Banche, è saltata la fusione fra le due tedesche malate

Solo un mese fa, Olaf Scholtz, ministro delle Finanze tedesco, l’aveva data per cosa fatta, ma la contrarietà di alcuni dei principali azionisti alla vigilia delle assemblee di bilancio ha fatto saltare il piano: Deutsche Bank e Commerzbank non si fonderanno. Ognuno dei due istituti tedeschi si terrà i propri problemi di scarsa redditività, attivi tossici e crediti in sofferenza. Nella speranza che non esplodano con il rallentamento in atto dell’economia tedesca o con un nuovo rovescio dei mercati finanziari.

In due comunicatiseparati, ieri Deutsche Bank e Commerzbank hanno reso noto che la decisione è maturata a seguito di “un’attenta analisi” dalla quale è emerso che la fusione “non sarebbe nell’interesse di azionisti della banca o altre parti interessate” e che “non avrebbe creato benefici sufficienti”. In pratica, importanti azionisti non sono stati disposti a sottoscrivere l’aumento di capitale necessario all’operazione, stimato in 10 miliardi di euro.

Della fusione si parlava da anni, con il governo tedesco indicato come grande sponsor dell’operazione. Sarebbe nato un mega gruppo da 2 mila miliardi di attivi, secondo in Europa solo a Bnp Paribas, con 845 miliardi di depositi e 141 mila addetti. Ma l’idea era soprattutto quella di mettere insieme due giganti malati nella speranza che si sorreggessero l’un l’altro.

Nel 2018 Deutsche Bank ha realizzato un utile netto, il primo dal 2014, di 341 milioni. Ma, secondo l’ultima analisi della società di consulenza tedesca Zeb, il cost income, il rapporto tra costi e margine d’intermediazione (i ricavi) è del 91%, dato che la pone all’ultimo posto nella classifica delle 50 principali banche europee per efficienza. Commerzbank non se la passa molto meglio: è al sest’ultimo posto, col 77%. Se si trattasse solo di efficienza la fusione, con due miliardi di sinergie previste in cinque anni, sarebbe forse passata, facendo digerire ai sindacati i circa 20 mila esuberi previsti. Il problema è che Deutsche Bank, lanciatasi nella speculazione, tra il 2011 e il 2018 ha accumulato 6 miliardi di perdite nette e ha aperto nel bilancio una specie di buco nero da 48 mila miliardi di euro nominali di derivati, 14 volte il Pil tedesco, (Commerzbank ne ha 10 volte meno). Titoli il cui vero prezzo di mercato è variabilissimo e incerto. Le autorità di vigilanza europee in passato si sono concentrate soprattutto sui crediti in sofferenza, ma il vento sta cambiando. L’European banking autority negli stress test dell’anno scorso ha iniziato a prestare più attenzione ai rischi di mercato, quindi ai valori dei derivati (per ora ci si affida alle certificazioni delle banche stesse); se le regole dovessero diventare più severe, Deutsche Bank sarebbe in enormi difficoltà.

La banca è inoltre coinvolta praticamente in ogni grosso scandalo bancario degli ultimi anni, dalle vendita fraudolenta di cartolarizzazioni sui mutui, alla manipolazione del tasso interbancario Libor, comportamenti che gli sono costati dal 2011 a oggi 14,5 miliardi di dollari di multe. E indagini sono ancora in corso, la principale è sul ruolo svolto dalla filiale americana nel riciclaggio da 200 miliardi fondi russi transitati nella banca danese Danske bank. Commerzbank nel 2018 ha realizzato 262 milioni di utili netti, ma nel febbraio scorso l’amministratore delegato. Martin Zielke aveva dovuto smentire tutti gli obiettivi di redditività che erano stati indicati nel piano industriale. “Ha avuto senso valutare questa opzione per il consolidamento del settore domestico – ha spiegato ieri Zielke – tuttavia, siamo sempre stati chiari: dovevamo essere convinti che qualsiasi possibile combinazione avrebbe generato rendimenti più elevati e più sostenibili per gli azionisti e ci avrebbe permesso di migliorare la nostra proposta di valore per i clienti”.

Altro che jihadisti, il rischio dei viaggi a Tunisi è l’aereo

La scelta della mia meta per una breve vacanza pasquale è andata più o meno così: apro Skyscanner, Skyscanner mi suggerisce come prima scelta i voli meno costosi per poi via via salire di prezzo. I voli meno costosi sono tutti in città post-sovietiche in cui ad aprile c’è ancora il clima della tundra siberiana o in città in cui la principale attrazione turistica è la stazione dei bus o sulla cui sicurezza il sito della Farnesina si esprime più o meno così “Se vuoi andà, cazzi tuoi”. Esaurite queste irresistibili proposte, si passa a voli per il Marocco o Londra che costano come un’andata e ritorno per Sydney nella prima classe della Royal Brunei con Gigi Hadid hostess di bordo. Sto per valutare l’ipotesi casa in Abruzzo con picnic di Pasquetta sui prati della Maiella, quando mi accorgo che in quel limbo sinistro che divide le città post-sovietiche da quelle per cui un volo costa come il divorzio di Jeff Bezos, c’è Tunisi.

Ero stata in Tunisia solo una volta 25 anni fa e avevo visto solo Djerba, che è come andare in Emilia Romagna e vedere solo Mirabilandia. Mi documento e capisco che dopo gli attentati del 2015 il turismo è ancora in fase di rilancio, per cui andare in Tunisia è un vero affare: il volo Tunisair andata e ritorno costa 200 euro. Presto capirò il perché.

Una settimana prima della partenza, Tunisair mi informa che il mio volo previsto per le 17:15 partirà con 30 minuti di ritardo. Al mio arrivo in aeroporto Tunisair mi invia un’altra email in cui mi informa che il volo partirà con altre due ore di ritardo. Alle 19:45 Tunisair diventa il fidanzato che non ha il coraggio di mollarti e ti scrive il messaggio vigliacco su Whatsapp. Nello specifico Whatsapp è il cartellone dell’aeroporto sul quale viene comunicato che il volo partirà a mezzanotte e mezzo. A quel punto, digito su Google “Tunisair”, il primo articolo che viene fuori è “Rissa tra piloti e tecnici, Tunisair lascia a terra tutti gli aerei” e devo rileggere un paio di volte per convincermi che sia vero, mentre immagino tecnici che lanciano vassoi per la colazione a base di baklava ai piloti, piloti che si fanno scudo con la rivista del duty free mentre il comandante espelle i ribelli premendo il tasto per la depressurizzazione istantanea. L’articolo è del 2017, quindi passo a documenti più recenti. Gli ultimi sono una classifica di Travel365 sulle compagnie peggiori del mondo secondo la quale Tunsair si aggiudica il primo posto battendo perfino Bulgaria Air e Thomas Cook Airlines e un articolo che parla dei ritardi dovuti alla crisi della compagnia e alle dichiarazioni dei piloti secondo i quali spesso non ci sono condizioni per volare in sicurezza. Insomma, prima di decollare mando una email a mio figlio con tutte le password del mio conto online e parto. L’aereo emette il suono delle frecce tricolori in acrobazia ma, a parte lo scirocco che in fase di atterraggio mi fa immaginare di finire in una gallery di Corriere.it dal titolo “Vento da brividi, l’aereo ondeggia sulla pista”, il volo è tranquillo.

Il nostro hotel è nella famosa Medina di Tunisi, patrimonio dell’Unesco, in cui vivono il 10 per cento dei cittadini della Capitale. La Medina di Tunisi, va detto, è una delle più belle e autentiche che abbia mai visto, di sicuro più affascinante di quella di Marrakech in cui ormai tu chiedi al venditore medio da quanti fili è composto il tappeto e il venditore medio ti chiede da quanti follower è seguito il tuo Instagram e di taggare il suo negozio con l’hashtag #AlìTappetiPerTutti.

Tunisi mescola i sapori della cucina mediterranea a quelli della cucina nordafricana per cui si mangiano ottimi cous-cous, pesce di ogni qualità e dimensioni, agnello alla menta, tajine alle verdure e così via. L’unico problema sono i dolci. La caratteristica dei dolci tipici tunisini è a seguente: ci sono almeno 15 nomi di dolci, ci sono almeno 15 forme di dolci ma hanno tutti lo stesso sapore perché gli ingredienti sono semola/datteri/miele o datteri e miele senza semola o datteri e semola senza miele. In pratica i dolci tunisini sono come la Lega. Togli “Nord”, cambi il simbolo, ma gli ingredienti sono sempre gli stessi. E non sempre facili da digerire.

A proposito di datteri, in Tunisia sono il prodotto più diffuso e ne esistono oltre cento varietà, da noi solo quelli che porta lo zio vedovo al primo giro di tombola a Natale, ma evito di condividere l’informazione con i tunisini e mi fingo sempre molto entusiasta di scoprire un dattero più dolce e meno rugoso di un altro.

Una delle cose più sorprendenti di Tunisi sono le porte decorate in stile moresco, dai colori sgargianti, tutte in legno di palma e con richiami religiosi che mi hanno subito ispirato il seguente pensiero mistico: giuro che quando torno a casa smonto la porta marroncina a soffietto Bricofer del bagno. Tunisi è piena di gatti meravigliosi che sembrano piazzati lì, a ogni angolo, dall’ente del turismo per trasformare anche il più gelido turista tedesco in un docile gattaro e pullula di negozi di profumi in cui il venditore medio, per dimostrarti che i suoi profumi sono puri e senza alcol, tira fuori l’accendino e pare voler darsi fuoco. In realtà tenta di dar fuoco al profumo, ma ogni volta che il venditore fa quel gesto adocchio il primo tappeto con cui eventualmente spegnerlo nel raggio di 30 metri.

Infine, va detto che i tunisini amano ancora scherzare con gli italiani sull’esilio di Bettino Craxi in Tunisia. Tu chiedi quanto costa un profumo e loro: “Aaahhh italiano, Craxi!” e ridono. Ed è in quel preciso momento che da Tunisi bisogna partire per la vicina escursione a El Jem, a vedere le rovine del colosseo tunisino: meglio ricordare l’eredità che ha lasciato qui la Roma di duemila anni fa, che la Roma di Tangentopoli 25 anni fa.

Dall’Italia, intanto, da chiunque apprenda che mi trovo in Tunisia, mi arriva il seguente messaggio: “Ma non hai paura degli attentati e della guerra in Libia?”. Spiego che sono sopravvissuta alla nube di Chernobyl, a Non è la Rai, a vent’anni di Berlusconi in politica, alla vittoria di Povia a Sanremo e al finto matrimonio di Pamela Prati: non ho più paura di nulla. E comunque, a parte la statistica che rende più che improbabile l’evento, tutte le città d’Europa comprese quelle italiane sono a rischio attentati, quindi un selfie davanti a una porta blu di Tunisi è probabilmente meno pericoloso di un giro al centro commerciale a Roma, Londra o Stoccolma di sabato pomeriggio per comprare la carbonella del barbecue. Non abbiamo smesso di andare a Barcellona e a Berlino, perché dovremmo smettere di andare in Tunisia? Certo, sconsiglierei un tour di tre settimane in jeep lungo i confini con la Libia, ma tra Tunisi e il confine con la Libia, per esempio, ci sono circa 500 chilometri, che è più o meno la distanza attuale tra Salvini e Di Maio. Direi che potete stare tranquilli.

Lite davanti al furgone fast-food, ucciso 28enne pregiudicato

“Mi sono difeso, non volevo ucciderlo. Mi avevano teso un agguato, avevano un coltello”. Simone Paiano, 25enne con precedenti penali, ha confessato così ai carabinieri di Maglie, in Salento, i motivi che lo hanno spinto a impugnare una pistola calibro 6,35 e a sparare alla gola di Mattia Capocelli, il pregiudicato 28enne morto la notte scorsa nell’ospedale di Scorrano. Il giovane, appena uscito dal carcere, si è costituito ed è stato quindi fermato con l’accusa di omicidio volontario e porto abusivo di arma da fuoco.

L’agguato è stato compiuto alle 1.45 davanti a un furgone fast food in via don Luigi Sturzo, a Maglie. A portare Paiano a impugnare la pistola di piccolo calibro potrebbe essere stato il tentativo di difendersi da un’aggressione, come sostiene lui, oppure un diverbio tra gruppi di pregiudicati magliesi. Su questo sono in corso indagini da parte dei carabinieri. Accertamenti partiti alle 2.20 della notte scorsa dopo che i medici dell’ospedale di Scorrano hanno segnalato al 112 il decesso di Capocelli a causa di una vasta ferita alla gola provocata da un colpo d’arma da fuoco, apparentemente sparato da distanza ravvicinata.

Omicidio dell’ex sicario, la vittima dichiarò di temere per la sua vita

Proseguono, indirizzate in primo luogo verso la sua attività di compra-oro, le indagini sull’ omicidio di Orazio Pino, l’ex pentito di mafia in passato legato al clan di Nitto Santapaola, ucciso in un parcheggio di un supermercato a Chiavari martedì sera. Gli uomini della squadra mobile di Genova hanno interrogato familiari e colleghi di lavoro di Pino. Al momento la pista più accreditata è quella legata alla sua attività più recente, mentre resta sulla sfondo l’ipotesi di una vendetta mafiosa. Gli investigatori vagliano le telecamere di sorveglianza del silos, dove l’uomo aveva posteggiato, e quelle delle vie limitrofe. Le ricerche non si limitano alle immagini di martedì, ma si cercano frame anche dei giorni precedenti al delitto.

Tra le persone sentite come testimoni anche il figlio dell’ex sicario della mafia, che ha indicato che il padre aveva avuto nei mesi scorsi dissapori con una ex socia per vicende legate a precedenti società. Pino nel 2018 era stato denunciato per il presunto furto di gioielli dalla società che aveva con una donna ma l’indagine era stata archiviata. Gli inquirenti hanno perquisito ieri la ex socia e il fratello di lei. Oggi è prevista l’autopsia: una prima Tac sul corpo non ha fatto trovare l’ogiva di alcun proiettile, ma sul corpo dell’uomo sono state rilevate tracce metalliche che fanno comunque pensare a un colpo di pistola di piccolo calibro. Ieri, intanto, il sito Estremeconseguenze ha rilanciato una intervista rilasciata nelle scorse settimane dall’ex collaboratore di giustizia in cui l’uomo diceva di temere per la propria vita perché non aveva avuto un falso nome di copertura. Ma agli atti degli investigatori non risulta che avesse chiesto una falsa identità. Anzi, a quanto sembra avrebbe rifiutato l’offerta di un nome di copertura. Pino era uscito volontariamente dal programma di protezione nel 2009 e con i soldi ricevuti aveva avviato una prima società, sempre nell’ambito della compravendita di gioielli.

Armi atomiche nel Bresciano. Denuncia del centro sociale: “Non esiste piano di sicurezza”

I tornado sono come le autovetture: ibridi. A differenza delle auto i cacciabombardieri portano però armamentario convenzionale e non. Ovvero: bombe nucleari. Ghedi, nella profonda bassa bresciana un tempo sede delle Frecce Tricolori, oggi oltre ai Diavoli Rossi del 6° stormo ospita la base militare americana e circa 50 bombe nucleari (dati mai ufficiali ma sempre ufficiosi). Ghedi non ha un piano di sicurezza, ma tutto passa in cavalleria. L’allarme è stato lanciato dal Centro Sociale 28 maggio che promuove manifestazioni per sensibilizzare la popolazione. Sui volantini campeggia la scritta: “Ghedi, bersaglio perfetto”. Se non fosse per il rumore assordante dei numerosi voli nulla sembrerebbe anormale. Ci si abitua a tutto. Anche alla notizia documentata da una nota preliminare del giugno 2018 del ministero della Difesa sulla capacità dei Tornado, definiti ufficialmente con “capacità aerea non convenzionale” nel dettaglio dell’armamentario Lep (Life Extension Program) B61, ordigni nucleari. A Ghedi però l’ultimo opuscolo per la cittadinanza su come comportarsi in caso di incidenti risale a 30 anni fa. Dall’esterno gli hangar dei Tornado sembrano dorsi di balene rovesciati coperti dall’erba e l’alta recinzione segue tutto il perimetro dell’area presidiata dalle torrette. A Ghedi i bambini sono abituati a vedere gli aerei a bassa quota. Una consuetudine anche interrompere le conversazioni quando i velivoli militari sorvolano il piccolo paese, giorno e notte. Non preoccupano neppure troppo le sostanze inquinanti disperse nell’aria per ogni volo. Fa parte del paese cresciuto insieme all’aeroporto militare costruito nella Prima guerra mondiale, allora doveva difendere Brescia oggi è l’avamposto dei cacciabombardieri. Le informazioni sono secretate anche agli stessi sindaci del paese. Lo conferma un ex primo cittadino. In fondo poi la guerra è così lontana da Ghedi.

Condannato in primo grado per gli scontri, il Politecnico licenzia l’informatico No Tav

Era stato condannato a tre anni e sei mesi. Si trattava di una condanna di primo grado, stabilita dal Tribunale di Torino nello scorso giugno, contro la quale ha fatto ricorso. Senza attendere la Corte d’appello o la Cassazione l’Università di Torino ha deciso di licenziare Pier Paolo Pittavino, 40 anni, tecnico informatico al dipartimento di fisica, militante No Tav vicino al Centro sociale Askatasuna. La decisione dell’ateneo è arrivata nei giorni scorsi: “Dopo 120 giorni di sospensione l’università ha deciso di licenziarmi senza preavviso – ha scritto Pittavino in un post su Facebook annunciando un ricorso al Tribunale del Lavoro –. Credo che questa decisione non debba passare sotto silenzio come semplice atto amministrativo”. A nulla sono valsi gli appelli e le firme raccolte a suo sostegno da attivisti politici, studenti, colleghi e docenti del dipartimento: “Troviamo ingiusto che una persona rischi il posto di lavoro per azioni fatte in luoghi e contesti che nulla hanno a che vedere con la sua professione e con l’Università”, si leggeva nell’appello. Secondo l’informatico No Tav l’Ateneo ha applicato una legge che è più severa della legge Severino, “che al massimo sospende la propria candidatura alle regionali”: “Non si era innocenti sino al terzo grado di giudizio?”, si chiede. Pittavino è stato condannato insieme ad altri cinque militanti del centro sociale torinese per resistenza aggravata, lesioni e detenzione di armi per aver partecipato a una manifestazione No Tav la notte tra il 5 e il 6 settembre 2015, una manifestazione durante la quale qualcuno ha lanciato un petardo contro un poliziotto, il cui udito è stato danneggiato dall’esplosione. Lunedì si terrà una manifestazione di solidarietà davanti al rettorato: “Sosteniamo Pier Paolo: troviamoci tutti e tutte a parlarne e a prendere posizione”, è il nuovo appello lanciato dagli amici.

Associazione a delinquere e neofascismo. Maxinchiesta sul tifo organizzato a San Siro

Tifo da stadio e neofascismo. Su questo si ragiona in Procura a Milano, tanto che il procuratore aggiunto Alberto Nobili ha aperto un fascicolo per associazione a delinquere nel quale stanno confluendo diversi episodi che riguardano le curve di Inter e Milan. Insomma una maxi-inchiesta sul tifo organizzato a Milano. Diversi gli elementi sul tavolo. L’ultimo riguarda lo striscione “Onore a Benito Mussolini”, esposto due giorni fa dal gruppo Irriducibili della Lazio non lontano da piazzale Loreto. Per quell’episodio avvenuto prima della semifinale di coppa Italia con il Milan, sono indagate nove persone. Le accuse vanno dalla “manifestazione fascista” al porto abusivo d’armi. Altre 20 persone sono state controllate. Tra i denunciati, oltre al 55enne Claudio Corbolotti, capo degli Irriducibili della Lazio, anche Claudio Morra, membro storico degli Irriducibili dell’Inter. Oltre a lui sono stati controllati, ma non indagati, due leader dei Viking nerazzurri molto vicini a Nino Ciccarelli, condannato in primo grado a tre anni e otto mesi per la guerriglia di Santo Stefano con gli ultras del Napoli durante la quale è morto Dede Belardinelli, capo dei Blood and Honour del Varese. I tre interisti hanno tutti precedenti penali, ma nessuno è sottoposto a Daspo. Morra è stato trovato con un manganello telescopico durante una perquisizione in corso Como. Gli indagati per lo striscione, che non è stato trovato, potrebbero però aumentare. Parallela a questo, corre invece l’inchiesta per associazione a delinquere allo stato senza indagati. Qui confluiranno quelle dinamiche ultras che si incrociano con il neofascismo. L’obiettivo, viene spiegato in Procura, è monitorare pericolosi episodi di proselitismo che potrebbero ipotizzare un reato associativo finalizzato alla rissa e alla manifestazione fascista. Anche per questo alcuni elementi dell’indagine sulla guerriglia prima di Inter-Napoli finiranno nella maxi-inchiesta. Non a caso due dei condannati per i fatti di Santo Stefano sono risultati legati a Lealtà e azione, volto “presentabile” del movimento neo-nazista degli Hammerskin. Come loro anche Alessandro Caravita, figlio dello storico fondatore dei Boys nerazzurri, è legato a Lealtà e azione ed è indagato per i fatti di Santo Stefano. Sul fronte Milan, invece, nel maxi-fascicolo confluiranno i risultati dell’indagine sul tentato omicidio di Enzo Anghinelli avvenuto in via Cadore il 12 aprile scorso. E in particolare tutti quegli elementi che legano l’ex narcos agli ambienti della curva Sud rossonera. Da questa parte dello stadio a risaltare sono più le dinamiche criminali e di business che quelle politiche, anche se i capi riconosciuti della Sud come Giancarlo Lombardi non hanno mai fatto mistero della propria passione per il neofascismo. Lo stesso Lombardi presenziò nel 2007 al funerale milanese del terrorista nero Nico Azzi. Mentre oggi posta sui suoi profili il manifesto elettorale per le europee di Carlo Fidanza, candidato per Fratelli d’Italia. Anghinelli, prima di finire coinvolto in indagini di droga, era legato al gruppo rossonero Commandos tigre. Di quella formazione faceva parte Leonardo Avignano che fu gambizzato il 16 ottobre 2006. Episodio per il quale nessuno è mai stato condannato e dal quale però partì l’indagine che fotografò l’ascesa in curva Sud di Giancarlo Lombardi. Già allora la Procura parlava di “metodologie criminali (…) per la gestione del potere nella curva”. Tredici anni dopo lo spartito non pare cambiato.

Disturbava i genitori in intimità, perciò la mamma lo ha ucciso

Il piccolo Antonio è stato ucciso perché avrebbe disturbato un rapporto intimo dei suoi genitori, separati e da poco tornati insieme. È questa la terribile verità che emerge dai primi atti d’indagine: secondo quanto riportato dal quotidiano Repubblica, il bambino di due anni avrebbe cominciato a piangere mentre la coppia si era appartata in un campo poco fuori Cassino.

Disturbata dal pianto, la madre l’avrebbe soffocato, davanti al marito che assisteva senza fare nulla. Poi rientrati a casa i due avrebbero inscenato il falso investimento del bimbo, con la madre che sosteneva fosse stato travolto da un auto pirata, mentre il padre si era allontanato. Hanno anche mentito sugli spostamenti, senza però riuscire a ingannare la polizia, che dopo aver arrestato la donna negli scorsi giorni aveva fermato anche il padre, con l’accusa di essere stato presente al momento dell’omicidio.

Mercoledì ai funerali del bambino tutto il paesino di Piedimonte e i centri limitrofi si sono fermati, per l’ultimo ricordo del piccolo.

L’ultima cena: Imane era per lavoro col suo ex avvocato

L’ormai famoso commensale dell’ultima cena a cui partecipò Imane Fadil, nel gennaio scorso, qualche giorno prima di essere ricoverata in quell’ospedale milanese dove poi trovò la morte, è stato ascoltato dai pm che indagano sul caso. Di lui Il Fatto scrisse per primo nell’intervista ai familiari della ragazza italo-marocchina, pubblicata subito dopo la notizia dell’apertura dell’inchiesta per omicidio da parte della Procura di Milano. L’uomo non era una nuova conoscenza per Imane. Era stato in passato il suo avvocato, assieme alla collega Danila De Domenico, nel processo per diffamazione contro Emilio Fede. L’allora direttore del Tg4, durante l’edizione serale del telegiornale del 17 settembre 2011, aveva accusato Imane Fadil di aver tentato di estorcergli 50 mila euro, in cambio del silenzio sulle serate passate in casa di Silvio Berlusconi, e aveva sostenuto che l’ex modella, allora testimone al processo Ruby bis, avesse detto ai pm “falsità pericolose”. Nessun uomo del mistero per quella cena, quindi, ma un conoscente, legato forse a un periodo ancora felice per la ragazza. Era stato richiamato da Imane, proprio qualche giorno dopo l’udienza del Ruby ter del 14 gennaio scorso, quando venne respinta la sua richiesta di costituzione di parte civile.

Imane era amareggiata, sconfortata, non solo per l’esito della decisione relativa al processo, a cui si stava ormai ossessivamente dedicando da anni, ma anche perché – raccontano i suoi familiari – nutriva sempre meno fiducia nei legali che, di anno in anno, di processo in processo, cambiava perché non soddisfatta. “Ecco perché decise di richiamare l’avvocato Giuseppe Napoleone”, spiega la sorella di Imane, Fatima Fadil. “Di lui si fidava, dal punto di vista professionale intendo. Sperava con lui di arrivare a dare un senso alla sua battaglia per la verità, oltre che a ottenere un risarcimento che lei riteneva fosse giusto le venisse riconosciuto”.

Giuseppe Napoleone, 51 anni, è un avvocato pontino di successo. Famoso per aver seguito alcuni dei processi sportivi più delicati, doping e non solo, soprattutto in difesa di ciclisti come Mario Cipollini (poi suo grande amico), ha uno studio legale a Latina e un altro a Viareggio. Divenuto ciclista per passione anche lui. “Allo sprint vado forte grazie ai consigli di Mario”, disse in un’intervista al Tirreno anni fa: anche se la curiosità vera che lo riguarda, cercando sul web, è la foto-ricordo del 2013 con l’allora presidente Nicolas Sarkozy, quando assieme a Cipollini gli consegnarono una bicicletta “Cipollini bond”. Fu travolto anni fa in un pauroso – e misterioso – incidente, mentre era in bici ad allenarsi, nei pressi di Camaiore. “Una Jeep all’improvviso ha letteralmente tagliato la strada a Giuseppe”, raccontò alle cronache locali Cipollini. Ed è proprio in Toscana – assieme a Napoleone, l’allora sua compagna, Cipollini e la figlia – che Imane e la sorella Fatima in passato hanno anche trascorso qualche giorno in vacanza: “È capitato una volta, facemmo anche un giro in barca, ma io e mia sorella dormivamo in albergo, a nostre spese… I rapporti tra lei e l’avvocato, almeno per Imane, sono sempre stati chiari. Giusto qualche cena a Milano, al Cavallini, ma niente di più, anche se l’avvocato poteva aver magari manifestato a volte dell’interesse nei confronti di mia sorella…”.

Contattato dal Fatto, Giuseppe Napoleone ha preferito non rispondere alle domande. I magistrati di Milano Tiziana Siciliano, Luca Gaglio e Antonia Pavan, che da quasi due mesi stanno cercando di venire a capo della morte della ex modella 34enne, l’hanno ascoltato quale persona informata dei fatti, così come hanno fatto con tutte le altre persone coinvolte nelle ultime settimane di vita di Imane: i familiari, gli amici, l’insegnante d’inglese e mental coach John. Dalla Procura si sottolinea come la circostanza della cena con l’avvocato Napoleone, la sera del 16 gennaio scorso, una decina di giorni prima del ricovero della ragazza all’Humanitas, non fosse altro che una “normalissima cena di lavoro”: allo stato attuale un’evenienza “in nessun modo cruciale al fine delle indagini”. A giorni, i pm – e la famiglia, ancora senza risposte – aspettano i risultati degli esami autoptici eseguiti sul corpo di Imane, a partire dal 26 marzo, dal pool guidato dall’anatomopatologa Cristina Cattaneo, e che dovrebbero chiarire le cause del decesso. La Procura ha ancora sul tavolo tutte le piste: morte naturale per una malattia fulminante (l’ipotesi per cui ancora si propende maggiormente), avvelenamento inconsapevole, avvelenamento doloso. Ma, trapela da ambienti investigativi, non c’è a ora un momento preciso a partire dal quale Imane Fadil avrebbe iniziato a manifestare quel malessere fisico che poi l’avrebbe condotta fino alla morte, dopo un’agonia di più di un mese in ospedale. Mancherebbe quel “momento X” a cui gli inquirenti vorrebbero aggrapparsi per guardare in una direzione, piuttosto che in un’altra. E, soprattutto, mancherebbe un potenziale movente e, quindi, un potenziale sospettato.

A Milano sfilano in 70 mila, la Raggi sul palco dell’Anpi

A Milano una marcia di oltre 70 mila è sfilata per tutta la città, che ha “saputo dare una grande risposta”, come commenta il presidente dell’Anpi lombardo Roberto Cenati. Dal palco della manifestazione, a cui ha partecipato anche il segretario del Pd Nicola Zingaretti, e i leader dei sindacati, ha parlato il primo cittadino Giuseppe Sala: “Milano farà sempre la sua parte perché tutti ci guardano e siamo chiamati al dovere di essere la città più antifascista d’Italia”.

A Roma in mattinata il presidente Mattarella ha deposto una corona d’alloro all’Altare della patria insieme al premier Giuseppe Conte. Presenti anche il ministro della Difesa Elisabetta Trenta, il presidente del Senato Casellati. Dopo la visita alle Fosse ardeatine, sul palco dell’Anpi ha parlato Virginia Raggi, accolta da applausi ma anche qualche fischio di contestatori che hanno invitato la sindaca a “sgomberare Casapound”. “Dire che siamo antifascisti è fondamentale”, le parole della prima cittadina M5S.

A Bologna Romano Prodi lanciato una frecciata al vicepremier Matteo Salvini: “Chi parla di derby non capisce niente, questo è un momento di unità di tutti i democratici”, ha detto l’ex premier, facendo riferimento alla parola con cui il leghista si è tirato fuori dalle celebrazioni sul 25 Aprile. A Firenze migliaia di persone hanno intonato “Bella Ciao” da piazza della Signoria. Napoli invece ha scelto le note del silenzio per accompagnare la deposizione di una corona di fiori in memoria del carabiniere che sacrificò la vita per salvare un gruppo di civili dalla rappresaglia nazista, in piazza Salvo D’Acquisto. Migliaia in festa a Genova, dove stavolta non ci sono stati fischi per il governatore Toti: il discorso commemorativo è stato tenuto da Giovanni Maria Flick, che ha condannato i revisionismi e ricordato gli omicidi di Matteotti e dei fratelli Rosselli.