Meloni taglia fuori Silvio: “Al governo da soli col Carroccio”

Non è più un governo di centrodestra quello di cui parla esplicitamente Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, ma di destra-destra. L’ex ministra non lo nasconde: “Se alle elezioni europee andiamo bene e se si vede che anche a livello nazionale c’è un’altra maggioranza possibile – dichiara in un’intervista al Secolo d’Italia – allora si apre lo spazio per un governo che faccia davvero gli interessi dell’Italia. Libero dai Cinquestelle”. Quella “maggioranza possibile” citata dalla Meloni, però, è composta da “Lega e Fdi”. Di Forza Italia e Silvio Berlusconi non pare ci sia traccia. Dopo le Europee, se le forze sovraniste dovessero confermare i sondaggi, per la Meloni Sergio Mattarella “non avrebbe altra scelta che far votare. Voglio vedere chi lo sostiene un altro governo Monti dopo i disastri del primo”. La leader di Fratelli d’Italia però prende le distanze dal Matteo Salvini sulla questione del debito di Roma: “La Capitale – dice – non può essere trattata alla stregua di un piccolo comune. Servono poteri e risorse degni di tutte le grandi capitali europee. È sbagliato litigare sulle norme che aiutano Roma nascondendosi dietro l’incapacità conclamata della Raggi”.

Zingaretti: “Salvini vuole l’impunità classica per i potenti”

“Salvini sta distruggendo l’Italia. Da quando governa c’è meno lavoro, ci sono più debiti, non c’è più crescita, ci sono più insicurezza e illegalità. Difende solo il suo partito imbarcando di tutto e non difende certo gli Italiani, più indebitati e isolati nel mondo. Ora vuole l’impunità quella classica dei potenti”. Lo scrive su Facebook il segretario del Pd, Nicola Zingaretti. “Questa è la verità. Ma lo fermeremo unendo l’Italia onesta che lavora e che produce. Uniti – conclude – per amore dell’Italia”.

Il post del segretario del Pd segue la decisione di presentare una mozione di sfiducia al premier Giuseppe Conte, dopo il caso Siri. L’impulso è stato dello stesso Zingaretti, dopo aver parlato con i capigruppo, Andrea Marcucci e Graziano Delrio.

Una mozione che il Pd non ha i numeri per far passare. E dunque, l’obiettivo politico è dimostrare che i Cinque Stelle, anche se sparano contro Salvini & C., al dunque non si distanziano. E, votando insieme, rivelano quanto è falsa la percezione che vogliono dare di essere un Movimento di governo e di opposizione.

Ecco perchè il buco romano non c’entra nulla con altre città

La norma sulla gestione del debito di Roma continua a spaccare gli alleati di maggioranza: M5S preme per inserirla nel decreto crescita all’esame del Consiglio dei ministri di oggi, mentre la Lega chiede di allargare l’ombrello del salvataggio anche agli altri Comuni a rischio dissesto e non favorire così solo la Capitale. “Nessuna norma salva Raggi. Non esistono Comuni di serie A e serie B. O si aiutano tutti i Comuni e i sindaci in difficoltà o nessuno”. “Non hanno capito di cosa si tratta. È operazione a costo zero”, replica la viceministro dell’Economia Laura Castelli (M5S) che spiega: “La norma non è replicabile”. Il riferimento è alla partita di tutti gli altri salvataggi dei Comuni su cui punta il leader del Carroccio: in primis Catania e Alessandria (guidate dal centrodestra ed espressamente citate da Salvini). Ma in cerca di fondi ci sono anche Torino, Napoli, Caserta o Messina.

Dal Salva Roma al Salva Italia. Si tratta di un passaggio niente affatto scontato e impraticabile: la norma per la Capitale non è replicabile, perché prevede la chiusura dal 2021 della gestione commissariale (definita dalla sindaca Virginia Raggi “una sorta di bad company”) del maxi debito pregresso da 12 miliardi di euro. Lo Stato dovrà pagare una quota più bassa rispetto a oggi del debito della Capitale; il Comune di Roma gestirà soltanto i debiti verso i fornitori e non più quelli verso le banche e avrà più soldi da spendere; il sindaco Virginia Raggi potrà ridurre l’addizionale Irpef più alta d’Italia che grava sui romani giusto nell’anno delle elezioni, il 2021.

Il meccanismo. Questa partita di giro deriverebbe dalla rinegoziazione dei mutui con le banche da parte dello Stato e da una ricognizione del piano di rientro del debito. E quindi non potrebbe essere adottata anche per gli altri Comuni che – sottolinea la Castelli – “vanno sì salvati tutti, ma i problemi sono diversi e a ciascuno serve la sua cura”. Ma quello che manca è il fattore tempo: è l’avversario contro cui il governo gialloverde deve lottare e che servirà per elaborare altri testi ad hoc in cui inserire gli sgravi anche per le singole amministrazioni, ognuna con la propria storia. Ma in tempi di campagna elettorale, gli annunci sugli aiuti ai sindaci sono un buon viatico.

Gli altri Comuni. Secondo i dati della Corte dei Conti relativi al 2016, sono 409 i Comuni che hanno dichiarato il dissesto o hanno avviato le procedure di riequilibrio finanziario, secondo quanto previsto dal Testo unico degli enti locali. Ma altre realtà, poco meno di 200, hanno avviato le procedure per il pre-dissesto, secondo le norme introdotte nel 2012 dal governo Monti, che prevede un piano di risanamento di 10 anni, prolungati a 20 anni con la manovra 2018 per tentare di salvare almeno la situazione di Napoli. Inoltre, pronte a essere salvate ci sono anche Foggia, Cosenza, Reggio Calabria, Messina, Savona, Frosinone, Rieti e Pescara.

Il caso Alessandria. A sperare più di tutte è Alessandria, la città del capogruppo della Lega Riccardo Molinari. Anche se la giunta comunale ha redatto il bilancio di previsione, restano da elaborare ancora i cinque bilanci di consuntivo – quelli che la Corte dei Conti vuole riscritti – e quello del 2018. I leghisti alessandrini si dicono fiduciosi ma la situazione è in bilico: vanno fatti quadrare 46 milioni di euro che non sono debiti: la città non li deve a nessuno, ma è obbligata a farli rientrare nelle voci di bilancio, mentre i dipendenti comunali hanno dichiarato lo stato di agitazione.

Le altre città. Sul fronte catanese, il sindaco Salvo Pogliese – che dopo l’addio a Forza Italia guarda con simpatia alla Lega e a Fratelli d’Italia – ha già lanciato l’allarme: “Se non si interviene immediatamente, la condizione di liquidità delle casse comunali tra due o tre mesi potrebbe diventare drammatica, impedendoci persino di pagare gli stipendi a quasi diecimila famiglie. La situazione finanziaria del Comune, che ha dichiarato il default il 12 dicembre 2018 dopo anni di crisi, presenta debiti per 1,6 milioni e mutui da pagare per 950 milioni. Mentre sulla sponda M5s c’è la città di Chiara Appendino in cui è già scattata una sforbiciata sui conti. Nel 2019 il bilancio del Comune di Torino pareggia a un miliardo e 227 milioni, cifra alla quale la giunta Appendino è riuscita ad allineare entrate e spese. Ma è l’effetto di un’ulteriore austerity, dopo due anni di tagli al personale, riduzione degli stanziamenti per le politiche culturali, il rincaro sugli abbonamenti per le strisce blu per mettere in sicurezza i conti ed evitare il pre-dissesto.

La sindaca mostrificata indigna il web: “Caro Espresso, ci vien voglia di votarla”

“Dopo questa copertina avete raggiunto il top del trash. Spero nella chiusura”. Con 153 like questo commento troneggia tra gli 800 lasciati sotto una foto pubblicata dalla pagina Facebook de l’Espresso: l’immagine ritrae la copertina del suo ultimo numero, in cui appare una gigantografia in bianco e nero della sindaca di Roma Virginia Raggi, con una scritta in rosso che riporta una frase da lei pronunciata: “Roma è fuori controllo”.

Nella foto di copertina la sindaca appare visibilmente invecchiata e imbruttita, e questo ha lasciato pensare che ci sia stato lo zampino di photoshop, tanto da dare il via a un profluvio di proteste virtuali.

“L’unico effetto che produce questa informazione malata e in malafede è la riconsiderazione continua della Raggi. Prima la stimavo. Ora l’adoro”, scrive S. M., a cui si aggiunge Angelo, che commenta: “Ma vi rendete conto che pur di accontentare i vostri padroncini avete perso tutta la dignità di giornalisti?”.

Le reazioni che si sono riversate sul social sembrano testimoniare l’effetto boomerang della scelta di ritrarre così la prima cittadina capitolina, che ha scatenato nei lettori un moto di solidarietà verso Virginia Raggi, anziché di indignazione.

La scelta della copertina non è piaciuta a molti lettori: “Per pluralità di informazione vi ho letto per anni, ma siete beceramente alla fine”, posta M.B.. “Perché non lo avete fatto con la Boschi, per tutto quello che ha combinato ai cittadini? Dimenticavo.. ha la vostra stessa morale”, “Sarei curioso di vedere la copertina del 20 luglio scorso, quando uscì la motivazione della sentenza sulla trattativa Stato-mafia”.

E ancora: “Se con questa copertina pensavate di attirare l’attenzione ci siete riusciti, peccato che l’attenzione ottenuta sia per farvi coprire di insulti e non di complimenti”, per finire con un sintetico “Fate schifo”.

Il settimanale L’Espresso ha riportato nell’inchiesta di copertina le presunte pressioni sui vertici della municipalizzata Ama per modificare il bilancio. Nella pioggia di commenti, c’è chi torna sulla foto: “La copertina non vi rende onore, qualsiasi cosa si pensi di Virginia Raggi, non dovete scadere nel body shaming, vi credevo migliori”.

Qualcuno si indigna al pensiero che il suo volto sia stato “ritoccato e taroccato” per farla sembrare più vecchia. “Fatevelo spiegà da Aranzulla come se photoshoppa.. o almeno prossima volta assumete un grafico!”, consiglia J.B. .

C’è però anche chi non condivide il polverone sollevato dalla questione, come G.R., che rimbrotta: “Ma se fosse stata la foto di un maschio ci sarebbe stata questa alzata di scudi? Proprio vero che in Italia il berlusconismo ha compromesso i cervelli. Riprendetevi!”.

Una vignetta rimarca come il settimanale combatta quotidianamente sessismo e bullismo, e si sarebbe quindi tirato un brutto autogol con questa trovata. Se l’intento “palese” era “ottenere un fine politico” – scrive Marco E. – potrebbero però esserci riusciti: più di qualcuno ha scritto: “Io la Raggi dopo questa vicenda l’ho rivalutata”.

Gialloverdi in bilico su Siri “Roma è solo un pretesto”

Si legge salva Roma, si traduce caso Siri. È la sorte del sottosegretario leghista alle Infrastrutture, indagato per corruzione, la vera posta in palio nella rissa ormai quotidiana tra i gialloverdi, capaci di rendere isterico anche il lunedì di Pasquetta. Perché alla vigilia di un Consiglio dei ministri che vale come uno snodo Lega e Cinque Stelle giocano pesante, camminano sul filo sottile della crisi di governo a cui nessuno dice di credere a un mese dalle europee, ma che non è solo un’ipotesi di scuola, visto che il Carroccio minaccia di non votarla, la norma taglia debito.

Ed è la minaccia finale di una giornata in cui Matteo Salvini fa la faccia feroce, e chissà se e quanto finge. Perché pretende che il salva Roma venga tolto dal Dl Crescita oggi in Consiglio dei ministri, per poi essere votato in sede di conversione del decreto “assieme alle altre norme per i Comuni”, e non si capisce bene quali e per chi siano, queste norme. Ma il Movimento non apre a un rinvio, e cannoneggia: “Sul salva Roma la Lega forse non ha capito di cosa si tratta, visto che parliamo della chiusura di un commissariamento a costo zero. Piuttosto la Lega pensi a Siri e alle indagini sui fondi che riguardano anche il loro tesoriere, invece di fare di tutto per nasconderlo”. E la traduzione evidente, spiega un’alta fonte di governo, è che “il salva Roma è solo un pretesto, una ripicca, la verità è che non vogliono far dimettere Siri”. Invece Di Maio pretende l’addio, “perché in mezzo a questa storia c’è gente legata alla mafia”, come ha anche detto a Salvini nell’ultimo, tesissimo Cdm a Reggio Calabria.

E non a caso un senatore di peso come Primo Di Nicola si rivolge direttamente a Palazzo Chigi, quasi a scuoterne la cautela: “Il presidente del Consiglio Conte deve dare un segnale a tutte le forze politiche e al Paese, Siri deve uscire dall’esecutivo”. Ma il Carroccio fa ancora muro sul sottosegretario. E così in serata scandisce sillabe da guerra aperta: “Nessuna norma salva Raggi, non esistono comuni di serie A e serie B. La Lega non vota norme che creano disparità”. E un no in Cdm aprirebbe la crisi di governo. Dal Movimento ostentano tranquillità: “È solo un modo per avere l’ultima parola”. Però sarà un martedì complicato. E le basi per un Cdm difficile le ha gettate già ieri mattina Salvini, dritto contro il salva Roma: “O tutti o nessuno, in democrazia funziona così. Non ci sono Comuni di serie A e Comuni di serie B, se in tanti hanno dei problemi aiutiamoli”.

E al leghista incendiario risponde subito la viceministra all’Economia del M5S, Laura Castelli, la madrina del provvedimento, che s’improvvisa pompiera: “Voglio rassicurare il ministro Salvini, non c’è nessun salva Roma dalla lettura della norma. Non c’è sempre bisogno di un nemico, i Comuni vanno salvati tutti”. Però dalla pancia del M5S dicono anche altro. Ossia che la Lega stia sparando contro una norma che in realtà condivide. Perché l’altro viceministro al Mef, Massimo Garavaglia, aveva dato la sua approvazione. Tanto che il Carroccio stava pensando di intestarsi il provvedimento, per lanciare così la sua campagna in grande stile per prendersi Roma. Ed è anche per questo che Castelli e la sindaca Virginia Raggi il 4 aprile si sono mosse con una conferenza stampa in Campidoglio, per bruciare sul tempo i leghisti. E al fastidio per la contromossa nei giorni successivi si è aggiunta la vicenda di Siri, una faglia tra Lega e M5S.

Ed è la ragione principale degli attacchi di Salvini, che in giornata (ri)morde Raggi, “una sindaca che non ha il controllo della sua città”. E visto che c’è da Pinzolo auspica anche il ritorno del servizio di leva “magari per gli Alpini”, tanto per pungere la ministra della Difesa Trenta, contro cui aveva urlato nello scorso Cdm. E dal ministero gli replicano che “il ritorno alla leva obbligatoria è un’idea romantica ma inapplicabile”. Ma il primo nodo è sempre il taglia debito, e quindi il Cdm di oggi. “La norma non si tocca, resta nel decreto” ripetono a più voci dal M5S. E comunque “in Consiglio dei ministri la maggioranza ce l’abbiamo noi”. Anche perché, giurano, “il ministro dell’Economia Tria è molto contento del salva Roma”.

In serata Castelli lancia ancora segnali di pace: “Non c’è necessità di una resa dei conti”. Ma il Carroccio è agitato. E Di Maio e Salvini non si parlano più, da giorni, neanche tramite messaggio. Oggi si dovrebbero rivedere in Cdm. Dove non si potrà fingere.

Chiamparino mette in lista la madamina Giovanna Giordano

Sergio Chiamparino candida la madamina: Giovanna Giordano Peretti, uno dei volti più noti del gruppo delle “sciure” pro Tav che hanno guidato le manifestazioni a sostegno della linea Torino-Lione, ha deciso di accettare la proposta del governatore del Pd, che cerca il bis nelle elezioni del 26 maggio. “Ho detto no alle candidature che mi hanno offerto Pd, Moderati, Più Europa – ha detto la Giordano Peretti – ma in questo caso è diverso perché si tratta di una lista civica in cui potrò portare avanti il percorso iniziato con il mio gruppo. Chiamparino è sempre stato il più limpido nel mostrare il suo supporto alla Tav. Dalla Lega, invece, abbiamo visto un gioco poco chiaro che non ci è piaciuto”. La madamina sarà candidata nella lista “Chiamparino per il Piemonte del Sì” guidata da Mario Giaccone. La Lega e il centrodestra ovviamente non hanno apprezzato: “Lanciare allarmismi e strumentalizzare la buona fede di tanti torinesi scesi in piazza per dire sì alla Tav con lo scopo di essere candidate in Regione non è un’azione meritoria e squalifica i vertici di un movimento nato con istanze condivisibili” ha dichiarato Fabrizio Ricca, un dirigente locale del Carroccio.

“Segreto di Stato” sulla tesi del “trota sardo”

Il “Trota sardo” colpisce ancora: la sua tesi di laurea è un “segreto di Stato”. Sul Fatto abbiamo raccontato il rapporto controverso del neoeletto governatore Christian Solinas con l’università: un titolo di studio farlocco (secondo il ministero dell’Istruzione) e poi una recente laurea in giurisprudenza grazie a esami verbalizzati con 10 anni di ritardo. Ora c’è anche una tesi che nessuno può leggere.

Il presidente della Sardegna infatti “non ha prestato il proprio consenso alla pubblicazione”, come si legge nella risposta dell’università di Sassari alla richiesta di accesso agli atti presentata dal Fatto. La motivazione è esposta con lessico e creatività da azzeccagarbugli: “Esistono giurisprudenza e dottrina che assimilano la tesi di laurea alle opere di ingegno creativo”, spiegano gli avvocati del governatore eletto con il centrodestra il 24 febbraio. La pregiata trattazione “non può essere consultata né utilizzata da eventuali soggetti interessati senza il consenso del laureato”.

La saga dell’universitario Solinas è quasi un genere letterario. Sugli anni di ombre, accuse e documenti cancellati dal web il leader del Partito Sardo d’Azione (eletto anche in Senato con la Lega) non ha mai spiegato nulla. Le ultime parole il 18 febbraio in un comizio: “Lo dico una volta per tutte: mi sono laureato in giurisprudenza a Cagliari”. Giusta la materia, sbagliato l’ateneo: l’università è quella di Sassari, dove il governatore in pectore aveva discusso la tesi il 12 dicembre 2018. Nel percorso di studi però ci sono diverse stranezze: sul libretto universitario di Solinas risultano quattro esami sostenuti il 2 aprile 2008 e verbalizzati solo 10 anni dopo, il 30 novembre 2018, malgrado secondo il regolamento d’ateneo “la firma del verbale deve avvenire (…) entro 15 giorni dalla data di fine appello”. E poi altre due prove sostenute tra il febbraio e l’aprile 2017 quando Solinas non aveva ancora pagato le tasse per regolarizzare la sua iscrizione e quindi non avrebbe neanche potuto sedersi di fronte al professore.

Dopo l’articolo del Fatto, l’università si era limitata a comunicare che “tutti gli atti di carriera dello studente sono regolari” senza rispondere nel merito. Ora l’ateneo nega l’accesso alla tesi, e per farlo cita una ricca giurisprudenza: le sentenze di due Tar, Lazio e Puglia, e un pronunciamento del Garante della privacy.

Ma l’epopea del Trota sardo era iniziata molto prima. Sul sito del Psd’az nel 2011 Solinas figurava come “laureato in sociologia”. Ma l’unico titolo di cui era accreditato era un non meglio specificato “diploma d’eccellenza” consegnatogli con onori e foto di rito il 17 maggio 2006 al centro culturale dell’esercito romeno a Bucarest dalla “Università Leibnitz di Milano”. Carta straccia perché rilasciata da “un’istituzione non ufficiale e non afferente ad alcun sistema nazionale di formazione superiore”, come confermato dal Miur. Eppure pochi giorni dopo, l’8 giugno, in calce al “Bando di concorso per l’attribuzione di borse di studio e di posti alloggio” per l’anno accademico 2006/2007 emesso dall’Ente regionale di cui era presidente, il sardista si firmava così: “Dott. Christian Solinas”. Dottore.

Foto e documenti sono stati rimossi dal web, ma alla fine il sudato pezzo di carta è arrivato il 12 dicembre, 18 giorni dopo l’annuncio della candidatura in Regione. Ora l’università si dichiara disponibile a “consentire l’accesso a tutti i propri atti come il Decreto di nomina della Commissione di Laurea, e il verbale finale della stessa Commissione”. Il 21 febbraio tuttavia, a tre giorni dal voto, alla richiesta di chiarimenti l’ateneo opponeva “questioni di privacy” e prometteva: “Potrete parlare appena possibile con il responsabile dell’area didattica”. Colloquio che, ovviamente, non è mai avvenuto. D’altronde, si legge ancora nella risposta, Solinas “non ha prestato il proprio assenso alla pubblicazione della propria tesi” neanche “in sede di presentazione della domanda di laurea”. Insomma, il dottore l’aveva messo subito in chiaro: questa tesi non s’ha da vedere.

Il leghista e Mr Wolf, i gialloverdi craxiani

Gemelli diversi. Da Craxi al governo gialloverde. Un filo unisce Luca Lanzalone e Armando Siri, due volti comparsi dal nulla che in un attimo hanno scalato il nuovo potere italiano. E hanno cacciato nei guai Cinque Stelle e Lega. Luca e Armando hanno mosso insieme i primi passi in politica. Nel Psi genovese degli anni ‘90.

Uguali e diversi. Protagonisti di una stagione politica che tanti oggi cercano di dimenticare. Ma Siri quell’appartenenza la rivendica, tanto da dire a Luca Telese su Panorama che con Bettino Craxi “sono stato sempre in contatto. Era una persona con forte carisma, ma un timido. Era generoso, con una grande umanità”. Lanzalone no, glissava.

Diversi, già nelle origini, tipo Danny Wilde e Lord Brett Sinclair nel telefilm Attenti a quei due. Armando che ricorda di essere figlio di una casalinga che “faceva lavori umilissimi”. Luca che veniva da una famiglia della bella Genova e viveva in un palazzo affrescato da Domenico Piola. Uno che, si favoleggia, ha giocato a golf con Bill Clinton. Diversi pure nei vestiti: Siri sempre in cravatta, forse per una forma di riscatto; Lanzalone che preferiva foulard e cane bassotto.

Li uniscono fame di politica, ambizione e tante bandiere. In Sala Rossa a Genova, il consiglio comunale, c’è chi ricorda “un quindicenne che si seguiva tutte le sedute. Magari con i libri sulle ginocchia per fare i compiti”. Era Siri. “Lanzalone invece l’ha sempre detto”, racconta chi ai tempi d’oro li frequentava entrambi, “della politica gli interessava l’amministrazione, la gestione”. Ma la sera si ritrovavano in piazza della Posta Vecchia, cuore del centro storico, nella sede del Psi. Erano altri tempi, i vicoli erano ancora quelli di Fabrizio De Andrè. Sotto le volte dell’antico palazzo decadente, tra gli affreschi di Domenico Fiasella e Simone Barabino, andavano in scena dibattiti accesi. Ma qui i destini di Luca e Armando si dividono: al congresso del 1991 Lanzalone annuncia un accordo con la corrente dell’allora sottosegretario Francesco Fossa. Sogna la vittoria. Ma Fossa si schiera con Luca Josi e Lanzalone finisce a gambe all’aria. Niente paura: aggancia il carro di Rinaldo Magnani, prima potente socialista che guida anche il porto, poi candidato sindaco di Forza Italia. Lanzalone lo segue. Perde.

Anni duri per i due ex socialisti. Ma la loro vita ha un andamento, per così dire, carsico. Spariscono e riemergono, su un’altra sponda: “Ciao, lo sai che sono passato con Tonino”, racconta Lanzalone un giorno a un amico. Tonino sta per Di Pietro. Un breve innamoramento. Sostiene anche candidati sindaci di centrosinistra. Intanto Siri riappare giornalista Mediaset, insieme con Giovanni Toti. Stimato, si dice, da Marcello Dell’Utri. Una manciata di anni e ritorna alla politica. Fonda Pin, Partito Italia Nuova, e colleziona una discreta serie di legnate. Ma Sinclair e Wilde in salsa genovese si incrociano di nuovo. Lanzalone senza troppo clamore si avvicina al M5S fino a trovarsi nella stanza dei bottoni. Siri, più irruente, abbraccia Salvini e arriva anche lui in vetta. Mentre si forma il Governo gialloverde per entrambi c’è chi vaticina un ministero. Ma le inchieste bloccano Lanzalone. Siri ce la fa, è sottosegretario alle Infrastrutture, ma si sognava ministro, forse all’Economia. E alla fine le parabole si toccano di nuovo: partiti insieme dal Psi si ritrovano entrambi indagati. Da astri nascenti a pietra d’inciampo per i rispettivi sostenitori.

L’uomo dei panama leaks con 113 nomi sul citofono

Sono 113 nomi, stampati su tre fogli di carta attaccati sulla cassetta delle lettere. A Bergamo, in via Masone 5, fanno così per comunicare al postino l’esercito di clienti che ha domicilio nello studio di Aldo Ventola. In pochi nella città orobica hanno sentito parlare di questo professionista originario della Basilicata. Eppure è un commercialista di peso: cura gli interessi di società importanti come la Ets spa, che ha lavorato alla progettazione dell’Expo e ha rapporti di lavoro con Archeoproject, lo studio della compagna di Giacomo Stucchi, il candidato sindaco della Lega.

Ventola, però, si occupa anche di società più piccole come la Wic privateequity srl, di cui è presidente. Creata nel 2017 con 10 mila euro di capitale sociale è quasi omonima di una spa molto più grande: quella guidata da Giorgio Balduzzi, che ha avuto ruoli in alcune fiduciarie che schermano le società della galassia leghista. La piccola srl appartiene alla Acesp, controllata dalla svizzera Gefiser, e dalla Ras Alaistisharat Dwc – Llc, che invece è degli Emirati Arabi. Con il Golfo Persico Ventola deve avere un rapporto stretto: la Ras è pure socia di maggioranza di un’altra srl guidata da lui. Che da presidente della Wic private equity si è aggiudicato nel febbraio scorso la maggioranza delle storiche Fonti di Gaverina di Casazza: ha offerto 718.377 euro, con un ribasso del 25% rispetto alla base d’asta da 957 mila euro. Anche per questo motivo quell’acquisto ha fatto rumore nella provincia lombarda. “Nessuno spacchettamento e nessuna speculazione. Vuole essere un’operazione di sviluppo dell’attività”, ha detto il commercialista per tranquillizzare lavoratori e soci. In provincia qualcuno ha subito notato che digitando il suo nome si finiva negli archivi dei Panama Papers. Niente di illegale: l’inchiesta non ipotizza reati, ma mette in fila società che pagano le tasse beneficiando del regime offshore. Ventola fino al 2014 figura come presidente e amministratore delle maltesi Callex limited e Hecate limited. Da Malta a Bergamo fino all’Argentina. Nell’elenco di clienti che hanno domicilio in via Masone, c’è anche Nestor Marcelo Ramos.

È un avvocato argentino che vive e lavora in Svizzera: nel 2016 Buenos Aires ha inviato per lui una richiesta d’estradizione. Ramos è accusato di aver riciclato circa 30 milioni di dollari per Lázaro Báez, un imprenditore legato a Nestor e Cristina Kirchner, gli ex presidenti dell’Argentina. L’inchiesta era stata ribattezzata “la ruta del dinero K”, con sospetti che si erano allungati anche sugli inquilini della Casa Rosata. È per questo motivo che nel 2017 i giornalisti del Clarin vanno direttamente in Svizzera, nella sede della società di Ramos, la Helvetic service group: le foto pubblicate dal quotidiano argentino dimostrano che quell’ufficio di Lugano ospita anche il recapito di Ventola. Il Fatto Quotidiano ha chiesto allo studio di Ventola di chiarire quei rapporti con Ramos, con Balduzzi e con la società degli Emirati Arabi. Dallo studio, però, comunicano che il commercialista è all’estero per affari.

Da Bergamo agli Emirati Arabi: il risiko delle società leghiste

Commercialisti citati nei Panama Papers, colletti bianchi legati a riciclatori argentini, società che in pochi mesi cambiano nome e proprietari: prima vengono schermate dietro fiduciarie, poi tornano alla casella di partenza. E ancora. Aziende che fanno shopping creando clamore nella tranquilla provincia lombarda. Persone e operazioni legate tra loro e che cominciano ad avere un’attività più frenetica alla fine del 2018, quando la Guardia di Finanza inizia a indagare sulla Lega di Matteo Salvini e sui 49 milioni di fondi pubblici oggetto di una truffa ai danni dello Stato. Eccola qui la rete segreta dei professionisti del Carroccio. Un intreccio di nomi e società che si muove ai confini del partito del ministro dell’Interno e che Il Fatto Quotidiano è in grado di ricostruire. Con un’avvertenza: mentre scriviamo, manager e aziende continuano a cambiare. Ma andiamo con ordine.

La ristrutturazione e il “trasferimento”

C’è una città che è diventata la capitale economica della Lega: Bergamo. È qui, in un palazzo di via Angelo Maj, cinque minuti a piedi dalla stazione, che Salvini ha trasferito la cassaforte del partito. L’idea, per la verità, è del tesoriere, Giulio Centemero. Cugino di Elena, ex deputata di Forza Italia, a Centemero viene affidata la cassa nel settembre del 2014. È uno dei momenti più bui della Lega e Centemero avvia tagli pesanti. “Al mio arrivo i costi di gestione del partito erano molto elevati e all’esito dell’attività di ristrutturazione sono stati ridotti di oltre il 70%”, ha raccontato lui stesso qualche tempo fa. L’attività di ristrutturazione colpisce soprattutto i dipendenti: tra il 2015 e il 2017 vanno via in 70. “Sembrava che il partito dovesse chiudere. Solo ora rifletto sul fatto che a essere messi alla porta furono soprattutto quelli che si occupavano di bilanci e contabilità”, racconta una ex lavoratrice del Carroccio.

Parallelamente alla “ristrutturazione” Centemero trasferisce a Bergamo il cuore economico del partito. La prima a traslocare è la vecchia Pontida-Fin, storica società che gestisce il patrimonio immobiliare del Carroccio, proprietaria del palazzo di via Bellerio e del pratone di Pontida. La nuova sede della Pontida Fin è in via Maj. Lì c’è la società dei commercialisti alla quale Centemero ha affidato la gestione dei conti: si chiama, anzi si chiamava, Dea Consulting e appartiene ad Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni. Coetanei del tesoriere della Lega, grazie a Centemero salgono ai piani alti del Carroccio. Manzoni è oggi revisore dei gruppi alla Camera, mentre Di Rubba ha lo stesso incarico al Senato. In più è presidente della Sin, società del ministero dell’Agricoltura guidato dal leghista Gian Marco Centinaio. La vicinanza dei due a Centemero è sancita anche da un’altra società, la Di Rubba e Manzoni srl, in cui una piccola quota è direttamente in mano al tesoriere e al senatore della Lega Stefano Borghesi. La più nota, però, è la Dea Consulting: è diventata famosa nel dicembre scorso, quando la Finanza è andata a perquisirla indagando sul presunto finanziamento illecito della Più Voci, una delle tante onlus della galassia leghista.

C’è l’indagine: la girandola di cambi di nome

Sarà anche per questo, per la pressione delle indagini e dei giornali, che Di Rubba ha modificato il nome di Dea Consulting. Dal 4 febbraio scorso si chiama Partecipazioni srl e al suo interno ha assorbito altre due società: Studio Cld, società di consulenza, e soprattutto la Taaac, una società di cui Di Rubba è amministratore dal 20 novembre. La Taaac ha il suo recapito in via delle Stelline a Milano, dove c’è la sede fantasma della nuova “Lega per Salvini premier”. Quando i giornalisti del Fatto vanno in via delle Stelline a caccia della sede del nuovo partito, scoprono che a quell’indirizzo c’è anche la Taaac: in quel momento è una società con proprietari fantasma. L’ad è Vanessa Servalli, parente acquisita di Di Rubba. È schermata dalla San Giorgio Fiduciaria. Impossibile sapere a chi appartiene. Centemero aveva assicurato al Fatto che quella srl con la Lega non aveva alcun legame. Otto mesi dopo il commercialista del Carroccio la incorpora nella sua società: apparteneva a lui dunque? E perché era schermata?

Nata nel 2017, nell’unico bilancio finora presentato la srl dichiara ricavi per soli due euro e perdite per 1.185. Ha anche acquistato un immobile a Desenzano del Garda da 310mila euro, con 200mila euro di mutuo acceso alla Ubi banca, un istituto bancario dove Di Rubba ha lavorato. Quel rogito è stato firmato dal notaio Alberto Maria Ciambella. Lo stesso che – secondo l’Espresso – ha registrato 7 società domiciliate negli uffici della Dea Consulting. Nascono ogni tre mesi, con identico capitale sociale da 10 mila euro, e tutte tra il 2014 e il 2016, quando cioè Salvini ha scalato il partito. Gli investigatori sospettano che siano state utilizzate per nascondere una parte del denaro riconducibile alla Lega. A chi appartengono? Alla Seven Fiduciaria, che nel 2015 viene ceduta alla Sevenbit del finanziere Angelo Lazzari, recentemente indagato per truffa e autoriciclaggio ma per un’altra vicenda. Di chi è la Sevenbit? Della lussemburghese Ivad. Impossibile sapere da dove provengono i soldi. Presidente della Seven Fiduciaria è un altro stimato commercialista bergamasco: si chiama Andrea Onorato Cattaneo ed è genero di Gianpaolo Bellavita, ex assessore provinciale di Forza Italia. Condannato a 10 anni e mezzo per truffa aggravata, associazione a delinquere, bancarotta fraudolenta e appropriazione indebita, Bellavita è attualmente latitante in Romania. Su di lui pende una richiesta di estradizione rigettata dalle autorità romene.

L’universo Wic e gli Emirati il filo arriva ai Panama Papers

Prima che Cattaneo diventasse presidente della Seven Fiduciaria, il procuratore speciale era Giorgio Balduzzi. Un professionista di cui Manzoni e Di Rubba si fidano: nel 2013 hanno comprato Dea Consulting da sua sorella Laura. Balduzzi prima ha garantito l’anonimato ai clienti dei commercialisti leghisti con la Seven, poi ha schermato la Taaac con la San Giorgio Fiduciaria (di cui è presidente). Oggi è presidente della Wic private equity spa, che raccoglie investimenti per piccole e medie imprese. Tra i soci ingloba diverse aziente dal nome che comincia con Wic: è seguendo questa traccia che si arriva alla Ras Alaistisharat Dwc – Llc, cioè una società degli Emirati Arabi. Anche qui: impossibile sapere da dove vengono i soldi.

Presidente di alcune società dell’universo Wic è un commercialista attivo a Bergamo, l’ennesimo: si chiama Aldo Ventola ed è di origine lucana. Il suo nome viene fuori anche dagli archivi dei Panama Papers. Recentemente ha fatto parlare di sé, perché con una società quasi omonima ma molto più povera della Wic di Balduzzi ha acquistato le storiche Fonti di Gaverina a Casazza. Un’operazione che in provincia ha fatto rumore. Come rumore ha fatto – sempre nel Bergamasco ma alcuni mesi prima – l’acquisto da parte di Marzio Carrara, con la sua Cpz, di alcuni colossi della stampa: il Nuovo istituto italiano di arti grafiche, Eurogravure e il gruppo Lediberg, leader nella produzione di agende. Un’operazione in cui un ruolo lo ha avuto anche Di Rubba. Che infatti è stato fino al maggio 2018 nel cda delle tre aziende tipografiche. Poi ha ceduto tutto a Carrara, che così è diventato il primo stampatore d’Italia. E anche quello della Lega: dai suoi stabilimenti escono i manifesti elettorali del partito. Il 2018 per Di Rubba è un periodo di dimissioni. Quello che Di Rubba non abbandona è la Non solo auto, società di noleggio mezzi da 500 mila euro di fatturato l’anno, di cui possiede il 70%. Fino a 6 mesi fa l’ad era Vanessa Servalli, la stessa della Taaac. A novembre però il nuovo amministratore è suo marito: Luca Di Rubba, cugino di Alberto. Il risiko di società e professionisti della Lega non si ferma mai