“Al bando le infradito”: ciabatte vietate alle Cinque Terre, multa di 50 euro a chi le indossa

Guerra alle ciabatte sui sentieri del Parco delle Cinque Terre: vietato indossare le infradito. E non è tanto una questione estetica. Il punto è un altro: gli escursionisti che si arrampicano su quei percorsi appesi tra cielo e mare poi rischiano di cadere di sotto.

Così alla fine è stata prevista addirittura una multa: minimo 50 euro. Finora pare che nessun turista sia stato ancora sanzionato, ma nei giorni scorsi sono arrivate le prima ‘ammonizioni’. Tanti escursionisti ‘ciabattanti’, come ha raccontato Repubblica, sono stati fermati all’imbocco dei sentieri e rispediti alla base. Vietato proseguire.

Una battaglia, quella del Parco e di Legambiente, che cerca di usare anche l’ironia. Così ecco che sono comparsi degli slogan ‘bilingue’ ligure-inglese: “Se t’è na belina, ti te imbelini”. Che forse non ha bisogno di traduzioni, ma in italiano suona più o meno così: se sei uno scemo (per usare un termine delicato), allora cadi di sotto. Visto che bisogna essere cosmopoliti, ecco arrivare la traduzione in inglese che sarà molto british, ma perde mordente: “If you are a fool, I will fall down”.

Del resto con la pioggia di questi giorni e l’arrivo in massa di turisti – circa 4.600 al giorno sui sentieri del Parco – non si può rischiare. Secondo Legambiente circa due escursionisti su tre affrontano i percorsi con un abbigliamento non adeguato.

Le statistiche ricordano che le Cinque Terre sono tra le mete italiane che registrano il maggior numero di turisti stranieri ogni anno. Addirittura in passato si sono piazzate al quarto posto dopo Roma, Venezia e Firenze. Quasi tre milioni di presenze in cinque borghi minuscoli, cresciuti a picco sul mare. Un territorio tra i più belli d’Italia, ma delicatissimo. A minacciarlo non soltanto il sovraffollamento, ma anche le alluvioni. E, ovviamente, il cemento.

Case popolari, le soffiate a CasaPound da una maestra? La “talpa” non può essere lei

Ancora non si trova la talpa di CasaPound al Comune di Roma, che spiffera ai neofascisti tutti i movimenti sulle case popolari. L’identikit è sempre quello di “un alto funzionario del Dipartimento Politiche Abitative”. Mentre la maestra d’asilo che vive nello stabile occupato dal movimento di estrema destra alla stazione Termini, e di cui si è parlato negli ultimi giorni sui giornali locali, al massimo potrebbe fare da trait d’union, ma è tutto da dimostrare.

La Guarda di Finanza sta indagando per conto della Procura di Roma sulle spiate che dal Campidoglio arrivano ai movimenti di destra (non solo la tartaruga frecciata), in particolare quando una casa popolare sta per essere assegnata a una famiglia non italiana. Gli investigatori si sono concentrati sui profili di tre dipendenti pubblici che vivono all’interno dell’edificio di proprietà del Demanio. Ci sono Stefania, un’insegnante di scuola per l’infanzia del Comune, un lavoratore del Cotral (la società del trasporto regionale), e un portantino del Policlinico Umberto I. Nessuno di questi, però, potrebbe avere in via autonoma l’accesso ai file sugli alloggi. Qualcuno, semmai, potrebbe averglieli passati dall’interno. Ed è per questo che gli inquirenti stanno restringendo il campo sul Dipartimento Politiche Abitative. Fra gli uffici sotto osservazione quello dell’Assegnazione Alloggi e Buono Casa.

La maestra d’asilo rischia comunque una denuncia, qualora dovesse essere messa in relazione con le “soffiate” ricevute dai leader di CasaPound. “Tutte assurdità, io faccio solo il mio lavoro”, ribatte lei. “Quando ho visto i giornali sono rimasta di sasso. Ho pensato ai miei bambini, al lavoro che faccio da anni, con amore, passione, impegno. Chi mi dovrebbe dare informazioni simili? Sono tutte cose assurde, fondate sul nulla”. La difende anche CasaPound Italia: “Non esiste alcuna nostra talpa in Campidoglio, le ricostruzioni mediatiche di queste ore sono totalmente inventate. Vere e proprie fake news”.

Crolla una rampa d’acciaio, operaio di 51 anni muore su un traghetto della Moby

Una manovra come ne aveva fatte a migliaia a bordo di quel traghetto Moby nel porto di Livorno. Ma quella di ieri gli è stata fatale: vittima dell’incidente Vincenzo Langella, operaio di 51 anni originario di Torre del Greco e dipendente della Squadra Volanti di “Moby Lines” che si occupa delle riparazioni sulle navi. Secondo le ricostruzioni, intorno alle 10.30 di ieri mattina l’operaio stava effettuando una manovra di manutenzione alla guida di un muletto nel garage del traghetto “Moby Kiss”, quando una rampa di acciaio di diverse tonnellate sarebbe ceduta sulla sua testa. Inutili i tentativi di rianimazione bocca a bocca dei colleghi e dei primi soccorritori. Sul posto sono arrivati gli uomini della polizia di frontiera, della Capitaneria di Porto, i vigili del fuoco e anche il sostituto procuratore di Livorno, Massimo Mannucci. La Procura di Livorno ha aperto un’inchiesta e durante la giornata di ieri sono stati sentiti alcuni testimoni per ricostruire le dinamiche dell’incidente e capire se tutte le norme di sicurezza fossero state regolarmente rispettate. Quello di ieri è solo l’ultimo di una lunga scia di incidenti mortali avvenuti nel porto di Livorno: negli ultimi 30 anni hanno perso la vita 17 operai, gli ultimi due solo un anno fa in seguito all’esplosione di una cisterna in porto. Ieri i sindacati Filt Cgil, Fit Cisl e Uiltrasporti di Livorno hanno espresso la loro “rabbia” per l’ennesima morte bianca e anche il sindaco Filippo Nogarin ha chiesto che “si possa far luce al più presto sull’accaduto individuando eventuali responsabilità”. Quella di ieri è stata una giornata funesta per i lavoratori italiani perché oltre all’incidente nel porto di Livorno sono morti altri due operai: un 44enne è rimasto schiacciato a circa 8 metri di altezza nell’ex complesso industriale “Origlia” di Savigliano (Cuneo), a Sestu (Cagliari) un 65enne è stato travolto da un furgone mentre stava lavorando in un terreno agricolo, mentrè a Ravello (Salerno), il 54enne Nicola Palumbo è deceduto dopo essere stato colpito alla testa da un montacarichi. .

In Liguria si spara: ucciso l’ex pentito che regolava i conti per “u Malpassotu”

“Non è un malore, è un omicidio”. Il medico legale credeva fosse un intervento di routine, un anziano morto di infarto nell’autosilo di un supermercato a Chiavari. Non c’era niente di sospetto, il corpo era disteso in terra, come se l’uomo fosse caduto di schianto per un malore. Ma appena il dottore lo ha girato ha visto un foro rosso sulla nuca. Un colpo di pistola di piccolo calibro o forse uno stiletto, ancora impossibile dirlo. Ma non era finita, perché quando la polizia ha controllato i documenti che l’uomo aveva in tasca il mistero si è infittito: era Orazio Pino, 70 anni, in passato uno dei più importanti collaboratori di mafia siciliani. A Catania era stato uomo di fiducia di Giuseppe Pulvirenti (u Malpassotu) e protagonista della stagione di guerra tra cosche degli anni Novanta. Forse era destino che la sua vita finisse così. Ucciso per un’antica condanna di mafia, per un tentativo di rapina o per qualche affare in cui si era cacciato negli ultimi tempi? Impossibile dirlo subito. Per adesso l’unico indizio è quel piccolo foro tra i capelli. Non sono stati trovati né bossoli, né proiettili.

A Chiavari nessuno sapeva del passato di Pino. Si era rifatto una vita come gioielliere con la moglie e i due figli, ogni giorno andava a lavorare nel suo negozio centralissimo, nel vicolo dello struscio. Proprio come martedì sera, quando ha abbassato la saracinesca. Ma a pochi passi dalla sua auto è stato ammazzato. L’allarme è arrivato quattro ore dopo, verso mezzanotte. Gli investigatori stanno sentendo alcuni possibili testimoni e visionando i video del supermercato. Certo, è possibile che la morte sia legata alle recenti attività di Pino, ai negozi di compra oro che aveva aperto. Possibile. Le sue società avevano ricevuto un’interdittiva antimafia, Pino era uscito dal consiglio di amministrazione. Poi c’è Chiavari, in una Riviera dove, nonostante tutti cerchino di far finta di niente, la mafia ha allungato da tempo i suoi tentacoli. Ma c’è soprattutto il passato di Pino che porta a Cosa Nostra. E lui aveva deciso di uscire dal programma di protezione – aveva chiesto allo Stato di liquidargli una somma anni fa e l’aveva destinata ai suoi negozi – senza cambiare la propria identità. Chi voleva poteva facilmente rintracciarlo, bastava una visura alla camera di commercio. Forse Pino si era illuso di aver chiuso i conti con le persone che lo odiavano da quando era stato il braccio destro di Pulvirenti, per il quale era stato capo della “squadra” di Misterbianco (Catania) in lotta con la cosca di Mario Nicotra. Pino, come il Malpassotu, era ritenuto vicino al clan di Nitto Santapaola nel quale avrebbe organizzato anche epurazioni interne. Un’ombra lunga, fatta di conti con la giustizia che si erano chiusi proprio due settimane fa. Un caso, forse. Come un caso è la coincidenza con la notizia, data da questo giornale qualche giorno prima, della scomparsa di un altro pentito di primissimo piano, anche lui fuori dal programma di protezione, Narduzzo Messina di San Cataldo, l’unico che definì Giulio Andreotti punciutu e l’ultimo a parlare con Borsellino. Narduzzo ha fatto perdere le sue tracce. Di Orazio, invece, non ci sono neppure più tracce da cercare.

Strano raid al “Roma” i malviventi entrano e non rubano nulla

Le telecameredi sicurezza hanno ripreso bene i volti dei due malviventi che alle tre e mezza di notte si sono introdotti nella sede del quotidiano Roma in via Chiatamone, a Napoli. I due si sono intrattenuti 45 minuti, hanno rotto cassetti, armadi e porte, ma non hanno portato via nulla, lasciando al loro posto tre iPad di valore e i soldi in un tiretto. Le modalità del raid, e il fatto che gli intrusi siano entrati con le chiavi, rendono l’episodio inquietante. Aggettivo che trova d’accordo Fnsi e il Sindacato campano, che nella nota ricordano che “il Roma è uno di quei giornali che in prima linea parla di camorra e illumina territori a margine”. Unanime la solidarietà del mondo politico e del giornalismo, dal governatore Vincenzo De Luca all’Ordine dei giornalisti campani presieduto da Ottavio Lucarelli, fino a quello nazionale, presieduto da Carlo Verna che ha telefonato al direttore del Roma, Antonio Sasso. Indagano la Digos e la scientifica. Pare che non sia stato portato via nessun documento. Il Roma esiste dal 1862, una delle voci più antiche nel panorama dell’informazione, ed è a rischio chiusura per l’annunciato taglio dei contributi pubblici all’editoria.

“Falsità su nostro padre: quelli vogliono solo il nostro terreno”

Irene Napoli, 45 anni, non ci sta e risponde colpo su colpo a Gebbia e Carbone. “Come si può sostenere che mio padre ha coperto la latitanza di Bernardo Provenzano? Ma quale capomafia? Mio padre, Salvatore Napoli, dal 1998 fino alla morte, nel 2006, era costretto sulla sedia a rotelle, paralizzato”. Sogni interrotti. “Ho dovuto lasciare il Conservatorio per occuparmi di lui insieme con le mie sorelle. Ho ripreso solo recentemente perché il mio amore per il sassofono è rimasto intatto e l’11 maggio suonerò a un concerto al Politeama di Palermo”.

I terreni della discordia. “I nostri 76 ettari, nel Comune di Corleone ma a un quarto d’ora da Mezzojuso, furono comprati da mio nonno, Gioacchino Napoli, che li acquistò dal cavaliere Leonardo Cipolla di Roccapalumba nel 1923”. E il lago abusivo? “Su questo sono davvero incredibili queste accuse: si tratta dell’attuazione di un progetto di miglioramento fondiario autorizzato all’epoca dalla Forestale. Non è mai stato racchiuso nelle nostre recinzioni: lo teniamo per gli altri… perché abbiamo pensato potesse essere utile per le transumanze delle mandrie che passano per la trazzèra, serve per abbeverare le bestie insomma”.

Tredici anni di lotta e poi la televisione ha migliorato le cose. “Da quando è morto nostro padre Salvatore la vita è diventata impossibile fino all’anno scorso, quando abbiamo potuto raccontare la nostra storia alla trasmissione del dottor Giletti”. Fra le altre accuse, Carbone, sostiene anche che lo status di vittime della mafia con cui le sorelle Napoli hanno ottenuto la sospensione delle tasse non sia meritato. “Spendevamo 12 mila euro l’anno per le sementi e ne incassavamo quando andava bene duemila. Perché oltrepassavano le nostre recinzioni con le mucche e facevano calpestare il raccolto”. Chi? “La mafia che avrebbe voluto estorcerci quei terreni per cinquemila euro d’affitto l’anno”. E adesso? “Carbone poche ore fa era qua sotto casa nostra a scattare delle foto, ci stalkerizza”.

“Così infangano la nostra terra, loro non sono vittime di mafia”

“Nessuno di quei terreni è di proprietà delle sorelle Napoli – attacca il presidente dell’associazione Governo del popolo, Francesco Carbone –: hanno realizzato un lago abusivo su una trazzera regia, di proprietà del demanio, e con una misurazione illegale la Forestale gli ha regalato 15 ettari di terreno demaniale. Nel 2001 il padre, indicato come il capomafia del paese, aveva chiesto ai giudici l’usucapione dei terreni, negata, per essere stato per 60 anni nel pacifico e indisturbato possesso del fondo in contrada Guddiemi di Corleone. Nessuno – chiede Carbone – si è accorto che nel 2001, nella zona in cui Provenzano era latitante, il capomafia del paese stava cercando di impadronirsi di un feudo di terreni prevalentemente pubblici che aveva gestito per 60 anni?”.

Il paradosso che ha dato fuoco alle polveri il 19 gennaio scorso è del generale dei carabinieri in pensione Nicolò Gebbia, oggi assessore a Mezzojuso: “Figlie di un uomo indicato come capomafia le sorelle Napoli sono indicate come vittime della mafia. Anche ai figli di Provenzano, che sono incensurati e si lamentavano del padre, bisogna dare i fondi della Regione per i parenti delle vittime?”.

Più volte ospiti di Massimo Giletti nella trasmissione Non è l’Arena su La7, le sorelle Irene, Ina e Anna Napoli denunciano di essere vittime della mafia dei pascoli, che vuole impadronirsi dei loro 76 ettari di terreno nel territorio di Corleone intimidendole con l’invasione di mucche e bovini che distruggono le recinzioni provocando danni, ma prima l’archiviazione di un gip che ha accertato “l’infondatezza della notizia di reato” (nessuna delle 28 denunce presentate complessivamente da Irene Napoli è stata confermata in giudizio) poi le parole del generale Gebbia, secondo cui il padre, capo mafia di Mezzojuso, garantiva la latitanza di Bernardo Provenzano, contrastano con la versione della trasmissione di Giletti, che ha più volte accusato i cittadini di Mezzojuso di omertà per non avere offerto solidarietà alle sorelle Napoli.

Il conduttore tv Giletti: “Sfido la mafia in casa”

“Dai tempi d’oro di Santoro e Samarcanda non si faceva un’operazione tv così”. Mentre parla, Massimo Giletti è orgoglioso pensando a cosa manderà in onda il prossimo 12 maggio su La7: una puntata di Non è l’Arena in diretta da piazza Umberto I di Mezzojuso, piccolo comune di neppure tremila anime nel Palermitano divenuto celebre in passato per essere rifugio di latitanti del calibro di Bernardo Provenzano. Fama rilanciata nell’ultimo anno proprio dalle trasmissioni di Giletti che hanno dato tribuna alle sorelle Napoli: “Tre donne che sfidano ogni giorno i boss e che sono vittime della mafia dei pascoli, che hanno più volte denunciato non solo in tv ma anche davanti alle autorità”, spiega il conduttore.

A Mezzojuso, però, non la pensano tutti allo stesso modo. L’associazione Governo del popolo ha addirittura raccolto le firme contro Giletti: 150. E si è scomodato perfino il sindaco Salvatore Giardina: “È un bel risultato che sfiora il 10-15% della popolazione! Almeno una rappresentanza per famiglia c’è stat”. Giletti e La7 sono accusati dal sindaco e dai firmatari di aver “infangato e denigrato, per oltre un anno, la nostra città”.

E Giletti a porterà proprio in quella piazza la rappresentazione di questo processo: le sorelle Napoli contro parte del paese, l’associazione Governo del popolo contro le stesse sorelle. Con un giudice d’eccezione reclutato da Giletti, l’ex pm di Mani Pulite Antonio Di Pietro. Al centro della contesa i 76 ettari di terreno per i quali le Napoli sostengono di aver subito ogni sorta di angheria da parte della mafia dei pascoli per quattordici anni.

“Queste tre donne – continua Giletti – sono accusate da alcuni loro concittadini, che avranno la possibilità di spiegarsi in trasmissione, di essere figlie di un capomafia. Questa accusa infamante l’avrebbe sostenuta il colonnello Carlo Alberto dalla Chiesa. Io posso dire che ho studiato molto bene il caso e ho controllato ovunque, non c’è alcuna carta protocollata da Dalla Chiesa che confermi questa accusa. Ma poniamo per assurdo anche che loro padre possa esser stato un uomo d’onore di Cosa nostra? Cosa cambia? Le tre sorelle Napoli hanno denunciato la mafia dei pascoli che ha cercato in tutti i modi di portar via loro il terreno di famiglia. Hanno avuto coraggio di rompere l’omertà in un territorio molto complicato, dove non tutti sono pronti a farlo”. Che Giletti abbia preso a cuore la storia lo conferma il fatto che sta lavorando addirittura a un libro: “Sì, cercano di infamarle in tutti i modi, dicono che sono pazze. Io ho conosciuto, invece, tre donne coraggiose appunto. Il colonnello Gebbia, uno degli accusatori, ha sostenuto durante un’audizione della commissione Antimafia, fuori tema, il fatto che il padre delle Napoli fosse un mafioso, affermando che gli era stato confidato da un patriarca maronita a Sarajevo che poi sarebbe morto. Qualche giorno dopo questo colonnello è stato nominato assessore nella giunta di Mezzojuso. È una battaglia di Non è l’Arena che continueremo a combattere, ma questa volta giocando in casa loro, a Mezzojuso, il 12 maggio”. Ma l’assessore Gebbia resta convinto: “Il padre delle sorelle Napoli era mafioso”.

Bagheria, rinvio a giudizio per il sindaco M5s

Mobbing e stalking del sindaco nei confronti di una dirigente: il Gup del tribunale di Termini Imerese ha disposto il rinvio a giudizio per il sindaco di Bagheria (dove si vota per le amministrative il 28 aprile) Patrizio Cinque, eletto con il Movimento 5 stelle, il suo vice Fabio Atanasio e l’ex assessore Luca Tripoli. Sono accusati di abuso d’ufficio, stalking e lesioni personali. A dare la notizia, il sito on line Live Sicilia. Il sindaco avrebbe compiuto i reati a danno di una dirigente del Comune, Laura Picciurro, difesa dall’avvocato Giacomo Aiello. La dirigente sarebbe stata vittima di “reiterati comportamenti e provvedimenti posti in essere per finalità ritorsive e persecutorie preordinati al fine di umiliare, vessare, emarginare e penalizzare il dirigente”. Dal marzo del 2015, la dirigente è stata oggetto di tredici contestazioni. La donna ha sostenuto di essere stata “mobbizzata” e punita con la sospensione dal servizio per motivi disciplinari con contestuale sospensione dello stipendio. Un provvedimento ritenuto illegittimo già dal Tribunale del lavoro di Palermo, che condannò il Comune a reintegrare la Picciurro e a pagarle i 93mila euro di stipendi non percepiti.

Sollecito, il rosso e il nero di un “crime” infinito

Quando finiscono i processi? Difficile dirlo, di sicuro più di quanto durano. Impossibile non domandarselo dopo la visione di Raffaele Sollecito, in prima visione domenica 28 aprile alle 22 su Crime+Investigation (canale 119 della piattaforma Sky). Per certe domande non c’è bisogno di scomodare la Praga di Kafka, basta la Perugia di 11 anni fa, la sua Università per stranieri, campus di piazze e viottoli medievali tintasi di nero nella notte tra l’1 e il 2 novembre 2007, quando il corpo della studentessa inglese Meredith Kercher, 22 anni, viene rinvenuto nel sangue. Cinque giorni prima, lo studente di Ingegneria Sollecito, a un passo dalla tesi, aveva conosciuto a un concerto l’americana Amanda Knox. Bella, impulsiva e possibile. Colpo di fulmine, da quel momento i due diventano inseparabili fino al giorno della morte di Meredith, trovata sgozzata in camera sua, nella casa che divideva proprio con Amanda.

Non cominciano così gli incubi? Cinque giorni per passare da Beverly Hills a Twin Peaks, e scoprirsi sempre più soli. I 90 minuti firmati da Alessandro Garramone e Annalisa Reggi per la regia di Nicola Prosatore, realizzati da Loft Produzioni (SEIF) in collaborazione con Screept e Briciola Tv per A+E Networks Italia, sono anzitutto racconto a due voci, quella del Sollecito 35enne di oggi, tornato in libertà eppure prigioniero del passato, e quella del padre Francesco, il medico pugliese rimasto a fianco del figlio dal primo momento. Mai un solo dubbio sulla sua innocenza, mai un cedimento nella difesa, mai un abbandono alla sfiducia. A loro si contrappongono altri protagonisti del caso, a cominciare dall’avvocato Francesco Maresca, difensore della famiglia di Amanda Kerchner; e ognuno rende più pirandelliana una vicenda che cambia aspetto a seconda del punto di osservazione.

Certo, la sceneggiatura è perfetta come solo la fatalità può permettersi. Sesso, sballo, segreti, bugie, ipotetiche geometrie erotiche finite in tragedia. Vittima inglese, compagna di casa americana, l’italianissimo fidanzatino nerd, il musicista congolese Patrick Lumumba, l’ivoriano Rudy Guede, detto “il Barone”. Otto anni di indagini, per Sollecito e la Knox, quattro di custodia cautelare (di cui un periodo in isolamento), cinque processi con continui ribaltamenti di giudizio, fino all’assoluzione definitiva della Cassazione (27.3.2015) “per non aver commesso il fatto”. In questi otto anni Amanda potrà contare sull’esplicito sostegno del suo Paese, diventerà un caso diplomatico, sarà accolta come una perseguitata dopo la prima assoluzione in appello per non tornare in Italia mai più. Per contro, il silenzioso, occhialuto fidanzatino suscita diffidenza fin dal primo impatto. La giustizia dei tribunali vacilla, a tratti latita: a tutt’oggi l’unico condannato in via definitiva è Rudy Guede, 16 anni per concorso in omicidio (è pressoché certo che Guede non fosse solo con Meredith, ma nessun complice è stato individuato). In compenso, il tribunale dei media continua dibattere, e come sempre i colpevolisti sono in netta maggioranza. Il documentario di Crime+Investigation ha il merito di fare l’esatto contrario, non prende posizione ma insiste sull’ambiguità del reale, sullo iato incolmabile tra atti processuali, percezione mediatica e vissuto. Sollecito è uno che l’ha fatta franca, o continua a pagare per quello che non ha fatto? In ogni caso la verità resta un fantasma, ma senza verità non può esserci giustizia. Se riavvolgere il film del passato inquieta, gettare uno sguardo sul presente dà da pensare. Un ingegnere informatico noto come imputato in un processo trasmesso in mondovisione, cui tuttavia è stato negato dalla Cassazione il risarcimento per ingiusta detenzione, non ha molto mercato, al punto da spingerlo ad accettare una proposta dalla Francia finalmente all’altezza delle aspettative. Ma dopo qualche giorno, l’azienda transalpina scopre l’odissea passata dal nuovo assunto, e Sollecito riceve su due piedi la lettera di licenziamento. Senza spiegazioni. Gli esami, diceva Eduardo, non finiscono mai. Figuriamoci i giudizi.