Nasce il primo sindacato per lavoratori solo italiani

Forza Nuova quest’anno a Brescia ha deciso di celebrare il 74esimo dell’uccisione del Duce – il 28 aprile 1945 – presentando il Sinlai-Sindacato Nazionale dei Lavoratori Italiani, che “si propone come unica organizzazione sindacale votata esclusivamente alla tutela dei diritti dei lavoratori italiani”, spiegano i rappresentanti bresciani di Forza Nuova. “Riteniamo la vitale necessità di espandere il verbo del sindacalismo rivoluzionario in questa terra storica dell’industria italiana e della classe operaia”. “Saremo – viene spiegato in una nota – l’unico sindacato nazionalista del Paese. Con l’ulteriore obiettivo di contribuire a rilanciare la piccola e media impresa e l’artigianato locale, schiacciati da una concorrenza transnazionale sleale“. Lavoratori (italiani) di tutto il mondo, unitevi.

Svastiche, lapidi rovinate e incendi: sfregi dai neofascisti

Il giro del contro 25 aprile inizia un giorno prima a Bologna in piazza dell’Unità: danneggiata una lapide commemorativa della Resistenza.

A Scarlino in provincia di Grosseto durante la notte è stata imbrattata la lastra alla memoria del partigiano Flavio Agresti medaglia d’oro al valor militare.

A Milano prima l’esposizione dello striscione con la scritta “Onore a Mussolini” poi le fiamme che hanno distrutto la corona depositata in ricordo di un altro partigiano: Carlo Ciocca. Roberto Cenati, presidente provinciale dell’Anpi parla di aumento delle provocazioni neofasciste aggiungendo: “Basta applicare le leggi che ci sono, ma la volontà politica è mancata in passato e manca anche oggi”.

A Roma, Forza Nuova e Avanguardia nazionale alle 12 hanno manifestato in piazzale Clodio, di fronte al Tribunale di Roma, definito “uno dei simboli dell’antifascismo di regime”.

Sul Grande raccordo anulare poche ore prima era comparso uno striscione con la scritta “25 aprile: il nostro onore. La vostra eterna sconfitta. Noi non abbiamo tradito!”, affisso a una barriera anti-rumore con il simbolo di Azione Frontale. Anche l’incendio divampato nella periferia della capitale ai danni di un locale, storico punto di incontro antifascista potrebbe avere connessioni con le manifestazioni per il 25 aprile.

Ci sono anche le svastiche e le croci celtiche impresse sui muri del centro storico di Marsala, in via Andrea D’Anna, a circa 150 metri di distanza da largo San Girolamo, dove una lapide ricorda i partigiani marsalesi morti, in combattimento o fucilati, tra il 1943 e il ’45.

Qualche giorno fa poi a Vighignolo in provincia di Milano era stata incendiata la statua che rendeva omaggio a Giulia Lombardi, staffetta partigiana, uccisa a 22 anni.

Crimini di guerra nazisti: “La Germania deve ancora all’Italia 100 miliardi di euro”

La Seconda guerra mondiale – almeno nelle aule dei tribunali civili – non è mai finita. La Germania, infatti, non ha mai risarcito le decine di migliaia di vittime civili dei crimini di guerra compiuti dai nazisti tra il 1939 e il 1945. Il conto – dopo la il voto del Parlamento greco che reclama il pagamento di 290 miliardi di euro e i 500 chiesti nel 2017 dalla Polonia – ha raggiunto i 1.000 miliardi e rischia di salire ancora. Anche l’Italia – infatti – potrebbe avanzare la sua richiesta che, secondo le stime del giudice militare Luca Braida, raggiungerebbe i 100 miliardi di euro per i 23 mila italiani vittime dei rastrellamenti nazisti tra il 1943 e il 1945: “Si tratta – dichiara il magistrato – di una cifra congetturale che manca del calcolo dei risarcimenti per i deportati tornati vivi. L’abbiamo ipotizzata per difetto”. Il credito sarebbe superiore, se non fosse che la Germania non ha mai adempiuto alle sentenze emesse nel nostro Paese che le impongono il pagamento. Una situazione abbastanza critica, in cui è coinvolta anche l’avvocatura di Stato.

A partire dal vertice Italia-Germania, a Trieste nel 2008, gli accordi raggiunti hanno favorito Berlino. L’esito di quell’incontro tra l’ex premier Silvio Berlusconi e la cancelliera tedesca Angela Merkel ha portato il governo tedesco a finanziare monumenti, restauri ed eventi culturali. Nulla invece in merito ai risarcimenti dovuti agli eredi delle vittime. Ma i processi penali conclusi nel 2015 e civili (molti dei quali ancora in corso) li impongono. L’avvocatura di Stato, a favore delle vittime nel penale, dopo quel vertice avrebbe cambiato rotta intervenendo spontaneamente nelle cause civili a favore del governo tedesco per conto della Presidenza del Consiglio e del ministero degli Esteri.

Il motivo di tale condotta è stato oggetto di una richiesta di accesso agli atti avanzata dal magistrato Luca Baiada, in qualità di cittadino. L’avvocatura però ha rigettato appellandosi al “segreto professionale”. Baiada, che ha emesso le sentenze per le stragi di Padule di Fucecchio e di Forlì, non ci sta. La controversia è finita al Tar Lazio e l’8 maggio è fissata l’udienza. Anche l’ex presidente della Corte costituzionale Giuseppe Tesauro, che ribaltò la sentenza dell’Aia relativa all’immunità della Germania considerandola incostituzionale, ha recentemente affermato che in quel vertice del 2008 “l’Italia in ginocchio e con entusiasmo accettò” le richieste di Berlino di non risarcire nessuno. Deportazioni e fucilazioni di massa di civili, tra cui migliaia di donne e bambini, avvennero soprattutto in Toscana e in Emilia Romagna. Ma anche in Abruzzo e Campania. Gli imputati condannati all’ergastolo non sono mai stati consegnati dalla Germania. In Italia ne sono finiti in carcere solo due, perché estromessi da Paesi terzi. Quelli che, allora bambini, sopravvissero vedendosi sottrarre con atroci violenze i familiari più cari non si sono mai arresi. Antonio, all’epoca, aveva poco più di un anno. Vittoria, otto. Tosca, sei. Era il 23 agosto 1944 e nel Padule di Fucecchio quel giorno videro le persone ardere vive. Oggi reclamano ancora giustizia. Le sentenze emesse in loro favore sono rimaste inapplicate.

Brescia aspetta il 28: riti e incontri in onore del Duce

L’ombra nera che poi tanto ombra non è. Siamo a Brescia: in una città che tra un mese celebrerà il 45esimo anniversario della bomba in piazza della Loggia, c’è ancora un sottobosco fascista, fatto di appuntamenti fissi, incontri più o meno segreti, celebrazioni pubbliche. Come quella che si ripete ogni anno il 28 aprile, quando un necrologio dell’Associazione Nazionale Famiglie Caduti e Dispersi della Repubblica Sociale Italiana annuncia una messa per Benito Mussolini. Per il mondo dell’estrema destra nazionale, il 28 aprile è un giorno listato a lutto: è l’anniversario di Piazzale Loreto del 1945.

Tutti sanno, ma nessuno pare scandalizzarsi. Accadrà anche domenica prossima, e nella chiesetta sotto il colle Cidneo, zona nobile della città, si daranno appuntamento pezzi della “Brescia che conta”. Dal dirigente della sanità lombarda, a piccoli e medi imprenditori, ex militanti di Msi prima e An poi. E storici camerati, che nello stesso giorno difenderanno la formella posizionata lungo la salita che porta al Castello, in ricordo di Sergio Ramelli, e che puntualmente ad aprile – raccontano le cronache dei giornali locali – viene sporcata di vernice rossa dai centri sociali che cancellano così la data di morte del militante del Fronte della Gioventù.

Dicono non manchi mai, tra i banchi della chiesetta, nella ricorrenza del 28 aprile, Marco Bonometti, ex presidente degli industriali bresciani, ora a capo di quelli lombardi, che sogna la scalata in Confindustria nazionale e che non ha mai negato le proprie simpatie fasciste, bene rappresentate dalla collezioni di busti del Duce presente nel suo ufficio (nonostante da qualche tempo si sia trasformato in renziano doc, con il sostegno anche economico alle campagne elettorali dell’ex premier e di Maria Elena Boschi, mentre per le Europee strizzerebbe invece l’occhio alla forzista Lara Comi).

Soffia da destra anche il vento che porta un gruppetto, almeno un giovedì al mese, a trovarsi in un ristorante di Brescia, spesso lo stesso, attorno a un tavolo con alle spalle la bandiera di Avanguardia Nazionale. Movimento ufficialmente sciolto nel 1976, evidentemente non per tutti. E tra i reduci di una stagione nera, in tutti i sensi, nostalgici del passato che ritorna, c’è chi come il bresciano Kim Borromeo, a inizio marzo del 1974, venne arrestato sulla strada per la Val Camonica mentre trasportava in auto mezzo quintale di esplosivo.

Questo se si guarda a volti e nomi datati. Ma c’è anche un presente. Qui Forza Nuova e CasaPound (rispettivamente 0,7% e 0,4% un anno fa alle amministrative in città) sono presenti con iniziative “a sostegno degli italiani”, come l’abitazione che CasaPound sta ristrutturando in città “per italiani in difficoltà, solo per italiani”, raccontano dal movimento che prima di Pasqua ha organizzato una cena per raccolta fondi nella sede con vetri oscurati. È legato a CasaPound anche Mirko Mancini, candidato in città alle ultime elezioni e leader dei “Brixia Blue Boys”, un’associazione i cui responsabili sono stati tutti indagati un anno fa dalla Procura bresciana, perché utilizzavano divise non autorizzate, con simboli fascisti e facce del Duce cuciti sulle maniche, durante ronde notturne nella zona della stazione. È invece in una delle vie più multietniche di Brescia la sede di Forza Nuova. L’hanno chiamata l’Ambasciata: è qui che è atteso Roberto Fiore che tornerà nelle prossime settimane in vista delle Europee a Brescia. Probabilmente il giovedì prima del voto, proprio a ridosso dell’anniversario della strage nera di piazza della Loggia.

La Lega diserta il 25 aprile. Ma Zaia fa l’anti-Salvini

C’è chi fa campagna elettorale in Sicilia, come Matteo Salvini. Chi rimane a casa, festeggia San Marco o addirittura Guglielmo Marconi. La Resistenza proprio no. La Lega e i suoi rappresentanti di governo disertano le piazze che da Roma a Milano ieri si sono riempite in tutta Italia per ricordare il 25 aprile e la liberazione dal fascismo. L’unico fuori dal coro è il governatore Luca Zaia, al fianco del presidente della Repubblica Sergio Mattarella nella sua visita al monumento dei caduti di Vittorio Veneto.

“Festeggiare il 25 aprile significa celebrare il ritorno dell’Italia alla libertà e alla democrazia, dopo vent’anni di dittatura, di privazione delle libertà fondamentali, di oppressione e di persecuzioni”, ha ricordato Mattarella. Ieri lo hanno fatto migliaia di italiani in tutto il Paese, a partire da Milano, dove circa 70 mila persone hanno sfilato in corteo. Insieme al sindaco Beppe Sala, anche il segretario del Pd Nicola Zingaretti. Prima di andare in Veneto, Mattarella è stato anche a Napoli e a Roma, dove ha deposto una corona d’alloro all’altare della patria. “Il riscatto nazionale è passato attraverso una fiera rivolta, innanzitutto morale, contro il nazifascismo”, ha aggiunto il capo dello Stato. “La Resistenza è un fecondo serbatoio di valori, c’è bisogno di donne e uomini liberi”. A Piazza Venezia con lui il premier Giuseppe Conte, mentre Luigi Di Maio era a Perugia: “La parola d’ordine dev’essere unione”, ha detto il capo del M5S.

In un giorno dove (quasi) tutte le forze politiche hanno celebrato il 74° anniversario della Liberazione, non poteva passare inosservata l’assenza dei ministri leghisti, peraltro già annunciata alla vigilia. “Non ci sono stati ordini di scuderia come qualcuno ha voluto far balenare. Il presidente dei veneti c’è e penso di essere stato chiaro nel discorso ricordando che dobbiamo parlare della sacralità di questa ricorrenza e delle milioni di vittime”, ha provato a spegnere le polemiche Zaia. Sarà.

Intanto però tutti i suoi principali colleghi di partito si sono tenuti ben a distanza dalle celebrazioni. In testa, ovviamente, il leader, Matteo Salvini, impegnatissimo in comizi e spuntini in Sicilia, in vista delle prossime elezioni amministrative: “Non è solo la festa dei comunisti: mi aspetto rispetto. Sono in modalità zen, la polemica politica la lascio agli altri”, dice tra un discorso in piazza a Monreale, l’inaugurazione del nuovo commissariato di Corleone e una bella insalata di arance siciliane.

Con o senza indicazioni, a parte Zaia e l’altro governatore lombardo Attilio Fontana, presente nella sua Varese, tutti gli esponenti leghisti del governo hanno seguito il suo esempio. Gian Marco Centinaio, ministro delle Politiche agricole, rivendica con orgoglio la scelta: “Anche quest’anno ho deciso di non partecipare al corteo e alla luce dei fatti che si sono verificati, è stata la scelta migliore”, spiega, alludendo ai fischi alla brigata ebraica. Non pervenuti Giancarlo Giorgetti, il ministro della Famiglia Lorenzo Fontana e quello dell’Istruzione Marco Bussetti. Erika Stefani, da buona ministra dell’Autonomia, ha invece festeggiato San Marco, patrono dei veneti. Il sottosegretario Molteni alla Liberazione ha preferito un evento di Coldiretti, Lucia Borgonzoni l’anniversario della nascita di Guglielmo Marconi, inventore della radio. L’unica a ricordarsi della ricorrenza è stata Giulia Bongiorno, anche se solo con un tweet. “La memoria è un dovere. Ricordiamo con gratitudine le donne e gli uomini rimasti sui monti azzurri a far la guardia alla libertà”, scrive, citando una poesia di Rodari. E conclude: “Il 25 aprile è la festa di tutti”. O quasi.

Addio Pina Cocci, la militante dem di “nun me chiamate”

“Se stiamo messi così come stiamo messi oggi, nun me chiamate”. Non usava giri di parole Pina Cocci, la militante del Pd di Tor Bella Monaca diventata icona delle strigliate ai dem. È morta ieri, proprio nel giorno della Liberazione. Pina era diventata forse suo malgrado personaggio pubblico dopo lo choc del tracollo elettorale del 4 marzo, con il partito spaccato sulle responsabilità e le colpe di Renzi. Ma Pina “sparava”, e non solo sull’allora segretario. “Da là – diceva indicando la platea durante un’assemblea – io sentivo le truppe cammellate. Veniteci nei territori, non vi mettete in bocca la parola ‘periferia’. Ma a Tor Bella Monaca chi v’ha mai visto?”.

Ieri a ricordarla in tanti. Sui social network si è attivato un fiume di messaggi per condividere il dolore della perdita e mandare un ultimo saluto alla “compagna Cocci”. Anche Renzi ha voluto ricordarla: “La sua polemica costante era un modo per dirti che ci teneva. Che ti voleva bene. E anche io le volevo bene”. E Zingaretti: “Ciao Pina, ancora non ci credo. Ciao e grazie per la tua passione, il tuo coraggio e i tuoi rimbrotti. Per la tua immensa passione. Ciao e grazie”.

Henri Lévy, l’antisovranista in vasca da bagno

Bella ciao. Al raffreddore. Viva la Resistenza. Ai germi. Ci vuole il fisico per inaugurare la “nuova resistenza europea”, e il “patriota” Bernard-Henri Lévy ce l’ha: a 70 anni suonati, è capace di stare in palco due ore, anche bagnato fradicio, a piedi nudi e laringe sotto sforzo.

È dalla vasca da bagno, infatti, che il filosofo lancia il suo “appello”: Looking for Europe, uno spettacolo-manifesto (già pamphlet per La nave di Teseo), un “invito alla reazione”, il suo “contributo di scrittore” contro lo spettro che si aggira per l’Europa, il sovranismo. Così BHL – sempre lui, non è il nome di una banca – ha scoperto il teatro civile, ed è in tour nelle principali piazze del continente (l’altroieri a Roma, il 20 maggio a Parigi), giusto alla vigilia delle elezioni dell’apocalisse e dell’invasione delle cavallette.

La trama, dunque: l’intellettuale si è chiuso in una stanza a Sarajevo per preparare il discorso di un’imminente conferenza sull’Europa, ciondolando – in cerca di idee – dalla scrivania alla chaise-longue, dalla vasca da bagno al comodino. Non recita, declama, gesticola, risponde al telefono, chiama su Skype, naviga su Google, legge sms, butta i libri in vasca, si butta in vasca, cammina in tondo tipo carcerato nell’ora d’aria, poi beve da una bottiglia di gin, ma sarà acqua. Lui la fenomenologia dello spirito (etilico) non la regge: pare una caricatura, l’imitazione di se stesso, e quando lo spettacolo finisce per un attimo si teme davvero che possa ricominciare tutto daccapo, con la vera conferenza europeista. No. Pericolo scampato. Ancora gocciolante, Lévy esce per gli applausi: si spoglia della giacca e la lancia, a mo’ di rockstar, in platea. Le scarpe, nel frattempo, se l’era rimesse.

“Prima traccia delle sue Mémoires intérieurs” (!), la pièce è una tirata contro i nuovi mostri: populismo, razzismo, neofascismo, antisemitismo, imbarbarimento culturale in un’Europa che muore per overdose di lassismo, conformismo e odio. Ne ha per tutti, dallo Yad Vashem che ha accolto Salvini alle simpatie di Orbán e Kurz per Israele, dalla Germania alla Gran Bretagna, da Trump a Putin, da Podemos al gruppo di Visegrád. Tutti, tranne Macron: BHL è sempre stato l’intellettuale di corte e di riferimento. Del governo di riferimento. Perciò, povero président, “così solo” e innocente, la cui unica pecca è di avere “problemi di comunicazione”. Seguono complimenti a Matteo Renzi e un grido di dolore: “Troppo facile dare la colpa ai leader”. Se sono suoi amici.

L’Italia è il bersaglio più facile: da sempre è “laboratorio” del male, da Berlusconi alla commedia dell’arte di Conte, Di Maio e Salvini. Quanto a Cesare Battisti, si difende: “Mai detto che fosse innocente… ma che avesse diritto a un faccia a faccia con un giudice”. Difficile, se uno scappa, che fa il paio con altri nonsense su “Londra che ricorda quella del ’43” e l’Ue piena di “rovine e macerie”. Perciò Lévy rimpiange la vecchia Europa delle passeggiate e dei caffè. E delle amanti, le sue: orgasmi a Berlino, gridolini a Budapest, baci a Milano… Indietro fino all’antica Grecia e il mito di Europa, la principessa orientale che oggi sarebbe “profuga siriana”: per la cronaca, la signorina era di Tiro, Libano.

Poche settimane fa la webzine americana Quartz si chiedeva perché “BHL fosse considerato un intellettuale pubblico”, lui così “inane”, vanitoso e dalle idee “irrilevanti e mediocri”. Per fortuna, le idee le ruba agli altri, con una sbrodolata di autori (Stendhal, Baudelaire, Proust, Byron, Malaparte, Kant…) e citazioni improbabili, come “l’opera da quattro soldi” di Brecht, che in realtà ne vale solo tre.

Engagé, ma sempre dalla parte giusta, guerrafondaio q.b., lib-lab e blablabla, Lévy si fregia di raccontare il mondo come “Fellini prima di me”. Poi decanta le anfetamine, sparite “per colpa del puritanesimo igienista”, e chiama a raccolta i fantasmi amici per arginare quelli nemici, in una tragicomica lista di ministri europei: Houellebecq alla Difesa degli animali; Soros e Madre Teresa di Calcutta all’Economia; Fellini ai Diritti delle donne; Petrarca al Rap; Cicciolina all’Ambiente; Galileo al Coraggio. Non suo, quello della Santa Sede.

Spot-fake con Renzi, sindaca Pd li cancella

Di questi tempi, si sa, farsi vedere in giro con Matteo Renzi non piace a nessuno. Soprattutto se si è in campagna elettorale per farsi rieleggere. Nemmeno a molti (ex) membri del Giglio magico toscano che fino a pochi anni fa si spellavano le mani per l’ex promessa della politica italiana caduta in disgrazia dopo le elezioni politiche del 4 marzo. E da ieri anche la sindaca di Empoli – un tempo “renziana della prima ora” – Brenda Barnini ha deciso di scendere definitivamente dal carro dell’ex premier: la città che andrà al voto tra un mese all’alba di ieri è stata ricoperta da falsi manifesti del Pd in cui la prima cittadina abbraccia proprio Renzi con la scritta “Io sto con Brenda”. Una sorta di endorsement da parte dell’ex rottamatore nei confronti della sindaca. Eppure, lo scherzo non è piaciuto per niente a Barnini che, al termine delle celebrazioni per il 25 aprile, ha vergato un lungo post su Facebook per prendere le distanze da quei cartelloni. E, di riflesso, da Renzi. “Il burlone ha ovviamente evitato di attaccarli in piazza della Stazione dove ci sono le telecamere e nei tabelloni davanti a casa mia, ma si è curato di fare il giro di tutti gli altri sparsi per il territorio comunale – ha scritto Barnini con tono sprezzante –. Ci tengo a dire due cose su questo stupido scherzo. La prima: se non avete altri argomenti per fare campagna elettorale se non parlare di me e del Pd, vi consiglio di ritirarvi prima del 26 maggio perché per amministrare un Comune servono idee e mi pare scarseggino”.

Poi, la sindaca che cercherà il bis tra un mese si è messa sulla difensiva senza mai nominare esplicitamente Renzi: “Se pensate che quella foto mi metta in difficoltà vi sbagliate di grosso perché a differenza vostra ho sempre espresso in modo chiaro le mie idee, fatto scelte non per tornaconto ma per passione e dimostrato con i fatti cosa voglia dire rimanere coerenti con i propri valori”. Dopo poche ore, tutti i falsi manifesti elettorali erano stati rimossi.

Eppure, Brenda Barnini era stata una delle più agguerrite sostenitrici dell’ex sindaco di Firenze: alla Leopolda del 2013, a pochi mesi dalla conquista del partito e di Palazzo Chigi, Renzi la fece salire sul palco presentandola come una delle promesse del nuovo Pd. “Brenda si è dimessa da segretaria del Pd empolese e farà grandi cose in futuro – fu la presentazione dell’allora sindaco di Firenze – sarà un pezzo importante del futuro di questo territorio e non solo”. Applausi. Lei, un po’ emozionata, salì sul palco e sferzò un attacco durissimo al Pd di Bersani: “La parola che ho scelto è sinistra – disse – perché in questi anni se qualche cittadino si è messo a cercare un partito di sinistra, non l’ha trovato. Il Pd deve essere un partito popolare, aperto, progressista e che dia l’opportunità a tutti di mettersi in gioco. E Matteo è la persona giusta per farlo”. Applausi di nuovo. Nel Pd toscano qualcuno diceva: “È nata una nuova Serracchiani”. Il resto è noto: la sbornia alle europee del 2014, l’elezione di Barnini a Empoli e poi le sconfitte al referendum del 2016 (lei rigorosamente per il “Sì”) e infine alle Politiche di un anno fa. E fu proprio dopo l’ultimo deludente risultato che Barnini iniziò a distaccarsi dal mondo renziano: il 5 marzo gli mandò un sms al segretario dem per chiedergli di dimettersi. “Non lo rinnego ma si deve fare da parte” diceva pubblicamente. Come passa il tempo.

Migranti, l’Italia nel 2018 ha accolto più profughi della Francia

Pur avendo circa il 10% di abitanti in meno (60 milioni contro 67) l’Italia nel 2018 ha concesso più protezione internazionale ai migranti della Francia ed è seconda in Europa dopo la Germania. Lo scorso anno, dice Eurostat, i 28 Stati hanno concesso asilo in tutto a 333.355 profughi, il 40% in meno rispetto al 2017 (538mila): in testa alla classifica resta Berlino, con oltre il 40% delle decisioni positive del 2018 (139.600), seguita dall’Italia (47.885) e dalla Francia (41.440). Nel 2017 invece Parigi aveva concessione protezione a 40.600 persone e l’Italia a 35.100. Secondo Eurostat, la maggioranza relativa dei profughi autorizzati lo scorso anno proviene dalla Siria: in 96.100 hanno ricevuto lo status di rifugiato o altre forme di tutela (il 29% del totale, oltre due terzi dei quali in Germania. Seguono afghani (53.500, il 16%) e iracheni (24.600, il 7%). In coda alla classifica della concessione di asilo sono Estonia (20 pareri positivi) e Lettonia (30), oltre ovviamente ai cosiddetti Paesi di Visegrad (poche centinaia a testa). Sorprendente anche il dato della Spagna (46 milioni di abitanti): solo 2.965 protezioni internazionali contro le 20.700 della “destrorsa” Austria (prima nell’Ue per rifugiati per abitante).

Pochi espulsi? La Lega riduce gli irregolari: “Solo 90 mila”

“Il numero degli immigrati irregolari stimati in Italia è circa 90 mila. È il numero massimo stimabile in Italia. Una cifra importante degli ultimi 4 anni e mezzo, su cui stiamo lavorando ma non sono le centinaia di migliaia che temevo”. Questa frase del ministro dell’Interno Matteo Salvini continua a sollevare polemiche. Anche perché nel contratto di governo Lega-M5S si legge: “A oggi sarebbero circa 500 mila i migranti irregolari presenti sul nostro territorio e, pertanto, una seria ed efficace politica dei rimpatri risulta indifferibile e prioritaria”. L’equivoco è generato dall’espressione poco chiara: 90.000 è la stima di nuovi irregolari che si sono aggiunti a quelli già presenti in Italia nel 2015 (404.000 il primo gennaio). In quell’anno è iniziata la recente ondata di sbarchi. Da allora sono sbarcate in Italia 478.000 persone, 268.000 si trovano ora in altri Paesi Ue, 119.000 nei circuiti dell’accoglienza. La differenza è circa 90.000, ma questo non significa affatto che in Italia ci siano soltanto 90.000 irregolari (cioè persone che non hanno un status legale che autorizza una loro permanenza legittima). Anzi, secondo la stima dell’Ismu, un istituto di ricerca sulle migrazioni, al primo gennaio 2018 gli stranieri irregolarmente presenti in Italia erano circa 530.000 (il numero del contratto di governo). Da allora i rimpatri promessi da Salvini non si sono mai concretizzati. Il decreto Sicurezza, approvato a dicembre, ha eliminato il permesso di soggiorno per motivi umanitari condannando all’irregolarità migliaia di stranieri già in Italia. Secondo le proiezioni di Matteo Villa, ricercatore dell’Ispi, il numero di irregolari era destinato ad arrivare comunque a 600.000 nel 2020, per effetto del decreto sicurezza salirà a 670.000. Lo stesso livello raggiunto nel 2002, nel 2006 e nel 2008. E ogni volta, ricorda Villa, i governi si sono trovati costretti a procedere a regolarizzazioni di massa. Toccherà anche a Salvini?