Ginevra: l’anno in cui scomparve la bella Summer, durante un picnic sul lago

Summer, un nome da “popstar californiana” per una ragazza figlia di rampanti ginevrini, con tenuta esclusiva che dà sul placido (ma fino a un certo punto) lago Lemano. Summer Wassner, bella e bionda come la mamma presunta attrice, proveniente da Parigi. Il padre, invece, è un avvocato piacione che difende politici corrotti ed evasori fiscali. Ah, la Svizzera. “Le finestre erano così pulite da sembrare inesistenti – un giorno qualcuno dovrà spiegarmi l’impulso nevrotico a sradicare la sporcizia che anima questo Paese, quasi che già solo l’idea del degrado, del deterioramento, anche la semplice impronta di un dito, fosse insostenibile”. A parlare è il fratello minore di Summer, Benjamin.

Benjamin che aveva solo quattordici anni quando la sorella scomparve, durante un picnic in riva al benedetto lago. Quasi un quarto di secolo dopo, Benjamin è un uomo più che maturo e sviscera in un monologo, a tratti lucido, spesso onirico e delirante, il mistero di Summer, mai più ritrovata, né viva né morta. Tra pesci e uccelli, alghe e onde, il quarantenne Wassner, in cura da uno psichiatra, risale in modo schizofrenico alla verità. Ricordi che qua e là formano il quadretto di una famiglia immersa nei segreti e nell’ipocrisia del perbenismo elvetico. Laddove i genitori sono alle prese con la tremenda adolescenza dei figli. Summer, un tempo tenero e dolce batuffolo biondo, diventa nei racconti degli amici e dei conoscenti una sorta di Laura Palmer modello Twin Peaks, spregiudicata con gli uomini. E Benjamin, in questo quadretto, è il brutto anatroccolo con problemi insormontabili di autostima. Summer è il nuovo thriller di Monica Sabolo, giornalista francese.

 

 

Macellai si nasce (e lo si rivendica)

Il male non esiste in natura. È il regalo dell’uomo alla Storia. L’unico animale che sceglie di uccidere. Consapevolmente. Persino senza una ragione. Sgorga dentro di noi. Ci inonda, ci travolge, ci devasta. Ma, soprattutto, ci rende devastatori. Accade a Otto, pargolo di una devota famiglia protestante della Germania di fine Ottocento. Nome palindromo, che simboleggia perfettamente la raggelante doppiezza del protagonista. Meno di cento pagine gelide e feroci, che sconvolgono per il contrasto dilaniante tra candore e brutalità, apatia e inumanità, lucidità e incoscienza. Una prima prova narrativa agghiacciante, che qualifica Márai grande sin dal suo esordio.

Prima vittima di Otto – nato di sei chili e con i denti – sua madre, che muore nel darlo alla luce. Segno ignorato da tutti. Del resto, una nascita è sempre motivo di gioia. E poi i semi del male appaiono in tutto e per tutto identici a quelli del bene: impossibile distinguerli. La goccia che diventerà onda di piena zampilla intorno ai dieci anni, durante una gita in campagna. La scure di un macellaio balena nell’aria, una mucca stramazza a terra e Otto prova una “gioia trionfale”. Quell’estate, proporrà ai suoi amichetti di giocare ad ammazzare il bue. Lui sarà il macellaio; una “gracile e rachitica bambina di nove anni”, il bue. È quasi tragedia. Otto la colpisce con tale violenza che la piccola piomba al suolo priva di sensi. Bisognava abbatterla – spiegherà il ‘macellaio’ – era così malandata. Otto cresce mite, svogliato, apatico. Incapace di portare a termine il benché minimo lavoro costruttivo. Potrebbe diventare un ottimo soldato, pensa il padre. La leva lo conferma. Ma lui insiste: macellaio. Padre e figlio, allora, partono per Berlino, dove rischiano di essere facili prede dei demoni di un sottosuolo dostoevskiano. Solo la visione del ritratto dell’Imperatore li salverà. Incontreranno il macellaio che diventerà il maestro di Otto, il quale si rivelerà un lavoratore preciso, affidabile, onesto, paziente. La Prima guerra mondiale stravolgerà tutto. Otto, però, non ha paura. La guerra se la sente dentro. Una livellatrice di destini: “Manifestazione di assoluta e pacificante democrazia”. È l’occasione “esaltante, solenne, sublime” di “elevarsi al di sopra di un grigio anonimato”. La morte? Sarebbe “il momento più fulgido della sua vita”. E, quando nell’assalto decisivo alla trincea nemica, la paura lo fa vacillare, guarda “con infinita dolcezza la baionetta” – un coltello da taglio come quello con cui squarcia il ventre alle bestie – e pensa: “Io sono un macellaio”. In quell’istante la sua vita acquista, finalmente, senso. Di orrore in orrore, si guadagnerà due croci di ferro. La prima gli verrà appuntata al petto da un omino basso, il cui volto ricorda a malapena il ritratto salvifico di Berlino. Ma la guerra finisce. Purtroppo. E, così come aveva trovato un senso, la vita di Otto lo perde. I demoni si avventano su di lui e il macellaio torna a macellare. Donne, però, non bestie. Sette delitti atroci. Al processo, si dichiarerà responsabile. Ma quando il procuratore gli chiederà se si sente colpevole, risponderà sorpreso: ‘No’. Imperdibile.

Agnelli travestiti da comédiens

Tramontata è la luna nera, smessi i panni saturnini, eclissato l’astro melanconico, non l’estro: Manuel Agnelli riparte da comédien, legge Flaiano – Flaiano! – e Manganelli, imita una fan-stalker veneta, si fa beffe del maledettismo ché tanto non va più di moda.

An Evening with Manuel Agnelli – questo il titolo dello spettacolo-reading-concerto – suona come “un pomeriggio con la zia per il tè”, ma che zia, e che tè: partito da Assisi, il tour, sempre sold out, si chiuderà a fine mese con ospiti ogni sera diversi. Chi non cambia è il compagno di palco, il belloccio e virtuoso Rodrigo D’Erasmo, violinista, ma anche sapiente spalla nei siparietti comici. Al contrario, nella prima data milanese, il terzo invitato non è stato all’altezza della performance: un Ghemon fiacco quando canta e scontato quando legge Pasolini. Colpa sicuramente del pigiama che indossava.

La scaletta varia di piazza in piazza, alternando brani di repertorio degli Afterhours, da Padania a Quello che non c’è, letture e cover strumentali (Nick Drake, Nirvana, Joy Division…): in palco, oltre ai cantattori, sei chitarre, tre tastiere, due violini; in pratica, un “negozio” di strumenti musicali, che arreda bene. Male, invece, il pubblico, ingessato e forse sopraffatto dall’ironia di Agnelli. Peccato, perché, di questi tempi, ridere non è mai stato così rock’n’roll.

Gli 80 anni fantascientifici di Francis Ford Coppola

Francis Ford Coppola festeggerà gli 80 anni compiuti lo scorso 7 aprile tornando sul set in estate per dirigere Megalopolis, l’ambizioso progetto di un’epopea fantascientifica ambientata a New York in cui racconterà la storia di un architetto (Jude Law) e dei suoi tentativi di ricostruire una versione utopica della città dopo una megacatastrofe.

Il 13 maggio Ferzan Ozpetek comincerà a girare tra Roma e Palermo La Dea Fortuna, un nuovo film interpretato da Stefano Accorsi, Edoardo Leo, Jasmine Trinca e Serra Yilmaz e da lui scritto con Gianni Romoli, anche coproduttore con Tilde Corsi per R&C Produzioni con Warner Bros. Entertainment Italia e Faros Film.

Alberto Sironi dirigerà da maggio a luglio tra Ragusa, Modica e Scicli tre nuove avventure de Il commissario Montalbano tratte dalle pagine di Andrea Camilleri e realizzate da Palomar e Raifiction. Il primo capitolo, La rete di protezione, vedrà il poliziotto reso celebre da Luca Zingaretti alle prese con il mondo per lui sconosciuto dei social network; il secondo, Il metodo Catalanotti, prenderà il via dal vicecommissario Mimì Augello (Cesare Bocci) che dopo una fuga da un’ennesima amante si imbatterà nel cadavere di una vicina di casa; il terzo, Salvo amato Livia mia, sarà infine un mix di racconti incentrati sulla relazione tra Montalbano e la sua eterna fidanzata Livia.

Charlotte Gainsbourg ha recitato per la quinta volta per suo marito Yvan Attal in Mon chien stupide, adattamento dell’omonimo romanzo di John Fante in cui uno scrittore in declino dopo un grande successo di 25 anni prima (lo stesso Attal) continua a ritenere moglie e figli responsabili del suo fallimento. Tutto cambierà quando un giorno un enorme cane irromperà in casa sua sconvolgendogli la monotona esistenza.

Romeo e Giulietta non abitano a Gerusalemme

Non drammatizziamo… è solo questione di corna. Potremmo agevolmente convenire, ma non è un film di François Truffaut (Domicile conjugal in originale, 1970), bensì di Muayad Alayan, e sopra tutto non è Parigi, ma Gerusalemme, e lì le corna non sono semplicemente corna, anzi, non sono corna.

Opera seconda del regista palestinese di Amore, furti e altri guai (2015), ancora scritta dal fratello Rami e prodotta da entrambi, il pluripremiato Sarah & Saleem – Là dove nulla è possibile (The Reports on Sarah and Saleem) mette la camera nel buco della serratura, però lo scandalo non è della carne, ma dell’intelligence, israeliana e palestinese: che Sarah (Sivane Kretchner), gestrice di un bar a Gerusalemme Ovest, e Saleem (Adeeb Safadi), fattorino di Gerusalemme Est, facciano sesso e solo quello, non è possibile, di certo non è credibile. Eppure, così è: la relazione clandestina non ha altra ragion d’essere che la copula, frettolosamente consumata nel furgoncino delle consegne, e la correlata evasione da due matrimoni, lei con il colonnello David (Ishai Golan), lui con Bisan (Maisa Abd Elhadi) e un cognato ingombrante, differentemente difficili.

Fosse solo questione di corna, il film avrebbe ben presto poco da dire; l’amore è relegato nel fuoricampo, i quattro personaggi non sono particolarmente interessanti né brillano per empatia, eppure questi apparenti difetti rivelano una scomoda verità, meglio, la triste realtà: Romeo e Giulietta non abitano qui, la commedia romantica non è pertinente, né il thriller politico potrà sbrogliare la matassa. Sarebbe piaciuto a Sydney Pollack, probabilmente, ma prenderlo a modello sarebbe fuorviante: qui non ci sono le geometrie variabili del cinema, bensì le barriere architettoniche, insieme fisiche e mentali, tra Gerusalemme Ovest ed Est, ovvero tra israeliani e palestinesi. E i fratelli Alayan inquadrano quel che ne consegue socialmente e psicologicamente, rispondendo implicitamente alla domanda “quanta pressione un essere umano può sopportare prima di sacrificare il proprio codice morale?”.

Le donne ne escono meglio, ugualmente i palestinesi, ma sono pallide sfumature, tenui distinguo: non vi è partito preso, non vi è un punto di vista, incarnato da uno dei quattro protagonisti, privilegiato, bensì un mosaico di intenzioni e posizioni, afflati e abiure che altro non è che il precipitato “di uno squilibrio di potere e un’oppressione”. Volente o nolente, la coscienza individuale non è competente in materia di tradimenti, la ragion di Stato è invasiva e pervasiva, fino a trasformare delle iterate scappatelle in appunto, affare di Stato: Alayan non ci strizza l’occhio, non pietisce condivisione ideologica né adesione politica, si limita a filmare quella “Gerusalemme che è la più grande illusione di una città aperta”. Gli orgasmi non durano, il climax non viene, l’anticlimax è la realtà: si può sopravvivere, ma salvarsi?

 

Burgess, vendetta all’Arancia (filosofica)

Un’altra spremuta di ultraviolenza? Per ora c’è solo la notizia del rinvenimento di un seguito di Arancia meccanica (A Clockwork Orange) nell’archivio dello scrittore inglese Anthony Burgess. Ad annunciarlo la Fondazione che prende il suo nome, il manoscritto venne scoperto tra le carte della casa di Burgess sul lago di Bracciano, quindi alla morte del romanziere nel 1993 fu trasferito a Manchester, sede della fondazione, con tutto l’archivio: recentemente è saltato fuori, è stato catalogato e si avvia a una prossima pubblicazione. La fama di Arancia meccanica, edito nel 1962, non è solo letteraria, ma sopra tutto cinematografica: Stanley Kubrick nel 1971 ne trasse il cult omonimo, veicolo e spia insieme della violenza metropolitana perpetrata da Alex (Malcom McDowell) e i Drughi.

Dopo stupri, pestaggi e sadismo vario ed eventuale, il giovane subirà la rieducazione coatta da parte dello Stato, con tanto di Cura Ludovico nata nella distopia più crudele per la “redenzione” dei delinquenti abituali ed entrata di diritto nell’immaginario collettivo: violenza chiama violenza, la pena viene somministrata per via oculare, e ogni riferimento al seriale binge-watching attuale è puramente sorprendente.

Le conseguenze dell’uscita del film nel Regno Unito – negli Usa viceversa fu un successo anche commerciale, e si guadagnò la nomination quale miglior film agli Oscar nel 1972 – furono imponderabili, gli episodi di emulazione delle infami gesta dei Drughi non si contarono, e alcuni consigli comunali inglesi lo misero al bando. Non andò meglio al suo autore: Kubrick e famiglia vennero addirittura minacciati di morte, e il regista infine ottenne dalla Warner Bros il ritiro del film dalle sale inglesi, dove venne distribuito solo dopo la sua morte nel 1999.

Nel resto del mondo la misura prevalente per far fronte alla carica virale dell’adattamento è stato il divieto ai minori: in Italia è stato abbassato a 14 anni solo nel 1998, per dire della tenuta dello scandalo. Che conosce oggi un’inedita tappa con A Clockwork Condition, un testo di circa duecento pagine che s’interrompe all’improvviso, tanto da palesarsi incompleto, e raccoglie pensieri dello stesso Burgess sulla condizione umana. In “parte riflessione filosofica e in parte autobiografia” dell’autore, promette il direttore dell’International Anthony Burgess Foundation, Andrew Biswell, “getterebbe nuova luce su Burgess, Kubrick e le controversie sul celebre libro”, risolvendosi tra fogli dattiloscritti, note e schemi in un compendio “sul crimine, la punizione e i possibili effetti corruttivi della cultura visuale”, in particolare film e televisione.

Aggiornando la lezione, solo apparentemente immorale, di Arancia meccanica, che mai domo né soddisfatto continuò a revisionare fino alla morte, con The Clockwork Condition, scritto tra il 1972 e il 1973 e citato unicamente in un’intervista di due anni più tardi, Burgess prende consapevolezza dei propri limiti – “Il saggio era oltre le proprie capacità, giacché era un romanziere e non un filosofo” – e decide di mollare il colpo, ma non prima di averne inflitti di devastanti agli anni Settanta, descritti quali “un inferno meccanico”, con gli esseri umani ridotti a meri ingranaggi, “non più naturalmente sviluppati, non più organicamente umani”.

Intenzionalmente suddiviso in sezioni di chiara derivazione dantesca, ovvero Infernal Man, l’uomo intrappolato in un mondo di macchine, e Purgatorial Man, quello che tenta la fuga, il lavoro rivela anche l’origine del titolo A Clockwork Orange, che Burgess cercò disperatamente di applicare a qualcosa per un ventennio e infine affibbiò a un’opera “sul lavaggio del cervello”.

“Sentii quell’espressione in un pub londinese, per bocca di un ottantenne Cockney che parlava di qualcuno ‘matto’ (queer in originale, ndr) come un’arancia meccanica”, e rimase avvinto dalla miscela di surreale e popolare, facendone quindi uno dei titoli più icastici e fortunati della letteratura mondiale. Mentre oggi al Design Museum di Londra inaugura un’imponente mostra di Kubrick, che include materiale di Arancia Meccanica, la comparsa del seguito di Burgess rinverdisce la loro dialettica: Stanley prese il libro e ne dispose a propria immagine e somiglianza, Anthony non gradì, del resto, esistono due arance uguali?

“Notre-Dame, rivedere i parametri di sicurezza”

“Notre-Dame sarà ricostruita identica a prima, in modo fedele, o più fedele possibile, all’originale. La Francia ci ha dato tutte le garanzie che la ricostruzione sarà fatta nel rispetto della regolamentazione del patrimonio mondiale”.

Ernesto Ottone Ramirez è vice direttore alla Cultura dell’Unesco. Al Fatto ricorda che lo scorso maggio, i rappresentanti di 30 paesi hanno firmato le dichiarazioni di Varsavia, che aggiornano la Carta di Venezia del 1964, e riaffermano i principi di “autenticità e integrità” nel restauro dei siti.

Secondo lei ci sono state disfunzioni nel cantiere di restauro?

L’inchiesta lo dirà. Ma è certo che è necessario rivedere gli standard di sicurezza dei cantieri e i protocolli di prevenzione perché non si ripetano tali disastri. Troppi incidenti si verificano nella fase di ristrutturazione dei monumenti. È stato così anche al museo di Rio, lo scorso settembre.

Sarà possibile ricostruirla identica?

Il governo ci ha assicurato che la Francia possiede le competenze. Restano da valutare due punti: la disponibilità degli stessi materiali e di un numero sufficiente di artigiani specializzati. É triste ma il disastro di Notre-Dame può rappresentare un’opportunità per fare il punto sulle lacune in Francia e in Europa in materia di mestieri d’arte.

C’è già un miliardo di doni. Che budget sarà necessario alla ricostruzione?

Per stabilire il budget bisogna avere in mano tutte le informazioni sulla specificità dell’intervento. Dobbiamo aspettare. Ma spero che si apprenda una lezione: che il budget effettivo dei lavori ci dia la misura di quanto gli Stati devono investire per la conservazione del loro patrimonio storico.

Cinque anni le sembra un tempo ragionevole?

Non saprei, mi sembra difficile. Ma lo Stato si è posto un obiettivo e spero che possa raggiungerlo. Nella comunità francese e internazionale c’è una grande attesa.

L’Unesco potrebbe accettare un intervento moderno sulla guglia?

Il parere dell’Unesco non è coercitivo. Il nostro ruolo è di accompagnare gli Stati membri nella salvaguardia e nella riabilitazione del patrimonio nel rispetto del suo valore universale. Vorrei precisare che l’Unesco accorda lo stesso valore a tutti e 1.092 siti della lista e che accompagna in questo momento 33 cantieri in tutto il mondo. Nel caso specifico, l’iscrizione alla lista del 1991 non riguarda solo la cattedrale ma le rive della Senna, l’Ile de la Cité e l’Ile Saint Louis. Ogni intervento sui siti è dibattuto dal Comitato del patrimonio mondiale, che valuta se le procedure di iscrizione sono rispettate o se un sito rischia di perdere il suo valore universale, e quindi di essere ritirato dalla lista.

Macron ai Gilet gialli: “Taglio di tasse sui redditi, ma dovrete lavorare di più”

Un discorso per rifare pace con la Francia delle proteste, quella che indossa il gilet giallo e fa fatica a sbarcare il lunario, dopo cinque mesi di crisi sociale. Questo ci si aspettava dalla conferenza stampa che Emmanuel Macron ha tenuto ieri, un faccia a faccia nella Salle des Fêtes dell’Eliseo, appena rimessa a nuovo, con 320 giornalisti. Un discorso tv per rispondere alle istanze dei Gilet gialli e fare il bilancio del grande dibattito nazionale era atteso lunedì scorso. Poi l’incendio della cattedrale Notre-Dame ha messo a soqquadro i programmi. Nei giorni scorsi alcune proposte erano già circolate sulla stampa. Macron ha avuto 10 giorni per sondare le reazioni, correggere i punti più critici. “Mi sono chiesto: abbiamo sbagliato strada in questi due anni? Non credo – comincia Macron – la trasformazione che è in corso non va fermata”. Ma un “nuovo atto della République” sta iniziando e l’obiettivo è “rimettere il fattore umano e la giustizia al centro”. Macron elenca i suoi orientamenti futuri.

La riforma della democrazia, con l’introduzione della proporzionale in Parlamento e la limitazione del numero dei mandati; dice no al riconoscimento del voto bianco e al Referendum di iniziativa civica, una delle principali rivendicazioni dei gilet gialli. La decentralizzazione, con un nuovo “patto territoriale” per “riconciliare le città e le zone rurale”, riportando i servizi pubblici, le scuole, gli ospedali, nelle zone più isolate. La fiscalità, con la riduzione delle tasse “sul lavoro” e la creazione di nuove fasce di reddito per alleggerire le classi medie, chiedendo però ai cittadini di lavorare di più. Macron non torna sulla soppressione della tassa sul patrimonio per i più ricchi, la sua misura più contestata. Il lavoro, quindi, con la “fine alle ingiustizie nell’accesso al lavoro” e la promessa del “pieno impiego” entro il 2025. Ma anche la riforma della pensione “a punti” e del sistema delle sovvenzioni di disoccupazione. Macron conta su sondaggi più clementi. La sua popolarità risale, è al 32%, secondo Odoxa, contro il 27% di dicembre. Ma che le sue risposte bastino non è certo. L’atto 24 dei Gilet gialli è domani.

Disarmo, Putin fa l’arbitro: “A Kim servono garanzie”

Il primo faccia a faccia tra il dittatore “comunista” nordcoreano Kim Jong-un e il presidente russo Vladimir Putin a Vladivostok è stato più un successo mediatico che reale. “Putin non ha molto da offrire alla Corea del Nord”, avevano spiegato molti osservatori internazionali alla vigilia dell’incontro. Ma il lungo colloquio in terra russa è comunque servito a entrambi per dimostrare agli Stati Uniti che non sono gli unici – dopo la Cina – a decidere la sorte della penisola nordcoreana.

Dopo il capitolo ucraino e siriano, Putin ne ha aperto – anzi riaperto – un altro, allo scopo di continuare la corsa per riposizionare la Russia tra i principali attori geopolitici e ridarle lo status di grande potenza planetaria. Ma sotto il profilo economico – quello che conta – Mosca, per l’appunto, ha poco da offrire a Pyongyang.

La Federazione russa è ancora sotto scacco a causa delle sanzioni internazionali per l’annessione unilaterale della Crimea mentre la dittatura al confine (con la Russia) non sconta solo l’isolamento economico, rotto parzialmente dagli aiuti illegali della Cina, ma anche il recente fallimento della seconda riunione ad Hanoi tra Kim e il presidente Usa, Donald Trump, causato dalle enormi divergenze su tempi e modi dello smantellamento degli impianti nucleari nordcoreani.

Dopo aver esordito con un plauso agli “sforzi di Kim Jong-un per cercare di migliorare i rapporti con gli Stati Uniti”, evidente frecciata nei confronti dall’amato-odiato The Donald, il presidente russo ha proposto di riavviare il “tavolo a 6” sul nucleare nordcoreano, in stallo da fine 2008, che coinvolge le due Coree, Usa, Russia, Cina e Giappone. “Se Corea del Sud e Usa possono offrire misure sufficienti per garantire la sicurezza del Nord, il tavolo a 6 potrebbe non essere attivato. Ma le garanzie offerte finora non sembrano essere sufficienti – ha detto Putin dopo il summit –. Credo necessario quindi un approccio multilaterale sulla sicurezza per la Corea del Nord”. Si tratta di una posizione vicina a quella espressa dalla Cina – l’unica potenza in grado di farsi rispettare dal piccolo ma assai scaltro dittatore – a cui Putin fa molta attenzione a non pestare i piedi.

Putin ha illustrato in modo articolato le tappe per un approccio multilaterale facendo leva sul fatto che le armi nucleari possedute da Kim rappresentano una minaccia anche per la Russia, data la contiguità geografica e pertanto il Cremlino ha necessità di maggiori e più ampie garanzie. Le intese tra due Paesi “saranno difficilmente sufficienti, ma in fin dei conti tocca alla Corea del Nord decidere perché è il Paese al quale la sicurezza preoccupa di più”, ha furbescamente sottolineato Putin, non solo per blandire l’ospite.

La denuclearizzazione della Corea del Nord equivale infatti al suo disarmo totale perciò Pyongyang ha bisogno di garanzie internazionali sulla sua sovranità e sicurezza. E Putin lo sa bene, così come lo sanno tutti, in primis Kim, che ha definito “molto fruttuoso” l’incontro. Al termine, il dittatore ha regalato a Putin una spada coreana dicendo: “Questa spada simbolizza la forza, simbolizza l’anima mia e del nostro popolo che sostiene lei”.

Il senso di Biden per le elezioni

Donald Trump dà il suo benvenuto nella corsa alla Casa Bianca a ‘Sleepy Joe’, cioè a Joe Biden ‘il sonnolento’, ma anche – è quasi sottinteso, nel velenoso tweet – ‘che fa addormentare’. Trump ha ragione di essere contento che l’ex vicepresidente di Barack Obama per due mandati, ed ex senatore del Maryland per 36 anni, eletto la prima volta nel 1972 e rieletto a cinque riprese, abbia finalmente sciolto le riserve e annunciato d’essere in lizza. Il magnate lo considera un avversario facile o, almeno, abbordabile, se dovesse ottenere la nomination democratica. Scrive Trump: “Spero che tu abbia l’intelligenza, a lungo in dubbio, d’intraprendere una campagna di successo nelle primarie. Dovrai affrontare persone che hanno davvero idee molto malate e demenziali. Se ce la farai, ci vedremo ai nastri di partenza!”, cioè all’inizio della campagna elettorale per Usa 2020, che partirà dopo le convention estive dei due maggiori partiti e andrà fino all’Election Day del 3 novembre.

I primi sondaggi mostrano che, sonnolento o no, Biden è in fuga nella pletora di aspiranti alla nomination democratica ed è pure davanti a Trump in un testa a testa presidenziale.

Secondo l’ultimo rilevamento di Politico – Morning Consult, l’ex vice di Obama è 8 punti avanti il magnate, con il 42% delle preferenze contro il 34%. E secondo la media dei sondaggi del sito specializzato RealClearPolitics, Biden ha 6,3 punti di vantaggio su Bernie Sanders, finora il democratico più quotato. Ma sono dati ‘drogati’ da due fattori: l’eco dell’annuncio nei media americani e la riconoscibilità sia di Biden che di Sanders a livello nazionale, che nessun altro aspirante alla nomination in lizza finora ha. Biden è al terzo tentativo: provò a ottenere la nomination nel 1988 e poi di nuovo nel 2008, ma entrambe le volte non andò lontano. Nel 2004, rifiutò la designazione a vice di John Kerry. Nel 2016, fu a lungo il convitato di pietra del match tra Hillary Clinton e Bernie Sanders, ma alla fine rimase a guardare (appoggiando Hillary). Biden, 77 anni, e Sanders, 78 anni, sono i più anziani, e i più ‘consumati’, del lotto democratico: non per niente, Trump non sarebbe scontento di avere uno dei due come avversario. Entrambi sarebbero il più anziano presidente mai eletto alla Casa Bianca, battendo Ronald Reagan che aveva 73 anni nel 1984, quando ottenne il secondo mandato; Trump non è un giovanotto: avrà 74 anni, nel 2020.

Nel video in cui annuncia di scendere in lizza, Biden non spreca tempo a presentarsi – gli americani lo conoscono – e non usa effetti speciali: esalta i valori dell’America, con fotogrammi dello sbarco in Normandia e di Martin Luther King, e denuncia il rischio che Trump rappresenta per essi, mentre scorrono immagini dei cortei di suprematisti bianchi a Charlottesville nell’agosto 2017, che sfociarono in scontri letali. L’ex vice di Obama dice: “È una battaglia per l’anima di questo Paese… I valori fondamentali di questa nazione, il nostro posto nel mondo, la nostra stessa democrazia, tutto ciò che fa l’America è in gioco”.

Moderato, ma profondamente democratico; poco carismatico, ma molto esperto; non un leader, ma una persona affidabile, Biden è il ventesimo candidato alla nomination democratica: oltre a lui e Sanders, ci sono, in ordine alfabetico, Cory Booker, Pete Buttigieg, Julian Castro, John Delaney, Tulsi Gabbard, Kirsten Gillebrand, Kamara Harris, John Hickenlooper, Jay Inslee, Amy Klobuchar, Wayne Messam, Seth Multon, Beto O’Rourke, Tim Ryan, Eric Swalwell, Elizabeth Warren, Marianne Williamson, Andrew Young. E l’elenco potrebbe ancora allungarsi, perché c’è gente che ancora ci pensa. Fra i repubblicani, Trump ha per ora un solo avversario: William Weld, un libertario che non lo preoccupa.

Se non avete mai sentito nominare buona parte dei candidati democratici, non fatevi crucci: neppure gli americani li conoscono. Tant’è vero che pochi, finora, superano i criteri – un mix tra sondaggi e fondi – fissati dal Partito democratico per avere accesso ai dibattiti d’autunno prima delle primarie: di sicuro, ce la fanno Warren, che completa il terzetto degli ‘stagionati’, l’ex deputato O’Rourke, tre fra senatori e senatrici – Booker, la Harris, la Klobuchar -, l’ex governatore del Colorado Hickenlooper e l’outsider Buttigieg, sindaco gay di South Bend nell’Indiana, fenomeno mediatico di questa fase della campagna. Frank Bruni scrive, sul New York Times, che non sarebbe sorpreso di vederlo “nei final four”, negli ultimi quattro, la prossima primavera.