Reddito cittadinanza, si va verso il milione di richieste presentate

Quasi 950 miladomande per il Reddito di cittadinanza presentate dal 6 Aprile fino a oggi: lo rende noto l’Inps in un comunicato stampa. “Un buon risultato” secondo il presidente dell’ente Pasquale Tridico. Considerando che molte di esse provengono da nuclei familiari, questo potrebbe tradursi in 2,7 milioni di persone che beneficerebbero della misura. Il numero più alto di richieste proviene dalla Campania, con 160mila domande, a cui segue la Sicilia con uno stacco di appena 10mila richieste. Anche nel Lazio, in Puglia e nella Lombardia si registrano numeri superiori a 80mila. Le domande per Quota 100 – provvedimento che permette di andare in pensione anticipata dai 62 anni in poi, dopo almeno 38 di contributi alle spalle – proseguono anch’esse a un ritmo sostenuto, avvicinandosi ai traguardi prefissati nelle stime che hanno accompagnato l’introduzione delle due misure. Anche se le cifre preventivate non dovessero essere raggiunte, permettono di risparmiare soldi che resteranno destinati alla previdenza sociale, o, come già detto da Di Maio, “al sussidio per le famiglie e gli asili nido”. Il risparmio maggiore potrebbe derivare proprio dal Reddito di cittadinanza, e arrivare fino a un miliardo di euro.

App per il reddito, quel pasticciaccio della norma ad hoc

Roberto Rotunno
e Virginia Della Sala

Dopo le voci sul possibile conflitto di interessi in capo a Mimmo Parisi, al vertice dell’Agenzia delle politiche attive del lavoro, ieri il ministero del Welfare ha provato a sgomberare il campo dai sospetti: “Non esiste alcuna norma che intenda consentire ad Anpal di affidare in via diretta la realizzazione del case management per l’incontro domanda-offerta di lavoro”. Tradotto: il ministero nega di voler acquistare, senza gara, la piattaforma per il Reddito di Cittadinanza messa a punto proprio da Parisi nell’Università del Mississippi dove lavorava.

L’intenzione iniziale di Luigi Di Maio era importare quella tecnologia per metterla a disposizione di cittadini e centri per l’impiego. Per questo Parisi è stato messo a capo dell’Anpal ma il governo si è presto accorto che la pubblica amministrazione non può acquisire senza un bando di gara. E così, ieri il ministero ha assicurato, per la seconda volta, che non ci sarà l’affidamento diretto. Col risultato paradossale che si rischia di avere Parisi ma, proprio per effetto della sua nomina, non poter usare la tecnologia che ha sviluppato in Usa con ottimi risultati. E quindi il governo sembra cercare una via di uscita burocratica.

Nel decreto Crescita approvato mercoledì in Consiglio dei ministri, l’articolo 39 consente all’Anpal di utilizzare qualsiasi società in house del ministero del Lavoro per “implementare la piattaforma informativa che servirà ai centri per l’impiego”. Per farlo dovrà stipulare con la società una convenzione approvata dal ministero. A sua volta, questa società in house potrà servirsi della Consip, la centrale pubblica di acquisti sotto il controllo del Tesoro. Per tutto questo vengono anche stanziati 25 milioni di euro in tre anni. Ma perché l’Anpal ha bisogno di una società in house? Non potrebbe essere direttamente l’agenzia, in quanto pubblica amministrazione, a rivolgersi a Consip? Anpal, spiegano al Fatto dal ministero, ha già attivi contratti aggiudicati con bando Consip per lo sviluppo però di altri progetti legati al reddito di cittadinanza. “La norma – aggiungono – vuole invece aprire la possibilità di avvalersi di società in house che hanno già contratti Consip attivi su queste materie (quindi incontro domanda-offerta di lavoro, ndr) per velocizzare la procedura”. Una spiegazione che non ha del tutto convinto i critici che denunciano il conflitto di interessi. Un ente può aderire a una convenzione Consip e sottoscrivere un contratto per un servizio (come la fornitura software). Se un altro ente vuole sottoscrivere lo stesso contratto, il secondo ente dovrà dipendere dal primo. E questo potrebbe spiegare la norma nel decreto Crescita che fa dipendere Anpal da una in house che a sua volta stipula il contratto. Sarebbe stato più semplice per Anpal stipulare un nuovo contratto, magari uguale: quando si tratta di servizi, soprattutto legati alla tecnologia, il contratto per la fornitura è dettagliato e riguarda di solito una platea ben definita e limitata, legata al servizio che deve svolgere. O c’è stato un errore di valutazione oppure è probabile si sappia già a quale contratto (e quindi a quale fornitore) si vuole arrivare.

Inoltre, con questo sistema – qualora si ricorresse a un altro tipo di procedura – si permette ad Anpal di non doversi rivolgere direttamente al fornitore, ma di usare le società in house del ministero del Lavoro. Tra queste c’è quella dell’agenzia stessa, l’Anpal Servizi Spa (ex Italia Lavoro) che, a rigor di logica, dovrebbe essere l’azienda che l’Anpal potrebbe usare per l’acquisto della piattaforma per la gestione dei disoccupati. Condizionale d’obbligo: la norma contenuta nel decreto Crescita, infatti, cita genericamente le “società in house del ministero del Lavoro”. Dicitura che include anche Invitalia che si occupa dello sviluppo delle imprese ed è considerata in house di tutti i ministeri.

Questa scelta potrebbe, teoricamente, permettere all’Anpal di acquistare la piattaforma di Parisi evitandogli un conflitto di interessi. Il Jobs Act,la legge che ha istituito l’agenzia, ha stabilito che il presidente dell’Anpal è anche amministratore unico dell’Anpal Servizi. Quindi, se fosse quest’ultima ad acquisire tramite Consip la piattaforma del Mississippi, si genererebbe la confusione di ruoli del professore: Mimmo Parisi sarebbe contemporaneamente acquirente e ideatore del prodotto. Se invece si usasse come veicolo Invitalia, Parisi non sarebbe tra i contraenti dell’acquisto perché non ricopre incarichi in quella società e così sarebbe sollevato dalla sovrapposizione di ruoli.

Sono solo ipotesi. Di sicuro l’escamotage legale per prendere l’app targata Parisi senza incorrere in conflitti di interesse ora esiste.

Rating, S&P conferma il giudizio ma è pessimista

Secondo giudizio clemente sul debito pubblico: dopo Fitch a febbraio e Moody’s a marzo, anche Standard & Poor’s conferma il suo rating, BBB, anche se con outlook negativo, cioè con la possibilità di un taglio futuro. Il giudizio della più grande tra le agenzie di rating, arrivato ieri sera, è però successivo alla presentazione del Documento di economia e finanza del governo che delinea la legge di Bilancio 2020, mentre quelli di Fitch e Moody’s erano precedenti. Nonostante le incertezze sui conti (mancano 23 miliardi per evitare l’aumento dell’Iva, 18 di privatizzazioni, poi ci sono i tagli alla spesa e gli incassi da lotta all’evasione assai incerti), S&P ha deciso di non declassare i nostri titoli di Stato.

La soddisfazione però va temperata osservando quello che succede sui mercati. Da mesi l’Italia sconta un downgrade di fatto, nel senso che il tasso di interesse richiesto sui nostri Btp è molto superiore a quello che gli investitori pretendono per titoli di Stato di Paesi che hanno rating uguali o superiori al nostro. Ieri i Btp italiani a 10 anni sono arrivati a costare il 2,69 per cento sul mercato, mentre i titoli omologhi di Spagna e Portogallo sono scambiati con un rendimento molto più basso: rispettivamente 1,02 e 1,13. Eppure La Spagna, nella griglia di Standard & Poor’s, ha un giudizio superiore a quello dell’Italia (BBB+) mentre il Portogallo appena inferiore (BBB-). L’Italia è molto più vicina ai rendimenti richiesti dal mercato alla Grecia, che sui titoli decennali paga il 3,30 per cento.

Per ora il mercato non sconta ancora i possibili scenari negativi dell’autunno, quando potrebbero saldarsi una fase di incertezza politica dopo il voto europeo e una crisi finanziaria innescata da conti fuori controllo. Ma a Standard & Poor’s i problemi sono ben presenti: l’agenzia prevede per il 2019 un deficit di bilancio del 2,6 per cento del Pil, rispetto all’obiettivo del governo del 2,4. “I rischi per la posizione fiscale dell’Italia stanno crescendo”, si legge nel comunicato. Poi c’è il problema della crescita: “L’economia italiana rischia di ristagnare quest’anno”. Secondo Standard & Poor’s la responsabilità è anche delle scelte del governo Conte: “L’inversione delle riforme e la volatilità esterna hanno spinto l’economia dell’Italia in recessione”.

Ora non ci sono altri verdetti che incombono sull’Italia prima delle elezioni europee. Fondi di investimento e speculatori aspetteranno di vedere le raccomandazioni del Consiglio europeo il 20 e il 21 giugno per capire se si profila un nuovo scontro tra Italia e Bruxelles sui conti, magari con una procedura di infrazione. Difficile che si manifesti subito dopo le elezioni, ma se il governo dovesse trovarsi costretto a programmare un deficit sopra il 3 per cento nel 2020, la procedura di infrazione sarebbe automatica. E le conseguenze sul mercato immediate.

L’esordio di Ciampi e il quarto caso dell’era gialloverde

A inaugurarlafu Carlo Azeglio Ciampi, nel 2002, per il decreto Salva-deficit. Una sorta di “promulgazione con riserva”, ovvero la firma del Quirinale accompagnata da una lettera di “precisazione”. E se l’evento è stato assai raro in questi 17 anni, non lo è invece negli ultimi dodici mesi: basti pensare che il presidente Sergio Mattarella è la quarta volta che utilizza questa formula per licenziare provvedimenti dell’era gialloverde. L’ultimo episodio è di marzo: Mattarella firma la legge istitutiva della Commissione parlamentare di inchiesta sul sistema bancario, avvertendo però i presidenti delle Camere di vigilare sul rischio di sovrapposizione con Bankitalia, Bce e Consob. A ottobre dello scorso anno, promulgando il decreto sicurezza, Mattarella in una lettera a Conte, sottolineava che “restano fermi gli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato, pur se non espressamente richiamati nel testo normativo”, per quanto riguarda la tutela dello straniero rifugiato. Un mese dopo, infine, ha scritto a corredo della legge Bilancio (in quel caso non si trattava di una promulgazione ma della firma al testo da inviare alle Camere) per auspicare “dialogo costruttivo con le istituzioni europee”.

“Il presidente vuole evitare l’impunità e chiede rigore”

II presidente Sergio Mattarella ha promulgato la legge sulla legittima difesa ma contestualmente ha inviato un messaggio ai presidenti delle Camere e al presidente del Consiglio dove evidenzia criticità e raccomanda un’interpretazione fedele alla Costituzione. Professor Gaetano Azzariti perché il presidente firma e non rinvia al Parlamento?

Evidentemente non ha riscontrato una manifesta incostituzionalità della legge, ma certamente quel messaggio è espressione di un forte turbamento del capo dello Stato, tanto è vero che è interamente finalizzato a dare una interpretazione restrittiva delle norme, ai sensi della Costituzione. È un messaggio per evitare che l’applicazione in concreto della legge produca una incostituzionalità.

Mattarella vuole anche dare una mano ai magistrati che devono applicare la legge?

Effettivamente questa legge ha un limite oggettivo in senso tecnico-giuridico che riguarda l’indicazione del “grave turbamento”. Secondo una certa interpretazione politica che, evidentemente, il presidente vuole contrastare esplicitamente, questa formula garantirebbe l’impunità perché, come dice uno slogan politico, “la difesa è sempre legittima”.

Infatti nel messaggio si legge che la sicurezza dei cittadini è una responsabilità dello Stato e che se si spara, come lei ha appena ricordato, per “il grave turbamento dovuto a un pericolo in atto”, ci deve essere “una portata obiettiva” . Che peso hanno queste valutazioni?

Sono i due passaggi decisivi della lettera: il presidente si oppone alla retorica politica del Far West, della difesa del singolo, ricordando come spetti allo Stato garantire la sicurezza nonché l’accertamento delle responsabilità individuali. Pertanto, è sottinteso che l’uso delle armi può sempre comportare un eccesso di difesa e se ci sono lesioni personali ci vuole l’accertamento giudiziario.

Mattarella, inoltre, segnala delle incongruenze: la previsione di spese legali a carico dello Stato solo se viene riconosciuta la legittima difesa esercitata a casa o la subordinazione al risarcimento del danno alla vittima solo di furto e non di rapina per chi chiede, se condannato, la sospensione condizionale della pena. È un suggerimento al Parlamento perché faccia queste modifiche?

Direi proprio di sì. Vero è che non lo esplicita ma lo si evince dai destinatari della lettera e cioé il Parlamento e il governo: in qualche modo sollecitano una modifica di carattere normativo. D’altronde c’è un precedente significativo del 2017. Lo stesso presidente Mattarella si rivolse al presidente del Consiglio Gentiloni quando promulgò il codice antimafia, chiedendo una modifica in merito alle modalità di confisca dei beni. In quel caso la richiesta fu più esplicita, in questo lo è meno.

Come mai?

Forse perché la maggiore preoccupazione del presidente riguarda i limiti dell’interpretazione possibile della legge. Quindi, gli interlocutori indiretti, oltre al Parlamento e al governo, sono i giudici, i leader politici e l’opinione pubblica in generale ai quali il presidente ricorda la necessità del rigoroso rispetto dei principi costituzionali.

Lei da costituzionalista cosa pensa di questa legge?

Ritengo che questa normativa non sia altro che espressione della violenta retorica della politica che molto spesso fa approvare leggi soltanto per fomentare paure e allarme sociale.

I cittadini costretti a difendersi per legittima difesa erano già tutelati dalla legge precedente?

Il tema, delicatissimo, è stato affrontato con faciloneria. L’accertamento del giudice è sempre necessario perché inevitabilmente se l’esercizio della difesa legittima è un diritto, l’eccesso di difesa è un delitto e l’accertamento non può essere evitato. D’altronde c’è un fatto recente assai significativo: la condanna di un imprenditore vittima di furti perchè ha colpito il ladro già a terra e bloccato, cioé inerme (Angelo Peveri, che ha ricevuto la visita di Salvini in carcere, a Piacenza, ndr). In questo caso è evidente l’eccesso di difesa, la reazione è stata sproporzionata. Il principio di proporzionalità tra difesa e offesa è un valore, non solo costituzionale, ma di civiltà, da preservare. Se questo messaggio del presidente Mattarella salvaguardasse questo principio è certamente da salutare con favore.

Legittima difesa, i dubbi del Colle

La legittima difesa a maglie larghe è legge. Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, l’ha firmata ma è evidente che non la condivide: contestualmente alla promulgazione della legge targata Lega, e votata da M5S, ha inviato un messaggio ai presidenti del Senato Maria Elisabetta Casellati, della Camera Roberto Fico e al presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, dove traspare la preoccupazione del capo dello Stato per il messaggio che potrebbe arrivare ai cittadini: liberi di sparare. Infatti, Mattarella, Costituzione alla mano, mette in luce che anche se si è “turbati” da un ladro non si può sparare ed essere impuniti se non si è incappati in un reale rischio. Mattarella, inoltre, segnala una serie di errori materiali a cui il Parlamento, sottinteso, dovrebbe rimediare. I rilievi del presidente sono condivisi sia dall’Anm, l’associazione dei magistrati, sia dalla Camera penale degli avvocati. Ma per Matteo Salvini “è un giorno bellissimo per l’Italia”.

Il capo dello Stato ci tiene a chiarire che in Italia non potrà esserci il Far West e che sono le forze di polizia a dover garantire la sicurezza: “Va preliminarmente sottolineato che la nuova normativa non indebolisce né attenua la primaria ed esclusiva responsabilità dello Stato nella tutela della incolumità e della sicurezza dei cittadini, esercitata e assicurata attraverso l’azione delle forze di polizia”. Quanto alla non punibilità per chi agisce in uno stato “di grave turbamento derivante dalla situazione di pericolo in atto”, il presidente della Repubblica dà la sua interpretazione costituzionalmente orientata: “È evidente che la nuova normativa presuppone, in senso conforme alla Costituzione, una portata obiettiva del grave turbamento e che questo sia effettivamente determinato dalla concreta situazione in cui si manifesta”.

E veniamo alle incongruenze che avrebbero bisogno di una toppa: la previsione di spese legali a carico dello Stato se viene riconosciuta la legittima difesa esercitata a casa “mentre analoga previsione non è contemplata per le ipotesi di legittima difesa in luoghi diversi dal domicilio”; la differenza tra le vittime di furto e quelle di rapina: “Segnalo che l’articolo 3 della legge subordina al risarcimento del danno la possibilità di concedere la sospensione condizionale della pena, nel caso di condanna per furto in appartamento o per furto con strappo, ma che lo stesso non è previsto per il delitto di rapina. Un trattamento differenziato tra i due reati non è ragionevole poiché – come sostiene la Consulta – ‘gli indici di pericolosità che possono ravvisarsi nel furto con strappo si rinvengono, incrementati, anche nella rapina’”. L’Anm esprime “piena adesione” ai rilievi di Mattarella, il neopresidente, Pasquale Grasso, ritiene che il messaggio sia “un ottimo richiamo all’esigenza di tassatività della formulazione delle norme giuridiche e ad applicare in modo oggettivo il ‘grave turbamento’”. Per il presidente dell’Unione camere penali, Gian Domenico Caiazza, i rilievi di Mattarella “confermano tutte le perplessità di natura costituzionale che possono esserci su questo provvedimento”.

Il governo è caduto (solo su Instagram)

I dioscuri si sono defollowati a vicenda. È inutile che fate quelle facce: questa è politica. E questa è una notizia: Matteo Salvini e Luigi Di Maio non si seguono più su Instagram. Lo diciamo per i più vecchi: Instagram è quel social network dove tutti – dai comuni mortali ai capi di Stato – pubblicano le proprie foto e le mettono in comune. È quel posto dove Salvini infila slogan criptorazzisti e immagini di lasagne al forno. Dove Di Maio ci mostra le sue immersioni in Sardegna con la nuova fidanzata. Dove milioni di italiani – piaccia o meno – si fanno un’idea della personalità di chi li governa. Come ha scritto il Messaggero (il primo ad accorgersene), Di Maio e Salvini hanno interrotto la propria amicizia social, che era iniziata proprio insieme all’alleanza gialloverde. Da pochi giorni Luigi non è più follower di Matteo e Matteo non è più follower di Luigi. Una volta sui social andavano d’amore e d’accordo. Erano giovani e guasconi: non avevano paura di nulla, nemmeno di contestare il presidente della Repubblica su Facebook (ricordate quando Salvini scrisse “Sono davvero arrabbiato” per il niet sul ministro Savona e Di Maio subito cliccò il suo “mi piace”?). Ora è grande gelo. Il governo che ancora sopravvive a Chigi, è già caduto su Instagram.

25 Aprile al Papeete: “Macché Liberazione, festeggiamo la fessa”

C’è un fiume di gente col drink in mano in questa festa della Liberazione. Benvenuti a Salvinistan: Milano Marittima, Papeete Beach. Lo stabilimento preferito del “Capitano”, quello dei suoi Ferragosto a petto nudo, dietro la console e davanti a selve di smartphone. È un luogo dell’anima per il capo della Lega, uno dei mattoncini su cui ha costruito la sua tanto esibita normalità, la sua completa e devota appartenenza all’uomo comune.

Salvini ama il Papeete, il Papeete ricambia. Anche se oggi è presente solo con lo spirito (la campagna elettorale l’ha portato in Sicilia) e anche se ai ragazzi che ondeggiano tra la spiaggia e gli amplificatori – in fondo – della politica non può fregare di meno: se per loro c’è una festa, oggi, è la liberazione dei sensi; l’inizio del lungo rettilineo che porta all’estate. Guardando il cielo non si direbbe: nuvoloni, vento freddo, luce bianca da mare d’inverno. La spiaggia è quasi deserta, eccetto un posto: la musica del Papeete si sente da lontano.

Per capire qualcosa in questa selva di giovani e giovanissimi proviamo il giochino del Milanese imbruttito, un canale Youtube famoso per le interviste improbabili in discoteca. Tra le poche a prestarsi c’è Caterina, studentessa di Cervia in giacca di pelle e gonna jeans. Che giorno è oggi? “Il 25 aprile”. Grazie. Ma che festa è? “Lo Spring Break!” (al Papeete si chiama così, questo lungo ponte che si spinge fino al Primo maggio: come il mega party con cui i ragazzi americani festeggiano la primavera. Musica alta, eccessi alcoolici e sessuali: qui la situazione è decisamente più sobria). Insistiamo con Caterina: “Ma cosa si festeggia il 25 aprile (oltre allo Spring Break)?” Vuoto. Suggeriamo: “La li..”, “Liberazione!”. Da chi? Timido tentativo: “Gli americani?”. Chi è il presidente della Repubblica? Caterina se ne vuole andare. E chi è il capitano? Sorriso: “Salvini!”. Poi la fuga.

Christian, capelli ricci, camicia scura e occhiali a specchio, studente di Ingegneria a Milano, cliente affezionato delle spiagge adriatiche. Rifiuta le domande, ma racconta: era qui a Ferragosto e si è fatto il selfie con Matteo. “Perché lui è un grande”. E perché? “Perché è come noi. Voi di sinistra non capite un cazzo, ci fate tutti scemi. Lui ha capito tutto”. Sull’immigrazione, sulle armi, sulle tasse? “Tutto. Io mi fido di lui. È il contrario di quelli che c’erano prima, mi basta questo”. Tre ragazzi sono arrivati addirittura da Napoli per un weekend lungo nei locali della Riviera romagnola. Perché festeggiare il 25 aprile al Papeete? Risposta laconica, inappuntabile: “Per la fessa!”.

Anche il padrone del Papeete è presente solo in spirito: Massimo Casanova è in Puglia in piena campagna elettorale. Candidato, ça va sans dire, dal Capitano in persona: l’amicizia con Salvini si è trasformata in un probabilissimo seggio al Parlamento europeo. Casanova ci guida nel suo regno dal telefono: “Abbiamo iniziato con un piccolo stabilimento nel 1999. Poi c’è venuta l’idea: qui i balneari offrivano giusto il sole e il mare, che nemmeno era tanto bello – ride –. Noi gli abbiamo dato il divertimento”. Cioè uno dei primi happy hour in spiaggia, un modello che ha cambiato volto alla Riviera. Così l’ex bagno numero 281 ha quadruplicato i suoi spazi e si è trasformato in un piccolo impero da 400 e passa dipendenti. Un marchio da portare in tour: ora ci sono serate firmate Papeete anche sulle Dolomiti. Tutto a gestione familiare: quando non c’è Massimo “il boss” è la sorella Rossella. E Salvini quando arriva? “La nostra amicizia nasce 7 o 8 anni fa. Avevamo interessi comuni, diversi dalla politica”. Il calcio? “Non proprio, sono interista”. Che l’interesse in comune sia lo stesso dei tre ragazzi di Napoli di cui sopra? Casanova se la ride ancora.

L’amico Salvini gli ha messo in mano le chiavi della Lega in Puglia. Lui romagnolo verace, rivendica di aver preso la residenza lì “ormai da anni”. Di recente la Guardia di finanza ha perquisito una delle sue abitazioni a Bosco Isola, nel Foggiano, per un presunto abuso edilizio. E nel Carroccio locale si è aperta la faida con l’ex “capo” Andrea Caroppo.

Mr. Papeete minimizza: “Sono normali divergenze di vedute. E comunque, non è stato Salvini a mettermi lì, me l’ha chiesto mezzo partito… un vicesegretario… e i parlamentari pugliesi”. Quando parla di Matteo la sua voce è estatica: “Lui è proprio come lo vedi, per questo piace tanto. Io dico sempre che è come Marco Pantani”. Col “pirata” di Cesenatico si conoscevano bene, dice Casanova. “Mi viene la pelle d’oca. Per lui guardavano tutti il ciclismo: bambini, anziani, gente che non sa neanche come è fatta una bicicletta. Non c’era bisogno di capire di sport, Pantani faceva emozionare. Salvini è lo stesso: non c’è bisogno di capire di politica”.

Intanto in discoteca si è passati dagli spritz ai negroni, dalla musica elettronica alla commerciale. Si balla e si beve ma nessuno esagera. I drink costano dai 10 ai 15 euro: per ubriacarsi al Papeete serve una carta di credito importante. “È la nostra politica dei prezzi – riconosce Casanova – così la situazione non sfugge al controllo. Ma guardi che da noi ci sono tutti i ceti sociali, eh!”. Non ha torto. C’è Ludovica, romana di Roma Nord trapiantata a Milano per la Bocconi (“Ma io esco solo in zona Brera”). Di politica non le importa niente, “però Salvini è simpatico”. E c’è Andrea, romano di Roma est, oltre via Togliatti, confine ideale della periferia. Precario di Poste Italiane: l’hanno fermato dopo un contratto a tempo determinato di tre mesi, ora aspetta una nuova chiamata. Il primo problema però non è il lavoro: “C’è il campo rom dietro casa. Il governo va bene, se continua così voto la Lega”. Al Papeete c’è un salvinismo istintivo, prepolitico. Nazionalpopolare.

Tiene insieme i ricchi – a Milano Marittima “si paga anche l’aria”, dice una signora davanti al parchimetro – e gli aspiranti tali. Casanova la fa molto più semplice: “Facciamo solo divertire la gente”.

Moavero al Viminale sulla Libia: “I rifugiati andranno accolti”

Nel suo linguaggioprofessionalmente felpato, il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi comunque ci tiene a chiarire almeno una cosa sullo sviluppo della guerra di posizione tra Tripoli e Bengasi: “In Libia naturalmente una situazione di guerra porta ad alzare il livello di attenzione sulla possibilità che ci siano dei flussi. Non credo nell’ordine delle cifre che sono state fatte di centinaia di migliaia di persone (800 mila ha detto il premier tripolino al-Sarraj, ndr), quelle si riferiscono al totale delle persone che si trovano in Libia”, ha detto ieri a Lecco. Insomma, i flussi in partenza dalla Libia possono farsi più cospicui degli attuali e a quel punto “se ci sono dei rifugiati e dei profughi abbiamo il dovere di accoglierli, e le cifre che sono uscite mostrano che l’Italia non si è mai tirata indietro sul dovere di accogliere chi cerca rifugio”. Una ovvietà che non lo è poi così tanto se si tiene conto che Matteo Salvini, uno dei due azionisti del governo, ha ribadito che “i porti restano chiusi” anche per “il rischio che arrivino dei terroristi”. Moavero, in poche parole, mette le mani avanti per ricordare al vicepremier leghista l’obbligo costituzionale di accogliere chi fugge da una guerra.

“Federico è un nostro buon amico da anni”

“Federico Arata? Sì, lo conosco da qualche anno, è un buon amico”. Così dice al Fatto Benjamin Harnwell. Ovvero, l’uomo di Steve Bannon in Italia, nonché il presidente della Dignitatis Humanae Institute, la Fondazione che ha sede nell’Abbazia di Trisulti, in Ciociaria, destinata – almeno nelle intenzioni – a diventare una sorta di Università per formare le élite populiste e sovraniste del futuro. Una fonte della Lega racconta che la conoscenza tra Arata jr, Bannon e Harnwell risalirebbe all’ottobre del 2017. Una data significativa, sia nel cv del giovane economista, sia nell’evoluzione del percorso di Bannon & co.

Arata dal 2017 lavora presso la società di investimenti Sturgeon Capital, tra Londra e il Pakistan. E proprio Londra è uno dei centri nevralgici della nuova Europa, quella che – in teoria – potrebbe vedere la luce con le elezioni di maggio, quella su cui l’ex guru di Trump ha provato a scommettere.

Harnwell è un ex funzionario del Parlamento europeo, ha lavorato per anni con Nirj Deva del gruppo dei Cristiano riformisti. E a presiedere il consiglio di garanzia della DHI è il cardinale Raymond Burke, fiero oppositore di Papa Francesco. Tra le buone conoscenze di Harnwell si conta anche Matthew Elliot, capo del Leave, la campagna elettorale per il sì alla Brexit (il referendum è del giugno 2016: i mesi sono sempre quelli). Nel frattempo, dietro ai cosiddetti “Bad boys della Brexit” (in primis, Nigel Farage, allora leader del partito pro Brexit e Raheem Kassam, storico stratega del partito e oggi editor dell’edizione britannica di Breitbart) ci stava proprio Bannon. E ancora: The Movement nasce nel 2017, quando Bannon era ancora il braccio destro di Trump. Il 9 gennaio l’avvocato e attivista politico belga Michael Modrikamen, sua moglie Yasmine Dehaene, segretaria generale del Partito popolare belga, piccola formazione di destra, e Laure Ferrari, assistente parlamentare del gruppo Europa della Libertà e della Democrazia Diretta al Parlamento Ue (di cui fa parte anche il M5S), firmano l’atto costitutivo della fondazione. Prima di The Movement, secondo quanto ricostruì La Stampa, i tre avevano fondato l’Alleanza per la Democrazia Diretta in Europa (Adde), un partito registrato a Bruxelles, di cui poi si scoprì che aveva utilizzato in modo improprio i fondi erogati dal Parlamento europeo: 500 mila euro destinati al finanziamento di iniziative a favore della Brexit. Negli stessi mesi, Harnwell sbarca in Italia: a febbraio 2017 la sua Fondazione si aggiudica la concessione della Certosa per 19 anni, con un affitto di 100.000 euro l’anno, a seguito del bando firmato dall’allora ministro alla Cultura Dario Franceschini.

Non stupisce, dunque, che è in quel momento che Federico Arata, universalmente descritto come un giovane brillante e pieno di rapporti, abbia deciso che fosse arrivato il momento di investire in quel giro. Cosa che poi si è potuto rivendere, presentando Salvini a Bannon. Ecco perché è Armando Siri che ha bisogno del giovane economista e non viceversa: è stato lui a presentarlo all’ex guru di Trump, come l’esperto della flat tax. Un incontro di successo, visto che lo stesso Bannon provò a convincere Salvini a partire da questo provvedimento una volta al governo. Altri dettagli si aggiungono al puzzle: Arata è un banchiere di successo e Bannon si sta evolvendo sempre di più non come l’ideologo di un progetto politico, ma come un raccoglitore di fondi. Ha rapporti con tanti imprenditori (italiani, americani, inglesi), tra cui Rocco Forte, proprietario dell’Hotel de Russie a Roma, dove spesso è ospite.