Siri, ora la Lega tentenna: “Non cadremo per lui”

Ci ha sperato, per qualche ora. Poco prima di volare per la Sicilia, in fuga dal 25 aprile, si era aggrappato a un articolo di giornale. Ma quella che sembrava la carta a sorpresa, il pezzo de La Verità che ieri mattina bollava come inesistente un’intercettazione che pesa come un macigno su Armando Siri, non ha mutato lo stato delle cose. Così il Matteo Salvini che ieri ha schivato le piazze della Liberazione ora fugge anche dalle sue certezze sul sottosegretario della Lega indagato per corruzione, l’uomo che resta il primo problema del governo. Ma che forse non rimarrà tale a lungo, perché “non possiamo fare una crisi di governo per Siri”, come riassume un’alta fonte del Carroccio. Convinta che “andare a rompere sul suo caso, ossia sulla questione morale, sarebbe un regalo ai 5Stelle” proprio prima delle Europee, e su una vicenda per di più a cui si intreccia la parola mafia. E poi “Armando lo conosciamo tutti, ci fidiamo, però metterci la mano sul fuoco…”. Tanto più che è atteso un nuovo deposito di atti da parte dei pm romani e non è il caso di esporsi senza conoscerne i contenuti.

Tornando a ieri, Salvini cambia in fretta spartito: a mezzogiorno giura ancora che il sottosegretario alle Infrastrutture “resterà dov’è, ci mancherebbe altro”. Invece nel pomeriggio svicola: “Se vogliamo parlare di quello che chiede Corleone sono disposizione, la polemica politica la lascio agli altri, le sentenze ai magistrati”. Traccheggia, il capo del Carroccio, perché la corda sul caso Siri si sfilaccia. Per la delusione del vicepremier, che pure nelle prime ore del 25 aprile spera nel colpo che rovescerebbe il tavolo.

Mentre è in aeroporto a Milano gli raccontano dell’articolo de La Verità, dove si sostiene che i magistrati non abbiano trovato traccia di un’intercettazione pubblicata da alcuni giornali, quella in cui Paolo Arata spiegava al figlio che “quest’operazione ci è costata 30 mila euro”, e il riferimento secondo l’accusa sarebbe a una tangente versata a Siri per “spingere” gli emendamenti sull’eolico. Sarebbe la pistola fumante che scompare dal tavolo, ragionano i leghisti. Così il ministro si fa mandare il pezzo, e appena atterrato in Sicilia lo usa come una lama: “Sembra che quelle intercettazioni di cui si parla da giorni non esistano, siano false: vedremo”. Ma non è così semplice. Perché il Corsera, ad esempio, ribatte sul sito, mostra il capo d’imputazione e ribadisce che l’intercettazione esiste.

E la sostanza, al di là della registrazione, è che l’accusa degli inquirenti a Siri rimane assolutamente quella: “Proponendo emendamenti contenenti disposizioni in materia di incentivi per il cosiddetto mini eolico, riceveva indebitamente la promessa e/o la dazione di 30 mila euro da parte di Arata”. Ovviamente leggono anche i 5Stelle, che in mattinata si erano preoccupati. Le verifiche successive, però, li convincono che la linea deve restare quella: Siri via il prima possibile.

Così il capo politico Luigi Di Maio picchia su Salvini: “Che senso ha dire che si festeggia a Corleone, dicendo che si vuole eliminare la mafia: la elimini se tu dai l’esempio”. E poi insiste: “Siri si deve dimettere da sottosegretario e se non lo fa chiederemo a nome del governo che lo faccia, anche al presidente del Consiglio”.

Il riferimento indiretto è alla possibilità che sia direttamente il Consiglio dei ministri a rimuoverlo su proposta del premier Conte. Strada tecnicamente possibile, ma politicamente lastricata di sangue. Perché bisognerebbe andare alla conta in Cdm e comunque servirebbe il via libera finale del Quirinale, che non vuole essere tirato dentro questa rogna. Ergo, il primo obiettivo è convincere il sottosegretario a mollare. Magari lunedì, quando Conte lo incontrerà al ritorno dalla Cina.

Per questo va letto in controluce il sottosegretario del Carroccio Stefano Candiani, con Salvini in Sicilia: “Aspettiamo l’incontro di lunedì ma bisognerebbe essere più ampi di vedute e magari leggersi anche gli atti dell’indagine”. Tradotto, Candiani tiene il punto, ma senza esagerare. Mentre altri big a 5Stelle invocano le dimissioni: “Ci aspettiamo che Siri vada via immediatamente” scandisce il sottosegretario Stefano Buffagni.

E il ministro alla Giustizia Alfonso Bonafede è feroce: “Mi sembra che in questi giorni si sia tornati ai tempi di Berlusconi, in cui si parlava della giustizia contro qualcuno o per qualcuno”. In serata, ancora Di Maio: “Giusto il garantismo, non il paraculismo”. Salvini legge. E ora riflette su come uscire dall’assedio. Consapevole che un sottosegretario non vale quanto un governo.

Memento Renzi&B.

Quando nacque il governo Conte, il sottosegretario leghista Giancarlo Giorgetti, politico accorto e navigato, regalò al suo vicepremier e leader Matteo Salvini una foto di Matteo Renzi, da tenere sulla scrivania del Viminale come monito imperituro sulla caducità del consenso. Appena cinque anni fa il neopresidente del Consiglio Renzi, sulle ali degli 80 euro, trionfava alle Europee portando il Pd al 40,8% (cifra mai toccata da un partito italiano dopo la Dc degli anni 50), laudato e riverito da tutti come l’Uomo della Provvidenza che avrebbe governato l’Italia per almeno 20 anni: ora è un relitto umano e politico che, per far parlare di sé, fa causa ai rotoli di carta igienica con la sua faccia. La stessa cosa, ma in vent’anni anziché in quattro, era accaduta a Silvio B. Ancora dieci anni fa il centrodestra, saldamente nelle sue mani, pareva destinato a dominare incontrastato per chissà quanto tempo. Rivinte per la terza volta le elezioni nel 2008, col Pd di Veltroni all’opposizione (cioè senza opposizione), toccò l’apice del consenso, e non solo nell’Italia di centrodestra, proprio il 25 aprile 2009. Erano trascorse appena tre settimane dal terribile terremoto in Abruzzo (con 309 morti, 1.600 feriti e 80 mila sfollati), aggravato dalle inefficienze della Protezione civile che aveva fallito sulla prevenzione, malgrado le avvisaglie di sei mesi di sciame sismico. Ma il monopolio mediatico aveva consentito al Caimano di volgere tutto quel disastro e quel dolore a suo favore, con quotidiane passerelle sulle macerie a braccetto con Bertolaso, culminate nell’incredibile G8 traslocato in extremis da La Maddalena a L’Aquila.

Fu allora che, per cogliere l’onda, B. contravvenne al suo storico assenteismo dalla Festa della Liberazione (all’epoca il partito antifascista, nel centrodestra, era la Lega di Bossi). E si presentò a Onna, il comune abruzzese più devastato, travestito da partigiano con tanto di fazzoletto rosso al collo, per un comizio tutto finto che però sortì l’effetto sperato. Uno spiacevole fuorionda, immortalato da una telecamera rimasta accesa, colse una frase del premier non proprio degna di uno statista, durante la foto di gruppo con i vigili del fuoco e i volontari trentini: “Posso palpare un po’ la signora?”. La signora era Lia Beltrami, 41 anni, sposata con due figli, assessore Udc alle Pari opportunità della Provincia di Trento, che restò pietrificata. Ma la cosa non fece notizia: ci voleva altro per turbare il clima di “pacificazione” dopo 15 anni di presunta “guerra civile”. Non sapendo come fargli opposizione, per non averci mai provato, il Pd aveva una gran voglia di mettersi d’accordo.

Scaricato Prodi senza tanti complimenti, Veltroni predicava la “legittimazione reciproca” con quello che chiamava “il principale esponente dello schieramento avversario” e il “dialogo sulle riforme istituzionali” da fare “insieme”. E la stessa linea sosteneva, dopo le sue dimissioni, il neosegretario Dario Franceschini. Esponenti di spicco come Giuliano Amato e Franco Bassanini accettavano l’invito del sindaco fascista di Roma Gianni Alemanno a entrare in una “Commissione Attali” bipartisan, versione all’amatriciana di quella creata l’anno prima da Sarkozy con i socialisti francesi, per “lavorare insieme” (per il Pd, evidentemente, Alemanno era meglio di Marino e della Raggi). Insomma, c’era una gran voglia di inciucio, tipo Bicamerale anni 90. Gli ingressi di Villa San Martino, Palazzo Grazioli e Villa Certosa erano affollatissimi di cortigiani sgomitanti. Anche il gruppo Repubblica-Espresso, dopo tante battaglie, seguiva il Pd nella linea dell’appeasement accreditando la leggenda metropolitana di un Cavaliere “nuovo”, “cambiato”, quasi uno “statista” ormai libero da pendenze giudiziarie (aveva solo tre processi) e pronto a sacrificarsi per il bene esclusivo della Nazione, dialogando con le opposizioni sulle “grandi riforme” sotto lo sguardo benedicente di Re Giorgio Napolitano, santo patrono e protettore di tutti gli inciuci.

Il 26 aprile, su Repubblica, Eugenio Scalfari salutò festoso la “svolta di Onna”: “È caduto il muro che aveva fin qui impedito a quella ricorrenza di diventare una data condivisa da tutti gli italiani. Il merito di questo risultato spetta a Silvio Berlusconi, al discorso da lui tenuto ad Onna ed anche – diciamolo – a Dario Franceschini, che ha incitato il premier a render possibile un evento così importante… Con il suo discorso di Onna, Berlusconi ha scelto di… dare atto che Liberazione e Resistenza sono stati un tutto unico dal quale è nata la nostra Costituzione repubblicana, fermo restando il rispetto per tutti i caduti, anche di coloro che in buona fede scelsero la parte sbagliata… ed è quindi doveroso dargliene atto… Berlusconi ha raggiunto un livello di consenso che gli impone di proporsi come il rappresentante politico di tutti gli italiani, quelli che lo amano e quelli che non lo amano, quelli che hanno fiducia e quelli che ne diffidano, quelli che condividono il suo ‘fare’ e quelli che l’avversano. Noi siamo tra questi ultimi ma riconosciamo che una svolta è stata compiuta, sia nella valutazione storica della Liberazione e della Resistenza, sia nel riconoscimento dei principi sui quali si regge la Costituzione… Bisogna ora vedere se i seguiti saranno conformi al nuovo inizio e intanto rallegrarsene. Dunque tutto bene? Il tessuto democratico del paese si è rafforzato? Si aprirà finalmente una dialettica operosa tra governo ed opposizione?”. E, se questo era Scalfari, figuratevi cosa scrivevano i giornaloni più “moderati”, dal Corriere della Sera a La Stampa, dal Sole 24 Ore al Messaggero. Il Financial Times, a proposito dell’informazione italiana su B., parlò di “un’adulazione vicina ai livelli nordcoreani”. E fu proprio contro quel sudario di servilismo e conformismo da pensiero unico che, in quei mesi, nacque il Fatto Quotidiano.

Intanto però, per B., l’aria cambiò rapidamente. E tutto quel consenso cominciò a tramutarsi lentamente in dissenso. Proprio all’indomani di Onna, il 26 aprile, si venne a sapere che B. aveva candidato dieci fra veline e aspiranti tali nelle liste di FI per le Europee di maggio, previo corso intensivo di formazione (ben tre giorni di lezioni serali) sulla Ue, con docenti e ammaestratori di chiara fama come Brunetta, Frattini, Verdini e La Russa. E due giorni dopo la sua signora, Veronica Lario, in una dichiarazione all’Ansa definì quelle candidature “ciarpame senza pudore”. L’indomani B. dovette fare retromarcia, “scandidando” quasi tutte le girl, tranne Barbara Matera, ex “letteronza” della Gialappa’s Band.

Ma intanto Repubblica rivelò che il 26 aprile, di ritorno dall’Abruzzo, B. aveva festeggiato in un equivoco ristorante di Casoria il 18° compleanno di tal Noemi Letizia, che lo frequentava da quattro anni e lo chiamava Papi. E Veronica annunciò, su Repubblica, il divorzio: “Mio marito è un uomo malato, frequenta minorenni, vergini che si offrono al drago”. A maggio, le foto del reporter Antonello Zappadu svelarono gli allegri festini a Villa Certosa con decine di ragazze, anche aviotrasportate su aerei di Stato. Eppure, alle Europee, il Pdl (FI+An) superò il 35% e il centrodestra, con la Lega e l’Udc, dilagò oltre il 51%. A giugno il Corriere rivelò l’inchiesta su Gianpi Tarantini per un giro di escort, Patrizia D’Addario e altre, recapitate al premier a Palazzo Grazioli. E fu l’inizio della fine, sopraggiunta nel 2011 al seguito di altri scandali giudiziari (il caso Ruby su tutti) e disastri politico-finanziari.

Perché oggi ci tornano alla mente le elezioni europee del 2009 e del 2014? Perché al posto di Salvini, accanto alla foto-monito di Renzi, terremmo sulla scrivania anche quella di B. E la sera del 26 maggio, nell’ora del suo prevedibile trionfo in Europa, una grattatina ce la daremmo.

“Space Oddity”, Bowie prima di Major Tom

Il pretesto – sempre che ce ne sia bisogno – è la celebrazione dei 50 anni di “Space Oddity”, il brano della svolta di David Bowie. È il passaggio dell’esile cantante beat di “The Laughing Gnome” al cantautore tout court, con la creazione del concept di Major Tom, icona alter-ego riproposta sino alla morte dell’artista. Il cofanetto in vinile Spying Through A Keyhole è composto da una manciata di 45 giri contenenti demo e inediti. Sono registrazioni casalinghe la cui qualità audio non è eccelsa; l’intera operazione era stata pianificata e approvata dall’artista prima della sua scomparsa.

Si parte con l’ascolto di “Mother Gray”, una classica ballata folk con chitarra, armonica e tamburo con un ritornello cantato in falsetto. Atmosfera hippie e testo basico. “In The Heat Of The Morning” ricalca il classico stile di chitarre sovrapposte caro ai C.S.N.&Y.; si percepisce l’ossatura del futuro classico “Ziggy Stardust” con alcune linee melodiche simili. Il secondo 45 giri si apre con “Goodbye 3d (Threepenny) Joe”, canzone legata al periodo Pierrot in Turquoise, l’opera di Lindsay Kemp, l’artista al quale David si è ispirato per tutta la sua carriera, cambiando di volta in volta le sue maschere. La traccia è più articolata rispetto agli altri demo, quasi una favola narrata con un suono più definito. Il retro del singolo – con un pessimo audio – è “Love Is All Around”, una canzone d’amore standard dalla quale è estratto il titolo del cofanetto. Altra filastrocca ben congegnata è “London Bye, Ta-Ta” mentre “Angel Angel Grubby Face” è presente in due versioni, la prima già edita e la seconda più intimista nella quale emerge la voce da crooner di Bowie, poi sapientemente utilizzata soprattutto in “Wild Is The Wind” e “Word On A Wing”, entrambe in Station To Station. A seguire ecco la prima versione in assoluto registrata di “Space Oddity”, il brano che più di ogni altro consacrerà la carriera di Bowie. Emoziona non poco ascoltare la sua visione della canzone, in una brutale e selvaggia versione scarnificata dagli effetti dei primi synth elettronici dell’epoca. Il retro dell’ultimo 45 giri è una seconda versione del brano, con l’arrangiamento più complesso – poi diventata la versione definitiva che conosciamo – a opera di John Hutchinson.

Il musicista e collaboratore di Bowie è il protagonista nascosto anche del secondo cofanetto in uscita il 19 maggio, Clareville Grove Demos, con altri quattro inediti. Il titolo riprende il nome dell’appartamento di David nel quartiere londinese, nel quale ha registrato nel 1969 i brani. Con Hutchinson Bowie aveva formato i Feathers, un gruppo con la sua ex ragazza Hermione Farthingale, poi diventata la protagonista di una canzone. Nel cofanetto vi è una terza versione di “Space Oddity” con sul retro “Lover To The Dawn” e una curiosa “Ching-A-Ling” originariamente registrata dal trio Turquoise (Bowie, Tony Hill e l’ex Hermione). Le altre tracce sono “An Occasional Dream”, “Let Me Sleep Beside You” e “Life Is A Circus”, cover di Roger Brunn cantata da Bowie con Hutchinson. Per i fan e i collezionisti i due cofanetti saranno il preludio ad altre ghiotte pubblicazioni previste quest’anno: per la prima volta uscirà in versione Cd la colonna sonora di Just A Gigolo, film del 1978 interpretato da Bowie per la regia di David Hemmings. Infine il 17 maggio per festeggiare il quarantesimo anniversario dell’album Lodger sarà pubblicato il picture disc di “Boys Keep Swinging” con la versione 2017 di Tony Visconti e la rara “I Pray, Olè”.

“I fischi mi hanno fatto soffrire, non ho mai tradito nessuno”

A quasi 100 anni dalla nascita di Fausto Coppi, un libro curato da Gabriele Moroni ne traccia un’autobiografia attraverso gli scritti. Nello stralcio che pubblichiamo siamo nel ’54: dopo una serie di insuccessi, Coppi riscatta la stagione con la Coppa Bernocchi, il Giro di Lombardia, il Trofeo Baracchi, la “classica” del 4 novembre. Ritrova l’affetto della folla dopo essere stato bersagliato dai fischi e avverte il bisogno di rivolgersi ai tifosi con una “lettera aperta” su “Epoca”.

Cari amici, sono moltissime le lettere che ricevo in questi giorni da ogni parte d’Italia e dall’estero; e, tutte, vergate da sportivi di ogni età, da voi, probabilmente, che mi volete far giungere il vostro compiacimento per le mie recenti vittorie e l’incitamento e l’augurio per altri successi. Ebbene, non potendolo fare con tutti direttamente, lasciate che esprima attraverso queste colonne i miei ringraziamenti. Capisco che dovrei scrivere a ciascuno di voi, come si usa fra mortali, ma, dovete credermi, non ho il tempo per farlo. Trascorro, si può dire, le mie giornate da un treno all’altro, da una corsa all’altra, da un velodromo all’altro e quelle poche ore che mi restano di libertà devo anche dedicarle al riposo, che mi è indispensabile. Poi, non sono nato per scrivere e penso che non siano soltanto gli scritti il filo di simpatia, di stima e di affetto reciproci che legano, ad esempio, un campione dello sport ai suoi sostenitori.

Sono rientrato poco fa in albergo dal Velodromo Appio in Roma, dove ho partecipato a una riunione su pista e anche qui ho avuto la gradita sorpresa di trovare alcune vostre lettere. E così ho rotto gli indugi e ho deciso di scrivervi anch’io. Lasciate, dunque, che vi dica che le vostre manifestazioni di solidarietà e di affetto mi hanno davvero commosso. Cento e cento nomi danno la paternità ai pensieri che avete voluto esprimermi, scrivendomi: alcuni di questi nomi mi sono noti, altri no. Ciò non ostante sono certo di conoscere tutti, così come voi sapete riconoscermi nel folto di un gruppo di ciclisti, quando passa una corsa. La folla che assiste al passaggio delle corse, agli arrivi nei velodromi e che molti definiscono “anonima”, per me ha invece un nome, una identità, mi è tanto cara. È vero che qualcuno, nei momenti grigi della mia carriera di corridore, è giunto a pensare che io, ormai famoso campione del pedale, me ne infischiavo della folla sportiva e, in certe occasioni, facevo soltanto atto di presenza, sottovalutando la passione e l’entusiasmo che convocavano migliaia e migliaia di persone ai bordi delle strade, sulle cime dei colli. È vero che altri giunsero anche ad accogliermi, al mio passaggio o agli arrivi, con sonanti bordate di fischi. Ma è pur vero che io, in quelle occasioni, non mi sono mai adombrato nei confronti di quegli sportivi perché so che essi vorrebbero sempre vedere il loro beniamino vittorioso. Non tutte le volte, però, è possibile vincere e quando non ho vinto, e gli sportivi mi hanno fischiato, ho sofferto specialmente perché ero sicuro di non aver tradito nessuno. Ma ora ho ritrovato me stesso, e la folla compatta che mi applaude. E sono contento e commosso. Né potrò mai dimenticare, ad esempio, il corridoio umano attraverso il quale sono passato da Bergamo a Milano, durante la mia ultima vittoriosa galoppata contro il Cronometro. Ne ho vista di gente nella mia carriera di corridore, ma mai, credo, come quel giorno. Sono andato forte altre volte per vincere una corsa, ma mai come nel Trofeo Baracchi di qualche giorno fa. […]. Mi potevano, forse, bastare le vittorie ottenute nella Coppa Bernocchi e nel Giro di Lombardia? Furono due successi, specialmente il secondo, che riportarono il mio morale alle stelle, che richiamarono ancora attorno a me gli sportivi che mi avevano lasciato quasi solo, con il mio sconforto. Però, non ero ancora pago. Avevo bisogno di dire ancora qualcosa prima che finisse l’annata ciclistica. E mi imposi di vincere anche il Trofeo Baracchi. E fu così che ritrovai, come ho detto, una delle mie giornate di vena, rividi voi venirmi incontro con lo sguardo mentre da Bergamo filavo verso Milano e sentii la spinta del vostro incitamento accorato. Il mio morale ricevette un nuovo conforto e vinsi. Ora, mi auguro che le mie forze continuino a essermi alleate per tornare a vincere per voi, amici, e per me.

“Mio padre, niente da invidiare a Monicelli”

Emanuele Salce è memoria conquistata: quando gli animi si sono appianati, le caselle hanno trovato il loro ordine e il dolore, le incomprensioni, gli errori hanno conquistato un giusto perché, allora lui è diventato testimone diretto di un tempo glorioso, creativo e magico, con protagonisti suo padre Luciano e il suo secondo “genitore”, Vittorio Gassman.

Così se del Vittorio nazionale si sa molto, mai troppo, con il Salce regista, attore, conduttore, autore di canzoni e scrittore il tempo non è stato clemente, tantomeno rispettoso. Eppure “non ha niente da invidiare alla cinematografia di Monicelli, Steno o Risi”, sostiene il figlio.

Da poco la casa editrice Volume ha riscoperto l’unico libro scritto nei primissimi anni Ottanta da Luciano Salce, Cattivi soggetti, ed Emanuele è la voce narrante dell’audiolibro.

A suo tempo seguiva suo padre nelle presentazioni?

Due o tre volte, ma non vivevo anni di serenità verso di lui, ammesso che lo sia mai stato.

Mai…

In quel periodo tentavamo di creare un rapporto, ma non c’è stato il tempo: dopo l’ictus del 1983 si è chiuso in se stesso, e non sapendo quanto gli restava da vivere, è tornato alle sue antiche abitudini, più rassicuranti.

Però aveva tentato…

Chiedeva aiuto a mia madre: ‘Spiegami come si parla con i bambini, insegnami’.

Ignaro.

Gli mancavano le basi: orfano di madre, rifiutato dal padre e piazzato in collegio, poi un incidente d’auto gli ha storto la mandibola, infine prigioniero di guerra. Diciamo che la vita non era stata tenera.

L’affascinava?

Al massimo mi divertiva, oggi il fascino arriva dalla progressiva comprensione di chi era.

Non è nel pantheon dei grandissimi riconosciuti.

Questione di carattere e di educazione: non sapeva vendersi, non era neanche disposto a imparare, non gli interessava, viveva di sottrazione, preferiva il profilo basso senza prendersi sul serio; non è mai stato prevaricante come Vittorio (Gassman).

Gli dispiaceva?

A quel tempo le critiche erano spesso feroci; per fortuna non se la prendeva troppo, sdrammatizzava: uno come lui, prigioniero dei tedeschi per due anni, capiva certe priorità.

Parlava della prigionia?

Mai e con nessuno. Aspetti (si alza, cambia stanza, torna e mostra il diario di suo padre). Annotava mese e anno con locandine e recensioni, e in questa pagina c’è la sintesi della prigionia (Solo una scritta: ‘1943-1945: 2 anni difficili’).

Ungarettiano.

Non credo sia stato neanche semplice perdere la donna amata, mia madre, a causa di un amico (Diletta D’Andrea, mamma di Emanuele, e Vittorio Gassman esplicitano la loro storia nel 1968).

Viaggi con lui?

Ogni tanto in crociera, gli offrivano la cabina in cambio di qualche fregnaccia con gli altri ospiti, solo che a me non importava: volevo differenti tipi di attenzioni; ma il peggio era quando mi costringeva alla barca a vela.

Scene fantozziane?

Il suo piacere era navigare, stappare un prosecco, versarlo nel bicchiere con ghiaccio e vivere le onde; non portavo nessun amico “altrimenti la sfasciate”, quindi passavo la giornata sottocoperta con un marinaio ischitano: giocavamo a scopetta.

Vinceva?

Mai, neanche per sbaglio. Io volevo solo poter giocare a pallone.

Gli amici di suo padre.

Conosceva tutti anche per la popolarità data dalla tv, ma gli affetti erano pochi.

Villaggio?

Sì, ma senza esagerare: Paolo era un tipo incostante e imprendibile, poi ha passato tanti suoi casini.

L’attraeva questo mondo?

Tra il rapporto pessimo con Vittorio e l’assenza di mio padre, avevo deciso che la realtà del cinema era merda; e poi non ne ero partecipe.

Cioé?

Non sono mai stato uno di quei figli coinvolti o esibiti, mi lasciavano in un’altra stanza con la tata.

Ci ha lavorato molto…

A un certo punto era diventato vivere o morire; non nascondo di aver attraversato anni difficili, avevo davanti dei modelli irraggiungibili e nessuno stimolo, perennemente in balia di me stesso e nell’incapacità di trovare un’identità.

Sempre?

Qualcosa è cambiato negli ultimi anni di Vittorio, quando le malattie fisiche hanno coinciso con la sua guarigione di uomo; quando si è ingrippata la macchina gassmaniana e ha scoperto di avere la prostata. meno fiato, e che la morte lo riguardava.

Rivelazione…

Ai 60 disse: ‘Non ne ho più 20’; e nel 1988, dopo vent’anni di guerra contro di me…

Perché guerra?

Secondo lui ero un ostacolo per il rapporto con mia madre; insomma, dopo vent’anni, viene da me, un incontro bello, e domanda scusa, ha sensi di colpa; li manifesta.

Reazione?

Perdonato subito, ne avevo bisogno, era un credito che dovevo riscuotere. Iniziai a consolarlo.

Quando è morto suo padre le è stato vicino?

Non era in grado, non sapeva abbracciare; poi il giorno del funerale si è trovato in una posizione assurda, da vera commedia all’italiana, con tutti che andavano a portare le condoglianze a mia madre.

Gassman da parte?

Quella volta sì, nonostante fosse uno dei più grandi oratori funebri; dopo di lui non osava mai parlare nessuno, ogni tanto solo Villaggio.

Definizione di suo padre?

Da figlio rispondo: una delle persone più simpatiche che non ho avuto modo di conoscere. E quanto lo avrei voluto.

Le piace chiamarsi Salce?

Oggi di più; nel mio piccolo ho dovuto lavorare sul nome.

 

Notre-Dame: mozziconi e un filo elettrico di troppo

Sembra incredibile ma si fumava senza badare ai divieti sul cantiere di restauro di Notre-Dame. Sette mozziconi di sigaretta sono stati trovati dagli inquirenti sull’impalcatura che dava accesso alla guglia, stando alle rivelazioni del Canard Enchaîné. Di fronte all’evidenza, la ditta Le Bras Frères, una delle imprese responsabili dei lavori, non ha potuto negare: “In effetti ogni tanto alcuni operai non hanno rispettato i divieti, ne siamo dispiaciuti”, ha ammesso Marc Eskenazi, portavoce della società, che ha spiegato: “Era troppo complicato scendere ogni volta, prendeva troppo tempo”. Cioè, per evitare le andate e ritorni, si fumava sul tetto della cattedrale e si gettavano lì i mozziconi. Non è la prima volta che la Le Bras Frères si ritrova coinvolta nell’incendio di un cantiere di cui era responsabile. La radio locale France Bleu Lorraine ha rivelato che di recente la ditta, basata a Jarny, nei pressi di Metz (est), lavorava sul restauro di un edificio storico di Belleville-sur-Meuse quando il tetto ha preso fuoco.

In quel caso i danni non erano stati eccessivi e la società si era presa le responsabilità dell’incidente. Nel caso di Notre-Dame, la Le Bras Frères esclude in modo categorico di essere all’origine dell’incendio: “Chi ha provato a accendere il fuoco in un caminetto, sa che non basta mettere un mozzicone su un ceppo”. Per ora gli inquirenti non escludono nessuna ipotesi. Si è parlato soprattutto di un cortocircuito a livello degli ascensori dell’impalcatura. Oggi la polizia scientifica comincia a fare i prelievi sul posto e il tempo dirà come stanno le cose. Ma, se quanto scritto ieri dal Canard Enchainé si conferma, diverse altre anomalie erano presenti nel sistema di sicurezza della cattedrale. Il settimanale, che ha avuto accesso ai fascicolo dell’inchiesta sull’incendio del 15 aprile, scrive che dei fili elettrici correvano nel telaio di legno del XIII secolo, sparito nelle fiamme, “con il rischio di cortocircuito e contro i regolamenti di sicurezza dettati dagli architetti dei monumenti storici”. I cavi servivano ad alimentare alcune campanelle, di cui tre poste alla base della guglia e rimesse in funzione nel 2012 con il restauro del carillon delle torri. L’installazione elettrica doveva essere “provvisoria”. C’è un altro fattore nuovo e inquietante: il piano anti-incendio della cattedrale prevedeva “la presenza 24 ore su 24 di due sorveglianti pagati dallo Stato”. Invece era presente un solo sorvegliante, dipendente di una ditta privata, la Elitys, dalle 8 alle 23. Dopo di che, per la notte, “subentrava il guardiano della cattedrale dal suo letto”. Resta aperta la questione del “doppio allarme”. Il primo, delle 18.16, che indicava un inizio di incendio nel telaio, era stato considerato “falso” perché il fuoco non era stato trovato. Forse un problema di localizzazione nel sistema anti-incendio gestito dalla Elitys? Un secondo allarme, scattato alle 18.40, ha permesso di localizzare il fuoco ma minuti preziosi sono andati persi a causa “di una serie di errori umani”. Intanto, ieri, mentre degli operai “alpinisti” finivano di montare grossi teloni per proteggere la volta della cattedrale dal ritorno della pioggia, il governo ha dato il via al “progetto di legge Notre-Dame”, un testo su misura che servirà a gestire i fondi (introducendo gli sgravi fiscali speciali sui doni) e permetterà di snellire, e in alcuni casi di aggirare, le procedure per una ricostruzione in cinque anni, come vuole Macron.

Quei bravi ragazzi: per Allah volevano morire da kamikaze

Si chiamava Abdul Lathief Jameel Mohamed uno dei kamikaze della strage di Pasqua in Sri Lanka e aveva studiato nel sud-est dell’Inghilterra tra il 2006 e il 2007 dove si è probabilmente avvicinato all’Isis e si è radicalizzato. La pubblicazione dell’identità di uno dei giovani jihadisti cingalesi sul sito di Cnn, che cita fonti britanniche della sicurezza, era stata anticipata da nuovi dettagli sulle origini degli stragisti islamici diffusi dal ministro della Difesa, Ruwan Wijewardene.

Come gli autori della strage di Dacca, in Bangladesh, nel 2016, anche quelli di questo eccidio provenivano da famiglie benestanti ed erano istruiti. “Uno di loro aveva studiato nel Regno Unito e in Australia e alcuni di loro avevano un master in Legge. I membri del gruppo suicida erano istruiti e provenivano dalla classe media e alta, quindi erano abbastanza indipendenti finanziariamente e le loro famiglie sono abbastanza stabili sotto il profilo economico. Questo è un fattore preoccupante”, ha aggiunto il ministro. Tradotto, si tratta di jihadisti che agiscono spinti dall’ideologia e non dal bisogno. Un altro fattore preoccupante, che però il titolare della Difesa non ha sottolineato, è il fatto che i kamikaze a quanto risulta siano tutti cittadini dello Sri Lanka dove la minoranza musulmana è esigua e dunque facilmente controllabile. Ci si domanda invece come mai non fosse tenuto sotto controllo l’imam estremista Mohamed Zahran, ossia l’uomo con la barba a volto scoperto comparso nel video dell’agenzia dell’Isis, Amaq, assieme ai sei presunti kamikaze, tutti a volto coperto e con coltelli alla mano. Questi, grazie anche ai loro studi all’estero, sarebbero entrati in contatto con un cittadino egiziano di 44 anni, finito in manette ieri. A quanto riferisce il sito News 1st, l’uomo è stato arrestato in una scuola internazionale della città di Madampe, centro costiero a nord di Negombo, teatro di uno degli attentati. L’egiziano non è in possesso di un passaporto o un visto d’ingresso. L’arresto è avvenuto sulla base di una soffiata. La polizia sta indagando sulla possibilità che l’uomo abbia addestrato gli attentatori che hanno colpito chiese e alberghi. Altre fonti invece ritengono che il capo del commando sia l’uomo e il terrorista responsabile dell’attacco alla chiesa di San Sebastiano di Katuwapitiya, a Negombo. Mentre continua ad aumentare il numero delle vittime, 359, aumenta contemporaneamente l’instabilità politica dello Sri Lanka. A quattro giorni dalle stragi sta emergendo in modo inequivocabile che i servizi segreti cingalesi non solo erano stati informati di imminenti attentati, anche poche ore prima del massacro, dagli omologhi indiani e dal Dipartimento di Stato americano, ma che avevano condiviso queste informazioni sensibili con alcuni rappresentanti delle forze dell’ordine e del governo. Secondo il sito indiano Ndtv, infatti, già da dieci giorni l’India aveva inviato un dettagliato rapporto di tre pagine che, oltre al warning sul massacro imminente, forniva il nome del gruppo coinvolto, dei suoi leader e di altri membri, i loro indirizzi, telefoni e storie personali. Nel documento, datato 11 aprile, erano anche menzionati gli obiettivi dei kamikaze.

Nessuno però vuole prendersi la responsabilità di quanto accaduto. Il presidente Maithripala Sirisena ha chiesto le dimissioni del ministro della Difesa e del capo della polizia. Per ora non è ancora chiaro chi li sostituirà, nè ne sono stati annunciati ufficialmente i motivi. Gli inquirenti nel frattempo hanno arrestato nella notte altri 18 sospetti, facendo salire a 58 il numero delle persone finite in carcere. Lo ha detto il portavoce della polizia, Ruwan Gunasekara, mentre il premier Ranil Wickremesinghe ha avvertito che potrebbero esserci in circolazione altri terroristi pronti ad attaccare. Secondo fonti coinvolte nelle indagini, almeno altre nove persone sarebbero ancora ricercate.

Trump perde follower ma non il vizio

Pensava fosse un complotto, invece erano fake. Il presidente degli Usa, Donald Trump, si è accorto di perdere follower su Twitter e – “lei non sa chi sono io” – ha subito convocato alla Casa Bianca il Ceo del sito di microblogging, Jack Dorsey, per chiedergli spiegazioni, scorgendo forse nell’abbandono del suo account da parte di alcuni seguaci un disegno dei poteri oscuri internazionali contro di lui. “Stiamo rimuovendo i follower falsi, in seguito a queste nuove regole in molti hanno perso seguaci”, ha spiegato a Trump il co-fondatore di Twitter. L’incontro è arrivato poche ore dopo le accuse di parzialità via tweet da parte del presidente all’indirizzo del social network: “Twitter non mi tratta allo stesso modo dei democratici”, aveva postato The Donald. “Si intromette nella politica”.

Nello Studio Ovale, Dorsey ha chiarito al presidente che si tratta invece di una politica mirata proprio a rendere più civile Twitter anche in vista dello scontro elettorale del 2020. “Twitter è qui per servire l’intera conversazione pubblica, e intendiamo renderlo più sano e più civile”, ha scritto il Ceo. Dunque, non sarebbe in corso nessun attacco premeditato all’account del presidente che conta più di 60 milioni di follower. Ma certamente l’incontro tra i due è servito anche a parlare della regolamentazione dei social network. Lo stesso Trump infatti ha poi rettificato le accuse twittando una foto di lui e Dorsey con su scritto: “Grande incontro”. “Abbiamo discusso di molti argomenti sulla piattaforma e i social in generale”, ha twittato.

Lo scandalo Boy Scout. Le molestie fra “lupetti” cuore nero dell’America

Pedofilia: non c’è solo la Chiesa come ricettacolo e incubatoio di nefandezze, con i suoi seminari e le sue sacrestie. Anche all’aria aperta, la perversione può manifestarsi, se c’è la devianza d’un capo e una pletora di ragazzini che ne avvertono il peso o il fascino. Ma nessuno aveva finora un’idea delle dimensioni del fenomeno fra i Boy Scout d’America, una delle maggiori organizzazioni giovanili negli Stati Uniti, con 2,2 milioni di ragazzi iscritti e oltre un milione di adulti volontari.

Dal 1944 al 2016, quasi 8.000 leader del movimento sono stati cacciati dall’associazione, dopo essere stati accusati di abusi sessuali su minori: in 72 anni, riferiscono i media americani, 7.819 leader e volontari avrebbero abusato sessualmente di 12.254 vittime. A rivelare la portata degli abusi è stata l’esperta Janet Warren, docente alla University of Virginia, durante la sua testimonianza in un processo per abusi sessuali su minori in una compagnia teatrale per bambini a Minneapolis, nel Minnesota. Le dichiarazioni della Warren, che aveva avuto accesso a documenti a lungo secretati, trova ampia eco sui media Usa, non solo quelli locali. Gli scout non smentiscono, ma precisano che ogni denuncia viene ora trasmessa alle autorità inquirenti – non è però detto che ciò accadesse in passato –.

Non è la prima volta che lo scoutismo americano, e non solo, viene scosso da denunce di pedofilia. Ed è questa una ragione per cui la capacità d’attrazione dell’organizzazione è in calo: gli iscritti, che nel 1979 erano oltre cinque milioni, oggi sono meno della metà. Ma le denunce, invece, aumentano: nei cinquant’anni dal ’44 al ’94, gli abusi segnalati sono stati circa 2.000, 40 l’anno in media; invece, negli ultimi 25 anni, sono stati circa 6.000, quasi 250 l’anno. Il che testimonia, soprattutto, una maggiore inclinazione alla denuncia da parte delle vittime.

L’associazione ha riconosciuto il rischio insito nella sua struttura e, fin dal 1988, molto prima che scoppiassero gli scandali di pedofilia nella Chiesa, in particolare a Boston, adottò un programma d’educazione sessuale e prevenzione degli abusi. Nel XXI secolo, denunce e inchieste penali si sono susseguite: nel 2010, una giuria impose agli Scout di versare 18,5 milioni di dollari a una vittima di abusi negli anni Ottanta, era la cifra più alta fino ad allora riconosciuta negli Stati Uniti per un caso singolo; e nel 2012 vi fu un processo nell’Oregon che ebbe ampia eco. Nato nel 1907 da un’idea dell’inglese Robert Baden-Powell, un militare, il movimento ha come fine ultimo la formazione fisica, morale e spirituale della gioventù mondiale: un metodo educativo fondato sul volontariato e sull’“imparare facendo”, attraverso attività all’aria aperta e in piccoli gruppi.

Lo studio della Warren fa pendere sull’esistenza stessa dei Boy Scout d’America una minaccia, forse la più grave mai affrontata dal gruppo nei 109 anni della sua storia: una valanga di denunce per molestie sessuali, con le richieste d’indennizzo relative, dopo che diversi Stati hanno approvato o stanno approvando norme che consentono di fare causa anche a vittime di vecchia data. Avvocati alla Paul Newman del film Verdict vanno a caccia di clienti con un’aggressiva campagna in Internet. Del resto, è stato proprio un avvocato che ha già tutelato vittime di abusi sessuali contro la Chiesa e i boy scout, Jeff Anderson, a dare pubblicità alle ricerche della Warren, con una conferenza stampa a New York. Ora l’organizzazione rischia la bancarotta, oltre che il pubblico ludibrio. La professoressa ha passato cinque anni consultando, su incarico proprio dei Boy Scout d’America, i cosiddetti Perversion files, documenti che contenevano informazioni su volontari che erano stati mandati via “in seguito a ragionevoli accuse di abusi sessuali su minori”. L’associazione incominciò a raccogliere la documentazione subito dopo la Grande Guerra: peccati, anzi crimini, vecchi come il mondo.

Ritrovati i cadaveri delle due donne affogate nel torrente

Due donneecuadoriane, di 38 e 60 anni, nella serata di martedì stavano attraversando il torrente Letimbro, in provincia di Savona, quando sono scivolate nelle acque.

Probabilmente a causa del buio, o dell’impetuosità del torrente, non sono riuscite a superare quel guado che le avrebbe condotte alla loro abitazione: senza parapetti né ringhiere, coperto dall’acqua per 30-40 cm, il passaggio si è rivelato un’insidia mortale per Ana Luisa Perez Munoz e Maria Clemence Tenorio, che sono riemerse dalle acque, morte, un paio d’ore l’una dall’altra: il corpo di Ana è stato infatti ritrovato verso le 15, quello di Maria alle 18, dopo le ricerche dei vigili del fuoco, del soccorso alpino, delle squadre della Croce Rossa, della protezione civile e dei sommozzatori.

Sale così a tre il bilancio dei morti per il maltempo che ha colpito il Nord Italia: un primo episodio è avvenuto a Castelnuovo di Val di Cecina (Pisa), dove martedì una donna di Santa Margherita Ligure è stata travolta da un torrente mentre viaggiava in auto.