Ficarra e Picone ‘Incastrati’ in un mafia-movie ironico

Ridere dal morire. Il primo morto messo in scena da Ficarra e Picone arriva non in un film, ma in una serie: Incastrati, dal primo gennaio su Netflix Italia, dal 27 negli altri Paesi serviti dallo streamer.

Scritta, diretta e interpretata, per Salvo Ficarra e Valentino Picone si tratta di un inedito assoluto: “Amiamo le esplorazioni e le sfide: ora sogniamo la conduzione di un tg e la recita dell’Angelus”.

Titolari di una ditta di vendita e riparazioni di piccoli elettrodomestici, girano la Sicilia in furgone, finché non si trovano al posto sbagliato nel momento sbagliato: “Incastrati” in un caso di omicidio, dovranno sfuggire sia alla giustizia che alla criminalità organizzata. Niente paura, il genere crime non debilita la vis comica, “il registro è sempre ironico e autoironico”, e complice il personaggio di Salvo grande appassionato di serie tv anche meta-ironico, e rispetto ai canonici novanta minuti del lungometraggio la struttura seriale dà “la possibilità di approfondire l’avventura e la psicologia dei caratteri, che aspirano e temono, cadono e si rialzano”.

Co-sceneggiatura di Leonardo Fasoli, Maddalena Ravagli e Fabrizio Testini, fotografia di Daniele Ciprì e musiche di Paolo Buonvino, sono sei gli episodi desunti dalle dieci settimane di riprese in Sicilia, tra Palermo e Sciacca, nei territori collinari di Piana degli Albanesi e di San Cipirello e nell’Abbazia di Santa Maria del Bosco a Contessa Entellina, e come nel film del 2017 è ancora l’ora legale: “Raccontiamo di nuovo una certa mafia, nascosta ma – ahinoi! – lontana dall’essere definitivamente debellata”. Già, Cosa Nostra è cosa loro: “Si parla di corruzione, che dal basso va verso l’alto. Abbiamo visto persone comuni arrivare ai vertici delle cosche, è una mafia inabissata, ma che sta lavorando”. La risata si fa dunque memento storico e monito civile: “Al tempo delle stragi – osserva Picone – c’eravamo e abbiamo interiorizzato la vergogna. La Sicilia è andata avanti: l’errore che si può fare oggi è dimenticare”.

Prodotta da Attilio De Razza per Tramp Limited, nel cast Anna Favella, Marianna Di Martino e Tony Sperandeo, Incastrati si giostra senza entusiasmare ma con un certo agio tra cadaveri eccellenti ed equivoci prosaici, citazioni dotte (Sedotta e abbandonata di Pietro Germi) e affondi antimafia, un colpo al cerchio, la comicità di situazione, e uno alla botte, la comicità di battuta: “Perché mi dovete mettere le riunioni di cosca il venerdì, che c’ho la pescheria piena piena così… – Ci vogliamo vedere su Zoom?”.

Che ridere gli autori narcisisti. Il finto “Elogio” di Berto

“Ormai è entrata nella testa della gente l’idea che a far parlare di sé e a farsi conoscere per le buone qualità che si hanno, e soprattutto per quelle che non si hanno, c’è da guadagnare parecchio”: è il 1965, Giuseppe Berto (1914-1978) sta abbozzando un personale Elogio della vanità, ignaro che oltre mezzo secolo dopo le sue parole sarebbero suonate profetiche. Guadagnare con la visibilità, mettendosi in mostra pure avendo poco o nulla da mostrare: che idea ridicola, se non fosse che è già stata smentita dai fatti.

“Ognuno giustamente – prosegue Berto – si dà da fare per crearsi una fama… ed ecco che si sono moltiplicati e complicati a dismisura i mezzi per la diffusione di utili menzogne”, oggi diconsi selfie, Facebook, Instagram e altre diavolerie del caso. E non a caso le librerie sono piene di titoli sul male del secolo: saggi di navigati strizzacervelli – come Vittorio Lingiardi (Arcipelago N. Variazioni sul narcisismo, Einaudi) e Giancarlo Dimaggio (Il diavolo prenda l’ultimo. La fuga del narcisista, Baldini+Castoldi) –, o ebook da tre soldi autoprodotti, indietro fino a diagnosi precoci di oltre dieci anni fa. Già nel 2009 lo psichiatra Gustavo Pietropolli Charmet, in Fragile e spavaldo (Laterza), preconizzava il passaggio del bambino da Edipo a Narciso, colui che “ha bisogno di vedere riflessa la propria immagine nello specchio sociale, nel consenso del gruppo”; colui che considera l’altro un “fan” e “ha la certezza di avere diritto” al successo e alla visibilità.

Che il narcisismo abbia a che fare con l’infantilismo lo aveva intuito anche Berto nel suo Elogio della vanità, edito da Settecolori come prezioso e illuminante repêchage dopo la prima pubblicazione del 2007. Quel pamphlet ebbe fortuna avversa: scritto nella primavera del ’65, avrebbe dovuto essere la Strenna di Natale della Rizzoli, ma fu bloccato, per non dire censurato, perché l’autore osava menzionare alcuni suoi contemporanei vanitosi – Carlo Emilio Gadda, Sandro De Feo, Carlo Levi, Piero Sadun, Giovanni Nuvoletti… “Il tuo saggio è bellissimo”, appuntava in una lettera a Berto Paolo Lecaldano, allora direttore editoriale della Rizzoli. “È nostra comune opinione, però, che i nomi e i fatti contemporanei che tu citi qualche volta (pochi, per fortuna) stonino un tantino in un discorso tanto acuto e ‘universale’; ti consiglieremmo di espungerli senza esitazione, e di non sostituirli con altri”. Fine del discorso, e del manoscritto, poi andato misteriosamente perduto e rimasto inedito per oltre quarant’anni, prima che venisse ritrovato in un fondo privato nel 2006.

Lo scrittore de Il cielo è rosso, nonché sceneggiatore di Anonimo Veneziano (diventato solo successivamente al film una pièce teatrale e infine un romanzo), non fu mai fino in fondo apprezzato, specie nell’ambiente intellettuale: i comunisti continuavano a vederlo come un fascista, mentre i vecchi compagni di littorio lo accusavano di tradimento. Dopo aver licenziato Il male oscuro nel 1964 – il suo più importante romanzo, vincitore dei premi Viareggio e Campiello –, Berto passò dalla padella della depressione alla brace dell’esibizionismo ispirato dal sempiterno motto biblico: “Vanitas vanitatum et omnia vanitas… per cui tutto è vano, vuoto, illusorio”.

Alla sua singolare fiera delle vanità incontra una fauna ricca e varia: “Alcune anziane scrittrici che continuano a vestirsi da bambole anche nei decenni oltre i sessanta”; il gibboso quanto vanaglorioso Leopardi; l’anacoreta che si ritira a pregare nel deserto, ma sempre in bella vista sopra a una colonna; i maniaci sessuali desnudi ai giardinetti; Cicerone e Balzac; Napoleone e il duce; Poppea e Matilde di Canossa; Casanova e Santa Teresa. Come Erasmo con la follia, l’Elogio di Berto è un espediente retorico e ironico per smascherare narcisisti ed esibizionisti, con piglio semiserio da trattato psicoanalitico – lui che masticava come paziente l’analisi da anni – e citazionismo dotto da scrittore del Novecento, che ama sfruculiare i classici, il Qoelet e Chamfort, La Rochefoucauld e Wilde, fino (inconsciamente) alla “fetta di vanità” di pochi minuti che echeggia Warhol.

I casi “esorbitanti o extraproporzionali” di narcisismo sono dannosissimi e diffusi soprattutto tra i capi di Stato e di governo, tra i militari, tra i politicanti, gli artisti, i registi cinematografici e, in primis, gli scrittori. E qui Berto dà il meglio di sé in cattiveria e malizia, sbozzando un ritratto irresistibile dell’intellettuale narciso: costui non “neutralizza gli avversari” ma si crea “una solida base di conoscenze e amicizie”, conquistando “la simpatia specie delle signore”. La sua principale attività non è scrivere ma “elargire presentazioni e prefazioni sperticatamente encomiastiche”, farsi spazio sui giornali, procacciarsi appoggi politici, in un vortice di “favoreggiamento, ricatti, intrallazzi, intimidazioni”. Come riconoscere infine “il social-esibizionismo”? Facile: “per quanto sia trascurabile dal punto di vista dei progressi intellettuali, esso è sempre accompagnato da intensa attività sessuale”.

Popper, B. e stoviglie: metti un Quirinale ma a forma di Pera…

“Pure Pera!” mi telefonano allarmati amici da Lucca, città delle 100 chiese. “Ma davvero potrebbe salire al Colle?”.

Potrebbe.

“Allora sarà uno spasso”.

Hanno ragione. Perché in opposizione al suo sguardo perennemente annuvolato e al suo carattere scostante, mette sempre di buonumore ascoltare l’ex presidente del Senato Pera, ragionier Marcello, quando dice: “Siamo ai cascami della civiltà, alla civiltà delle catacombe”. I suoi giudizi sono filosofia in purezza travestiti al punto da sembrare battute. Tra le migliori: “Berlusconi è uno dei grandi statisti del nostro secolo”. “Il futuro del centrodestra è Salvini con la cravatta. Lo giudico serio, duttile, affidabile”. “Borghi e Bagnai? Simpatici”. “La sinistra odia la nostra cultura e la nostra civiltà a tal punto che è disposta a consegnarla all’Islam”. E ancora: “Ratzinger è stato un faro che ancora manda luce”. Mentre “con Bergoglio, purtroppo rischiamo lo scisma”. Dove il “noi” indica la cristianità intera.

E mette di buon umore rammentare la disinteressata avventura dei cosiddetti “professori” – oltre a Pera, i filosofi Lucio Colletti e Vittorio Mathieu, il politologo Saverio Vertone, lo storico Pietro Melograni – che come la pattuglia dell’alba decollarono un giorno del 1996 al seguito della scia luminosa di Silvio B che per convincerli a candidarsi con Forza Italia e le ragazze Coccodè al seguito, non usò convegni né tesi appese alla porta della cattedrale di Arcore, bastò mandarli a prendere con la Mercedes, l’autista e i pasticcini, dissolvendo in quell’omaggio, anni di ingrati studi e solitudini.

Per tutti la trasvolata durò il tempo di una candidatura o due, fino al risveglio. Tranne che per uno, il nostro Marcello. Dove “nostro” indica l’intera Repubblica, visto il suo inatteso atterraggio sulla poltrona della seconda carica dello Stato, la presidenza del Senato, anno 2001, dove sbalordì per l’audacia intellettuale fin dal discorso di insediamento, quando disse che “per governare occorre argomentare, convincere”, almeno fino a quando la minoranza “argomentando e convincendo”, ma anche “confutando e criticando”, diventa maggioranza.

Come il suo amico Lucio Coletti, eretico marxista e rivoluzionario di massima eleganza in numerose terrazze romane, anche Marcello aveva il cuore a sinistra, sebbene con meno allegria e nessuna mondanità. Ovvio. Era nato nell’anno 1943 nella remota provincia di Lucca, “città inerme, città codarda”. Figlio unico di padre ferroviere, madre casalinga. Modesto diploma in Ragioneria che lo condusse all’impiego presso la Banca Toscana, dove incontrò, argomentò e convinse, la sua futura moglie, Antonia Tomei, che era anche il suo capoufficio. Fu il suo volenteroso carattere a spingerlo a laurearsi all’Università di Pisa, facoltà di Giurisprudenza, dove gli accadde d’incontrare quell’altro fil di ferro che era lo studente D’Alema Massimo, ricordandolo in perpetuo “affetto da una discreta dose di supponenza”.

Lasciate le addizioni contabili, si occupa dell’empirismo di Hume, dell’etica di Kant, della società aperta immaginata da Karl Popper. Studia con la passione del riscatto. Vince la cattedra di Filosofia Teoretica a Catania. Poi Pisa. Negli anni 80 si invaghisce del decisionismo di Craxi, come capitò a molti timidi. Poi ci ripensa, voltando l’ammirazione nel suo contrario. Esordisce come commentatore politico tra i più intransigenti – sul Messaggero, La Stampa, L’Espresso – compiendo curiose traiettorie circolari che lo mandano da sopra a sotto, da sinistra a destra, sempre confutando e criticando. Le celebri traiettorie “a forma di pera” (Cesare Musatti, lo psicoanalista, dixit) tipo: “Laico è chi non crede, laicista è colui che crede che chi crede non abbia alcuna ragione per credere”.

Quando Tangentopoli fa naufragare la Prima Repubblica, imbraccia il remo per darlo in testa ai naufraghi. Scrive: “Occorre una vera, radicale, impietosa epurazione”. “I partiti devono retrocedere e alzare le mani. E senza le furbizie che accompagnano i rantoli della loro agonia”. “I giudici devono andare avanti”. “Il garantismo, come ogni ideologia preconcetta, è pernicioso”. “Il processo è già cominciato e, per buona parte dell’opinione pubblica, già chiuso con una condanna”. E Craxi? “Quei politici che come Craxi attaccano i magistrati di Milano, mostrano di non capire la sostanza grave, epocale del fenomeno”. E il Berlusconi nascente? “Berlusconi è a metà strada tra un cabarettista azzimato e un venditore televisivo di stoviglie, una roba che avrebbe ispirato e angosciato il povero Fellini”.

Ma quando due anni dopo l’azzimato venditore lo manda a chiamare, ecco che l’intera batteria di stoviglie con fondo antiaderente lo conquista, lo cuoce, insieme con il seggio sicuro. Cambia idea su tutto. Cominciando da quel che brucia di più i sonni del suo cabarettista benefattore, la giustizia “da riformare in radice”, i magistrati “che hanno esaurito il credito ma continuano a sparlare”, i processi “da interrompere per le alte cariche istituzionali”. Diventa buon amico di Denis Verdini e Marcello Dell’Utri. Corre a Rebibbia ad abbracciare Cesare Previti appena arrestato e lo festeggia 4 giorni dopo, appena liberato. Ha un debole per Giuliano Ferrara e Matteo Renzi. Disprezza la sinistra “che è diventata un’antologia di Spoon River”. Detesta i cinque stelle, ricambiato. Protesta contro lo stato di emergenza dichiarato dal Conte-2: “Tutti a casa è rimedio salutare per i medici. Ma è veleno per le istituzioni”. Avverte: “Siamo nel clima adatto per scivolare dentro lo Stato totalitario”. Un anno dopo, cioè oggi, applaude Mario Draghi che fa le stesse cose: “Draghi è la nostra fideiussione bancaria”. E non contento considera Matteo Salvini “un vero leader di governo.

Nel frattempo si è candidato anche lui alle riforme costituzionali. Più o meno le stesse che nel 2003 i saggi Roberto Calderoli e Giulio Tremonti immaginarono nella remota baia di Lorenzago, cuocendo polenta con le spuntature e guardando insieme le stelle del Cadore. Lo annunciò la scorsa estate, dal suo palazzo a Lucca con vista sui monti pisani: “Ho preparato un agile articolato di riforme”, disse. Qualche pagina e un cacciavite per raddrizzare tre cose da nulla: “La giustizia, la forma di governo e la forma dello Stato”. Spedì l’agile articolato “a diverse personalità”. Era luglio, faceva molto caldo, e purtroppo nessuno rispose.

Eutanasia, il 15 febbraio 2022. Consulta decide sul referendum

“Il prossimo15 febbraio si terrà l’udienza in Corte costituzionale sull’ammissibilità del referendum di abrogazione parziale dell’articolo 579 del codice penale relativo all’omicidio del consenziente”. Lo ha annunciato il Segretario dell’Associazione Luca Coscioni, Filomena Gallo, nel giorno del ricordo della morte di Piergiorgio Welby. Che, ha spiegato Marco Cappato, tesoriere dell’associazione, “fu il primo malato in Italia che ottenne di essere aiutato da un medico a morire. La sua lotta ha aperto la strada alla legge sul testamento biologico arrivata nel 2017”.

Piazza della Loggia, chiuse le inchieste bis

La Procura ordinaria e quella dei minori di Brescia hanno chiuso le due indagini sulla strage di Piazza della Loggia, dove un ordigno esplose il 28 maggio 1974. L’inchiesta della Procura minorile riguarda Marco Toffaloni, allora 17enne, oggi residente in Svizzera. Nell’altra indagine, coordinata dall’aggiunto Silvio Bonfigli e dal sostituto Caty Bressanelli, è indagato Roberto Zorzi, 68enne di Verona, oggi negli Usa. Il procuratore Francesco Prete ha parlato di “un articolato corpus probatorio”, che “inserirebbe la posizione degli odierni indagati, senza fratture, nel quadro già tracciato dal precedente processo Brescia Ter conclusosi nel 2017 con la condanna all’ergastolo di Maurizio Tramonte e Carlo Maria Maggi”.

Caso Orlandi, sentito ex pm Capaldo. Giallo sulle registrazioni con emissari del Vaticano

L’ex procuratore di Roma, Giancarlo Capaldo, è stato ascoltato ieri pomeriggio dai magistrati romani come persona informata sui fatti, in relazione alle nuove rivelazioni sul caso di Manuela Orlandi, la 15enne figlia di un commesso della Prefettura della Casa pontificia, sparita nella Capitale nel giugno 1983 e mai più ritrovata. La Procura di Roma, infatti, ha aperto un fascicolo modello 45 (senza reati e senza indagati) dopo l’intervista rilasciata dall’ex magistrato – oggi in pensione e nel frattempo divenuto scrittore – che al programma Atlantide di La7 ha parlato di una sorta di “trattativa” fra l’Italia e il Vaticano, risalente a una decina di anni fa. A quanto racconta Capaldo, durante un incontro avvenuto nel 2012, alcuni emissari d’Oltretevere offrirono informazioni sul corpo della Orlandi in cambio di una “soluzione” al caso delle spoglie del boss della Banda della Magliana, Enrico De Pedis, che erano state ritrovate nella Basilica di Sant’Apollinare e che il Vaticano voleva fossero spostate nel cimitero capitolino di Prima Porta (come poi in effetti avvenne).

Durante la trasmissione si è fatto riferimento anche a una registrazione audio dell’incontro del 2012. Le parole di Capaldo, che all’epoca era procuratore e titolare dell’inchiesta sulla scomparsa dalla 15enne, hanno spinto in questi giorni la legale della famiglia Orlandi, Laura Sgrò, a chiedere al Csm “l’apertura di una pratica presso la competente Prima commissione, al fine di verificare l’esistenza e il reale contenuto dei colloqui in questione”. Il Csm ha poi girato la segnalazione alla Procura, portando all’apertura del fascicolo. Secondo quanto ricostruito da La Verità, quel giorno si presentarono da Capaldo l’allora capo della Gendarmeria del Vaticano, Domenico Giani, e il suo vice, il colonnello Costanzo Alessandrini. Gianni Alemanno, che all’epoca era sindaco di Roma, con il comune che avrebbe dovuto occuparsi di “accogliere” presso i propri cimiteri i resti del boss, oggi spiega al Fatto: “Il mio capo di Gabinetto – racconta – partecipò a una sola riunione sulla vicenda De Pedis, in cui erano presenti solo i rappresentanti del Vaticano ma non quelli della Procura. Non si parlò affatto di Emanuela Orlandi. Di altre riunioni non ho nessuna notizia”. “Il desiderio della famiglia Orlandi è che si faccia luce quanto prima sui fatti gravi rappresentati dal dottor Capaldo”, ha dichiarato ieri sera all’AdnKronos il legale della famiglia Orlandi, Laura Sgrò.

“Con presunzione d’innocenza c’è il rischio censura”

L’Ordine dei giornalisti batte un colpo a legge fatta, quella sulla “presunzione di innocenza”, entrata in vigore il 14 dicembre, dopo aver disertato l’audizione alla Camera così come la Federazione della stampa. “È necessaria la definizione di linee guida nazionali, chiare e trasparenti, per garantire il diritto dei cittadini di essere compiutamente informati in relazione ai procedimenti penali”, ha scritto il neopresidente, Carlo Bartoli, al vicepresidente del Csm David Ermini e al Procuratore generale in Cassazione, Giovanni Salvi, chiedendo un intervento urgente per evitare che sia negato il diritto all’informazione e che, come denunciato dal Fatto, “cali il silenzio su inchieste, magari proprio quelle a carico di personaggi importanti”.

La legge prevede solo comunicati dei procuratori e conferenze stampa. Bartoli premette che la presunzione di innocenza fino a condanna definitiva è “condivisibile”, ma riporta le “forti preoccupazioni dei giornalisti di fronte a una legge che concentra nelle mani del solo procuratore la possibilità di scelta di quali notizie l’opinione pubblica debba conoscere e quali no, senza alcun controllo o bilanciamento di sorta, con il rischio di pericolosi bavagli”.

Rossi, la Procura di Genova indaga sulle foto inedite

La Procura di Genova ha aperto un fascicolo sui due video girati dalla polizia scientifica di Siena, e le 61 foto scattate nella stanza di David Rossi mai entrate nel fascicolo della Procura di Siena. Il caso nasce dalla deposizione di fronte alla Commissione parlamentare d’inchiesta dell’ex assistente capo della polizia scientifica Federica Romano, ripresa da Massimo Giletti a Non è l’arena. Per ragioni allo stato non chiare quel materiale non è mai stato allegato agli atti d’indagine. La Procura di Genova, competente su ipotesi di reato che possono riguardare magistrati toscani, è pronta ad avviare altri accertamenti a seguito dell’invio di atti annunciato dal presidente della Commissione parlamentare, Pierantonio Zanettin, a seguito delle rivelazioni del colonnello Pasquale Aglieco sui possibili inquinamenti probatori avvenuti nella stanza di Rossi. Oggi a Siena sarà il giorno delle operazioni disposte dalla Commissione parlamentare per ricostruire la caduta dell’ex manager Mps, volato dalla finestra del suo ufficio il 6 marzo 2013.

Trivelle, ok delle Regioni al piano Cingolani. Ma la clausola “anti-petrolio” è solo un bluff

È arrivato l’ok delle Regioni in conferenza unificata al Pitesai, il piano per stabilire dove sia possibile continuare a fare ricerca e a trivellare per gas e petrolio in Italia. Sarebbe dovuto essere approvato entro fine settembre, ma l’intesa delle Regioni costituiva una condizione vincolante. I permessi di ricerca e prospezione nonché le richieste in analisi, infatti, sono bloccati da più di due anni proprio in attesa della redazione del piano e il ritardo accumulato ha creato di fatto un limbo in cui, nonostante le rassicurazioni del ministro della Transizione Ecologica, Roberto Cingolani, chi aveva già avuto l’ok poteva di fatto ricominciare a cercare. Il via libera, dicevamo, è arrivato ma con una condizionalità: la modifica del piano stesso, prevedendo che nelle aree del Pitesai si possa fare ricerca solo per il gas – ormai riconosciuta come la fonte energetica di transizione prediletta dall’Ue ma anche nello stesso Pitesai – e non per il petrolio.

Un’accortezza dagli obiettivi ecologici che però a molti appare priva di senso, in testa ovviamente il coordinamento No Triv. “Regioni cuor di leone cedono al governo e rilasciano l’intesa – ha commentato su Facebook Enrico Gagliano, il coordinatore dei No Triv –. A questo punto Roberto concerterà con Cingolani e firmerà il decreto di approvazione del Piano. Riprenderanno così ricerche e prospezione di gas e petrolio sia in mare sia su terra ferma, e potranno essere rilasciati nuovi permessi”.

La modifica è, insomma, un’arma spuntata: la legge che regola i permessi di ricerca, ci spiega Enzo Di Salvatore, è del 1991 e prevede che lo stesso permesso accordato valga per entrambi. L’intesa delle Regioni, allo stesso modo, abbraccia – e stavolta in base alla legge del 2019 – entrambi gli ambiti. Ma soprattutto, la modifica non regola in alcun modo l’estrazione di idrocarburi bensì solo la loro ricerca. Ma la ricerca viene spesso fatta proprio per capire cosa c’è nei giacimenti. “L’airgun, per dire, permette di distinguere cosa c’è nel sottosuolo: e cosa succede se ci si imbatte nel petrolio? L’impatto sull’ambiente, poi, è il medesimo”. Al massimo, andrebbero modificate le leggi, quella sarebbe la prova del nove. Nell’attesa, davvero tutto cambia perché tutto resti com’è. Anzi, com’era.

Maxwell, le arringhe finali: “Aiutò Epstein”. “No, è innocente”

“Sapevaesattamente cosa stava facendo e ha ripetuto lo stesso copione più volte” mentre adescava ripetutamente minorenni. Ghislaine Maxwell è stata “il braccio destro di Jeffrey Epstein e una predatrice sofisticata”, ha detto nella sua arringa finale la procuratrice Alison Moe parlando ai giurati durante il processo che si svolge in una Corte federale di Manhattan. Maxwell, 59 anni, tra il 1994 e il 2004, è stata “una donna adulta che ha trasformato in prede giovani minorenni fragili”, causando loro “danni profondi e duraturi” mentre le rendeva vittime degli atti di pedofilia del miliardario newyorchese che le abusava sessualmente. Maxwell è imputata di sei capi d’accusa e rischia fino a 70 anni di carcere. Per il suo avvocato invece “Ghislaine Maxwell non è Jeffrey Epstein: è una donna innocente accusata erroneamente di crimini che non ha commesso”.