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La libertà va conquistata, e soprattutto protetta

Scriveva Fichte che “essere liberi è niente, diventarlo è cosa celeste”. È quanto probabilmente pensavano con le loro menti e ancora prima sentivano nei loro cuori coloro che nel buio ventennio del fascismo non smarrirono la coscienza della libertà e della giustizia e in esse coltivarono “il fiore del partigiano”; coloro che hanno prima testimoniato che l’italiano non poteva mai essere risolto e identificato con il fascista e poi hanno costruito la nostra democrazia. Bella ma, a leggere la storia italiana dal 1978 in poi, anche fragile; dal 1978 in poi sempre più fragile. Scarnificata innanzitutto di ogni ideale.

O meglio, sconsacrata, con la crisi degli anni Ottanta e l’avvento dell’edonismo berlusconiano, all’idea che la persona non fosse altro che un salvadanaio; all’idea che più fosse il denaro che in essa risuonasse, cadendo magari da una mano sempre meno pulita, e più essa valesse. E, ancora peggio, più essa potesse essere felice.

È questo il male che si è diffuso sempre di più nel cuore e nelle menti incoscienti di molti italiani. E che, ahinoi, un’intera società sta trasmettendo in maniera sempre più totalizzante e totalitaria ai suoi giovani. Fino allo stadio terminale del pensiero che l’essere liberi possa risolversi nell’essere ricchi. Così in questa privatizzazione continua delle nostre esistenze, nella loro sempre più psicotica monadizzazione, è chiaro che si smarrisca la consapevolezza di ciò che è pubblico; della res publica che hanno costruito col sacrificio quelli che ormai sono i nostri antenati. La res publica della libertà e dello stare insieme; anzi, nello stare insieme. È questo oggi il fiore della libertà di cui dovremmo almeno avere coscienza.

Giuseppe Cappello

 

Le liti nel governo costano care a tutti i cittadini

Che lo spettacolo offerto dalle liti nel governo non sia stato mai trasmesso dai media così continuamente e analiticamente è pacifico; che il governo gialloverde dia un’immagine misera di se stesso è altrettanto pacifico; che, però, sia altresì insopportabile il blaterare ripetitivo delle opposizioni con Berlusconi, Tajani & affini dalla parte di Forza Italia, e con Zingaretti ed ex renziani, come Gentiloni, Marcucci & affini dalla parte del Partito democratico è altrettanto miserevole.

Ciò perché si vuole mandare a casa il governo Conte, ma non si dice quale sia l’alternativa della coalizione che possa sostituirlo, anche perché non esiste in atto una maggioranza antagonista.

A meno che non si dice, ma si pensa che, non potendosi andare al voto per le elezioni politiche prima delle Europee, la crisi potrebbe essere risolta da Mattarella con la nomina di premier pro tempore come un Cottarelli o peggio ancora come l’esecutore più pedissequo dei diktat europei, cioè Mario Monti.

Luigi Ferlazzo Natoli

 

DIRITTO DI REPLICA

Caro direttore, apprezzo l’auto-ironia di una rubrica (“Vero o falso”, 25 aprile) che avendo come icona un Pinocchietto non si prende troppo sul serio. Però, senza esagerare. Nel contestare le “falsità” a proposito dei “debiti della Raggi”, Pinocchietto non può fare a meno di dire la sua bugia: “La gestione commissariale cerca di saldare debiti creati fino al 2008 (…) quindi sono debiti targati Rutelli-Veltroni-Alemanno”. Ma, come ho già chiarito rispondendo a una falsità pubblicata dal viceministro Castelli (su Repubblica; il testo della mia replica è sulla mia pagina Facebook) l’ormai famoso debito di 12 miliardi – di cui si parla dovunque – non si riferisce alla mia amministrazione. Non solo, infatti, i nostri bilanci (fine 1993-inizio 2001) erano in pareggio: i mutui contratti per investimenti e per le aziende di trasporto – in nessun caso derivati, o swap – sono stati assorbiti!

Magari, una volta o l’altra, visto che sono passati molti anni, potreste anche ristabilire la verità su esperienze di buongoverno (non solo la nostra; anche quella Veltroni) che potrebbero stimolare qualche buon consiglio ai governanti di oggi. In quei sette anni (mi limito ai miei, fine 1993-inizio 2001, per ragioni di spazio), la Capitale ha registrato 150.000 occupati in più; un saldo di 56.000 imprese in più; un’autonomia finanziaria record (superiore al 70 per cento); una crescita media annua del Pil vicina al 2 per cento; una solida crescita dei valori immobiliari. Abbiamo realizzato circa 800 cantieri per il Giubileo del 2000, senza una vittima sul lavoro, senza un avviso di garanzia, e con i lavori completati nei tempi previsti, per opere pubbliche universalmente ritenute utili, e tuttora ben visibili. Senza bisogno di Mastro Geppetto.

Francesco Rutelli, ex sindaco di Roma (1993-2001)

 

Gentile Rutelli, noi ci siamo limitati a ricordare che la gestione commissariale del debito di Roma riguarda i debiti fino al 2008. Che, per definizione, sono responsabilità di chi ha governato prima del 2008. Secondo i calcoli del Sole 24 Ore, al termine del suo mandato da sindaco, lei ha lasciato Roma nel 2001 con 2,3 miliardi di debito in più; il suo successore Walter Veltroni ne ha aggiunti altri 1,5. Lei avrà pure argomenti per sostenere di avere ben amministrato: di certo tutta la storia del debito di Roma, passata e presente, è opaca e sfuggente, come dimostra il fatto che tuttora non è nota l’entità complessiva delle passività da rimborsare.

Ste. Fel.

Resistenza. Chi ha tradito i partigiani che hanno liberato l’Italia?

 

Io credo nella Resistenza. Sono orgoglioso di ogni azione compiuta durante la guerra da tutti i partigiani apolitici che hanno combattuto contro il male fascista e nazista. Comunisti, azionisti, socialisti, democristiani, semplici servitori dello Stato liberale e di diritto, tutti uniti sotto un’unica bandiera. Io credo in tutto questo. Ma chi ha tradito questa Resistenza? I democristiani soffocati dalla loro stessa brama di potere, così intensa da non vedere il maleodorante liquame all’interno dei loro stessi bastioni. I socialisti ubriacati dall’asfissiante mancanza di etica, se non addirittura di decenza, fino a quando la loro stessa avidità non li ha distrutti per mezzo della corruzione. I comunisti accecati dalla loro stessa incapacità di vedere come il mondo fosse cambiato, andato avanti, e loro fossero ormai un attrezzo superato e inutile. I liberali completamente ingurgitati dalla follia neoliberale che li ha spinti dalla parte sbagliata del mondo, un’ideologia da sempre derisa dai veri liberali, ma oggi quasi egemonica. Chi ha tradito la Resistenza, permettendo gli odierni rigurgiti di fascismo e razzismo, se non i suoi stessi eredi?

G. C.

 

Gentile lettore, la risposta alla sua domanda è di improba difficoltà e insieme, paradossalmente, di estrema semplicità. I partigiani hanno reagito alla violenza e all’ingiustizia di una dittatura, combattendo in pochi una guerra civile poi rivendicata da tanti. Il peggior torto che si è fatto alla Resistenza (e a chi l’ha combattuta) è stato usarla per fare finta di avere vinto la guerra, di essere stati tutti antifascisti, addossando la colpa di tutto al Re e al Duce. E questa grande fake news ci ha permesso di rimuovere le responsabilità di un popolo che invece è stato a lungo, e largamente se non interamente, fascista, certamente connivente. È la ragione per cui ancora oggi possiamo sentir sciocchezze come quelle sul “Derby partigiani-nostalgici” recentemente evocato dal ministro Salvini. Non abbiamo mai fatto i conti con quanto è davvero accaduto: chi scrive non vede rigurgiti di fascismo perché non crede possa essere il contenitore di ogni nefandezza. Diciamo “fascista” come massima offesa, come insulto ultimativo: ma anche questa pigrizia conformista fa male al discorso sulla Storia e all’attuale dibattito. C’è una circostanza molto consolante però: la Resistenza ci ha dato la Costituzione, punteggiata in tutta la sua costruzione da un antifascismo di sostanza.

Silvia Truzzi

Veltroni scopre Matteotti, ma 95 anni dopo

Caro direttore, giorni fa, inopinatamente, abbiamo appreso che Walter Veltroni aveva in qualche modo scoperto Giacomo Matteotti a novantacinque anni dal tragico rapimento sul Lungotevere Arnaldo da Brescia e dalla soppressione del più coraggioso ed esposto dei deputati dell’opposizione socialista, e non solo.

Fa piacere constatare che un personaggio fondamentale del socialismo riformatore sia entrato nell’album di famiglia di un ex comunista. Che per la verità in passato si era dichiarato, se non erro, “clintoniano”, un modello piuttosto remoto sia dal Pci che dal rigore matteottiano. Ma tant’è.

Sentire che un esponente dell’ex Pci fa suo uno degli esponenti socialisti più genuini fa sempre piacere a quanti non si sono mai vergognati di dirsi “socialisti”. A tale proposito vorrei segnalare che un bravissimo studioso della nostra tradizione, il professor Stefano Caretti, docente a Siena e per anni segretario della Fondazione Turati di Firenze, figlio dell’italianista Lanfranco (mi piace aggiungere), ha curato e pubblicato in ben dodici volumi l’opera omnia di Giacomo Matteotti e al suo interno ha pubblicato nel lontano 1983 quel discorso di Matteotti oppositore che nel recentissimo libro uscito da Rizzoli con prefazione di Walter Veltroni figura come una sorta di “scoperta”. Tanto per dare a Caretti ciò che appartiene a lui e ai suoi trent’anni di studi sul socialismo e su Matteotti in particolare.

Tanto per rammentare a tutti che se i socialisti politicamente sono stati, per ora, cancellati, anche grazie ad alcuni errori imperdonabili del craxismo, la damnatio memoriae loro inflitta non ha incenerito la capacità di studiare una storia ancor oggi vitale, in Fondazioni che appunto portano gli onorati nomi di Filippo Turati (trattato come un malfattore da Togliatti all’atto della morte), di Pietro Nenni, di Bruno Buozzi, di Giacomo Brodolini, di Giacomo Matteotti, di Filippo Emanuele Modigliani, di Anna Kuliscioff, di Argentina Altobelli e altri ancora.

Greta sì, l’Eni no: gli ambientalisti a casa degli altri

In un Paese di magliari, mezzecalzette e truffatori come il nostro accade che, di tanto in tanto, spunti un eroe. Ma ovviamente i magliari, le mezzecalzette e i truffatori fanno di tutto perché nessuno se ne accorga. Altrimenti ogni cittadino potrebbe scoprire, con un semplice confronto, di quale pasta siano fatte le loro sedicenti élite. È successo anche tre giorni fa, quando in Basilicata, è stato arrestato un manager dell’Eni e altre 12 persone sono finite sotto inchiesta per il “disastro ambientale” causato da anni e anni di sversamenti di petrolio al Centro oli di Viggiano. L’esito dell’indagine è tutto da scrivere e per ciascuno degli indagati vale la presunzione di non colpevolezza. Quello che però oggi già sappiamo basta per coltivare alcune certezze: l’inquinamento c’è stato; l’azienda lo sapeva, ma decise, come ricorda il giudice, di “emarginare”, “allontanare”, “mettere in ferie” e “destinare ad altro incarico” un giovane dirigente che proponeva soluzioni per risolvere il problema.

La sua storia è quella di un vero eroe italiano, fatto fuori per aver agito “con coscienza e scrupolo”. Di un nostro concittadino dalla schiena dritta, mobbizzato per essersi comportato come deve fare ogni manager che da una parte vuole tutelare la propria azienda e il buon nome di essa e dall’altra sente la responsabilità etica del fare impresa: cioè percepisce il dovere di garantire non solo i profitti agli azionisti, ma anche il benessere della collettività. Il nostro eroe si chiama, o meglio si chiamava, Gianluca Griffa, era a capo del centro di Viggiano e se fosse ancora in vita oggi avrebbe 44 anni. Purtroppo, il 7 luglio 2013, Griffa è stato trovato morto in un bosco del Piemonte. Dicono che si sia suicidato. Prima di morire aveva però scritto un lungo memoriale, più volte citato nelle carte dell’inchiesta, in cui raccontava per filo e per segno cosa accadeva in Val d’Agri. L’incartamento è una lettura istruttiva da cui si apprende, tra l’altro, come allora nel centro venissero assunti “i giovani perché più facilmente controllabili”. È un documento importante che in qualunque Paese non caratterizzato da magliari, mezzecalzette e truffatori sarebbe occasione di discussione e dibattito. Invece tutto, o quasi, tace. Stanno zitte le forze politiche che solo il 17 aprile avevano ricevuto tra gli applausi a Roma, Greta Thunberg, la sedicenne svedese protagonista di una meritoria battaglia per l’economia sostenibile, la lotta al cambiamento climatico e la messa al bando degli idrocarburi. Non proferisce la presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati, che aveva accolto Greta a braccia aperte elogiandola “per il coraggio” con cui ha portato “i temi ambientali al centro del dibattito politico”. Non parla il neo segretario del Pd, Nicola Zingaretti, che a Greta aveva dedicato la sua vittoria alle primarie. Il Movimento 5 Stelle, che aveva difeso la sedicenne dagli attacchi scomposti della giornalista Maria Giovanna Maglie (“Se Greta non fosse malata la metterei sotto con la macchina”), si fa sentire. Ma solo a livello locale. I grandi giornali che a Greta Thunberg avevano riservato un trattamento da eroina, non riportano la notizia del disastro ambientale della Val d’Agri o se lo fanno dedicano all’inchiesta poche righe. L’eroe questa volta ce l’hanno in casa. Non in Svezia. Ma non lo vogliono vedere. Perché in un Paese di magliari, mezzecalzette e truffatori come il nostro è meglio per tutti giocare a fare gli ambientalisti col fondoschiena degli altri. Non so voi, ma lo scrivente ha voglia di vomitare.

Gheddafi, il fantasma dei nostri errori

Mentre la Libia è in pieno caos e il generale tagliagole Khalifa Haftar, armato dal generale altrettanto tagliagole e golpista, l’egiziano Al Sisi, sostenuto a sua volta dagli americani, fa il bello e cattivo tempo seminando centinaia di morti civili, vogliamo ricordare, almeno una volta, almeno di passata, la figura del colonnello Muammar Gheddafi che a sentire le cronache degli ultimi anni sembra non esser nemmeno mai esistito mentre quel Paese lo ha governato per più di quarant’anni? Muammar Gheddafi nasce nel 1942 in un villaggio poco lontano da Sirte da una modesta famiglia di fede musulmana che appartiene a una ancor più modesta tribù, Quadhadhfa. Studia nella scuola coranica di Sirte, si iscrive all’Accademia militare di Bengasi e, dopo un breve periodo di studio in Gran Bretagna, diventa capitano.

Il colpo di Stato del 1967 contro re Idris, organizzato da una dozzina di alti ufficiali, fra cui c’è Gheddafi, che si ispirano al panarabismo di Nasser, è originato dal fatto che Idris come il suo pittoresco collega Faruk, re dell’Egitto, è un fantoccio nelle mani dei francesi e degli americani. Inoltre di tutto si occupano tranne che dei popoli che dovrebbero governare. Le cronache di quei tempi ricordano Faruk perennemente a Montecarlo a giocare a poker (una volta sparò una cifra enorme, non si sa se in bluff o no, uno dei giocatori andò a vedere, Faruk sostenne che aveva in mano un poker d’assi senza far vedere le carte e al giocatore rispose arrogantemente: “Parola di Re”). Tutti costoro, Idris, qualche anno prima Faruk, più tardi lo Scià di Persia, non avevano capito che il tempo del colonialismo, almeno di quello classico, era finito.

Fra i commilitoni che organizzarono il colpo di Stato contro re Idris emerse subito la figura di Muammar Gheddafi che allora aveva 27 anni. Aveva carisma, era un gran bel ragazzo, cosa che non guasta mai, ma soprattutto era molto più colto dei suoi compagni. Aveva un’ideologia precisa anche se forse un po’ utopica: cercare fra capitalismo e comunismo una “terza via”, che non sposasse né l’uno né l’altro, insomma una via socialista che esprimerà compiutamente nel suo Libro Verde, pubblicato nel 1975, sei anni dopo la rivoluzione. Si è molto ironizzato in Occidente su questo Libro scritto personalmente da Gheddafi e non da un suo tirapiedi. Ma se ve lo procurate e lo leggete vi accorgerete che Muammar Gheddafi era tutt’altro che privo di spessore, politico e anche umano.

Gheddafi fu un sanguinario? Certamente fu un dittatore, certamente pose gravi limiti alla libertà d’espressione, certamente usò la mano pesante contro gli oppositori facendoli incarcerare e a volte, secondo una relazione di Amnesty International, torturare. Ma questo è niente rispetto a quello che hanno fatto i suoi omologhi contemporanei e i civilissimi e democraticissimi americani a Guantanamo. Forse la più grave responsabilità attribuibile a Gheddafi è l’attentato di Lockerbie dove morirono 270 persone. Gheddafi ha sempre negato la sua responsabilità diretta in quell’attentato che era una risposta al bombardamento a tappeto degli americani nel 1986 in Libia con la precisa intenzione di ucciderlo. Del resto in un paio di altre occasioni gli americani o i francesi, non si sa, tentarono di farlo fuori mentre era in volo nel Mediterraneo e in entrambi i casi fu salvato da Bettino Craxi che lo fece preavvertire dai nostri servizi di intelligence.

Nelson Mandela aspramente criticato dagli americani per una sua visita a Gheddafi dichiarò: “Coloro che ieri erano gli amici dei nostri nemici, ora hanno la sfacciataggine di propormi di non visitare il mio fratello Gheddafi, ci consigliano di mostrarci ingrati e di dimenticare i nostri amici di ieri… Ho tre amici nel mondo, e sono Yasser Arafat, Muammar Gheddafi e Fidel Castro”. Con tutto il rispetto per Amnesty io mi rifiuto di pensare che un uomo del valore e del livello etico di Nelson Mandela fosse amico fraterno di un assassino. Per anni Gheddafi si rifiutò di consegnare i due libici sospettati di essere gli autori materiali della strage di Lockerbie. Ma nel 1999 cambiò atteggiamento e mise i due a disposizione delle autorità scozzesi (uno fu condannato, l’altro assolto). Da quel momento i rapporti con la comunità internazionale e in particolare con gli Stati Uniti si normalizzarono. La Libia uscì dal novero degli “Stati canaglia” cui era aggregata insieme alla Corea del Nord e al solito Iran, di cui, per quel che mi riguarda, non ho mai capito le colpe. Inoltre nei suoi ultimi anni Gheddafi, che sostanzialmente era un laico, prese decisamente posizione contro il nascente terrorismo islamico, arrivando a porre una taglia sulla testa di Osama bin Laden. Semmai il giovane Gheddafi aveva avuto pruriti terroristici, gli erano passati. Era un rispettato membro dell’Onu. E nel 2009 fece alle Nazioni Unite un discorso, in termini assolutamente laici, che probabilmente ne decreterà la fine. Mise in discussione l’Onu, il Consiglio di Sicurezza in cui cinque Paesi hanno diritto di veto e “hanno il potere di decidere le sorti di una nazione sovrana a seconda dei loro interessi”, mise sotto accusa le multinazionali farmaceutiche che prima creano i virus e poi i medicinali per combatterlo, chiese un seggio permanente per l’Africa. Ed è solo una parte, del tutto condivisibile, di quel discorso.

Non c’era quindi alcuna legittimità internazionale per aggredire la Libia di Gheddafi nel 2011. E ancor meno c’erano ragioni sostanziali, con un Paese che intratteneva normalissimi rapporti commerciali con tutti gli altri, in particolare l’Italia e la Francia. Ma è stata proprio la Francia, con l’aiuto dei sempre presenti Usa, ad attaccare Gheddafi, e poi a linciarlo nel modo che abbiamo visto, solo per soffiarci il ruolo commerciale privilegiato che avevamo col Paese del Colonnello. Oggi in Libia l’Isis sguazza, tanto che gli scafisti, cui a questo punto, vista la situazione, dovrebbe essere dato un Nobel umanitario, devono pagare una taglia ai guerriglieri di Al Baghdadi per fare i loro sporchi traffici. E quindi quando va in fiamme Notre Dame de Paris non piango lacrime di coccodrillo. Oltretutto mi è sempre sembrata orrenda, lontana da quello slancio verso l’alto del gotico, che è uno slancio spirituale che è sempre mancato ai cartesiani francesi.

Caso Gucci, il gruppo del lusso si accorda con il fisco italiano

Un assegno da oltre un miliardo di euro, il risarcimento più alto mai versato al Fisco italiano: è quanto il gruppo Kering si appresta a pagare, secondo il Sole 24 Ore, all’Agenzia delle Entrate per la controversia fiscale nella quale la Guardia di Finanza ha contestato al gruppo francese del lusso una presunta evasione da circa 1,4 miliardi di euro con ricavi non dichiarati per 14,5 miliardi. Il gruppo Kering è un gigante internazionale del lusso, di cui il marchio Gucci genera il 63% dei ricavi e che ieri ha fatto sapere che non esiste ancora un accordo sull”ammontare specifico”. L’inchiesta penale sulla presunta evasione è stata chiusa a novembre. Nelle indagini risultano indagati per omessa dichiarazione dei redditi l’ad di Gucci, Marco Bizzarri e il suo predecessore Patrizio Di Marco. Il Nucleo di polizia economico finanziaria della Guardia di Finanza di Milano aveva contestato il mancato pagamento delle tasse in Italia tra il 2011 e il 2017 grazie a “una stabile organizzazione occulta” costituita dalla società svizzera Lgi Luxury Goods International: il gruppo Kering avrebbe evitato di pagare le tasse sul commercio in Italia di prodotti Gucci, pagando soltanto le imposte svizzere a un tasso inferiore al 9%.

L’Italia non si sta preparando ai robot

Nel 2013 uno studio di Carl Benedikt Frey e Michael Osborne dell’Università di Oxford ha indicato il numero dell’apocalisse da robot: il 47 per cento degli occupati sarà sostituito da macchine. La stima riguardava gli Stati Uniti e l’orizzonte temporale era di vent’anni. Altre analisi hanno poi ridimensionato il pericolo. Anche perché l’esito della grande trasformazione tecnologica in atto non è già scritto. Dipende da come lavoratori, imprese e governi gestiscono la fase di transizione.

L’Ocse, l’organizzazione dei Paesi industrializzati, ha pubblicato ieri un report sul futuro del lavoro con un paio di dati rilevanti per l’Italia. Si scopre così che non siamo particolarmente esposti al rischio di robotizzazione del lavoro: soltanto il 15,2 per cento dei posti di lavoro è a rischio a causa dei robot, contro una media Ocse del 14. A essere spazzati via saranno soprattutto le mansioni routinarie, quelle che richiedono poca creatività o poca interazione umana: addio operai in fabbrica, cassieri al supermercato, bancari. Il Paese meno esposto al rischio robot è la Norvegia (5,7 per cento dei posti a rischio), quello più preoccupato nell’Ocse è la Slovacchia (33,6).

Saranno però moltissimi i lavori che cambieranno, stravolti dalla tecnologia: in Italia ben il 35,5 per cento. Per questo bisogna farsi trovare pronti, sia come competenze sia come tutele per chi finisce vittima della transizione, o perdendo il lavoro o vedendo ridursi le ore e dunque il salario (come è successo in Italia con l’esplosione dei part time involontari tra 2008 e 2018). Nei Paesi Ocse soltanto il 40 per cento dei lavoratori adulti partecipa a programmi di formazione continua e di solito sono quelli più qualificati. In Italia quel dato, già basso, si dimezza: soltanto il 20 per cento degli adulti si sta formando. Colpa anche della dimensione delle imprese. Quelle italiane sono quasi sempre troppo piccole per investire su un percorso di evoluzione interna dei propri lavoratori: tra quelle che hanno più di 10 dipendenti, soltanto il 60 per cento riesce a offrire formazione continua, contro il 75 per cento della media europea dei Paesi Ocse.

Le tutele per chi resta indietro ci sono, ma valgono quasi solo per i dipendenti: un lavoratore autonomo che va in difficoltà ha solo il 10 per cento di probabilità di accedere a sostegni al reddito quando ne ha bisogno. Il reddito di cittadinanza, scrive l’Ocse, ha un importo molto elevato rispetto a strumenti analoghi in altri Paesi ma è comunque “un trasferimento di risorse importante verso le persone in condizioni di povertà”.

L’effetto dei robot sul mercato del lavoro è difficile da prevedere e da controllare. Ma possiamo farci trovare pronti. L’Italia, come sempre, è invece troppo indietro. E quindi prepariamoci a subire danni maggiori.

Da Rovazzi a Icardi: ecco i Vip che non danno mance ai rider

Ci sono i “Ferragnez”, Fabio Rovazzi e pure la coppia Wanda Nara e Mauro Icardi. Questi, più una ventina di altri calciatori, artisti e influencer, sono finiti nella lista nera stilata dai rider che consegnano il cibo a domicilio e che è in costante aggiornamento. “Sono i vip che ordinano spesso il pranzo o la cena attraverso l’app, ma non lasciano mai la mancia al fattorino, anche se questo ha pedalato sotto la pioggia”, spiega l’associazione Deliverance Milano.

La pubblicazione della black-list di vip è l’ultima iniziativa dei sindacati autonomi degli addetti alle consegne. Da tempo denunciano un sistema che si basa su pagamenti a cottimo e sull’assenza di diritti, ma di fatto ancora non è cambiato nulla. Nemmeno dopo giugno 2018, quando il ministro del Lavoro appena insediato, Luigi Di Maio, ha promesso di affrontare di petto la loro situazione. Così, hanno deciso di alzare l’asticella e di scegliere una mossa di grande impatto che stavano studiando da settimane: ieri mattina hanno pubblicato su Facebook l’elenco dei personaggi noti che in questi mesi, stando alla loro stessa esperienza, avrebbero servito senza ricevere alcuna mancia. Ci sono i rapper più famosi, come Fedez, Clementino e Rocco Hunt. Poi i calciatori che militano, o hanno militato fino a pochi mesi fa, nelle squadre milanesi. C’è l’attaccante dell’Inter Icardi con la moglie-procuratrice, Gonzalo Higuain e Leonardo Bonucci. E ancora voci radiofoniche come Albertino e volti televisivi come Teo Mammucari.

I rider si sono anche tolti un sassolino dalla scarpa, inserendo nella lista alcuni vertici delle stesse società del food delivery come Matteo Sarzana, general manager di Deliveroo Italia, Matteo Pichi, country manager di Glovo e Gianluca Cocco, ex amministratore delegato di Foodora (società che a novembre ha lasciato il nostro Paese).

“Inutile dire che questi personaggi famosi vivono in quartieri residenziali extralusso – aggiungono da Deliverance Milano – o nel centro delle città e che è significativo riscontrare come sia più facile ricevere la mancia se si consegna in zone popolari o in quartieri periferici, piuttosto che in distretti o in civici fighetti e più pettinati”.

La scelta di rendere nota la black-list ha suscitato reazioni differenti. Qualcuno l’ha condivisa, incoraggiando l’associazione dei fattorini ad andare avanti. Secondo altri, invece, dare la mancia non è un obbligo, nemmeno per il cliente benestante che non deve sostituirsi all’azienda che paga poco il suo lavoratore. Ed è questo il punto. La lotta per i diritti dei rider, infatti, a partire almeno dal 2016 ha avuto un’eco mediatica molto forte ed è difficile che qualcuno non conosca le loro condizioni. Non c’è un salario orario, la paga è di circa 4 euro a consegna (che in genere è ottenuta da una somma di voci tra cui una tariffa parametrata sui chilometri percorsi) e secondo uno studio Acli i rider – che spesso non hanno altri lavori – guadagnano poco più di 800 euro al mese. Inoltre, le app possono applicare prezzi di consegna vantaggiosi per i consumatori proprio facendo leva anche su un costo del lavoro basso. Per questo le mance – che tra l’altra se inserite all’atto dell’ordinazione sono anche tassate – spesso costituiscono un aiuto.

L’iniziativa ha poi un altro obiettivo, è una provocazione: far notare alle piattaforme del food delivery che anche i fattorini hanno carte da giocarsi per aumentare il proprio potere negoziale. Una di queste è la conoscenza delle abitudini dei loro clienti, a partire dai vip, e la possibilità di renderle pubbliche.

Deliverance Milano si augura infatti che la questione rider possa tornare nell’agenda politica. A gennaio la Corte d’Appello di Torino ha stabilito che, pur non avendo diritto a essere riconosciuti come dipendenti, ai fattorini vanno assicurate le stesse tutele del lavoro subordinato, come la retribuzione che non può essere a cottimo ma agganciata al contratto collettivo di settore.

Subito dopo, il governo aveva promesso di recepire la sentenza introducendo lo stipendio fisso all’ora con un emendamento al decretone sul reddito di cittadinanza. Poi però ha fatto marcia indietro tradendo ancora una volta i rider. Le app hanno quindi continuato ad applicare i pagamenti a consegna, in alcuni casi legandoli addirittura alle votazioni lasciate dai clienti, sperando che la Cassazione ribalti quanto deciso dai magistrati di secondo grado. Intanto, pur avendo ancora bilanci in perdita, continuano a espandersi e ad aumentare i servizi. C’è chi si sta attrezzando per il pagamento alla consegna. I rider non ci stanno: pretendono un’indennità di cassa, perché se dovessero andare in giro con tanti contanti rischierebbero di diventare prede di rapine e aggressioni.

Tesla in caduta, perde 702 milioni nel primo trimestre

Le aspettative non erano positive, tuttavia Tesla, l’azienda produttrice di auto elettriche, ha registrato dei risultati ancora più drammatici del previsto, con una perdita che supera il doppio di quella preventivata. Il primo trimestre 2019 si chiude per l’impresa di Elon Musk con una perdita netta di 702 milioni di dollari, che scende a 494 milioni se consideriamo quella adjusted, senza quindi considerare le voci di natura straordinaria. Questo si traduce in un valore delle sue singole azioni pari a 2,90 dollari. I ricavi trimestrali di Tesla invece si attestano a 4,54 miliardi, con una liquidità per 2,2 miliardi. Il trend di quest’ultima non può dirsi incoraggiante, calando del 40 per cento rispetto alla fine dell’anno scorso, ed essendo inferiore di 300 milioni alla cifra che servirà all’azienda per sostenere gli investimenti del 2019, tra cui la produzione di nuovi veicoli (incluso il crossover Model Y). Anche le vendite non lasciano ben sperare, calando del 31 per cento rispetto all’ultimo trimestre 2018. Le previsioni dell’azienda vedono il ritorno di utili solo nella seconda metà dell’anno con perdite che proseguiranno anche nel secondo trimestre.

L’harakiri di Facebook: “si multa” per 3 miliardi

“Abbiamo stimato ragionevole”: cerca di essere moderato, Facebook, quando comunica di aver deciso di accantonare 3 miliardi di dollari nel primo trimestre del 2019, in attesa di sapere se la Federal Trade Commission degli Stati Uniti gli comminerà o meno la multa per lo scandalo Cambridge Analytica. L’aver permesso che una società esterna utilizzasse per fini politici i dati degli utenti raccolti senza il loro consenso potrebbe infatti costare a Mark Zuckerberg tra i tre e i cinque miliardi di euro. E l’azienda ha preferito tenerne conto durante la comunicazione dei risultati di bilancio del primo trimestre del 2019.

Così, i risultati della prima parte dell’anno vedono un utile netto pari a 2,429 miliardi di dollari, in calo del 51% rispetto ai 4,988 miliardi dello stesso periodo dell’anno precedente. Ciò nonostante i ricavi – nella quasi totalità provenienti dalla pubblicità – hanno toccato 15,1 miliardi nel trimestre, con un aumento del 26%. Il numero di utenti attivi quotidianamente sul social network è a quota 1,56 miliardi in media a marzo 2019, con un aumento dell’8% su base annua.

Zuckerberg quindi dà i numeri e annuncia cambiamenti (mentre in Irlanda si apre l’ennesima indagine, stavolta per la conservazione non crittografata delle password di centinaia di milioni di utenti): si mostra collaborativo, ancora una volta intenzionato ad applicare la massima tutela della privacy per gli utenti, consapevole che nel breve periodo questo possa avere delle ripercussioni negative sul business ma fiducioso che sul lungo periodo possa generare un ritorno di fiducia e quindi anche dei soldi. Crittografia, maggiore protezione dei messaggi per gli utenti, minore permanenza dei post in memoria. Poi, l’appello ai governi (che rischia di apparire come uno scarica barile): identificare un regolamento sulla privacy che sia più univoco possibile, meglio se sul modello del Gdpr europeo, e affrontare in modo chiaro il problema della propaganda sui social. Chiede parametri per stabilire “cosa sia la pubblicità politica” e chi possa farla, perché “spesso le minacce di oggi, come le ingerenze straniere sui processi democratici, non sono contemplate dalle leggi attuali e sarebbe meglio che non fossero le aziende a definire queste regole da sole”. Stesso discorso per i contenuti: “Ci dovrebbe essere un’azione pubblica per definire cosa sia lecito consentire e come minimizzarne gli effetti – spiega – in maniera tale che le aziende – come la sua – possano adeguarsi”.

L’Italia, intanto, cerca di adeguarsi. Nei giorni scorsi, il Garante della Privacy ha emanato un regolamento che prevede che per l’utilizzo a fini di propaganda politica dei dati degli utenti provenienti dai social network ci sia bisogno dell’esplicito consenso dell’utente, in linea con il regolamento europeo emanato in occasione delle prossime elezioni (con il quale i partiti rischiano multe fino al 4% del loro bilancio).