Rispunta Noemi Letizia: un docureality napoletano per raccontare quel passato iniziato con B. a Casoria

Noemi Letizia fa ancora notizia (scusate la rima). Dieci anni dopo l’intervista ad Angelo Agrippa sul Corriere del Mezzogiorno in cui rivelava di chiamare “Papi” Silvio Berlusconi, l’ospite speciale della sua festa dei 18 anni a Casoria che distrusse il matrimonio del Cavaliere con Veronica Lario e fu l’inizio della fine del governo B., Noemi torna a far parlare di sé, stavolta in qualità di partecipante d’eccezione a un reality show napoletano. Di cui, al momento, si sa poco o nulla. Non si sa il nome, non si sa il canale in cui verrà programmato, non si conoscono le altre partecipanti. Si sa solo che le riprese inizieranno a maggio, dopo la scrematura dei provini a “Casa Rubinacci Relais”.

Il casting individuerà le altre sei o sette partecipanti per quello che si annuncia essere un docu-reality di tipo americano, sul modello delle Lucky Ladies andate in onda su Fox Life, come ci informa Maria Chiara Aulisio sul Mattino.

Sono passati dieci anni, dicevamo. Un’era geologica per la politica, molti anche per una ragazza come Noemi che nel frattempo è diventata mamma di tre figli, si è messa alle spalle in appena tre mesi il matrimonio celebrato a Massa Lubrense nell’estate 2017, ha trovato un nuovo compagno e si sta ricostruendo una vita. Nelle intenzioni dei produttori, Noemi a 28 anni sarà la più giovane delle partecipanti, scelte tra le signore della Napoli bene. Noemi si dice entusiasta di affrontare quest’esperienza. E appare conscia di essere stata scelta per il suo passato e per raccontare come se l’è messo alle spalle. Appena due anni fa di quel passato se ne tornò a scrivere per la candidatura della mamma, Anna Palumbo, in una lista a sostegno del sindaco Pd di Portici, Vincenzo Cuomo. Candidatura sfortunata, ma ora alla figlia andrà sicuramente meglio.

Il ministro Matteo non va mai ai vertici europei

Da quando si è insediato al Viminale, Matteo Salvini è stato assente 5 volte su 6 alle riunioni dei ministri dell’Interno dei 28 Paesi dell’Unione europea. Per l’Italia, al suo posto, ha partecipato il sottosegretario all’Interno, il leghista Nicola Molteni. Ma il vicepremier non si è manifestato in Europa in occasione di appuntamenti in cui era all’ordine del giorno dei ministri europei la discussione di temi molto importanti per l’Italia e di competenza del suo dicastero come la gestione dei flussi migratori e la riforma del Regolamento di Dublino.

Vediamo gli appuntamenti nel dettaglio e come si sono comportati gli omologhi del ministro italiano. Il primo era quello del 5 giugno 2018 in Lussemburgo. L’ordine del giorno prevedeva la riforma del sistema comune di asilo e reinsediamento, i visti per i migranti e provvedimenti contro la criminalità organizzata. Per Germania, Francia, Spagna non hanno partecipato i ministri dell’Interno, ma dei sottosegretari, mentre per l’Italia c’era il rappresentante permanente presso l’Ue, Maurizio Massari. Non c’erano riserve ma i titolari per altri Paesi, come ad esempio Ungheria, Malta, Austria, Portogallo, Finlandia, Svezia e (tra i grandi), il Regno Unito, con il ministro Sajid Javid.

Il 12 e 13 luglio si tiene a Innsbruck, in Austria, un Consiglio dei ministri straordinario. Si è parlato non solo di frontiere europee e flussi migratori, ma anche di misure da prendere per combattere l’antisemitismo e di cooperazione tra le polizie europee. In questa occasione, il leader della Lega era effettivamente presente, e con lui l’allora responsabile dell’Interno di Parigi Gerard Collomb, il tedesco Horst Seehofer e ancora Javid. Oltre al padrone di casa, il ministro dell’Interno austriaco Herbert Kickl, sono presenti i titolari di Grecia, Finlandia, Malta, Ungheria, Portogallo, Romania, Slovenia e Slovacchia. Madrid ha inviato invece un sottosegretario.

In autunno si tengono altri due Consigli, quello del 12 ottobre in Lussemburgo e quello del 6 dicembre a Bruxelles. Il primo ha in programma la discussione sulla guardia costiera Ue e la direttiva rimpatri, il secondo il contrasto ai contenuti terroristici online e il traffico di migranti.

Nell’appuntamento di ottobre – il primo a cui Molteni prende parte – tra i ministri titolari presenti vanno menzionati di nuovo il britannico Javid quello austriaco, poi il polacco Brudzinsky, il belga Jambon, il portoghese Cabrita, la rumena Dan e il finlandese Mykkanen. Come l’Italia, Spagna, Francia e Germania sono rappresentate da sottosegretari. Nel vertice di dicembre, la formazione è simile, ma per Berlino ritorna Seehofer, mentre fa la sua comparsa la britannica Caroline Nokes, comunque titolare, anche se del ministero dell’Immigrazione.

Nel 2019, il primo appuntamento è stato il meeting straordinario di Bucarest, tenuto il 7 febbraio, con al centro la lotta al terrorismo e il diritto d’asilo. Molte conferme, rispetto all’autunno, compresi Seehofer, Nokes e Kickl, ma si aggiungono il responsabile dell’Interno di Madrid Fernando Grande-Marlaska quello francese (post-rimpasto di Macron) Christophe Castaner. Per l’Italia, sempre Molteni.

Eccoci al 7 marzo, ancora a Bruxelles, ultimo Consiglio dei ministri dell’Interno prima delle elezioni europee. In agenda c’erano i negoziati sul programma Frontex, la cooperazione con i Paesi africani sui temi migratori, ma soprattutto, si dovevano prendere decisioni sulla sempre rimandata riforma di Dublino. Ancora una volta, la Germania ha partecipato con il responsabile dell’Interno, così come tra gli altri il Regno Unito, la Croazia, l’Ungheria, l’Olanda, Malta, la Polonia, il Portogallo, la Romania e la Svezia. A far compagnia al sottosegretario leghista Molteni, invece, c’erano i rappresentanti non titolari di Parigi e Madrid.

La Difesa: “I soldati italiani non stanno combattendo in Libia”

I problemi in Libia sono appena iniziati per l’Italia. Certo l’assalto alla Tripolitania di Khalifa Haftar per il momento è fallito, ma la guerra civile non si è fermata e ora parte la battaglia di posizione. Uomini del generale che controlla la Cirenaica, ad esempio, hanno iniziato ad accusare i soldati italiani di stanza in Libia, e in particolare nella zona di Misurata, di aver partecipato agli scontri dei giorni scorsi e addirittura di aver bombardato i civili. Ieri il ministero della Difesa italiano ha smentito seccamente: il nostro contingente “non è assolutamente coinvolto negli scontri attualmente in atto nel Paese”, a Misurata i militari italiani hanno aperto un ospedale curando migliaia di persone. Non rassicurante per l’Italia, però, è anche un retroscena svelato ieri da Bloomberg: Haftar la settimana scorsa avrebbe sentito al telefono Donald Trump, che gli avrebbe garantito il suo appoggio; il presidente Usa, precedentemente, aveva parlato con al-Sisi (Egitto) e un membro della famiglia saudita, entrambi sponsor del generale.

La grillina che ha fermato l’affare di Arata

“Siamo tornati a parlare di eolico, ma stiamo scoprendo l’acqua calda, in Sicilia non c’è un piano rifiuti ed energetico, ci troviamo davanti a un Far West, un’emergenza creata ad hoc dalla politica”. La deputata del Movimento 5 Stelle Valentina Palmeri, vicepresidente della Commissione ambiente della Regione Sicilia, non usa mezzi termini.

È grazie al suo intervento che, nei mesi scorsi, è stato bloccato l’impianto “Biometano Gallitello”, che sarebbe dovuto sorgere a Calatafimi Segesta (Trapani), proposto dalla Solgesta Srl: l’azienda riconducibile all’ex parlamentare forzista Franco Paolo Arata, coinvolto insieme al sottosegretario leghista Armando Siri e al “re dell’eolico” Vito Nicastri, nell’inchiesta della Procura di Palermo sull’energia rinnovabile.

“Sul caso della Solgesta avevo letto l’avviso sul sito della Regione che mi aveva fatto drizzare un po’ le orecchie – spiega – perché c’è sempre il rischio d’infiltrazione della mafia, quando si parla di impianti di biometano o analoghi”. La deputata decide così di fare richiesta di accesso agli atti per visionare il progetto, ma capisce subito che qualcosa non quadra. “Non abbiamo avuto riscontri dalla Regione, e c’è stata una generale mancanza di trasparenza. Non si trattava nemmeno di biometano, ma di un impianto che andava a incenerire rifiuti organici”. Dopo una relazione di Legambiente che evidenzia diverse criticità, il sindaco di Calatafimi Segesta decide di revocare in autotutela la procedura relativa al progetto dell’impianto. “Non pensavo che questa battaglia potesse avere un riscontro tale, e diventare un caso nazionale…”, spiega la deputata siciliana.

“Sarebbe auspicabile che Siri si dimetta, non è accettabile che resti ancora al suo posto. Ma metto anche in conto il caso contrario, ovvero che rimanga lì dov’è. Dalla Lega ci si può aspettare di tutto”. Quarantaduenne originaria di Alcamo, in provincia di Trapani, Valentina Palmeri, al secondo mandato, ha fatto delle sue passioni una battaglia politica. Ambientalista convinta, è cresciuta nella sezione locale della Lipu. Ha seguito un corso di guardia venatoria, accompagnato le scolaresche come guida naturalistica e partecipato alla liberazione delle tartarughe “caretta caretta” nell’isola di Lampedusa e a Castellammare del Golfo.

“Dall’ambiente dipende il nostro futuro, anche sotto l’aspetto economico, basti pensare all’agricoltura, all’abbandono delle terre e all’esodo di tanti giovani. Abbiamo puntato a modelli agricoli che non sono adatti al nostro territorio, dobbiamo tornare a valorizzare le nostre risorse agricole, ambientali e turistiche”.

Quella della mancata costruzione dell’impianto della Solgesta, specie alla luce dell’inchiesta che sta riscaldando da giorni il clima politico nazionale, è “una piccola battaglia vinta”. “Spero che questa vicenda possa sortire altri effetti positivi – conclude Palmeri – magari un’accelerazione dell’iter di approvazione del piano rifiuti e degli impianti pubblici alla Regione, per risolvere l’emergenza: nella mia Sicilia c’è ancora molto da fare”.

Corleone s’inchina a Salvini: “Vogliamo pane e sicurezza”

Sono troppi e disordinati e a metterli in fila ci ha dovuto pensare lui stesso: “Uno dietro l’altro come alla Posta, pronti col telefono in mano”. Sorriso stirato dal sole, cinque secondi a testa per lo scatto e poi via a festeggiare il prezioso selfie. Giovani con la tuta del Milan, anziani con l’abito della domenica visto che comunque è festa, persino mamme con i bambini: Corleone si è inchinata a Matteo Salvini, il ministro venuto dal Nord per liberare la Sicilia dalla mafia, nel giorno in cui l’Italia ricorda la liberazione dal nazifascismo.

Per la verità ai corleonesi accorsi dal vicepremier nessuno dei due concetti sembra interessare troppo: né l’antifascismo, né l’antimafia. L’obiettivo era soprattutto scippare una foto ricordo. Nella città diventata simbolo – suo malgrado – dei sanguinari boss di Cosa Nostra non c’è traccia della vecchia Lega, quella della secessione che li chiamava terroni. “Queste sono cose passate, Matteo ci deve portare lavoro”, dice uno. “Pane e sicurezza ci vuole, come al Nord”, ripete un altro. Quei pochi contestatori che ci sono o si ammutoliscono davanti ai cronisti (“Non mi faccia parlare che comunque quello è ministro”) o restano a distanza, lontano dal commissariato di polizia che il titolare del Viminale è venuto a inaugurare, anche se è in funzione già da mesi.

Il dispiegamento di forze dell’ordine è imponente: a Palermo la tradizionale manifestazione per il 25 aprile è stata anticipata di un’ora e mezza, alle 8 del mattino, per liberare gli agenti in vista dell’arrivo del ministro. Che atterra in aeroporto alle 9 e 30: viene direttamente da Milano, dorme per tutto il viaggio e al risveglio sa già che dovrà allontanare dalla sua visita l’ombra lunga dell’inchiesta su Armando Siri. Un filo nero che passa per Paolo Arata, Vito Nicastri e arriva fino a Matteo Messina Denaro. “Siri resta al suo posto. Ci ho parlato: è tranquillo, se è tranquillo lui, sono tranquillo pure io”, dice appena mette piede sull’isola. Poi via per le strade statali, le “trazzere” piene di buche che lo portano dai corleonesi in attesa di una foto. Il ministro non si sottrae e si improvvisa vigile urbano: “Mi fermo anche un’ora, mettetevi in fila”.

Gli scatti si moltiplicano e Stefano Candiani, il sottosegretario spedito da Varese a fare da commissario in Sicilia, mette le mani avanti: “Una foto con qualcuno di sconveniente? Il rischio c’è, non stiamo chiedendo il certificato penale per un selfie. Ma se uno dovesse ragionare così non dovrebbe mai venire qui per paura”. Nel frattempo il suo leader improvvisa un mini comizio: “Alla facciazza di chi fa polemica, voglio liberare questa terra dalla mafia e dalla disoccupazione”. Applausi più sulla seconda. Pure il sindaco, Nicolò Nicolosi: “Corleone – dice – si aspetta decisioni per lo sviluppo e il lavoro”. E la mafia? “Ok alla libertà dalla mafia, precondizione per tutto, ma anche libertà dal bisogno, dalla necessità di infrastrutture e scelte per la crescita”, distingue senza imbarazzo il primo cittadino. Pure lui esaltatissimo per la visita del vicepremier: “Nella mia amministrazione – rivela – c’era un’attesa per la sua presenza, come se dovesse arrivare, scusi l’accostamento, la befana”.

Salvini non se la prende ma deve portare la sua Epifania a Monreale, la città di Salvino Caputo, primo politico decaduto per la legge Severino a causa di una condanna per abuso d’ufficio, ma anche tra i primi leghisti dell’isola. Lo hanno allontanato un anno fa, dopo l’arresto per voto di scambio e adesso lui si è candidato contro il suo ex partito. A Monreale, infatti, domenica si vota per le comunali e Salvini ha sfruttato la visita antimafia per tirare la volata ai suoi. Dieci contestatori lo attendono davanti al Duomo, occasione ghiotta per arringare la piazza: “A quei ragazzi regaliamo pane, nutella e il libro di Saviano”. Dai tavolini dei bar applaudono. Qualcuno più anziano al bavero ha persino la spilla di Alberto da Giussano (lo chiama “Giussani”) e si ricorda di quando a suscitare tanto entusiasmo era Silvio Berlusconi: “Ma quello ha pensato solo a se stesso. Ora c’è solo Matteo”.

Tra due giorni si vota anche a Bagheria, dove il sindaco è un ex del M5S, ripudiato da Luigi Di Maio dopo essere finito sotto inchiesta per una storia di abusivismo edilizio. È la terza tappa del ministro, che accenna un attacco all’alleato: “Attenti per chi votate perché quello che doveva essere il sindaco del cambiamento non mi pare abbia ben operato”.

Poi un po’ di promesse sparse: dagli asili gratis ai siciliani all’immancabile lotta all’immigrazione. E poi ovviamente la mafia: “Questa terra non sarà più solo quella di Totò Riina”. Dal capo dei capi al capitano, è un attimo.

Le pressioni sul Colle sulla legittima difesa: “La firma arriva a ore”

C’è molto “non detto” nei rapporti tra governo gialloverde e il Quirinale. Il convitato di pietra più grosso sono le nomine in Banca d’Italia, ben tre, proposte da settimane da Palazzo Koch con l’avallo di Sergio Mattarella e non ratificate dal Consiglio dei ministri (Lega e M5S sono assai dubbiosi sulla figura della ex manager Barclays Alessandra Perazzelli e ancora non s’è risolta la disputa, ancora più antica, su Luigi Antonio Signorini). Di questo stallo si parla ogni tanto sui giornali, sempre annunciando la capitolazione dell’esecutivo, mentre poi si scopre che non è così. D’altra parte il presidente della Repubblica se la sta invece prendendo molto comoda nella promulgazione della “legge bandierina” di Matteo Salvini, quella sulla legittima difesa, approvata in via definitiva quasi un mese fa. I retroscena parlano di forti dubbi del Colle sulle norme care alla Lega, qualcuno – specie a destra – ha ventilato persino la possibilità di una bocciatura. E ieri Salvini s’è preso il gusto di fare un po’ di pressione a Mattarella sul tema: “Stiamo aspettando a ore la firma del capo dello Stato”, ha detto in un comizio a Monreale. Chissà se anche al Colle hanno tutta questa fretta.

Legge per riformare la sanità in Italia, dopo scandalo Umbria

A Perugia nella regione delle inchieste sulla sanità Luigi Di Maio annuncia una nuova legge: “Il diritto alla salute venga garantito se la sanità non viene politicizzata, se togliamo alle regioni il potere di nominare i dirigenti sanitari. Non è possibile che la politica continui a usare la sanità pubblica come fosse un bancomat. È stato fatto troppe volte, anche in una regione civile e bella come l’Umbria”. Accompagnato dai ministri della Salute e della Giustizia Giulia Grillo e Alfonso Bonafede assicura e si impegna. “Stiamo portando avanti in Parlamento una legge nazionale che speriamo la Lega si muova a votare con noi. Una legge che toglie alla politica regionale il potere di decidere sui dirigenti, sui primari ospedalieri, sui direttori sanitari”. Ha poi concluso: “Il governo ha tante priorità da realizzare, che fanno parte del contratto di governo. Abbiamo il salario minimo da realizzare con la legge che è al Senato; togliere alla politica regionale la possibilità di nominare i vertici della sanità e, allo stesso, tempo rimettere va posto le liste di attesa che in molte regioni sono indegne”.

Quando il leghista chiedeva dimissioni: Guidi, Boschi, Alfano, Cancellieri & C.

Ci spiega Matteo Salvini che “Siri è innocente fino a prova contraria”. Banalità che ci sentiamo senz’altro di sottoscrivere, purché il ministro dell’Interno ricordi oggi certi suoi timori di un tempo che altrettanto ci sentiamo di sottoscrivere: la responsabilità politica è infatti più vasta e delicata di quella penale.

Riassunto: il leghista Armando Siri, sottosegretario alle Infrastrutture già condannato per bancarotta, è oggi indagato per corruzione per i suoi rapporti con Paolo Arata, che contribuì a scrivere il programma energetico della Lega e il cui pargolo Federico è consulente di Giancarlo Giorgetti a Palazzo Chigi, il quale è a sua volta in affari con l’imprenditore Vito Nicastri, “il re dell’eolico” già finito da anni in inchieste di mafia, condannato per corruzione e truffa e oggi a processo per concorso in Cosa Nostra con l’accusa di aver aiutato la latitanza di Matteo Messina Denaro (i pm hanno chiesto per lui 12 anni di carcere).

E qui a Salvini dovrebbe venire un dubbio: è proprio il boss che i suoi uomini del Viminale cercano da tanti anni? Sì, è lui. Insomma, “Siri è innocente fino a prova contraria” e anzi diciamo fin d’ora che è penalmente innocente, ma allora altrettanto sicuramente è sfortunato o distratto quanto alle sue frequentazioni e alle sue iniziative politiche: motivo già sufficiente ad allontanarlo dal governo.

Salvini, se ci riflette e ricorda certe sue prese di posizione, sarà d’accordo. Il sottosegretario leghista, per dire, è accusato di aver presentato emendamenti sulle rinnovabili ispiratigli dal duo Arata-Nicastri, che hanno interessi nel settore: un caso di conflitto di interessi da manuale, anche solo (a voler dimenticare l’accusa di corruzione) per le molte pressioni esercitate da Arata per far nominare Siri nell’esecutivo. E Salvini al tema del conflitto di interessi è sensibile. Di Maria Elena Boschi diceva: “Nel governo ci sono conflitti di interessi da risolvere. Non so se è corretto che ci sia un ministro che ha un papà che lavora in banca mentre il governo fa un provvedimento sulle banche”. Seguì mozione di sfiducia alla ministra (respinta).

E non fu certo un caso unico. La Lega chiese le dimissioni nel 2013 anche della Guardasigilli Annamaria Cancellieri (governo Letta) per certe eccessive sollecitudini nei confronti dei Ligresti, amici di famiglia e incidentalmente ex datori di lavoro del figlio. E pure quando venne fuori la penetrazione di alcuni interessi petroliferi nella vita della ministra Federica Guidi (caso Tempa Rossa), Salvini non si risparmiò: “Ennesimo conflitto di interessi del governo Renzi, Berlusconi era una verginella”. Alla Lega non bastarono nemmeno “le doverose dimissioni” di Guidi: “La situazione è compromessa: questo governo è un comitato d’affari”, si scandalizzava la deputata Barbara Saltamartini.

All’epoca, peraltro, il cosiddetto Capitano distingueva bene tra responsabilità penali e politiche. Quando si aprì il processo sul famigerato Cara di Mineo (Catania) riassunse così la situazione: “18 rinviati a giudizio per corruzione e altri reati, fra loro il sottosegretario all’Agricoltura Castiglione (Ncd) e il sindaco di Mineo (Ncd). Alfano non sapeva? Via Alfano e via il Cara”.

Oggi Salvini pare aver cambiato idea, capita. Eppure qualcuno al Viminale potrebbe spiegargli che pessimo segnale sia tenere al governo e coprire col suo autorevole “fino a prova contraria” un politico che – magari a sua insaputa – è stato raggiunto da interessi paramafiosi.

E dire che anche questo lo sapeva: c’è “un impegno straordinario” per la cattura di Messina Denaro e la strategia è “isolarlo dal circuito di relazioni, con soggetti anche del mondo imprenditoriale, che possono agevolarne la latitanza”, disse il 25 luglio illustrando le linee programmatiche del suo ministero in Parlamento. Ecco, se lo isola così…

Caso Siri: le tappe

 

18 aprile. È il giorno in cui scoppia il caso Armando Siri: vengono rese pubbliche le pesanti accuse della Procura di Roma. L’ideologo della flat tax, senatore leghista e sottosegretario alle Infrastrutture “era costantemente impegnato – con la sua azione di alto rappresentante – nel promuovere provvedimenti regolamentari o legislativi che contengano norme ad hoc che favorissero gli interessi economici dell’imprenditore Arata”. Siri è indagato: tangenti per favori in Parlamento

 

24 aprile. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte prima annuncia una telefonata e poi un faccia a faccia – al rientro dalla Cina – con il sottosegretario leghista Siri: “Voglio guardarlo negli occhi”, avrebbe detto Conte. Il vicepremier Luigi Di Maio traccia la sua linea di demarcazione: su Siri serve un intervento del premier, il sottosegretario non può più stare al governo

 

29 aprile. Lunedì prossimo è in programma il Consiglio dei ministri in cui dovrebbe esserci la resa dei conti. Il premier dovrebbe “invitare Siri a dimettersi” adducendo l’opportunità politica del gesto, ma finora il sottosegretario ha avuto le spalle coperte dal ministro dell’Interno

Salvini non gongoli sull’intercettazione “fantasma” di Arata

Se a un albero storto si applica una seconda stortura di senso opposto non si ottiene un albero dritto. Così, se a un giornale che riporta in modo impreciso un’intercettazione, replica un politico che punta a negare l’esistenza tout court della conversazione, l’effetto che si ottiene è il disorientamento e la perdita di fiducia di lettori ed elettori nel dibattito pubblico. Per fortuna a breve saranno depositati nuovi atti e lì dovrebbe esserci anche l’intercettazione chiave del caso Siri al centro ieri di una polemica politico-giornalistica.

Ieri, infatti, Matteo Salvini ha tentato di uscire dal cul de sac del caso Siri facendo leva su uno scoop de La Verità, opposto a quello dei grandi quotidiani. Il punto della contesa è la conversazione intercettata dai pm e usata per accusare l’amico della Lega Paolo Arata di avere promesso o dato 30 mila euro all’altro amico di Salvini, il sottosegretario Armando Siri, perché favorisse un cambiamento in suo favore delle norme sull’energia rinnovabile.

La Verità di ieri ha sparato un titolo a tutta pagina (“Pm choc: ‘L’intercettazione utilizzata contro Siri non esiste nell’inchiesta’ ”) per smentire la notizia pubblicata da Corriere della Sera e Repubblica (più Il Messaggero) e ripresa da molti quotidiani.

Il 19 aprile Il CorSera riporta il virgolettato della “presunta” conversazione avvenuta in estate tra l’imprenditore Paolo Arata e il figlio Francesco: “Questa operazione ci è costata 30 mila euro”. Lo stesso giorno anche Repubblica riporta la frase ma in modo diverso. Ci sarebbero addirittura due conversazioni. La prima di agosto (“Questo affare mi è costato 30 mila euro”) e la seconda di settembre (“mi ci sono voluti 30 mila euro”). Anche Il Messaggero ha una sua versione: “Sta storia mi è già costata 30 mila euro”.

Il punto è che l’intercettazione c’è, ma non ha il testo riportato dai tre quotidiani. Mentre nel titolo de La Verità e poi nelle interpretazioni politiche che ne sono state date, sembra quasi che non ci sia nessuna intercettazione che “inguaia” Siri. Nel pezzo de La Verità Giacomo Amadori spiega correttamente che il punto non è l’esistenza dell’intercettazione, ma il virgolettato riportato dai grandi giornali: “Dopo la lettura, i magistrati (…) restano basiti e iniziano a cercare la conversazione che non ricordavano di aver letto. Ma, dopo aver scartabellato dentro al fascicolo (…) rimangono sconcertati per il risultato: l’audio non esiste. Avete letto bene: sul Corriere – punta il dito Amadori – sarebbe stata pubblicata tra virgolette una battuta mai captata dagli investigatori. ‘Le intercettazioni sui giornali? Sono false. Quelle frasi non ci sono nel fascicolo’, ci assicura un inquirente”.

Ovviamente ieri a Salvini non è parso vero rilanciare la tesi dell’intercettazione falsa: “Stamattina ho letto in un giornale – ha dichiarato – che le intercettazioni non esisterebbero. Se così fosse sono sicuro che giudici, magistrati e avvocati faranno bene e in fretta il proprio lavoro”.

Il Giornale di Berlusconi ha fatto un passo avanti: “I pm: ‘Nelle carte su Siri non ci sono intercettazioni sulla tangente’”. Nemmeno La Verità lo sostiene nel suo articolo che si limita a raccontare: “Quello che dà più fastidio agli inquirenti non è il senso delle frasi contenute tra i caporali, significato che, come nel caso di Siri, si può dedurre dai provvedimenti di perquisizione, ma è la decisione di trasformarlo nelle vive parole degli indagati”. A prescindere dalle contese tra giornalisti, la questione è delicata perché Siri è un sottosegretario e sul suo caso balla il governo.

La verità come spesso accade sta nel mezzo. Non è vero, come scrive Il Giornale, che non esista nessuna intercettazione nella quale Arata parla dei 30 mila euro. La Procura di Roma ha scelto di non depositare la conversazione intercettata in cui Arata parla dei soldi, ma i pm hanno formulato un capo di accusa chiaro: “Siri, proponendo emendamenti contenenti disposizioni in materia di incentivi per il cosiddetto mini eolico, riceveva indebitamente la promessa e/o la dazione di 30mila euro da parte di Arata”.

Tutti i giornalisti, dopo aver letto il capo di imputazione, si chiedevano perché i pm avessero accusato Siri di corruzione per un preciso emendamento, che spostava a settembre 2017 l’incentivo più favorevole, e per una cifra precisa, cioé 30 mila euro. Tutti i giornalisti hanno chiesto alle fonti se ci fosse un’intercettazione. Qualcuno potrebbe avere ottenuto, oltre alla conferma, una citazione a memoria. Così, al fine di informare il pubblico, qualche collega si potrebbe essere preso il rischio di pubblicare la versione citata a memoria dalla fonte senza una carta ufficiale.

A meno di non pensare a tre conversazioni simili, corrispondenti a quelle diverse riportate dai tre quotidiani, questa sembra una lettura plausibile dei fatti. Insomma nessuna falsificazione in mala fede del senso, ma solo un’accelerazione, magari un po’ imprudente, sul testo esatto della trascrizione della conversazione intercettata. Presto, con tutta probabilità, sapremo come sono andate le cose. L’intercettazione dovrebbe essere depositata e, quando l’avrà letta, Il Fatto la pubblicherà.