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Salvini che imbraccia un mitra: solo un messaggio di violenza

Luca Morisi, lo “spin doctor” del ministro degli Interni Matteo Salvini, è un 45enne informatico laureato in filosofia. E di Salvini cura anche l’immagine pubblica. Ma l’immagine postata su Facebook con Salvini, che tiene in mano un mitra e la dicitura “Tenteranno di fermarci, siamo armati”, non è sicuramente di buon gusto. In un clima esacerbato dai vari attentati in giro per il mondo, come l’ultimo avvenuto in Sri Lanka che ha provocato circa 300 morti, messaggi del genere appaiono pesantemente fuori luogo. Mettendosi allo stesso livello delle varie scritte, apparse anche sui muri di Parma, “Spara a Salvini”. Un clima politico è sempre condannabile quando si inneggia alla violenza, anche in modo ironico. Perché la battaglia politica si combatte con parole seguite dai fatti. Non con immagini di armi. Mi auguro che Matteo Salvini prenda le distanze da certe provocazioni.

Cristian Carbognani

 

Non scordiamoci cosa è davvero la Lega e cos’ha fatto

L’enorme successo della Lega ha un’unica motivazione: il contrasto all’immigrazione. Una situazione lasciata incancrenire colpevolmente dai vari governi degli ultimi 20 anni, che hanno fatto montare l’allarme e il rifiuto a livelli di guardia. Salvini, cavalcando l’onda, ha detto quello che la gente voleva sentirsi dire, promettendo sfracelli, l’azzeramento degli arrivi ed espulsioni di massa. Finora ha ridotto (non azzerato) gli arrivi, ma non ha espulso nessuno dei 600mila clandestini. La domanda semplice è: un partito di Governo può reggersi solo su un tema di questo genere? Cosa c’è dietro al paravento dell’immigrazione? La gente, ancora accecata dai proclami, insorge ad ogni iniziativa dei Giudici che fanno di Salvini il martire perseguitato, perché difende gli interessi della Nazione. Per il resto, ignora o finge di non vedere cosa sia e voglia la Lega. La Lega è quella dei “Lumbard”, dei Giorgetti e Centinaio, dalle azioni (oltre che dalla faccia) inquietanti, dal sì al TAV, il sì alla privatizzazione delle acque, il sì alle ricerche petrolifere in Adriatico, il sì alle politiche ambientali più scellerate, compreso il sì (in sintonia con le multinazionali chimiche) a proseguire con l’uso di pesticidi e Glifosato. La Lega è l’alleata di sempre di Mr. B. e complice di tutte le sue scelte.

È quella del sì alle leggi ad personam, alle depenalizzazioni dei reati finanziari, ecc…

È quella delle politiche sociali più retrive, per gli sgravi e gli aiuti a ricchi e speculatori piuttosto che per gli “ultimi”.

La Lega ignora ogni “questione morale”, continuando a imbottire le sue liste di inquisiti, condannati e bancarottieri, come questo Siri, difeso a spada tratta, anche se pare sia stato preso ancora con le dita nella marmellata. Senza scordare i 49 milioni di soldi pubblici di cui si sono appropriati i suoi capi.

Mario Frattarelli

 

Serve un chiarimento nell’esecutivo gialloverde

Registrato che le liti furibonde a colpi di richieste di dimissioni incrociate – tra Lega e M5S – non hanno sortito alcun effetto pratico contro il mantenimento in vita del governo gialloverde, ed essendo ormai giunti a circa un mese dalle elezioni europee, sarebbe il caso che si uscisse da questo stucchevole tran-tran con un chiarimento definitivo tra le due parti. In altri termini, il governo e il premier Conte, anziché tirare a campare con gli insulti e le grida sino al 26 maggio, farebbero bene a indire un Consiglio dei ministri per chiarire una volta per tutte se fare una tregua sino alle Europee, o se dare le dimissioni, o se continuare con la ignobile pochade che favorisce le peraltro sbiadite opposizioni e i protervi burocrati europei, offrendo un miserabile spettacolo della politica italiana.

Luigi Ferlazzo Natoli

 

La Costituzione è la nostra ultima speranza per il futuro

Il recente (presunto) caso di corruzione che ha coinvolto un esponente della Lega, così come gli scandali delle tangenti innescate dal Mose, i concorsi truccati in Umbria, e altri innumerevoli casi analoghi in tutta Italia non fanno che confermare la tesi a suo tempo sostenuta dall’antropologa A. Signorelli: “Familismo, clientelismo e cosca sono le tre piaghe che affliggono il nostro paese, perché profondamente radicate nel tessuto sociale”. Solo i valori universali della Costituzione, qualora riescano a sedimentarsi nelle coscienze dei cittadini, potranno far sì che l’interesse generale prenda il sopravvento su quello particolare. E il 25 aprile, festa della Liberazione e, quindi, della Costituzione, non sarà un inutile rito, se in quella occasione riaffermiamo la volontà di andare nella direzione di un patriottismo della Costituzione, l’unico modo per rafforzare la coesione sociale e per sperare in un mondo migliore.

Maurizio Burattini

 

Caro Di Maio, apri la crisi sulle proposte di legge

Penso che il Movimento 5 Stelle non debba aprire la crisi sul caso Siri ma sulle iniziative di legge. Lì si vedrà chi le approva e chi no e solo in quel caso sarà possibile portare il Paese a nuove elezioni mettendo gli italiani di fronte alle loro responsabilità, facendo loro scegliere da chi vorranno essere governati. Solo allora capiremo se questo Paese vuol davvero cambiare o apparire quello che veramente è.

Michele Lenti

Europee – Le capolista non incideranno, il Movimento deve ritrovare se stesso

 

Gentile dottor De Carolis, vorrei rivolgerle una domanda sulle “capolista” del M5S alle elezioni europee: al netto delle polemiche interne che la scelta di Di Maio ha provocato (e dell’idea, non proprio inedita, di presentare solo donne), pensa che la mossa possa rivelarsi efficace presso l’elettorato?

Antonio Maldera

 

Gentile Antonio, lei ricorda giustamente che la scelta di presentare cinque capolista donne non è affatto inedita, perché Matteo Renzi fece lo stesso nel 2014. E soprattutto, cita le polemiche interne suscitate dalla decisione. E questo è già un punto che fa molto dubitare dell’effettiva efficacia di questa mossa. Perché l’aver calato dall’alto cinque esterne, senza averle peraltro sottoposte a un vero vaglio del web (la ratifica di qualche giorno fa sulla piattaforma Rousseau non può essere considerata una vera consultazione) rappresenta una differenza di trattamento troppo vistosa con gli europarlamentari uscenti, tutti ricandidati dalle parlamentarie sul web con consensi in taluni casi larghissimi. Ma in generale anche gli altri candidati e molti gruppi locali, composti da veterani del M5S, hanno disapprovato la scelta. Ed è un nodo, specialmente in una fase già delicatissima, in cui il Movimento sta discutendo di una sua riorganizzazione (ed era ora) e in cui deve fare i conti con le conseguenze dei dietro front su alcune battaglie storiche (dal Tap all’Ilva). Ora più che mai, il Movimento dovrebbe ritrovare la propria base e la propria gente, ricompattarsi, se non vuole essere schiacciato dalla forza elettorale di Matteo Salvini. E non convince neanche il precedente più volte citato da Di Maio, quello della candidatura di esterni nei collegi uninominali nelle politiche dell’anno scorso. Un’innovazione nel complesso azzeccata, di cui forse però è stato sopravvalutato il peso nelle urne, e che soprattutto era arrivata in un’altra fase politica. Nel complesso quindi ritengo che le cinque capolista, tra cui manca oltretutto un nome d’impatto (come lo fu invece Gregorio De Falco l’anno scorso, per intendersi) non incideranno sul risultato finale del Movimento. Perché la partita del 26 maggio il M5S dovrà (o dovrebbe) giocarla puntando innanzitutto su se stesso, quindi su tutti quelli che erano 5Stelle molto prima che arrivassero le poltrone.

Luca De Carolis

Dalle Tigri Tamil ai jihadisti: un film dell’orrore già visto

Negli ultimi dieci anni, dalla fine cioè della guerra civile con i separatisti Tamil di religione induista che iniziò nel 1983, lo Sri Lanka è diventato nuovamente una delle mete privilegiate del turismo internazionale. Pur essendoci stati attentati durante la guerra, nessuna delle parti in conflitto aveva mai preso volutamente di mira i cristiani del luogo e meno che mai i turisti. E per fortuna dato che il turismo è una delle voci principali dell’economia di questa nazione bella ma povera dove per secoli le varie religioni hanno convissuto pacificamente. La guerra Tamil scoppiò per questioni territoriali più che religiose.

La strage di Pasqua rischia di nuocere gravemente all’isola del tè, non solo sotto il profilo economico, ma anche politico, aggravando le tensioni createsi l’anno scorso tra la presidenza e il governo. Se dovesse risultare vero che, oltre al rapporto, inviato da un’intelligence straniera, i servizi segreti cingalesi non abbiano ritenuto credibile l’avviso del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, le conseguenze potrebbero far crollare la fragile intesa su cui si mantiene in equilibrio l’assetto politico. Il presidente Sirisena nel 2018 aveva licenziato l’attuale premier Wickremesinghe mettendo al suo posto l’uomo forte dell’opposizione, Mahinda Rajapaksa. Alcune settimane dopo, tuttavia, il capo dello Stato fu costretto a reintegrare Wickremesinghe a causa delle pressioni della Corte Suprema, ma il loro rapporto è ancora teso mentre si avvicinano le elezione sia presidenziali sia legislative, previste rispettivamente per la fine di quest’anno e l’inizio del prossimo. Sirisena aveva rimosso il primo ministro accusandolo di corruzione e legami eccessivi con la Cina per sostituirlo con l’ex dittatore-presidente, accusato dalle organizzazioni umanitarie di aver commesso violazioni e crimini di guerra durante il conflitto, contemporaneamente allo scioglimento del governo e la sospensione del Parlamento. Le motivazioni di questi cambiamenti e contro cambiamenti politici rimangono confusi. Anche la Chiesa anglicana dello Sri Lanka bollò la mossa di inconstituzionalità, preoccupata che la sostituzione potesse portare a un ulteriore deterioramento dell’ economia e della pace sociale. Durante la campagna elettorale del 2014 Sirisena però predicava la riconciliazione nazionale e la promessa di fare giustizia contro le atrocità compiute durante la guerra civile dal suo predecessore, Rajapaksa per l’appunto.

È in questo quadro di faide interne e lotte intestine che si innesta il seme del jihadismo, contando su una cifra tuttavia esigua di musulmani locali. Il gruppo il National Thowheeth Jamath (Ntj) accusato di aver perpetrato l’eccidio di Pasqua, era salito agli onori delle cronache l’anno scorso per aver sfregiato alcune statue del Budda e una statua cristiana. Le notizie sulle origini dell’Ntj sono frammentate: secondo alcuni potrebbe trattarsi di un ramo dell’ex Liberation Tigers of Tamil Eelam (Ltte, più comunemente conosciuta come Tamil Tigers), l’organizzazione militante tamil basata nel nordest dello Sri Lanka e sconfitta durante la presidenza di Mahinda Rajapaksa (2005-2015).

Un gruppo, l’Ntj, da non confondersi con la Tamil Nadu Thowheed Jamath (Tntj) che si propone di insegnare il vero Islam sia ai musulmani, sia ai non musulmani ed è impegnata nel sociale. Secondo alcuni media internazionali i sostenitori dell’Isis nel frattempo stanno festeggiando la strage, sostenendo che si tratta di una vendetta per il recente massacro nelle moschee di Christchurch, in Nuova Zelanda

Tweet boomerang per Hillary e Obama: le vittime diventano “adoratori della Pasqua”

Si sa che meditazione e riflessione non sono carte vincenti sui social media, dove quel che conta sono spontaneità e immediatezza. Ma stavolta sul web circola il sospetto che Papa Francesco sia stato troppo flemmatico, sul suo account Twitter @Pontifex; e che Barack Obama e Hillary Clinton abbiano invece esagerato con il politically correct, reagendo agli attentati di Pasqua nello Sri Lanka che hanno fatto 290 vittime e centinaia di feriti. E c’è chi mette a confronto la tempestività di Francesco nell’esprimere su twitter la sua emozione, lunedì 15 aprile, per il rogo di Notre-Dame con la lentezza dopo le bombe nelle chiese di Colombo e di altre città dell’isola Stato, avanzando il sospetto che i cingalesi siano cristiani di serie B, rispetto a quelli di Europa, America, Africa, i continenti dove il cristianesimo è più radicato.

Chi si lascia portare da emozione e dolore è l’arcivescovo di Colombo, cardinale Malcom Ranjith, che, a caldo, chiede che i responsabili degli attentati “siano puniti senza pietà”, perché “solo degli animali possono comportarsi in quel modo”. Parole poco cristiane, tanto più che nello Sri Lanka vige la pena capitale. Di fronte a critiche e sospetti, la difesa di Papa Francesco ha ottime frecce al suo arco. È vero che il pontefice solo ieri ha twittato così: “Uniamoci anche oggi in preghiera con la comunità cristiana dello Sri Lanka colpita da una violenza cieca nel giorno di Pasqua. Affidiamo al Signore risorto le vittime, i feriti e la sofferenza di tutti. #PrayForSriLanka”.

Ma il giorno di Pasqua, alla fine delle celebrazioni in Piazza San Pietro, in mondovisione e davanti a 70 mila fedeli, dopo la messa e la benedizione Urbi et Orbi, leggendo il messaggio pasquale, Papa Francesco aveva già detto: “Ho appreso con tristezza e dolore la notizia dei gravi attentati che, proprio oggi, giorno di Pasqua, hanno portato lutto e dolore in alcune chiese e altri luoghi di ritrovo dello Sri Lanka. Desidero manifestare la mia affettuosa vicinanza alla comunità cristiana, colpita mentre era raccolta in preghiera, e a tutte le vittime di così crudele violenza. Affido al Signore quanti sono tragicamente scomparsi e prego per i feriti e tutti coloro che soffrono a causa di questo drammatico evento”.

Favorito dal fuso orario, il Papa, con le sue parole, era persino arrivato prima del presidente Usa Donald Trump, che, quando c’è da twittare, non è secondo a nessuno, a rischio di spararle grosse.

In un primo messaggio, infatti, parlava di “138 milioni di morti” e di “orribili massacri terroristici”. Poi rimuove il tweet dalla rete e s’adegua alla realtà: “138 persone sono state uccise nello Sri Lanka, e oltre 600 gravemente ferite – era il bilancio a quel momento, ndr –, in un attacco terroristico a chiese e hotel. Gli Stati Uniti porgono le più sentite condoglianze al grande popolo dello Sri Lanka. Siamo pronti ad aiutare!”. Trump non cita i cristiani e il suo tweet si colloca tra quello rituale di Buona Pasqua e una raffica d’aspre polemiche, che più l’appassionano, contro l’opposizione democratica sul Russiagate.

Ma le polemiche non lo sfiorano. Le critiche, invece, investono Barack Obama e Hillary Clinton che, nel condannare su Twitter gli attacchi in Sri Lanka, usano il termine “adoratori della Pasqua” invece di parlare semplicemente di cristiani. “Cosa diavolo è un adoratore della Pasqua? Un termine per evitare di usare la parola ‘cristiani’”, si legge in un messaggio di risposta. E, in un altro: “Hey Hillary Clinton e Barack Obama, gli ‘adoratori della Pasqua’ cui vi riferite si chiamano cristiani. È qualche sillaba in più rispetto a musulmani, ma scommetto che riuscite a pronunciarla”.

Ieri, Trump ha fatto le condoglianze al premier dello Sri Lanka Ranil Wickremesinghe, deprecando “uno degli eventi terroristici più mortali sin dall’11 settembre 2001”. Trump ha assicurato allo Sri Lanka aiuto “nel perseguire i responsabili”, nel quadro “del comune impegno contro il terrorismo globale”.

Strage di cristiani, allarme ignorato per dieci giorni

L’isola più bella, il soprannome con cui Marco Polo definì lo Sri Lanka, è ancora scossa dopo la strage di Pasqua. A Colombo, la capitale dell’isola, dove nella mattina di domenica sono state fatte saltare in aria tre chiese e altrettanti hotel di lusso con un bilancio di 290 morti e 500 feriti, ieri è scoppiata un’altra bomba vicino alla chiesa di Sant’Antonio, durante un disinnesco. La polizia ha inoltre comunicato che 87 detonatori sono stati trovati presso la principale stazione degli autobus della città. Tra le vittime anche una cingalese di 55 anni, Haysinth Rupasingha, che lavorava come badante e abitava a Catania dagli anni Novanta. L’opposizione e i media si domandano come mai i servizi segreti non siano stati in grado di prevenire il massacro di cristiani cingalesi e turisti che, secondo fonti del governo, sarebbe stato provocato da sette kamikaze appartenenti a una organizzazione jihadista islamica locale semi sconosciuta, National Thawheed Jama’ut, finora accusata “solo” di azioni vandaliche contro statue cristiane. Anche alcuni ministri del governo cingalese hanno sottolineato i fallimenti dell’intelligence.

Dopo l’ennesimo attacco, le autorità di Colombo hanno deciso di proclamare lo stato di emergenza.

La legge di emergenza conferisce alla polizia e ai militari ampi poteri di fermare e interrogare i sospetti senza l’ordine del tribunale. Alle 8 di sera di ieri è scattato anche il coprifuoco. Lo Sri Lanka ha ventuno milioni di abitanti, la maggior parte è di religione buddista, mentre il 10% è induista, un altro 10% cristiano, mentre i musulmani sarebbero intorno al 7%. Questi ultimi non hanno mai rivendicato, al contrario delle tigri Tamil induiste, alcuna indipendenza. I cristiani sono sempre stati accettati anche se negli ultimi anni il movimento nazionalista buddista (legato a quello birmano) ha subito intimidazioni.

Nelle ultime ore gli investigatori hanno ribadito che sette attentatori suicidi hanno preso parte agli attacchi e un portavoce del governo ha aggiunto che è coinvolta una rete internazionale. Secondo l’agenzia Reuters, che sostiene di aver visionato il documento, le forze dell’ordine avevano ricevuto una nota su un possibile attacco contro luoghi di culto cristiani da parte di un gruppo islamico locale quasi due settimane fa. Il rapporto della polizia, datato 11 aprile, rivelava che un’agenzia straniera aveva avvertito le autorità di possibili attacchi alle chiese da parte del leader del gruppo National Thawheed Jama’ut. Le domande sul perché il rapporto non ha fatto scattare misure opportune potrebbe alimentare una faida tra il primo ministro Ranil Wickremesinghe e il presidente Maithripala Sirisena. Gli arresti sono saliti a 24 ma non sono stati rivelati i nomi dei fermati. È certo però che si tratti di cittadini dell’isola. Numerosi esperti internazionali anti-terrorismo hanno detto che è molto probabile ci sia un coinvolgimento dell’Isis o di al-Qaeda, dato il livello di sofisticazione. Il presidente Sirisena, ha fatto rilasciare una dichiarazione in cui si comunica che il governo cerca assistenza straniera per tracciare i collegamenti oltreoceano.

Per ora le ricostruzioni degli inquirenti sostengono che due dei kamikaze si sono fatti esplodere nel lussuoso hotel Shangri-La uccidendo alcuni dei 36 stranieri vittime degli attentati. Tra questi ci sono tre dei quattro figli di Anders Holch Povlsen, l’uomo più ricco della Danimarca. Gli attentati negli hotel sono avvenuti durante l’ora della colazione, quando i turisti erano quasi tutti ancora all’interno della struttura. Il corrispondente del quotidiano El Mundo, dopo aver sentito alcuni testimoni rimasti feriti, ha scritto che uno degli attentatori suicidi dell’hotel Cinnamon “si è messo in coda per la colazione speciale di Pasqua, ha aspettato il suo turno con il piatto in mano fino al momento di essere servito e solo allora ha fatto detonare l’esplosivo”. I terroristi, scrive il giornale spagnolo, avevano preso camere negli alberghi obiettivo degli attentati e sembra che la strategia sia stata la stessa anche negli altri alberghi. Nelle chiese a trovare la morte sono stati soprattutto i cristiani dell’isola.

La memoria di Kiev nella fossa dei 30 mila liquidati dalle SS

La battuta potrebbe essere: “Come se Woody Allen fosse diventato presidente”. Negli attuali tempi farseschi dei comici leader politici, Volodymyr Zelensky sorge dalle pieghe della Storia d’Europa amara e violenta, intrisa anche dello spirito ebraico. La risata beffarda che conquista Kiev esce fuori dalla terra culla dell’hassidismo, il movimento dell’ebraismo ortodosso che nel XVIII secolo ha conformato la cultura yiddish propagatasi in Europa e poi in America con le migrazioni dai ghetti.

“Lì giacciono i miei trentamila ebrei”, rispose sorridendo con un ampio gesto del braccio Paul Blobel all’ospite che gli chiedeva cosa fossero quel ribollire della terra e l’accendersi di fuochi fatui mentre la limousine nazista si recava nella dacia del generale delle SS di Kiev. Era la gola di Babi Yar, quartiere periferico di Kiev nel 1942, quando la città ucraina era caduta nelle mani delle truppe di Hitler che sfondavano le linee sovietiche, obiettivo Mosca.

Nel libro-documento pubblicato di recente da Adelphi, Babi Yar, Anatolij Kuznecov raccolse le memorie di bambino, l’arrivo dei tedeschi, osannati dal nonno anti-sovietico (l’opera, scritta negli anni ’60, fu sempre censurata in Urss) il pane e il sale offerto agli “invasori-liberatori” e poi l’eccidio nella fossa dove scorreva il ruscello nel quale gli abitanti del quartiere prendevano l’acqua.

Era fine settembre, era il 1941, i nazisti erano arrivati da una decina di giorni: radunarono gli ebrei rimasti in città (60 mila sui 160 mila della comunità) e ne uccisero 33.771 in un’unica soluzione, a colpi di mitraglia. Altre decine di migliaia se ne aggiunsero, così da far ribollire la terra per un anno, mentre in tutta l’Ucraina 1,5 milioni di ebrei venivano “liquidati”.

Chissà se decenni dopo una risata presidenziale dissotterrerà la memoria ebraica di Kiev.

Il “servitore del popolo” ha un oligarca per amico

“Tutto è possibile”. Sono le sue prime parole sotto gli evanescenti neon verdi. Vladimir Zelensky è presidente e lo urla alla folla quando capisce di essere diventato l’uomo più potente del paese. A qualcuno manca il respiro per la felicità, a qualcuno per il panico. È lo stato dell’arte ucraino: il giullare della tv ha ufficialmente preso il posto del re del cioccolato. La colonna rossa delle sue percentuali troneggia con il 73% delle preferenze su quella blu dell’avversario, e presto ex presidente, Petro Poroshenko, che capitombola a un umiliante 24%.

La musica che lo accompagna sul palco è la sigla del suo spettacolo di satira. “Tutto è possibile, lo dico agli ex paesi sovietici: guardateci”. Zelinsky strabuzza gli occhi tra coriandoli e decibel da discoteca, non si sveste nemmeno un attimo del sorriso color latte. Ringrazia tutti, perfino Olga e Ljuba, personale delle pulizie, in un ucraino striminzito, rinunciando al russo, sua lingua madre.

“Un presidente senza esperienza: il Cremlino sta festeggiando, torneremo nella sfera d’influenza russa” ha detto Poroshenko, che è già poroch, polvere, dice l’ultimo gioco di parole della Capitale. Per il momento a Mosca nessuno è sovrappensiero. Dimitry Peskov, portavoce di Putin, ha detto: “È troppo presto per le congratulazioni del presidente russo”. Ma dalla Federazione mandano auguri via Twitter il blogger Aleksey Novalny e perfino il vecchio presidente in fuga dal fuoco della rivoluzione di Maidan, Yanukovic.

Più che di protesta, un voto di disperazione. Zelinsky è un fenomeno di massa. Lo hanno scelto nelle regioni dove sono stati registrati più votanti, Lviv e Dnipro, ma anche in quelle dove meno elettori sono andati alle urne, Lugansk e Zakarpatya. L’Ucraina ha oggi una guerra a due confini: quello ad est in Donbass e quello tra realtà e fantasia, che non distingue più. Lo dice anche Oleskyi Haran, professore di politica comparata dell’università della Capitale: “Questo è un fenomeno psicologico, non lo distinguono dal personaggio”.

Dopo Israele, l’Ucraina sarà il primo Paese ad avere un presidente e un premier ebreo. A differenza della chiacchierata origine di Poroshenko, non fanno segreto della loro religione né Zelinsky né Groysman, 38 anni, il giovanissimo primo ministro di Kiev. Sono entrambi ebrei ucraini proprio come l’ex governatore di Dnipro, l’oligarca Kolomolsky, in esilio a Tel Aviv con un tris di cittadinanze e un’accusa in patria. Avrebbe frodato miliardi di grivne alla Privat Bank, la banca più grande del Paese, come molti di quei corrotti che il “servitore del popolo” ha promesso agli ucraini di voler cacciare e la cui ombra invece si staglia silenziosa alle spalle del comico.

Proprio come in un racconto distopico in cui “tutto è possibile”. ‘Ze’ ha sedotto senza dover convincere. Dopo la campagna elettorale più virtuale che il paese ricordi, infarcita di improvvisazioni e imitazioni, intenzioni magari positive ma ridotte a slogan, barzellette, video virali e nessun vero programma politico per il futuro del Paese, ha consolidato un consenso già acquisito al primo turno ripetendo “fuori i ladri”, come dice il presidente per caso nella serie tv che l’ha reso celebre, ma mandata in onda sul canale di cui è proprietario quello che tutti dicono sia il suo mentore: proprio Kholomolsky.

Incantare è missione di Zelensky, ma all’ironia perenne come strategia per evitare spiegazioni dettagliate ai giornalisti, i reporter della Reuters non si sono arresi. Dalle targhe delle Mercedes nere e blindate usate dal comico sono risaliti ai suoi collaboratori in ombra, i cui nomi non figurano ufficialmente nella futura squadra ufficiale di governo: avvocati, consiglieri, partner commerciali con cui condivide conti stranieri e perfino guardie del corpo sono tutti riconducibili all’enturage di Kholomolsky. Uno di loro è Andry Bohdan, avvocato dell’oligarca di Dnipro e dell’attore. Zelinsky, quando interpellato dall’agenzia, ha preferito non commentare l’inchiesta, come molti che l’hanno votato.

La verità non importa: è questa la forza dell’insostenibile leggerezza di ‘Ze’ e degli ucraini, illusi dalla chimera di un attore da serie Netflix che li ha convinti che “tutto è possibile”.

Dl Crescita, in cdm la norma sul rimborso a truffati delle banche

Arriva oggi in Consiglio dei ministri anche la norma di rimborso per i truffati che modificherà l’impianto previsto nella legge di Bilancio: dovrebbe ricalcare lo schema del ‘doppio binario’ concordato con Bruxelles: un ristoro diretto per i risparmiatori con un reddito sotto 35.000 euro nel 2018 e un patrimonio mobiliare sotto i 100.000, circa il 90% della platea secondo il governo, e per il restante 10% una sorta di arbitrato semplificato davanti alla commissione di 9 esperti indipendenti creata ad hoc al ministero dell’Economia. La commissione dovrà verificare, all’interno di tipologie tipizzate, sia l’esistenza di violazioni massive sia del cosiddetto misselling, ovvero la vendita fraudolenta da parte delle banche di azioni e obbligazioni a persone che non sono informate del rischio che si assumono. Questo schema è stato avallato da 17 associazioni e respinto da due: ‘Noi che credevamo nella Popolare di Vicenza’ e il ‘Coordinamento Don Torta’. Venerdì scorso i ‘dissidenti’, rappresentanti dei risparmiatori veneti, Luigi Ugone e Andrea Arman, sono stati convocati a Palazzo Chigi per un confronto tecnico al termine del quale era emersa la volontà dell’esecutivo di cercare il più ampio consenso possibile.

“Stavo per pagare e zac… il conto era bloccato”

“Ero alla cassa del supermercato. Ho dato il bancomat per pagare e zac… mi hanno detto che il mio conto era bloccato. Non potevo più prelevare un euro. Così sono uscito a mani vuote e sono dovuto andare a cena da un amico perché non avevo niente in frigo”. A San Marino di storie come quella di Roberto se ne contano a decine. Non ci si fa quasi più caso. Capita che ti blocchino il conto in banca, un po’ come ogni anno arrivano le stagioni.

La Repubblica è nel centro dell’Italia, ma nel nostro Paese pochi lo sanno. È rimasta l’idea che la rocca del Titano sia un florido paradiso fiscale dove le banche spalancavano le loro porte ai capitali senza chiedersi da dove venissero. Acqua passata, poi sono arrivate la crisi e le nuove norme che hanno avvicinato San Marino agli standard internazionali di trasparenza. E in un batter d’occhio di 13 banche ne sono rimaste 6.

Ogni volta la storia si ripete: arriva il blocco dei pagamenti. Nei giorni scorsi è stato prorogato quello di Cis, ma prima era già toccato ad altri due istituti. E per migliaia di correntisti arrivano le disavventure. Per qualcuno addirittura il rischio di finire in miseria e la necessità di chiedere aiuto a parenti e amici: “A me è andata bene – racconta ancora Roberto – perché ho un lavoro. Sono riuscito in qualche modo ad arrivare a fine mese e ho aperto un conto presso un altro istituto dove mi sono fatto accreditare lo stipendio”. Una storia come centinaia di altre: c’è chi si è ritrovato senza un soldo al ristorante, chi era in viaggio all’estero, chi era di notte al distributore di benzina in autostrada.

A volte proprio non si sa come tirare avanti, come Martina: “Sono una madre single, ho un figlio di un anno e mezzo e non ho genitori cui chiedere denaro. Un giorno all’improvviso mi hanno bloccato il conto e mi sono trovata senza nemmeno i soldi per comprare i pannolini e il latte”. La sua storia è arrivata sulla scrivania dei vertici della banca che sono riusciti a trovare una via d’uscita tra le maglie strette della legge. Martina ha potuto prelevare duemila euro e a tirare avanti giusto il tempo che il blocco finisse.

E pensare che una volta le banche sammarinesi erano meta di capitali in arrivo da mezzo mondo. Oggi, invece, perfino i cittadini della Repubblica cominciano a portare i soldi in Italia. Magari verso Rimini, quelle luci gialle che di sera si vedono ai piedi della Rocca. Ma fa male, perché qui si parla italiano, magari si passa il confine per fare la spesa e andare a ballare in Riviera. L’orgoglio di essere sammarinesi, però, è forte: “Noi siamo indipendenti dal 301 (anche se gli storici parlano del 1291), mentre voi italiani dall’800”.

Fa male anche, come raccontò nel 2017 l’imprenditore Mike Bruschi in una lettera al Resto del Carlino, ritrovarsi nella hall di un albergo della Slovenia con una carta di credito che valeva come un pezzo di plastica. E il portiere che ti guardava insospettito perché dovevi pagare il conto.

Il nodo San Marino: salvare le banche o i bilanci pubblici

Paese che vai, salva-banche che trovi. Ora tocca a San Marino che ha votato un blocco dei pagamenti per l’istituto Cis (il Credito Industriale Sammarinese già al centro di un’inchiesta del 2018). Una boccata d’ossigeno per l’istituto, forse, ma non per i correntisti che si vedranno imprigionati i loro risparmi per tre mesi. Si tratta di un bis, perché la Banca Centrale di San Marino (Bcsm) aveva già disposto un blocco a gennaio, ma stava per scadere. Il Parlamento ha dovuto così votare la proroga fino a luglio. Ora Bcsm potrà provvedere al blocco per dare il tempo al commissario di tentare di rimettere in sesto i conti e cercare un acquirente. Altrimenti si rischia la liquidazione.

“In realtà – racconta Roberto Ciavatta, parlamentare di opposizione (Movimento Rete) – il pacchetto della maggioranza prevedeva altre novità molto criticate: si parlava della possibilità per Bcsm – anch’essa in affanno – di fare prestiti a banche in amministrazione straordinaria o in liquidazione coatta amministrativa”. Ma la proposta, che prevedeva il solo vaglio del governo, è stata stoppata dall’opposizione che ci vedeva un favore proprio a Cis e ai suoi azionisti. “Dibattito accesissimo – aggiunge Ciavatta – anche sulla mancata previsione di uno strumento che permettesse di agire subito nei confronti dei soci. Si rischia che lo Stato salvi la banca, ma del risanamento benefici chi ha portato gli istituti sull’orlo del baratro”. Adesso, però, l’emergenza è salvare Cis. Evitare l’emorragia della liquidità rimasta in pancia all’istituto. Cercare di garantire la presenza dei fondi previdenziali che a San Marino sono affidati alle banche.

Oggi è come se Atene e il suo sistema bancario si fossero trasferiti tout court sul Monte Titano. Il sistema bancario della piccola repubblica è di fatto tecnicamente fallito. Così come lo era quello delle banche greche prima dell’intervento della Troika. Del resto basti un indicatore a dire quanta polvere si sia accumulata negli anni sotto il tappeto delle banche sanmarinesi. Il peso dei crediti malati, quelli di difficile rientro, è schizzato al 54% del totale degli impieghi. Lo dice l’ultimo rapporto fresco di stampa del Fondo monetario internazionale su San Marino.

Quel numero (il 54%) iperbolico pone il piccolo Stato e le sue banche ben oltre i patemi greci o ciprioti, i due paesi che hanno visto andare a gambe all’aria il loro sistema finanziario. Al culmine della crisi greca il rapporto Npl/prestiti era sopra il 40%, ma non certo a oltre la metà come drammaticamente accade a San Marino. Prestiti dati allegramente a chi non meritava di essere finanziato e spesso a imprenditori e faccendieri italiani. Gli stessi che sono letteralmente fuggiti dalla Repubblica portandosi via i depositi sui conti da quando è cominciata, sotto Tremonti, l’offensiva per tagliare i viveri al paradiso fiscale. Da allora tutto si è rotto e con un effetto valanga: i depositi sono fuggiti soprattutto da parte degli italiani e in genere degli stranieri. Dal 2015 ogni anno sono usciti dalle banche del Titano percentuali tra il 10 e il 20% della raccolta. Nel 2018 la raccolta diretta delle banche si è fermata a meno di 4 miliardi, erano oltre 5 miliardi pochi anni prima e addirittura ben 13,8 miliardi nel 2008. Con la fuga e i fallimenti (prima Asset Banca poi la Cassa di risparmio finita commissariata) l’attivo bancario è dimagrito a dismisura. Sono poi esplose le sofferenze andando velocemente al raddoppio. Oggi i crediti malati delle 6 banche rimaste valgono sull’unghia oltre 1,4 miliardi su prestiti scesi a poco meno di 3 miliardi. Un dato inquietante: le sofferenze e gli incagli che zavorrano i conti degli istituti superano il Pil dello Stato. Per dare un’idea della voragine è come se il sistema bancario italiano si ritrovasse con oltre 1.600 miliardi di crediti marci. Una situazione paradossale non sostenibile come ricorda il Fondo monetario. Sempre secondo l’Fmi il deficit di capitale delle banche del Titano si misura in almeno 540 milioni di euro. Soldi necessari a mettere in sicurezza il sistema. Soldi, però, che lo Stato non possiede. Del resto già le ricapitalizzazioni della Cassa di risparmio, la banca più grande, hanno portato a raddoppiare il peso del debito pubblico sul Pil. Il debito pubblico è esploso infatti dal 33% al 78% solo per i salvataggi bancari. Certo, c’è ancora margine per agire, ma il sentiero si fa sempre più stretto. Per salvare le banche occorrerebbero misure draconiane sul bilancio pubblico. Vorrebbe dire aumentare sensibilmente la tassazione sui cittadini e prendere la scure per tagliare la spesa pubblica. Un nodo difficile da sciogliere: salvare le banche vorrebbe dire affossare l’intero bilancio della Repubblica. Ma che sarebbe di San Marino senza le sue banche, pur ferite a morte dalla fine dell’oasi fiscale?