Arata, Salvini e la passione comune per il cardinal Burke

I leghisti frequentano la sua casa in Vaticano e dialogano con venerazione col cardinale Raymond Leo Burke, porporato americano tra i più conservatori, antagonista per eccellenza di papa Bergoglio.

Il mondo di Burke è così stretto, e così leghista, che ha affascinato Matteo Salvini e pure Paolo Arata, già deputato di Forza Italia, una sorta di consigliere per l’energia del Carroccio formato nazionale. Arata è il professore di ecologia, l’imprenditore dell’eolico, indagato nel fascicolo che coinvolge il sottosegretario Armando Siri, accusato di corruzione.

Il cardinale Burke ha incontrato Salvini più volte negli ultimi anni. Un’ora e mezza di colloquio in Vaticano nel febbraio del 2017 per benedire il politico con la ruspa e poi due investiture pubbliche con l’ormai consacrato ministro dell’Interno: “La Chiesa mi dice vai avanti”, rivelò con soddisfazione il leghista.

E il professore Arata, invece, parlava al telefono con Burke anche per organizzare una cena nell’appartamento cardinalizio che s’affaccia su piazza San Pietro, come ha riportato Repubblica.

Il cardinale non è soltanto la bandiera degli integralisti cattolici che considerano Francesco un eretico e non è neanche il semplice contestatore dell’esortazione apostolica Amoris Laetitia, Burke è il riferimento culturale dell’internazionale sovranista, di una destra anti-gay, anti-papa, anti-aborto.

Quella destra che Steve Bannon, l’ex stratega di Donald Trump, e i suoi accoliti hanno introdotto in un’abbazia del 1200, in provincia di Frosinone, la Certosa di Trisulti. Lì avrà sede la scuola di formazione di Bannon per un populismo di destra, lì vive da eremita Benjamin Harnwell, il capo dell’istituto Dignitatis Humanae che gestisce l’ex monastero e che, un paio di mesi fa, ha celebrato il presidente onorario, sua eminenza Burke.

Che c’entra con Arata? Il giovane Federico, il figlio prodigio di Paolo Arata, poliglotta e già banchiere, è tra i principali collaboratori in Europa di Bannon e del gruppo che ruota attorno a Harnwell e al cardinale Burke.

È Federico che accompagna Bannon al Viminale da Salvini e che ha condotto il Carroccio nell’orbita dell’ex guru di Trump. E la consulenza di Federico a Palazzo Chigi, in un dipartimento del sottosegretario Giancarlo Giorgetti, non è un incarico vuoto, una prebenda per un ragazzo parecchio ambizioso, ma un riconoscimento a uno stratega di partito. Allora va spiegata la comune passione per il porporato Burke del professore Arata e del ministro Salvini: una passione coltivata assieme oppure si tratta di una banale (e però simbolica) coincidenza? Il Fatto ha rivolto la domanda al cardinale e al ministro. Nessuno ha risposto.

Oggi Salvini è più prudente con Jorge Mario Bergoglio. Il campionato del consenso espelle chi è troppo ruvido col pontefice argentino. Non conviene.

Adesso il ministro non diffonde più video di Burke e non va all’assalto frontale contro l’accoglienza ai migranti invocata da Francesco, come al contrario gli aveva suggerito, pare, proprio Bannon. Salvini ha sfumato le parole sul pontefice e, lo scorso gennaio, assieme al sottosegretario Giorgetti, ha pranzato in Vaticano col cardinale Angelo Becciu, prefetto per la Congregazione dei Santi e, soprattutto, a lungo sostituto agli Affari generali in Segreteria di Stato. Salvini ha cercato, tramite Becciu, di ottenere un’udienza da Francesco. Più che un desiderio, un miraggio.

L’ex ministro Zecchino (Istruzione) è indagato per ricettazione

La notiziaè diventata pubblica con il ricorso al Riesame del suo avvocato, Vincenzo Regardi, per chiedere il dissequestro dei libri storici sequestrati dalla biblioteca del Centro Europeo Normanno: Ortensio Zecchino, ex ministro dell’Istruzione di tre lontani governi di centrosinistra nonché presidente del Centro Normanno, è indagato dalla Procura di Benevento per ricettazione in relazione alla scomparsa di alcuni volumi di pregio avvenuta nel 2015 dalla biblioteca di Ariano Irpino. Secondo i carabinieri del nucleo di tutela del patrimonio artistico, una ventina di libri ritrovati nella biblioteca del Centro potrebbero coincidere con alcuni dei testi scomparsi dalla biblioteca comunale. Zecchino dice di essere “assolutamente estraneo a quanto mi viene addebitato. L’inchiesta fa connessioni del tutto infondate tra il patrimonio delle due biblioteche. Tra i volumi che sono stati sottoposti a sequestro non ci sono titoli di pregio: la maggior parte hanno un prezzo di mercato non superiore ai 60 euro. Tra questi ci sono due volumi di maggior pregio del 1700, che sono stati acquistati da antiquari che mi hanno rilasciato formale e valida ricevuta”.

“Salvini lo voleva nominare in Arera, però non lo conosce”

Il segretariodella Lega Matteo Salvini continua a dire che lui Franco Paolo Arata – l’imprenditore vicino alla Lega che è il centro dell’inchiesta che coinvolge il sottosegretario Armando Siri – lo ha visto “una volta sola”, non ne sa nulla, non gli interessa. I suoi alleati non gli credono granché. Il sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano, per dire, ieri gli ha fatto un mezzo processo: “Arata era stato proposto da Salvini come possibile presidente di uno dei più importanti enti del panorama energetico italiano, cioè Arera (l’Autorità per l’energia, ndr). Come mai Salvini propose proprio Arata? E Salvini come fa a dire di non conoscere bene Arata se lo ha proposto ai vertici di Arera, ha condiviso foto di Arata sui social, lo ha invitato in un convegno della Lega? Senza dimenticarci poi un altro piccolo dettaglio: Arata ha redatto il programma energetico della Lega”. Salvini, incalza Di Stefano nelle vesti dell’accusatore, “ha il dovere di chiarire immediatamente e di spazzare via qualsiasi ombra su questa inchiesta. Non può rimanere in silenzio in eterno difendendo ad oltranza la posizione di Siri nonostante ci sia di mezzo una indagine per corruzione dove emergono anche legami con il mondo mafioso”.

Lo strano fascioleghismo pontino nato dentro l’Ugl

Fascioleghismo allo stato puro. E che viene da lontano, talvolta tra sangue e dolore. Lo zio di Francesco Zicchieri, deputato salviniano, si chiamava Mario. Venne ammazzato dai brigatisti nell’ottobre del 1975, davanti alla sezione missina del Prenestino, a Roma. Aveva sedici anni ed era soprannominato “Cremino”. I suoi assassini sono rimasti ignoti.

Quasi mezzo secolo dopo, il nipote di “Cremino” è uno dei due ras dell’insolito clan di potere pontino, tra Terracina e Latina, che dapprima si è impadronito dell’Ugl – lo storico sindacato di destra, erede della vecchia Cisnal – indi della Lega salviniana, spodestando la romana Barbara Saltamartini, la prima ad arrivare dal Pdl, versante An, nella schiera del Capitano. L’altro ras è Mister Quota 100, com’è ormai noto ai telespettatori dei talk show: al secolo l’imponente Claudio Durigon, sottosegretario al Lavoro e alle Politiche sociali. Cognome veneto, ché i veneti furono la spina dorsale della bonifica dell’Agro pontino, voluta dal regime fascista (in un modo o nell’altro sempre al nero si torna, in questa storia). Insolito, dicevamo, per due motivi. Innanzitutto è la prima volta, nella storia della destra regionale, che un gruppo di Latina s’impone ai vertici di un partito. Il secondo lo spiega un autorevole conoscitore di questo universo, tuttora in politica: “Durigon, Zicchieri e gli altri del loro gruppo non contavano nulla dentro An o il Pdl, erano quarte o quinte file. Per quale motivo? Non hanno mai avuto consenso sul territorio e suppongo che sia ancora così, ma vediamo gli esiti di questa inchiesta per capire da dove vengono i loro voti”.

Prima di diventare un fervente e zelante salviniano, pronto sempre a rintuzzare gli attacchi all’Amato Leader, Durigon è stato candidato nel Lazio con Francesco Storace. La Pisana, sede della Regione, è da sempre la passione del sottosegretario, al punto da coltivare il sogno di diventare un giorno governatore, sull’onda del sovranismo leghista. Così, dopo Storace, Durigon è stato pure in Città Nuove, il movimento civico che fondò Renata Polverini, altra presidente della Regione e oggi parlamentare berlusconiana.

“Nell’Ugl, ricordo che Durigon portava il caffè a Renata quando c’erano le riunioni della segreteria”. Polverini è stata per anni alla guida del sindacato. Quando la sua leadership venne offuscata dalle inchieste giudiziarie, Durigon iniziò la sua scalata e diventò vicesegretario generale dell’Ugl. E da questo postazione ha portato in dote l’ex Cisnal missina all’ex secessionista padano Salvini. Un altro clamoroso contrappasso nella diaspora seguita alla fine di Alleanza nazionale. Sempre da qui ha costruito la sua rete di rapporti. Si racconta pure di un suo legame con Stefano Andrini, uno dei nomi forti e neri della gestione del Campidoglio ai tempi di Gianni Alemanno sindaco. Del resto, nella Lega laziale della ditta Durigon & Zicchieri sono entrati pezzi interi di quella galassia che una volta stava a cavallo tra l’andreottismo arraffone della Dc e l’antico Msi. Un caso emblematico è quello di Pietro Sbardella, figlio dello Squalo buonanima. Sbardella junior ha lasciato l’Udc e partecipa convinto ai raduni salviniani, anche perché è riuscito a piazzare un suo fedelissimo, Angelo Valeriani, come responsabile leghista per enti locali nella provincia di Roma.

A completare il clan di potere pontino c’è poi Orlando Tripodi detto Angelo da Latina, capogruppo regionale della Lega. Per i loro avversari interni non c’è scampo. Ecco Enrico Cavallari, eletto alla Pisana, già fondatore di Noi con Salvini nel Lazio e cacciato infine dal Carroccio: “Sono onorato di essere stato espulso da un coordinatore regionale, Francesco Zicchieri, la cui condotta nulla ha a che vedere con i dettami del nostro leader nazionale. Tra lui e Durigon nella regione Lazio c’è la corsa ad accaparrarsi le poltrone”. Alla Pisana, per la Lega, c’è anche Laura Corrotti: alle elezioni sarebbe stata sostenuta finanche da Samuele Piccolo, enfant prodige della destra romana fino al 2012, quando venne arrestato per vari reati, a partire dall’associazione per delinquere.

Sempre a proposito di Zicchieri: il progetto salviniano di rifondare l’organizzazione della Lega a livello nazionale ha provocato dolorosi mal di pancia nel gruppo pontino. Il Capitano ha infatti nominato un commissario per ogni regione ma Durigon e soci non ne hanno voluto sapere e hanno bloccato la discesa a Roma del bergamasco Daniele Belotti. Alle prossime Europee si conteranno sulla candidatura di Matteo Adinolfi, altro esponente di Latina. In realtà il loro obiettivo era quello di candidare Francesco Capone, l’attuale segretario dell’Ugl. Dato per sicuro alla fine è saltato. Dicono che qualcuno d’influente nella Lega abbia iniziato a contestare questo gruppo.

Depositata l’intercettazione in cui Arata parla di Siri

Lunedì si decideranno le sorti di Armando Siri, il sottosegretario leghista indagato a Roma per corruzione. Oltre al Consiglio dei ministri, il premier Giuseppe Conte ha fissato un colloquio privato con il senatore del Carroccio per parlare vis-à-vis e prendere una decisione sulle dimissioni richieste più volte dai 5stelle. Nelle ore che precedono l’incontro, però, sui giornali potrebbe essere pubblicata l’intercettazione in cui Paolo Arata parla dei 30 mila euro dati o promessi a Siri. Infatti il colloquio tra l’imprenditore e il figlio sul quale si basa l’accusa dei pm capitolini è contenuto in un’informativa della Dia del 29 marzo 2019 depositata ieri al Tribunale del Riesame dopo l’istanza presentata da Arata. I pm Paolo Ielo e Mario Palazzi chiedono infatti al tribunale di confermare il sequestro di cellulari e computer di Arata, già in possesso della magistratura dopo le perquisizioni dei giorni scorsi. Si tratta di un atto che ieri non era ancora nella disponibilità del difensore di Arata: “Abbiamo atteso la chiusura della cancelleria del tribunale della Libertà – ha spiegato l’avvocato Gaetano Scalise – ma non risultano depositati ancora atti da parte della Procura, non abbiamo quindi potuto visionarli. Resta ferma l’intenzione di sottoporre il mio assistito ad interrogatorio”. In realtà l’atto risulta depositato. E la settimana prossima potrebbe esserci anche l’interrogatorio di Siri, che tramite il suo legale, ha chiesto di rendere spontanee dichiarazioni.

La lettura integrale dell’intercettazione di Arata potrà chiarire meglio la vicenda. Soprattutto dopo i titoli dei giornali dei giorni scorsi. Con La Verità che giovedì ha titolato: “Pm choc: l’intercettazione usata contro Siri non esiste”, spiegando che la frase così come riportata da alcuni quotidiani (“questa operazione mi è costata 30 mila euro”) non era letteralmente quella pronunciata da Arata. Giovedì il ministro dell’Interno Matteo Salvini aveva detto: “Ho letto in un giornale che le intercettazioni non esisterebbero. Così fosse sono sicuro che giudici, pm e avvocati faranno in fretta il proprio lavoro”.

Ma il senso delle accuse a Siri è contenuto nel capo di imputazione quando i pm spiegano che il sottosegretario ha messo a disposizione dell’imprenditore la propria funzione “proponendo e concordando con gli organi apicali dei ministeri competenti per materia (…) l’inserimento in provvedimenti normativi (…) ovvero proponendo emendamenti contenenti disposizioni in materia di incentivi per il cosiddetto ‘mini-eolico’”. E in cambio “riceveva indebitamente la promessa e/o la dazione di 30 mila euro da parte di Arata”.

Ieri sul caso Siri è intervenuto di nuovo il premier Conte: “Gli ho detto – ha spiegato dalla Cina – che non potevamo vederci perché partivo, mi sono anche scusato perché c’è la considerazione umana nei confronti di una persona che aspetta il presidente del Consiglio che vuole spiegazioni”. Tuttavia, “la considerazione umana verrà tenuta da conto ma non sarà determinante: se mi convinco che deve dimettersi, non ci saranno alternative”. E ieri scintille ci sono state anche tra Roberto Maroni e Giancarlo Giorgetti. Al centro della discussione, l’intervista di Maroni a La Stampa: “Credo che la vera crisi potrebbe arrivare per il coinvolgimento di un’altra persona in una vicenda: il caso dell’assunzione del figlio di Arata da parte di Giorgetti”. Il sottosegretario ha replicato: Maroni “sta cercando di rientrare in gioco. Non credo proprio di essere un problema per il governo. Anzi io lavoro tutti i giorni per questo governo e credo di risolverli i problemi”.

A Latina il clan faceva campagna per la Lega

Per la Lega di Matteo Salvini, alle amministrative del 2016 a Latina, ci sarebbe stato uno sponsor d’eccezione: il clan dei Di Silvio. Siamo in uno dei territori dove il Carroccio non più a trazione nordista ha fatto da subito proseliti, al punto da esprimere un sottosegretario nel governo gialloverde. Quel Claudio Duringon che ieri si è affrettato a dire: “Ma quali relazioni pericolose! Non c’entriamo niente, il partito non c’entra assolutamente niente”. Durigon, così come il deputato leghista Francesco Zicchieri (anche lui di Latina), è estraneo all’inchiesta. Ma la sua è una reazione necessaria, viste le accuse lanciate dal Pd dopo le rivelazioni pubblicate ieri da Repubblica.

Sono il frutto della deposizione del pentito Agostino Riccardo, ex appartenente al clan Di Silvio, allegata a due inchieste coordinate dalla Dda di Roma. Sia il clan Di Silvio – al centro di un’operazione che nel maggio scorso portò a 25 arresti – sia l’imprenditore pontino Raffaele Del Prete – che ha patteggiato la sua pena a tre anni di reclusione per traffico illecito di rifiuti – secondo gli investigatori si erano spesi per far ottenere un buon risultato elettorale ad alcune liste collegate alla Lega. Cosa abbia fatto per la politica il clan del litorale lo racconta ai pm il pentito Riccardo nel luglio del 2018: “Abbiamo operato l’affissione dei manifesti il giorno prima delle elezioni, contravvenendo al divieto, da mezzanotte alle sei di mattina, in tal modo il giorno dopo a Terracina e Latina, dove avevamo il partito ‘Noi con Salvini’, le città erano tappezzate dei manifesti dei candidati che sponsorizzavamo”. Non solo, “durante lo spoglio delle elezioni siamo stati tutte le prime ore della mattina (…) a controllare i risultati. Eravamo a cento metri dai Vigili del Fuoco, vicino al palazzo di Corica, era la sede della lista elettorale ‘Noi con Salvini’”. Riccardo racconta anche di accordi con Gina Cetrone, giovane candidata nelle liste del centrodestra. Il patto prevedeva “10.000 euro solo per l’affissione dei manifesti, altri 10.000 euro” per le spese. La Cetrone si sarebbe rivolta in diverse occasioni ai Di Silvio: “Ci mandò a fare un’estorsione da 70 mila euro”, rivela il pentito che racconta del desiderio della Cetrone di avere dai Di Silvio “una sorta di scorta perché arrivava un pezzo grande della politica”. Riccardo spiega anche di non aver raccontato al co-indagato Renato Pugliese (figlio di un boss, poi pentitosi rivelando gli affari malavitosi che ruotavano anche intorno al Latina Calcio) i reali incassi ottenuti dalla politica: “Aveva una fidanzata che era una sanguisuga: sarebbe andato sempre a chiedere soldi ai politici se avesse saputo i veri importi”, riferisce Agostino, sfoggiando un bon ton criminale: “I soldi i politici te li danno, ma non vogliono quella pressione che normalmente si utilizza”.

A destare l’attenzione dei pm, coordinati dal procuratore aggiunto Michele Prestipino, inizialmente erano stati alcuni volantini elettorali, tra cui anche quelli di Zicchieri, trovati in una Citroën Picasso grigia utilizzata dal clan. Gli arrestati, ritiene l’accusa, non erano dediti solo a usura, estorsioni e spaccio, ma procacciavano voti comprandoli e minacciando gli elettori. “Lo costringevano a votare in favore del candidato sindaco Tripodi (attuale capogruppo della Lega in consiglio regionale, non indagato ndr), con preferenza espressa in favore di Roberto Bergamo”, recita l’accusa a carico di due indagati. “La mafia mi fa schifo, sono distante anni luce dal modus operandi degli zingari di Latina”, afferma ora Tripodi. E anche se il pentito Agostino dice di non aver “mai conosciuto Tripodi”, Pugliese racconta di aver attaccato “manifesti elettorali di Salvini e Gina Cetrone”, e che un indagato, Angelo Morelli, “avrebbe dovuto consegnarle (le tessere elettorali ndr) a Tripodi a dimostrazione dei voti procurati, ottenendo quale ricompensa 30 euro per ogni voto”. Tutte accuse respinte da Tripodi. È sempre Pugliese a spiegare l’interessamento dell’imprenditore Del Prete. Ai pm Pugliese ha infatti detto di aver contribuito alla campagna anche “perché se avessero vinto le elezioni, l’appalto dei rifiuti sarebbe andato verosimilmente” all’impresa di Del Prete. Nell’inchiesta sui rifiuti emerge una conversazione tra Del Prete e Zicchieri. “Che cazzo ce l’hai a fare la delega rifiuti, ma che ce l’hai a fare c’hai l’ambiente tutto o basta… a che ce serve, a che te serve?”, rimprovera Del Prete. “Parliamo del nulla – dice al Fatto Zicchieri – non sono mai stato assessore ai rifiuti. Io a Terracina sono stato eletto sempre con i miei voti. La mafia mi fa schifo”.

Paradossi&paraculi

Amanti dei paradossi come siamo, assistiamo con sincero spasso al cabaret dei giallo-verdi e dei loro presunti oppositori. I 5Stelle fanno entrare nel governo il sottosegretario Armando Siri che ha patteggiato 1 anno e 8 mesi per bancarotta fraudolenta e sottrazione fraudolenta di beni al fisco, poi chiedono la sua cacciata quando viene indagato per corruzione. Il Pd strilla un giorno sì e l’altro pure contro l’“occupazione” giallo-verde della Rai, poi però l’Agcom richiama Viale Mazzini a un maggiore equilibrio perché dà troppo spazio al Pd e troppo poco ai 5Stelle. Le sinistre tutte tuonano contro il governo razzista e xenofobo che respinge, anzi stermina i migranti, mica come la Francia dell’accogliente Macron e le altre democrazie progressiste europee: poi Eurostat certifica che nel 2018, primo anno del regime razzista e xenofobo, l’Italia ha superato la Francia per il numero di profughi accolti con diritto d’asilo (47.885 a 41.440) e ha fatto meglio di tutti gli altri 27 Stati membri della Ue, tranne la Germania (139.600). Ma il recordman mondiale dei paradossi rimane Salvini. Ieri si è saputo che due pentiti del clan Rom di Latina hanno raccontato ai pm di aver “fatto campagna elettorale per la Lega” e “affisso manifesti della lista ‘Noi con Salvini’”. Altro che xenofobia: se tutto fosse confermato, si tratterebbe di un mirabile caso di integrazione. Manca soltanto che, alle prossime elezioni, la Lega si apparenti con una lista “Rom con Salvini”. Un paradosso che fa il paio con quello dei soi disant “sovranisti” ministri leghisti che disertano il 25 Aprile, festa “sovranista” quant’altre mai (la liberazione dell’Italia dall’occupazione degli odiati tedeschi).

Ma c’è di più e di meglio. Da quando aveva smesso di insultare i meridionali e i romani, cancellando il “Nord” dal logo e la “Padania” dal vocabolario, ci eravamo fatti l’idea che Salvini volesse accreditare la sua nuova Lega nazionale e nazionalista. E, visti gli attacchi quotidiani alla Raggi, volesse partire dalla conquista di Roma. Ora però si scopre che lo stop da lui imposto l’altro giorno, in Consiglio dei ministri, alla norma Taglia-debiti della Capitale e assurdamente subìto dai 5Stelle manderà Roma in default dal 2022. Occhio alle date: il mandato di Virginia Raggi scade nel 2021 e, nei piani di Salvini, da allora Roma dovrebbe avere un sindaco leghista. Non sappiamo chi sarà il fortunato vincitore, ma sappiamo già che cosa gli toccherà in sorte appena insediato in Campidoglio: la bancarotta della sua città a causa delle scelte scellerate del suo leader.

Il quale, nel 2019, credendo di fare un dispetto alla Raggi, aveva piazzato nell’ufficio del sindaco una bomba a orologeria col timer puntato al 2022. Così da far esplodere non la Raggi, ma il leghista. Non è meraviglioso? Naturalmente non è ancora detto che le cose vadano così: il no al Taglia-debito, che farà fallire la capitale d’Italia, rischia di costare molti voti all’aspirante sindaco leghista: i romani informati tutto faranno, fuorché votare per un partito che Roma l’ha prima chiamata “ladrona” e poi condannata a morte. Ad approfittarne potrà essere persino la Raggi, che col suo assessore Lemmetti e la sottosegretaria Castelli aveva escogitato una norma per salvare Roma senza gravare sugli altri cittadini. Basta chiudere la fallimentare gestione commissariale del debito capitolino (15 miliardi nel 2010, ora ridotti a 12, accumulati dalle giunte di pentapartito, di sinistra, di centrodestra e di centrosinistra dagli anni 50 al 2008) e cedendo la parte finanziaria al ministero dell’Economia perché rinegozi gli interessi (ora vicini al 6%, roba da usura), con risparmi per i romani e gli altri italiani fino a 2,5 miliardi. L’aveva confermato lo stesso ministro Tria: “La norma è a costo zero, senza alcun onere per lo Stato”. Cioè non è affatto “salva-Roma” né tantomeno “salva-Raggi”, ma un “Salva-Italia”. E fin dal 4 aprile la Lega, con una email del sottosegretario Garavaglia, aveva dato l’ok a inserirla nel dl Crescita.
Poi è esploso il caso Siri e Salvini ha deciso di prendere in ostaggio non la Raggi, ma la Capitale, per salvare il culo al sottosegretario e la faccia alla Lega: e giù sproloqui sui “debiti della Raggi” (inesistenti: sotto la sua giunta il debito si è ridotto), “altre città da salvare” (ce ne sono a centinaia, ma nessuna ha il debito commissariato, dunque non c’entrano una mazza con Roma) e naturalmente delle “buche” (le stesse che un anno fa, quando doveva leccare i piedi ai 5Stelle, Salvini disse di non vedere, anche se erano molte più di oggi). L’idea di sabotare le città governate dai 5Stelle per favorire quelle care alla Lega non è nuova: il Carroccio aveva già sabotato la candidatura di Torino alle Olimpiadi invernali del 2026, cioè l’unica che avrebbe avuto un senso: Torino ha già le strutture sportive e ricettive dello stesso evento di 13 anni fa. Ma la Lega sponsorizzò Cortina e Milano, una con le montagne e l’altra senza, per giunta distanti su strada 409 km. Ora, se la strana coppia avesse la meglio, il governo dovrebbe tirar fuori mezzo miliardo (infatti le Olimpiadi non le vuole più nessuno: oltre ai nostri eroi, è rimasta solo Stoccolma). Ma Torino s’è rimboccata le maniche e, contro ogni previsione, ha battuto 40 concorrenti (pure Londra e Tokyo) e si è aggiudicata un evento molto meno costoso (78 milioni dal governo) e più lucroso: le Atp Finals di tennis, che non durano 15 giorni, ma 5 anni. E portano alla città centinaia di migliaia di turisti e centinaia di milioni di introiti. Altro che un terzo di Olimpiadi invernali. Ora si attende la contromossa di Salvini. Tipo marciare su Torino in divisa da tennista e spaccare la racchetta in testa a Chiara Appendino.

Caravaggio maestro dei napoletani

È opinione accreditata che l’ultimo dipinto di Caravaggio sia Il Martirio di Sant’Orsola (1610), commissionato dal banchiere genovese Marcantonio Doria e realizzato a Napoli poco prima che il Merisi parta per Porto Ercole (viaggio durante il quale trova la morte), dove deve occuparsi delle formalità per la grazia ricevuta da papa Paolo V prima di tornare a Roma (nel 1606, il pittore viene condannato alla pena capitale per aver ucciso Ranuccio Tommasoni, un lenone romano e suo rivale in amore). Nella tela di Caravaggio, la santa ha appena rifiutato di concedersi ad Attila e lo stesso la trafigge con una freccia: la scena, dunque, si svolge per la prima volta nell’iconografia di Sant’Orsola all’interno della tenda del tiranno ed è permeata da “la forma delle ombre”, così il grande critico Roberto Longhi definì il punto di forza di quel movimento internazionale poi detto caravaggismo.

Questo dipinto conclude la mostra che Napoli dedica al caravaggismo, o più precisamente all’influenza di Caravaggio sulla nascita della scuola napoletana: “Caravaggio Napoli” (Museo di Capodimonte, fino al 14 luglio, a cura di Maria Cristina Terzaghi e Sylvain Bellenger) in cui sei tele del Merisi dialogano con diciannove quadri di artisti attivi in città a lui coevi o che hanno subito la sua influenza nel ’600.

Si inizia da due Flagellazioni (1607) di Caravaggio, il cui tono tragico si specchia in Deposizione di Cristo nel sepolcro (1608) di Giovanni Baglione, Flagellazione (1609) di Fabrizio Santafede e il Cristo alla Colonna (1618-20) di Battista Caracciolo detto Battistello soprattutto per la torsione del corpo del Cristo e per l’uso teatrale della luce (o meglio della sua assenza). Mentre le due versioni (quella della National Gallery di Londra e del Palacio Real di Madrid) di Salomé con la testa del Battista dialogano con le omonime opere del Battistello del 1618 e di Massimo Stanzione del 1620. Nella resa di Caravaggio come in quelle dei suoi proseliti, Salomé non guarda la testa del santo ma volge il capo altrove in un energico moto di disgusto per l’omicidio.

Esposte anche Martirio di San Sebastiano di Louis Finson (1615), San Francesco riceve le stimmate di Carlo Sellitto (1611), San Giovanni Battista di Tanzio da Varallo (1610) posto accanto al San Giovanni Battista di Caravaggio, che raccontano perfettamente la disperata quotidianità dei volti, lo studio della plasticità dei corpi e l’utilizzo drammatico dell’ombra, lasciti da cui sorge la scuola barocca napoletana.

 

Lisa, i misteri di Ale e quanto manca alla fine del mondo

Mancano 21 giorni alla fine del mondo. Mancano 21 giorni a Ferragosto. Lisa ogni giorno lavora al chiosco della madre, poi pratica il karate e quando ha un attimo di tempo sta a casa con la sua amica Rima, una ragazzina ben educata, ma che molto probabilmente ha solo Lisa per amica. Lisa aveva anche un altro amico, Alessandro soprannominato Ale, ma se n’è andato da tanti anni e Lisa non lo vede da quando si è trasferito perché nessuno conosce il suo nuovo indirizzo. Lisa vive in un bungalow soltanto con sua madre perché il padre si è fidanzato di nuovo e ha avuto un altro figlio, mentre la nonna è in una casa di riposo. A dare il nome al libro è un signore che non interagisce con gli altri personaggi ma dietro la bici porta il numero che indica quanto manca a Ferragosto, perché pensa che a Ferragosto finirà il mondo. Mancano 21 giorni a Ferragosto quando Lisa vede alla porta di casa sua Ale. Lei non gli apre, ma alla fine lo va a cercare alla sua vecchia casa, il giorno dopo. Lo trova in mezzo ai cespugli e, dopo un po’ di chiacchiere, Ale le spiega di voler continuare la loro zattera iniziata prima che lui se ne andasse. Dopo alcuni giorni il padre di Ale, che gli aveva chiesto di non vedere nessuno, trova i due ragazzi insieme e si arrabbia molto. Lisa non capisce perché, ma è decisa a scoprirlo. Il testo di questo libro è molto bello come le sue illustrazioni. Pieno di flashback, appassiona dalla prima pagina.

Le dittature più pericolose sono quelle che riescono a vietare di pensare

Tutti quelli che denunciano rigurgiti di fascismo e pulsioni autoritarie, dovrebbero leggere La dottrina. Ma ancor di più dovrebbero farlo quelli che quei rigurgiti e quelle pulsioni le negano, che accettano slittamenti semantici (migranti-clandestini-ragazzi palestrati) come innocue trovate linguistiche. Questo volume di Alessandro Bilotta e Carmine Di Giandomenico (uno dei migliori sceneggiatori italiani e uno dei più apprezzati disegnatori) è una sofisticata dimostrazioni di cosa può essere un fumetto, ma è anche un libro politico. È il racconto di un mondo in cui il “Nocchiere”, senza volto e per questo divino, controlla la società con uno schema di autorità familiare a tutti, quello della scuola. Le uniformi reprimono l’individualità, i professori sono violenti tutori dell’ordine, ai cittadini sono concessi “pensierini”, non certo pensieri. Però ogni tanto qualcuno prova a ribellarsi e tenta una “ricreazione”. Il potere del Nocchiere e della sua oligarchia si regge sull’aver fatto disimparare l’alfabeto, tutto è numero (anche le onomatopee del fumetto). Le lettere sono grafismi senza significato. La dottrina è una storia di ribellione, ma è anche un manuale che educa i personaggi all’obbedienza. E mentre il lettore li osserva con il senso di superiorità che gli deriva dal non appartenere alla storia, inizia a maturare il sospetto che forse anche lui, proprio attraverso il fumetto, viene indottrinato. Il racconto della parabola dei ribelli è forse una storia educativa, di propaganda? La dottrina è uscita nell’arco di 15 anni in volumetti per Magic Press, ora torna in una nuova edizione per Feltrinelli Comics. Non è un fumetto sull’attualità. Ma finisce per diventarlo. Perché la storia di Bilotta e Giandomenico costringe il lettore a pensare. E questa, alla fine, è l’unica garanzia di libertà.