rischio. Lo chiede la Cassazione che esortando i magistrati ad evitare “formule stereotipate” e a “specificare sulla scorta di quali fonti” abbiano acquisito “informazioni aggiornate sul Paese di origine” dei richiedenti asilo. La decisione della Suprema Corte ha accolto così il ricorso di un pachistano, al quale la Commissione prefettizia di Lecce e poi il Tribunale della stessa città, nel 2017, avevano negato di rimanere nel nostro Paese con la protezione internazionale. “Il mio assistito – ha spiegato all’Adnkronos l’avvocato Nicola Lonoce, difensore del pachistano – aveva presentato richiesta d’asilo che era stata respinta, ma le informazioni sui paesi di provenienza dei richiedenti sulle quali si basano le richieste d’asilo sono troppo generiche. E non vengono prese in considerazione tutte le prove disponibili per una giusta decisione”.

Rogo nella discarica abusiva: “Atto doloso”

I caratteri in latino scolpiti sul Fontanile di Papa Benedetto XIV, ultimo restauro datato 1753, ricordano ai passanti che la via Collatina Vecchia, a Roma, dove la notte del 25 aprile è divampato il rogo di una discarica abusiva, è collocata a poca distanza da dove un tempo passava il tracciato dell’antica via Prenestina.

Una lunga fetta di verde pubblico costellato di reperti archeologici, compresa tra il tratto urbano della Autostrada A24 e la ferrovia ad alta velocità Roma-Napoli, strappata alla cementificazione intensiva che negli Anni Sessanta ha interessato questa fetta della periferia Est di Roma, dove le fiamme hanno ricordato a tutti la mancata valorizzazione dei territori di tante periferie romane. L’incendio, che fortunatamente non ha causato danni a persone, ha mandato in fumo tonnellate di rifiuti, tra cui le macerie di un insediamento abusivo, sorto su un terreno di proprietà comunale, che era stato abbattuto lo scorso 6 febbraio dal Municipio IV e dalla Polizia Locale del Campidoglio. I resti delle baracche però, assieme ad altri rifiuti sversati illegalmente, erano rimasti ancora al suolo in attesa di essere rimossi dall’Ama e smaltiti correttamente. A portarli via ci hanno pensato le fiamme, durate tutta la notte, che hanno invaso i quartieri circostanti di un odore acre di plastica bruciata.

Dietro l’episodio, l’ombra dei roghi tossici, che da anni interessano la zona, costellata di micro insediamenti di rom e persone senza fissa dimora, nonostante alcuni uffici della divisione stranieri della Questura siano a poche centinaia di metri. La Polizia locale parla di probabile “natura dolosa” dell’incendio e di “gesto criminale”.

E pensare che da metà marzo un presidio dei militari della Brigata Sassari sorveglia il vicino insediamento di baracche di via Salviati, proprio in funzione deterrente contro i roghi tossici. Non è bastato.

I residenti della zona, del resto, da anni attendono altro: la trasformazione delle aree verdi adiacenti al rogo nel Comprensorio “Ad duas lauros”, un sito sottoposto a vincolo archeologico e paesaggistico dal 1995, composto da una serie di aree verdi sparse tra Collatino, Alessandrino, Centocelle, Torpignattara e la zona di largo Preneste. Un parco archeologico diffuso nella periferia Est che ad oggi, almeno nella sua porzione al Collatino, rimane solo una serie di prati incolti dove affiorano cumuli di rifiuti ingombranti nascosti tra i piloni del cavalcavia autostradale. Una delle tante occasioni mancate nel decoro cittadino. Di fatto da anni l’area è abbandonata a se stessa, circostanza che favorisce il moltiplicarsi di situazioni di degrado.

Virginia Raggi sentenzia: “Roma è sotto attacco di una criminalità che continua ad agire contro i cittadini. Sarà la magistratura a determinare le cause del rogo ma noi ai fenomeni di autocombustione non possiamo credere”.

I Comitati di quartiere di zona invece protestano: “Da mesi denunciamo lo scempio della discarica andata a fuoco tra via del Flauto, via Palmiro Togliatti e via Collatina Vecchia. Nessuno è intervenuto, e stanotte i quartieri Collatino, Colli Aniene, Villa Gordiani e Tor Sapienza hanno dovuto respirare l’ennesima dose di diossina rilasciata nell’atmosfera a causa di criminali, ma anche dell’inerzia delle istituzioni”.

Salvini “regala” alla Raggi la prefetta anti-migranti

Era il 21 luglio 2015, i migranti sbarcavano a migliaia in piena estate anche al molo Beverello di Napoli, Gerarda Pantalone era prefetta del capoluogo campano e sul Mattino si appellava ai sindaci della provincia: “Ognuno ne accolga 40, sono campana di nascita e nell’anima: questo popolo non chiude mai le porte”. Appena tre anni dopo la prefetta Pantalone, a capo del Dipartimento delle Libertà civili e dell’Immigrazione del Viminale, assecondava la pretesa di Matteo Salvini di negare il Pos, il “porto sicuro”, alle navi che trasportano migranti. Quelle delle Ong e perfino la nave Diciotti della Guardia Costiera con a bordo 150 naufraghi. E c’è chi vede la mano esperta della prefetta Pantalone anche in alcune norme particolarmente vessatorie sul riconoscimento della cittadinanza e di altri diritti agli stranieri, inserite nel decreto Sicurezza di Salvini.

I prefetti, si sa, rispondono al governo e al ministro in carica. C’è modo è modo, però. Lunedì il governo, su proposta del ministro dell’Interno, dovrebbe nominare Pantalone prefetta di Roma, nel pieno dello scontro tra il M5S e la Lega e mentre Salvini vorrebbe tanto strappare il Campidoglio a Virginia Raggi. I temi di confronto acceso sono tanti, dai rom agli sgomberi di occupazioni abitative o di riconosciuto valore sociale e culturale come l’ex Cinema Palazzo di San Lorenzo, dal degrado della zona della Stazione Termini alle piazze di spaccio, alle mafie vecchie e nuove, alle inefficienze e all’emergenza sociale. Sarà una prefetta “anti-Raggi”? Vedremo.

Tutti, nel suo ambiente, riconoscono a Gerarda Pantalone competenza e professionalità che non faranno rimpiangere l’attuale prefetta in scadenza, Paola Basilone, che pure in passato ha avuto qualche attrito con la sindaca. C’è semmai chi le rimprovera qualche asperità di carattere. Nata a Grazzanise (Caserta), abilitata alla professione di avvocato, Pantalone è entrata nell’amministrazione dell’Interno nel 1979, si è occupata di stranieri e di polizia e dal 1999 al 2009 è stata nei Servizi, dove era responsabile del personale e ha collaborato alla riforma. Poi è stata prefetta di Siena, Salerno e Napoli, quindi dal 13 febbraio 2017 guida il Dipartimento delle Libertà civili e dell’Immigrazione, nominata dal governo Gentiloni che al Viminale aveva Marco Minniti, il primo a stringere sull’immigrazione. A Salvini è piaciuta molto.

È l’ufficio che tra mille altre cose, secondo le procedure in vigore, deve indicare il Pos, il “porto sicuro”, alle navi che trasportano migranti soccorsi tra l’Italia e il Nordafrica. E se il ministro e il capo di gabinetto dicono di non indicarlo non lo indica. Così ha fatto il suo vice, prefetto Bruno Corda, anche con la nave Diciotti, mentre lei era in ferie. Il Tribunale dei ministri di Catania, che voleva processare Salvini ma poi si è arreso al “no” del M5S in Senato, lo scorso gennaio sottolineava come “alquanto peculiare” che i prefetti Pantalone e Corda avessero “‘rettificato’ le precedenti dichiarazioni” sul carattere “formale” o “anomalo” delle richieste di Pos per la Diciotti il 15 e il 17 agosto: “Non considero una richiesta di Pos neanche quella del 17 agosto. Anche tale comunicazione – disse Pantalone nel secondo incontro con i magistrati – lasciava aperto un canale con Malta, lasciando presupporre che le autorità maltesi potessero ancora intervenire nelle procedure di soccorso. L’unica richiesta di Pos tecnicamente inteso, probabilmente, è quella del 24 agosto”, cioè quella accolta l’indomani quando la nave era già ferma in porto a Catania ma col divieto di far sbarcare i migranti. Cavilli, si dirà. Ma lì, oltre al sequestro di persona, c’era in ballo un presunto abuso d’ufficio che consisteva nel piegare a finalità politiche e propagandistiche un potere generalmente spettante alle Capitanerie di porto e attribuito al Viminale solo per garantire l’ordine negli sbarchi, nelle identificazioni e nell’accoglienza dei migranti.

Striscione pro duce in piazzale Loreto, forse nuovi indagati

“Storicamente precisi”. Così vengono definiti dagli investigatori gli ultras laziali del gruppo di destra “Irriducibili” che il 24 aprile hanno esposto uno striscione in memoria di Benito Mussolini a pochi metri da piazzale Loreto, a Milano.

I militanti erano alla fine di corso Buenos Aires, in un punto che molti hanno erroneamente considerato sbagliato e che invece è esattamente di fronte al benzinaio dove il 28 aprile 1945 vennero esposti a testa in giù i corpi di Benito Mussolini, di Claretta Petacci e di altri gerarchi fascisti. Piazzale Loreto, infatti, non aveva la forma attuale ma all’epoca l’angolo dove oggi sorgono gli ultimi due palazzi di corso Buenos Aires era occupato dalla stazione di servizio. In particolare, al posto del benzinaio ora c’è un McDonald’s.

Intanto proseguono le indagini per individuare tutti i partecipanti all’azione dimostrativa, al momento sono 9 i denunciati ma è possibile che nelle prossime ore o giorni il numero cresca. Gli uomini della Digos, diretti da Claudio Ciccimarra, stanno visionando le immagini di quei pochi minuti durante i quali è stato chiamato il presente per Mussolini con tanto di saluto romano.

Parnasi-Cionci, altri 50 mila euro prima del voto del 2018

Giuseppe Cionci è indagato – come è stato rivelato dal Fatto – per fatture per operazioni inesistenti, insieme al costruttore Luca Parnasi per pagamenti ricevuti nel 2015 per circa 296 mila euro. Nell’indagine sul costruttore Luca Parnasi ci sono però alcune intercettazioni nelle quali si parla di pagamenti più recenti che Parnasi voleva fare all’imprenditore Cionci. Non solo, a detta di Mauro Baldissoni, Direttore Generale della As Roma, Cionci avrebbe avuto un’interlocuzione con la Regione Lazio sullo stadio.

Il 5 luglio del 2017 l’attuale vicepresidente della As Roma parla con il collaboratore di Parnasi, Simone Contasta. Ecco la sintesi dei Carabinieri “Baldissoni dice che per la Regione ha visto Cionci l’altro giorno che gli ha detto che passa tutti i giorni da Gianfrancesco e che gli sembra positivo. Baldissoni sa che Gianfrancesco (probabilmente Gianni Gianfrancesco, reponsabile del Procedimento per la Regione Lazio sulla questione Stadio, ndr) sta lavorando con Caporilli (Luca Caporilli, braccio destro di Parnasi, ndr) costantemente e pare che non ci siano criticità”. Sette mesi dopo Luca Parnasi si ricorda del vecchio “Peppe”, come lo chiama lui. Il 14 febbraio del 2018 Parnasi e il collaboratore Gianluca Talone elencano i pagamenti da effettuare a un mese dalle elezioni. Dopo avere ricordato i pagamenti ai partiti (“Lega erano 100 e 100”) dopo avere citato i politici locali e le cifre da dare a ciascuno, ecco che i Carabinieri annotano: “Luca dice che deve fare qualcosa di personale a Peppe sempre sui 50”.

In questo contesto cita la società Scomunication Srl, riferibile a Cionci per i pm e presieduta dal figlio. Due giorni dopo, il 16 febbraio 2018, Parnasi torna sul tema con i collaboratori e stavolta è più preciso: “Abbiamo detto Cionci gli fai la Scomunication di 50 poi la Pixie gli fai un contratto come Luca Parnasi e gli inviamo 20”. La citazione di Cionci-Scomunication arriva poco prima di quella sulla Pixie. Cosa è Pixie lo ha spiegato Parnasi ai pm “nell’ultima campagna elettorale Adriano Palozzi (consigliere regionale di FI indagato per corruzione, ndr) mi chiamava continuamente chiedendomi un contributo ed abbiamo concordato il contratto con la Pixie, al fine di giustificare la dazione”.

Poco dopo aver citato le dazioni ai politici, poco dopo la Pixie di Palozzi, usata secondo i pm per una corruzione di un consigliere, Parnasi cita la dazione alla Scomunication della famiglia Cionci.

I pm hanno chiesto conto a Parnasi un anno fa di queste sue conversazioni intercettate nel 2018 in cui parlava di pagamenti alla vigilia delle elezioni del 2018 per “Peppe” Cionci e anche dei soldi a lui dati nel 2015, secondo i pm per operazioni inesistenti in tutto o in parte quindi con false fatture.

Parnasi ha minimizzato spiegando i pagamento come un aiuto a un amico in difficoltà. Non risulta che siano state poste domande a Parnasi (o a Cionci o all’architetto Gianfrancesco) sul ruolo avuto nella pratica stadio da Cionci, ruolo di cui parla Mauro Baldissoni nel 2017.

Per ora l’inchiesta dei pm romani verte solo sui pagamenti segnalati dall’UIF della Banca d’Italia nell’informativa numero 425446 del 2016 dell’UIF (Ufficio Informazione Finanziaria di Bankitalia) nella quale tra l’altro si ricorda che Cionci “da fonti aperte risulta essere un imprenditore collegato al presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti”. L’UIF cita un articolo di stampa del 2015 che riporta le dichiarazioni fatte da Salvatore Buzzi durante il procedimento Mafia Capitale. L’ex re delle coop sociali diceva che Luca Odevaine (ex capo della Polizia provinciale ai tempi di Zingaretti) gli avrebbe raccontato che per Zingaretti “le operazioni sporche le faceva Cionci” con altri collaboratori. Accuse non riscontrate e de relato tanto che lo stesso Buzzi allora disse: “lui racconta questi episodi che poi alcune volte sono veri, alcune volte non sono veri”. Nicola Zingaretti nel 2015 disse con forza che erano tutte falsità e anche Cionci ha negato e annunciato querele. L’unico dato certo, come ha raccontato al Fatto anche il suo legale, è che Giuseppe Cionci più di dieci anni fa è stato il mandatario elettorale, cioé l’uomo dei conti “leciti”, di una campagna elettorale di Nicola Zingaretti.

Comunque l’attuale segretario del Pd è indagato per corruzione a Roma ma non per questa storia dei bonifici di Parnasi. Zingaretti è indagato sulla base di una dichiarazione de relato di un imputato in un’inchiesta parallela su un altro giro di presunte false fatture. Un indagato, l’avvocato Giuseppe Calafiore, ha detto ai pm a verbale che Fabrizio Centofanti “era sicuro di non essere arrestato perché riteneva di essere al sicuro in ragione di erogazioni che lui aveva fatto per favorire l’ attività politica di Zingaretti”. Dichiarazioni (de relato, smentite da un altro indagato e mai riscontrate) che ora i pm stanno rileggendo anche alla luce dei bonifici e delle intercettazioni emerse nell’inchiesta Parnasi.

 

 

Focus

Lo scoop del Fatto Quotidiano

Una segnalazione dell’Uif (Unità di Informazione Finanziaria) della Banca d’Italia mette la Procura di Roma sulle tracce di alcuni passaggi di danaro tra le società di Luca Parnasi, l’imprenditore edile interessato alla costruzione dello stadio della Roma, e Giuseppe Cionci, editore e imprenditore, che diversi anni fa curò anche la cassa per la campagna elettorale di Nicola Zingaretti candidato all’epoca alla presidenza della Provincia di Roma. Salvatore Buzzi, poi querelato, aveva definito Cionci “l’uomo dei soldi” del governatore. Oggi la Procura di Roma indaga su alcune fatture (per un totale di 296 mila euro) disposte da società del gruppo Parnasi verso Cionci. Nel dettaglio i bonifici a Cionci, nel periodo che va da aprile 2014 a febbraio 2015, “sono stati disposti da Parsitalia Real Estate Srl”. Da questa società partono cinque bonifici per un totale di 169.548 euro. Poi però “dal maggio 2015 si è sostituita alla Parsitalia la Immobiliare Pentapigna Srl, controllata totalitariamente da Parnasi a far data dal 4 agosto 2015”. Dalla Immobiliare Pentapigna partono altri tre bonifici per un totale di altri 127.296. Così si arriva ai 296 mila euro

le minacce dei rider e il soldino di A.G.

La classe,si sa, non è acqua e bastano i grandi media a ricordarcelo. Riassunto. Il 25 aprile un collettivo di rider (i fattorini al tempo della gig-economy) scrive un comunicato provocatorio in cui – ricordando alcune rivendicazioni della categoria – sbertuccia una serie di vip milanesi che non danno la mancia. Citazione: “Sappiamo tutto di voi: cosa mangiate, dove abitate, che abitudini avete. E come lo sappiamo noi, lo sanno anche le aziende del delivery. Queste piattaforme, come sfruttano noi lavoratori senza farsi scrupoli, sfruttano anche voi, speculando e vendendo i vostri dati”. Minaccia alle aziende se rifiuteranno il confronto: “Noi produciamo i dati, conosciamo i vostri punti deboli e non esiteremo a usarli contro di voi”. Queste frasi sulla prima del CorSera diventano: “Minacce dei rider ai clienti famosi: diremo dove abitate”. Dopo il giornale autorevole, ieri la nota di Assodelivery (Glovo e le altre aziende del settore) distorceva i fatti in modo identico: “Siamo sconcertati soprattutto in relazione al tema della privacy e alle minacce rivolte ad alcuni consumatori”. Conosciamo già la canzone: criminalizzare il conflitto (la denuncia in Procura è già partita), distorcere i fatti, troncare, sopire, sorridere, continuare a consumare. Il “soldino” di Gramsci è ancora un proiettile se siete dalla parte sbagliata della barricata.

Esame di abilitazione a Medicina, restano le vecchie regole fino al 2021

“Siamo dottori in Medicina e Chirurgia, ma non siamo ancora medici”: inizia così l’appello lanciato nei giorni scorsi, tramite la pagina web di Roars (Return on accademi research) dei circa 2 mila laureati in Medicina che chiedevano chiarimenti sull’esame per l’abilitazione che dovranno affrontare a luglio. Manca la definizione delle nuove regole, stabilita quando era ministro dell’Istruzione Valeria Fedeli e mancano anche gli strumenti per affrontarlo. La soluzione, spiegano dal ministero, sarà la proroga delle vecchie.

“Per ottenere l’abilitazione finora ogni laureato era tenuto a svolgere tre mesi di tirocinio professionalizzante e poi una prova finale scritta – spiegano gli aspiranti medici –. Solitamente, il bando era emanato nel mese di gennaio. Attualmente ci troviamo in un vuoto normativo dettato dal fatto che il decreto ministeriale del maggio 2018, n. 58, approvato un anno fa dal precedente ministro dell’Istruzione, dopo dieci mesi è ancora in fase di valutazione da parte dell’attuale ministro Marco Bussetti”. Il decreto, infatti, prevedendo nuove regole per l’esame di abilitazione rimandava a un secondo dispositivo la definizione delle modalità con cui si sarebbero svolte le prove. Modalità di cui, però, non c’è traccia. “Tutto ciò che si è saputo, finora, era il solo numero di domande presenti nel test (200) e il punteggio minimo che consenta di abilitarsi (130). Non c’è – spiegano gli aspiranti medici – alcun riferimento alla bibliografia dei testi che verranno utilizzati per la redazione dell’esame, nè si prospetta che questa possa essere fornita”. Sollevano poi una questione di squilibrio: “La totale discontinuità con il precedente modello d’esame in cui i candidati avevano a disposizione almeno 60 giorni prima del test un database in cui erano con certezza presenti le domande che sarebbero state inserite nello stesso test”.

Una protesta che si aggiunge alle criticità segnalate dal personale medico e dai sindacati in tutta Italia in queste settimane. Tra il 2019 ed il 2021 è previsto un maxi pensionamento della componente medica: si parla di 25mila medici. “A fronte di queste esigenze, ci chiediamo come sia possibile restare indifferenti di fronte ad un test dalle modalità e dalla bibliografia ignote, che è stato stimato possa portare alla bocciatura di almeno il 30% dei candidati all’abilitazione”.

Dopo un periodo di stand by, il ministero ha deciso di rinviare il problema e di prorogare le vecchie regole. Uno slittamento che, secondo le voci si inizio aprile, sarebbe dovuto essere inserito nel decreto Crescita, poi però cassato perché non pertinente con la ratio del dl.

Non tutto è perduto, però: il ministero ha fatto sapere che la proroga è nel dl Sanità Calabria che ha avuto il via libera nell’ultimo Consiglio dei ministri e che andrà in Gazzetta ufficiale il 3 maggio. “Alle prove di esame relative agli anni 2019 e 2020 – si legge nella norma – continuano ad applicarsi le disposizioni precedenti”.

Alitalia, il governo è appeso ai signori delle autostrade

Sulla pelle di quel che rimane di Alitalia si combatte ormai una guerra a colpi di messaggi a mezzo stampa. L’ultimo in ordine di tempo, a quattro giorni dalla scadenza per le offerte, riguarda il presunto interessamento di Riccardo Toto, figlio di Carlo, imprenditore abruzzese con molteplici interessi, dalle costruzioni alle concessioni autostradali (controlla Strada dei Parchi, l’A24-A25 che collega Roma a Pescara-L’Aquila).

Entro martedì le Ferrovie dello Stato, a cui il governo ha imposto di salvare la compagnia in amministrazione straordinaria, devono consegnare ai commissari una traccia che si sia palesato il partner finanziario di peso che rilevi il 30% della nuova Alitalia tirando fuori 250 milioni di euro. Finora le Fs, che metteranno il 30%, hanno ottenuto la promessa di ingresso (col 15%) dell’americana Delta Airlines e del ministero dell’Economia (15%) per un investimento totale da 900 milioni. Senza novità, l’ad delle Ferrovie, Gianfranco Battisti è pronto a sfilarsi. L’unico vero interlocutore rimasto è la Atlantia dei Benetton, che controlla Autostrade per l’Italia, che però attende un segnale visto il contenzioso col governo per la revoca della concessione dopo il disastro del ponte Morandi di Genova.

Ieri Repubblica ha rivelato che Luigi Di Maio avrebbe intavolato una trattativa “a un passo dall’intesa” con Riccardo Toto, pronto a rilevare una quota “tra il 20 e il 30%”, evitando l’imbarazzo ai 5Stelle di dover ricorrere agli odiati Benetton. Secondo il quotidiano, Toto avrebbe incontrato Di Maio a New York a marzo in occasione della visita del vicepremier negli Usa. In un primo momento fonti aziendali hanno confermato i contatti e parlato di un secondo incontro avvenuto a Taranto venerdì e di un’offerta allo studio da parte di Renexia, società del Gruppo attiva nelle rinnovabili con la controllata americana Us Wind, che ha appena venduto per 215 milioni ai francesi di Edf una concessione per un parco eolico al largo del New Jersey. Con uno sgangherato dietrofront, in serata però lo stesso gruppo ha smentito “categoricamente” l’incontro e che l’offerta possa arrivare da Renexia (che al massimo ci metterebbe i soldi).

Dell’interessamento di Toto peraltro non ci sono tracce. Il ministero dello Sviluppo ha smentito i contatti, spiegando che Di Maio avrebbe solo incrociato Riccardo Toto a New York tra centinaia di imprenditori. Nessun dialogo c’è stato con la struttura del Mise, né Toto ha mai manifestato interesse alle Ferrovie o ai commissari. Uno dei quali, Daniele Discepolo (nominato da Di Maio), per la verità è stato commissario di Livingston, compagnia aerea ceduta nel 2011 proprio a Toto, che l’ha affidata al figlio, e poi finita nuovamente in dissesto.

Anche i numeri suggeriscono prudenza sull’ultimo avventuriere. Il gruppo Toto ha un giro d’affari intorno ai 400 milioni, incompatibile con la partita Alitalia. Di certo, come Atlantia, anche Toto ha numerosi fronti aperti col governo. Da mesi ha ingaggiato uno scontro furibondo col ministero delle Infrastrutture sui 192 milioni stanziati nel decreto Genova per la messa in sicurezza dei viadotti di Strada dei Parchi e sul rinnovo del piano finanziario della concessione, scaduto da anni e in mano al ministro Danilo Toninelli che ha bloccato fino a giugno il previsto aumento del 19% dei pedaggi. Toto è anche in contenzioso per oltre 100 milioni con Anas, che è appena confluita nelle Fs, irritate, come Delta, dall’ultima indiscrezione.

Con Alitalia il gruppo ha poi pessimi trascorsi. Carlo Toto partecipò alla cordata dei capitani coraggiosi guidati da Roberto Colaninno per rilevare la compagnia dopo il crac del 2008. Un anno dopo rifilò ad Alitalia la sua traballante AirOne, guidata da Riccardo, per una cifra mostruosa: 454 milioni più 600 di debiti finanziari. Con un investimento di soli 60 milioni diventò azionista e fornitore di Alitalia, a cui affittò in leasing a canoni esosi gli aerei acquistati da Airbus. Una doppia beffa, visto che il fisco contestò l’estero-vestizione delle scatole irlandesi chiedendo danni milionari. Soldi che sono gravati sulla vecchia Alitalia Cai (tra i cui soci ci sono Intesa, Unicredit e la stessa Atlantia) che ha chiesto i danni a Toto, che ad agosto 2017 ha deciso di chiudere il contenzioso con una transazione a rate di 60 milioni dopo aver perso il lodo arbitrale. Resta in parte aperto quello sui mille precari di Air One che Cai dovette sobbarcarsi. “Se il gruppo Toto presenterà un’offerta sarà valutata ben volentieri dalle Fs”, ha fatto sapere ieri il Mise. Da Di Maio nessuno commento.

Uber verso la Borsa, punta a raccogliere tra 8 e 10 miliardi

Uber rivela i termini della sua offerta pubblica iniziale: il prezzo del titolo sarà compreso tra 44 dollari e 50 dollari e l’obiettivo è raccogliere sul mercato fra gli 8 e i 10 miliardi di dollari. Significa, per il colosso californiano, raggiungere una valutazione intorno ai 90 miliardi hanno spiegato ieri le agenzie di stampa Bloomberg e Reuters. L’azienda dei passaggi via app si muove sulla scia della moderazione, anche tenendo conto della deludente Ipo dell’omologa Lyft, le cui azioni venivano scambiate ieri a New York a un valore del 22% inferiore al prezzo di debutto. Gli investitori sembrano infatti mostrare scetticismo sulla capacità degli operatori del ride hailing di fare utili e così l’azienda ha scelto di non “pompare” le aspettative per evitare un tonfo in Borsa. Una quotazione da 8-9 miliardi di dollari renderebbe comunque Uber l’Ipo più ricca dopo quella di Alibaba del 2014. L’azienda dovrebbe fare il suo ingresso al Nyse a inizio di maggio. Venderà 180 milioni di azioni, più 27 milioni ai dipendenti e investitori attuali. Nel prospetto depositato alla Sec, ha indicato per il primo trimestre 2019 una perdita netta di circa 1 miliardo e revenue di circa 3 miliardi. Nel 2018 l’azienda ha perso 3 miliardi di dollari.

Operazione simpatia della Cina: Xi arruola Prodi (e pure Conte)

“La primavera e l’autunno sono le stagioni più gradevoli in cui gli amici si riuniscono per scalare le montagne e scrivere poesie”. Il presidente cinese Xi Jinping presenta così il secondo forum della via della Seta (Belt and road Initiative) che si è aperto a Pechino: gli amici sfilano uno dopo l’altro, in foto ufficiali che hanno ancora l’iconografia tipica del regime comunista, la poesia ce la mette lui, con un discorso pieno di proverbi e aforismi. La montagna da scalare è quella della globalizzazione: ieri di stampo americano, oggi sempre più cinese.

Gli Stati Uniti, ma anche le istituzioni dell’Unione europea, guardano con aperta ostilità a questa esibizione cinese di soft power economico-finanziario. La guerra commerciale a colpi di dazi lanciata dagli Usa di Donald Trump è solo l’inizio di una reazione ostile. Per questo il discorso di Xi Jinping ha toni rassicuranti e inclusivi, non vuole lasciare argomenti a chi denuncia le distorsioni del capitalismo di Stato cinese e le condizioni della sua industria: “Zero tolleranza per la corruzione” e “sviluppo verde” sono gli slogan a beneficio dei media occidentali.

Tra gli “amici” della Cina al forum di Pechino, sfilano una lunga serie di capi di Stato asiatici e africani, da Aung San Suu Kyi per il Myanmar a Filipe Jacinto Nyusi del Mozambico fino al partner-rivale russo Vladimir Putin. C’è un solo leader occidentale che viene da un grande Paese: il presidente del Consiglio italiano, Giuseppe Conte, che un mese fa ha firmato l’adesione dell’Italia alla Via della Seta, in occasione della visita di Stato di Xi Jinping in Italia. Subito dopo gli Stati Uniti hanno ritirato le loro forze speciali dalla Libia, lasciando precipitare il Paese nella faida militare tra governo di al-Serraj a Tripoli e milizie del generale Haftar dalla Cirenaica. A qualche analista geopolitico è sembrata una ritorsione per l’adesione alla Via della Seta.

Conte, però, rivendica la scelta strategica a favore di Pechino di cui si presenta come l’alfiere e il garante in Europa. Si intesta anche la promessa di lotta alla corruzione e la svolta ambientalista: “Quei principi abbiamo chiesto fossero inseriti nel memorandum tra Italia e Cina: come ho spiegato ai nostri partner europei, l’Italia non solo crea opportunità per sé ma per l’Europa intera, il rapporto con la Cina è una grande opportunità per tutti”. Conte ha anche incontrato l’amministratore delegato del colosso tecnologico Huawei, Ren Zhengfei. “L’Italia non opera discriminazioni nei confronti di nessuno – ha detto il premier – ma pretendiamo livelli di sicurezza molto elevati”. L’Italia ha affidato l’infrastruttura della tecnologia 5G anche a Huawei e Zte, due società che invece negli Usa sono sotto accusa per ragioni di sicurezza. Meng Wanzhou, la vicepresidente di Huawei, è stata incriminata per spionaggio industriale e violazione delle sanzioni Usa contro l’Iran.

La Via della Seta prevede progetti per 1.000 miliardi di dollari. In parte finanziati direttamente da istituzioni cinesi, in parte co-finanziamenti dalla Cina a governi locali che poi investono sul territorio. Come riportava ieri il Financial Times, questo modello già mostra qualche problema: alcuni Paesi, come la Malesia e l’Etiopia, stanno chiedendo di rinegoziare i prestiti perché troppo onerosi. E gli analisti finanziari si chiedono se istituzioni cinesi come la Export-Import Bank of China o la China Development Bank siano in grado di valutare i rischi dei vari progetti o investano, come da tradizione cinese, soltanto sulla base del fatto che un certo Paese è classificato come “amico” dal ministero degli Esteri di Pechino.

Proprio per affrontare queste sfide, Xi Jinping ha insediato un e Advisory Council per la Via della Seta che ha presentato il suo rapporto in occasione del forum. Titolo: “Per un mondo migliore”. In questo consiglio di esperti ci sono ex politici e alti funzionari di un certo livello. A cominciare da Romano Prodi, che infatti nei giorni della visita di Xi in Italia si era espresso più volte in favore della partnership con la Cina (senza palesare però un incarico che, assicura al Fatto, svolge senza compenso). Ma c’è anche un ex premier francese, Jean Pierre Raffarin, l’ex rettore della potente Università di Singapore, Justin Yifu Lin, un ex premier egiziano, Essam Sharaf, e il presidente del Consiglio per gli Affari internazionali della Russia, Igor Ivanov.

Le raccomandazioni del- l’advisory council a Pechino, in vista del forum, sono soprattutto di sembrare rassicurante e proclamare valori occidentali attraverso “messaggi positivi” come “la difesa del multilateralismo, il sostegno al libero commercio” ma anche “un rafforzamento del senso di appartenenza alla Belt and Road Initiative dei Paesi partner”. E per diffondere “messaggi positivi”, avere come consulente un ex primo ministro ed ex presidente della Commissione europea come Romano Prodi non guasta di certo. Comunque non è certo difficile trovare nuovi partner per la Via della Seta: appena Xi Jinping ha fatto capire che è arrivato il momento di aprire un po’ il sistema finanziario locale a soggetti privati internazionali, subito la Gran Bretagna – anche in vista della Brexit – e la Svizzera si sono messe a disposizione, nella speranza di far transitare dalle piazze finanziarie di Londra e Ginevra parte dei capitali che alimentano il nuovo espansionismo cinese. “Le piante con solide radici crescono bene e gli sforzi indirizzati nella giusta direzione assicurano il successo”, dice un antico filosofo cinese citato da Xi.

 

 

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BRI – Belt & Road Initiative

Un mese fa, il 24 marzo, l’Italia ha formalmente aderito alla Via della Seta (Belt and Road Initiative, Bri), un programma lanciato da Pechino nel 2013 per rafforzare la proiezione internazionale del Paese attraverso una serie di investimenti infrastrutturali, energetici e commerciali. Gli Stati Uniti guardano con preoccupazione all’iniziativa: la Cina è il principale rivale strategico di Washington, l’unico soggetto capace di contendere la (declinante) egemonia americana sulla globalizzazione. Per questo ha suscitato tanto clamore che l’Italia, unico Paese del G7, abbia aderito alla Bri: agli americani è parsa una scelta di campo, il passaggio dall’orbita atlantica a quella cinese. La visita del presidente Xi Jinping in Italia ha sancito l’alleanza tra i due Paesi, oltreché la firma di alcuni memorandum of understanding (accordi non vincolanti) tra grandi imprese italiane e omologhe cinesi, da Intesa Sanpaolo a Snam alla Cassa Depositi e Prestiti. Ma la rilevanza del vertice è stata soprattutto politica