Domenica “scade” la legittima difesa. Attesa per la firma

Il 28 marzoscorso, il Senato approvava in via definitiva la legge sulla legittima difesa. Manca solamente, a questo punto, la firma e la promulgazione del presidente della Repubblica: si sono fatte attendere per quasi un mese e, secondo quanto previsto dalla Costituzione, dovranno arrivare entro la prossima settimana. Le norme infatti impongono a Mattarella di promulgare il provvedimento entro 30 giorni, a meno che non ne richieda un nuovo esame al Parlamento. Questo può avvenire, secondo quanto ricordato dallo stesso Mattarella, qualora siano ravvisati “evidenti profili di illegittimità costituzionale”. Finora questa eventualità è stata valutata dall’attuale presidente della Repubblica solo in un caso, nel 2017, quando Mattarella rinviò al Parlamento la legge sulle mine antiuomo. Anche nel caso in cui si proceda alla promulgazione, tuttavia, il Presidente ha la facoltà di accompagnare le sue decisioni con alcune precisazioni. Questo è quello che accadde, ad esempio, il 4 ottobre scorso, quando in riferimento all’emanazione del decreto legge sicurezza, Mattarella aveva scritto al premier Conte per ribadire la validità degli “obblighi costituzionali e internazionali dello Stato”.

Il ministro con il mitra adesso rivuole la naja. Trenta: “Impossibile”

“Si avvicinanole Europee e se ne inventeranno di ogni tipo per fermare il Capitano. Ma noi siamo armati e dotati di elmetto!”. Parola di Luca Morisi, alias il responsabile della comunicazione di Matteo Salvini, che nel giorno di Pasqua pubblica sul suo profilo social una foto che lo ritrae in compagnia del vicepremier. Il quale imbraccia un mitra. Inevitabili le polemiche di chi ha visto nell’immagine un incitamento alla violenza: “Un messaggio eloquente e agghiacciante”, dice lo scrittore Roberto Saviano. Silenzio da parte di Salvini, che non si è espresso sulla questione ma ha lanciato una nuova provocazione ieri, rilanciando l’idea della leva obbligatoria. In un comizio nel comune trentino di Pinzolo, il leader del Carroccio ha infatti dichiarato: “Da settembre l’educazione civica diventerà materia obbligatoria nelle scuole e dovremo anche reintrodurre il servizio militare obbligatorio, magari nel Corpo degli Alpini”. Ipotesi, quest’ultima, bocciata dalla ministra della Difesa, Trenta: “Impossibile”.

Le 10 domande del “Fatto” al vicepremier su Siri&Arata

1. Chi e quando le ha presentato Paolo Franco Arata, l’ex FI che si definisce “socio al 50%” del pregiudicato tornato in carcere Vito Nicastri, con 1.3 miliardi sequestrati dalla Dda di Palermo che lo ritiene finanziatore di Messina Denaro?

2. Ha conosciuto prima Arata padre o il figlio Federico, che del 2016 segue i rapporti internazionali della Lega?

3. Arata sr. ha società nel settore energia. Perché, malgrado il conflitto d’interessi, lo incaricò di scrivere il programma della Lega sull’energia?

4.Perché diede proprio ad Arata un ruolo così centrale nella “nuova” Lega, al punto che fu addirittura Arata a sponsorizzare la nomina di Armando Siri a sottosegretario ai Trasporti?

5. Lei ha tentato di far nominare Arata presidente dell’Authority dell’energia, cioè controllore di se stesso. E Giorgetti ha assunto il figlio Federico come “esperto” a Palazzo Chigi. La Lega deve qualcosa agli Arata? Può garantire che mai hanno finanziato la Lega?

6. Arata è accusato di aver corrotto Siri con 30mila euro in cambio di un emendamento su misura per la sua azienda eolica. Sulla presunta tangente ci diranno i giudici. Ma l’emendamento è già sicuro: lei cosa ne pensa?

7. L’emendamento fu spinto per 8 mesi da Siri e dal capogruppo Romeo, sempre stoppati dal M5S. Lei ha mai saputo niente di quel pressing? Se sì, perché non l’ha bloccato, visto che riguardava affari di Arata? Se no, come giudica Siri, asservito a quegli interessi privati?

8. Siri ha più volte mentito sul punto: che ci fa un bugiardo nel “governo del cambiamento”?

9. Lei ha difeso Siri perché è “solo” indagato: ma ha già patteggiato 1 anno e 8 mesi per bancarotta fraudolenta e sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte. Perché l’ha nominato sottosegretario e ideologo della politica fiscale della Lega?

10. Se lei avesse tenuto a distanza Arata (per il conflitto d’interessi) e Siri (per il patteggiamento), avrebbe risparmiato il primo scandalo al governo. Non dovrebbe fare un po’ di autocritica e di pulizia, e chiedere scusa?

Il Carroccio dalle pale alle palle eoliche

“Palle eoliche”, arrembaggi garibaldini e precipitose ritirate. Non ha passato una bella Pasqua la Lega di Salvini: nell’ultima settimana la sua propaganda politica è andata in corto circuito.

Ricapitoliamo: il 16 aprile si dimette Catiuscia Marini, presidente dell’Umbria del Pd, indagata nell’inchiesta sulla sanità. Salvini è euforico: il giorno dopo corre a Perugia per lanciare la prossima campagna elettorale locale. Per la Lega però il gesto della Marini non basta: “Le dimissioni della Governatrice – si legge nella nota di partito – non sono sufficienti. Lei e tutta la sua casta chiedano scusa agli umbri e a tutti quei giovani costretti ad emigrare”.

Il 17 aprile il risveglio è drammatico: il sottosegretario ai Trasporti Armando Siri è sotto inchiesta per una presunta tangente da 30mila euro dall’imprenditore Paolo Arata in cambio di una norma a favore di chi produce energia eolica. I Cinque Stelle chiedono le dimissioni, la Lega riscopre il garantismo: “Piena fiducia nella sua correttezza”. Ci mette la faccia l’avvocatessa Giulia Bongiorno, ministro della Funzione Pubblica: “Stupisce il giustizialismo a intermittenza con il quale vengono valutate le diverse vicende giudiziarie a seconda dell’appartenenza del soggetto indagato a uno schieramento politico”. Ce l’ha con i grillini che chiedono la testa di Siri. Salvini ha una strategia: quel giorno escono su l’Espresso gli audio di Virginia Raggi che chiede all’amministratore delegato di Ama (la partecipata della raccolta rifiuti) di modificare il bilancio dell’azienda. “Si dimetta – dice il ministro – non è più adeguata per questo mestiere”. Rapido riassunto: in 24 ore Salvini attacca l’indagata del Pd, difende il “suo” indagato e chiede di cacciare la Raggi.

Poi c’è il dramma personale di Siri che cambia versione tre volte in un amen. Giovedì 18 aprile dice: “Non so assolutamente chi sia questo imprenditore coinvolto (Arata, ndr), non mi sono mai occupato di eolico in tutta la mia vita. Credo che si tratti di un errore di persona”. Venerdì 19 aprile viene smentito dal senatore leghista Romeo, che conferma l’esistenza della norma sull’eolico. Ecco la nuova versione: “Ho presentato un emendamento che mi ha chiesto una filiera di piccoli produttori”. Sabato 20 aprile, il sottosegretario viene intervistato dal Corriere della Sera. E cambia ancora: “Arata mi ha detto che rappresentava un’associazione dei piccoli imprenditori dell’eolico. Mi ha fatto una testa così e io gli ho detto va bene, mandamelo (l’emendamento, ndr)”. In tre giorni Siri ha smentito se stesso altrettante volte: non è vero che non conosceva Arata, non è vero che non si è mai occupato di eolico, non è vero che non ha presentato la norma “incriminata”. Chissà che dirà domani.

Pasquetta dall’indagato Salvini non si smentisce

Le contestazioni della procura di Trento sono due: peculato e turbativa d’asta. Se Michele Cereghini fosse il sindaco di un paese fra tanti, la notizia delle indagini che lo riguardano rimarrebbe nelle cronache dei giornali locali. Solo che Cereghini è il sindaco di Pinzolo, il paese del Trentino dove Matteo Salvini viene in vacanza da sempre. E così – sulla scorta di una conoscenza tanto importante – questa storia giudiziaria locale supera i confini e diventa un caso nazionale. Anche perché, in occasione della Pasqua, Salvini è in vacanza proprio a Pinzolo.

Fra una foto con la polenta, un comizio e una gara di palle di neve, non dimentica di indossare l’elmetto e di difendere a spada tratta l’amico sindaco. In un’intervista al Trentino, dice che “i banditi sono un’altra roba, così si rischia di far passare la voglia alla gente di fare gli amministratori nei Comuni, gli assessori o i sindaci”. Concetto ripetuto ieri, a margine del comizio: “Non so se sia un caso che mentre il centrodestra, e soprattutto la Lega, vincono e convincono in Trentino e in Italia, ci siano iniziative giudiziarie di questo genere”.

Quando Salvini arriva a Pinzolo, non c’è nessun sindaco ad accoglierlo. Cereghini è stato sospeso per effetto della legge Severino, ma è stato anche allontanato dal territorio del suo paese, dove per il momento non può più mettere piede: “Neanche fossimo nel far west”, commenta Salvini. Il gip Marco La Ganga, della procura di Trento, ha accolto giovedì scorso – pochi giorni prima dell’arrivo di Salvini – la richiesta del pubblico ministero Maria Colpani. Ha applicato nei confronti del sindaco la misura cautelare del divieto di dimora, motivata dai gravi indizi di responsabilità e dal pericolo della reiterazione del reato. E così i finanzieri hanno allontanato Cereghini da Pinzolo.

Gli episodi contestati sono tre. Per l’acquisto delle luci di Natale, il sindaco avrebbe firmato il bando – dal valore di 100 mila euro – con criteri tali da favorire un’azienda. Poi, dovendo assumere un’addetta stampa per il Comune, avrebbe cucito i requisiti addosso a una candidata, abbassando la richiesta di anzianità d’iscrizione nell’ordine dei giornalisti da tre a due anni. Infine, avrebbe utilizzato l’auto dell’Apt – l’azienda di promozione turistica, di cui è membro di diritto del consiglio d’amministrazione – per un viaggio nell’interesse del Comune (e non dell’Apt) nella località di Sestriere. Tutte queste contestazioni sono emerse dalle indagini preliminari e il sindaco, ancora innocente fino a prova contraria, ha respinto ogni accusa, dicendosi sereno perché confida nel lavoro della magistratura.

Poi a Pinzolo è arrivato Salvini: “Ci sono spacciatori che escono di galera dopo 10 ore, mentre il sindaco Cereghini non può dormire a casa sua. Assurdo”.

Da Bossi a Rixi a Siri: tutti i guai giudiziari della “nuova” Lega

Non c’è solo Armando Siri, il sottosegretario indagato a Roma per corruzione. Anche altri leghisti sono alle prese con qualche grana giudiziaria. A dare non pochi pensieri al Carroccio è la caccia della Procura di Genova ai 49 milioni scomparsi. I pm liguri hanno raggiunto un accordo con il Carroccio per la rateizzazione: ogni bimestre saranno prelevati 100 mila euro. Fanno 600 mila euro l’anno per 76 anni.

Dorme sonni tranquilli Umberto Bossi toccato dalle due inchieste – una genovese e l’altra milanese – nate dai rimborsi elettorali. Nell’inchiesta genovese è stato condannato anche in appello (un anno e dieci mesi), ma le accuse sono destinate alla prescrizione. A Milano – dove si procedeva per appropriazione indebita, che grazie a una riforma è oggi perseguibile su iniziativa di parte – la Lega ha presentato querela solo per i capi di imputazione che riguardavano Francesco Belsito. Salvi quindi Renzo e Umberto Bossi.

Genova a caccia dei 49 milioni di euro

Ma c’è anche un’inchiesta – ancora a carico di ignoti – che potrebbe avere scadenze molto più ravvicinate. I pm Paola Calleri e Francesco Pinto stanno seguendo tra Bolzano e il Lussemburgo una pista che potrebbe portare a ricostruire come i 49 milioni siano spariti nel nulla. Ammesso che, come invece sostiene il Carroccio, il tesoro non sia stato speso davvero per la vita del partito.

Mister Flat tax e l’inchiesta romana

A Roma due inchieste potrebbero preoccupare i leghisti. Una riguarda il sottosegretario Armando Siri: è accusato di corruzione perché avrebbe messo a disposizione dell’imprenditore Paolo Arata la propria funzione di sottosegretario e senatore. Come? Tentando di promuovere provvedimenti regolamentari o legislativi che favorissero gli interessi economici dell’imprenditore. In cambio – secondo le accuse dei pm Paolo Ielo e Mario Palazzi – avrebbe ricevuto la promessa e/o dazione di 30 mila euro.

Del denaro parla Arata intercettato. L’imprenditore genovese, anche lui indagato per corruzione a Roma, ha guai anche in Sicilia: a Palermo è indagato per trasferimento fraudolento di valori con l’aggravante di aver favorito l’associazione mafiosa ed è ritenuto dai magistrati vicino a Vito Nicastri, il “re” dell’eolico, a sua volta, sempre secondo i pm palermitani, legato al boss Matteo Messina Denaro.

Il finanziamento illecito di Centemero

A Roma guai anche per Giulio Centemero: il tesoriere del partito è indagato per finanziamento illecito in concorso con l’imprenditore romano Luca Parnasi. Nel mirino dei pm ci sono 250 mila euro versati nel 2015 da una società riconducibile al costruttore alla onlus “Più Voci”, di cui è presidente Centemero. La Procura di Roma sospetta che le donazioni all’associazione possano essere un modo per aggirare le norme sul finanziamento alla politica. Centemero si è sempre detto estraneo ai fatti. Parnasi, interrogato il 28 giugno 2018, al pm Paolo Ielo che chiede: “Era un modo per far affluire i soldi direttamente alla Lega?” risponde: “Il mio fu un modo per fidelizzare un gruppo di persone che comunque sia mi avrebbero forse potuto creare delle opportunità imprenditoriali”. Il pm insiste: “Un modo per far arrivare i soldi alla Lega?”. L’imprenditore prima risponde: “Probabilmente sì”. Poi quando Ielo ripropone la domanda: “Era un modo per far arrivare i soldi alla Lega attraverso questa fondazione?”, dice: “Non posso dirle con certezza questo”.

Il “fratello” Rixi, ora viceministro

A Genova c’è il processo nei confronti del vice-ministro genovese Edoardo Rixi che per Salvini, parole sue, è “un fratello”. Rixi è imputato di peculato e falso ideologico. I vari filoni dell’inchiesta hanno toccato oltre metà dei consiglieri liguri tra il 2010 e il 2015. La richiesta di rinvio a giudizio per Rixi parlava di rimborsi per 108.237 euro. Di questi 19.855 sono riferibili direttamente a Rixi. Il grosso riguarda spese sostenute da un collega di partito e rimborsi indistinti del gruppo Lega.

Ecco il punto: Rixi era il capogruppo. Quindi, secondo i pm, a lui spettava la vigilanza. L’accusa ha prodotto centinaia di scontrini, come quelli per spese in rifugi di montagna sulle Dolomiti nei giorni di Ferragosto. “Sono viaggi di nostri collaboratori. Erano andati per studiare lo statuto speciale del Friuli”, è stata la difesa. Ma ci sono anche acquisti in negozi di cioccolata e di fiori. I leghisti hanno rimborsato alla Regione 80 mila euro, ma questo non cancellerebbe il reato se fosse stato commesso. Salvini è intervenuto duramente a difesa di Rixi: “Se qualcuno nella Lega sbaglia, sono il primo a prenderlo a calci nel culo, ma Rixi è un fratello e lo difenderò fino all’ultimo da quella schifezza che è la magistratura italiana”, disse il segretario leghista nel 2016. I pm hanno chiesto per il vice-ministro una condanna a 3 anni e 4 mesi. Non c’è però ancora una sentenza di primo grado. Imputato anche il senatore Francesco Bruzzone. Ma sul processo pesa un’incognita: l’emendamento alla legge Anti-corruzione che su iniziativa leghista ha modificato l’articolo 316ter, forse salvando Rixi e Bruzzone (oltre a tanti altri consiglieri regionali).

Le spese pazze in Regione Piemonte

Nel luglio scorso è arrivata la condanna in appello per 23 imputati dell’inchiesta della Procura di Torino.

Tra questi anche i parlamentari leghisti Paolo Tiramani e Riccardo Molinari (capogruppo del Carroccio alla Camera), quest’ultimo condannato a 11 mesi. L’inchiesta riguarda le modalità con cui gli allora consiglieri regionali – secondo i pm – avrebbero ottenuto rimborsi per spese spacciate come attività politiche.

Il processo riguardava la legislatura 2010-2014 (centrodestra), un’altra inchiesta è in corso sulla legislatura precedente (centrosinistra). A Molinari si contestano spese per 1.158 euro. L’onorevole alessandrino si è sempre dichiarato innocente: “In primo grado ero stato assolto. Attendo la Cassazione, sono fiducioso che la mia estraneità ai fatti sia dimostrata”.

Il Metodo Raggi

L’ufficio stampa di Virginia Raggi non me ne voglia, ma penso che andrebbe licenziato in tronco. Le sue funzioni possono essere svolte egregiamente, e soprattutto gratuitamente, dall’intera stampa italiana. Da quando, quasi tre anni fa, la Raggi fu eletta col 67% dei voti, non passa giorno senza che l’“informazione” la mostrifichi con ogni mezzo, come mai era accaduto a un politico incensurato e onesto. Ripetono che va giudicata sugli scarsi risultati della sua giunta (fra errori, ritardi, inefficienze e gaffe, si potrebbe riempire una Treccani). Ma poi mirano a ben altro: dipingerla come una delinquente, una corrotta, una fascista mascherata, una sgualdrina. Perché lo sanno benissimo che darle dell’incapace non basta: in una città sgovernata per decenni da incapaci e ladri o complici di ladri che l’hanno grassata e spolpata fino al midollo, se non si dimostra che ruba anche lei l’accusa di inefficienza non basta. Pazienza se mai è stata sospettata di corruzione e dall’unico processo, per falso, l’hanno assolta.

L’Espresso è appena uscito con una copertina al cui confronto la famigerata “Patata bollente” di Vittorio Feltri su Libero diventa un’innocua goliardata. La sua foto è deturpata per trasformarla in una vecchia megera: infatti la pagina Facebook del settimanale è subissata di commenti indignati, anche di storici lettori che mai hanno votato 5Stelle ma ora minacciano di farlo, per reazione. Se qualcuno avesse azzardato qualcosa di simile per una Boldrini, una Boschi, anche una Carfagna, avremmo le piazze invase di femministe, appelli del MeToo, raffiche di denunce per sessismo, mobilitazioni della Federazione e dell’Ordine, diktat del Garante. Invece tutti zitti: contro la Raggi si può tutto. Il mostro in copertina serve a riempire il vuoto pneumatico di contenuti: quelli delle “frasi choc” della sindaca registrate di nascosto da quel gentiluomo dell’ex presidente Ama Lorenzo Bagnacani, che girava col registratore in tasca per incastrarla con qualche voce dal sen fuggita. E invece, partito per suonare, è finito suonato. Le “frasi choc” che gli diceva la sindaca in privato sono le stesse che pronuncia pubblicamente da mesi in interviste, dichiarazioni, discorsi in Consiglio comunale. E che gli stessi giornali che ora menano scandalo riferivano puntualmente nelle cronache dal Campidoglio. Il 12 febbraio, tre mesi prima che uscissero gli audio, il Messaggero titolava: “Paralisi Ama, il Cda non arretra. Raggi: ‘Così si va in tribunale’. Scontro aperto, la sindaca a Bagnacani: ‘Devi cambiare subito i conti del 2017’”.

Il Corriere, il 19 febbraio: “Raggi caccia cda Ama e Bagnacani: ‘Carenti e sleali’. Un elenco di accuse: ‘Tradito anche il rapporto di fiducia’. Si parla anche del flop della differenziata”. E Repubblica, stesso giorno: “Rifiuti, Raggi ammette lo sfascio: ‘Livelli critici, via il vertice Ama’. Il Comune non vuole riconoscere gli ormai famigerati 18 milioni di crediti per servizi cimiteriali svolti tra il 2008 e il 2016 e richiesti da Ama”. Ora nelle “frasi choc” carpite da Bagnacani e finite alla Procura e all’Espresso, la Raggi dice le stesse cose: raccolta rifiuti “fuori controllo” in “alcune zone”, bilancio inapprovabile per quei 18 milioni di crediti fantasma. Proviamo a immaginare se un qualunque sindaco o politico venisse intercettato da un manager pubblico: quanti sarebbero quelli che si preoccupano dei problemi dei cittadini e chiedono a di risolverli, stilare bilanci veritieri, non premiare amministratori inefficienti, e quelli che invece chiedono favori per sé, posti per parenti e amici, mazzette o finanziamenti elettorali? Eppure il non-scandalo Raggi viene usato dalla stampa per pareggiare e oscurare l’indagine per corruzione sul leghista Siri e il faccendiere Arata, legato a un complice di Messina Denaro, supportando l’assalto di Salvini al Campidoglio. Per fortuna chi ancora ha voglia di informarsi non ha l’anello al naso: quando vede la copertina mostrificante e legge le “frasi choc” della Raggi, capisce bene il gioco sporco. Del resto, di ciò che dice e fa in privato la Raggi, sappiamo tutto: pur non essendo mai stata intercettata dai pm, ha dovuto render conto delle chat con i suoi collaboratori, da Marra in giù, a cui sono stati sequestrati i cellulari. Migliaia di conversazioni private finite sui giornali, da cui non è uscita una parola diversa da ciò che ha sempre detto in pubblico. Tant’è che, per sputtanare lei e Di Maio su Marra, il trio Repubblica-Corriere-Messaggero dovette taroccare le chat col taglia e cuci.
Il “metodo Raggi” (infinitamente più grave del “metodo Boffo” feltriano, che almeno partiva da un fatto vero: una sentenza per molestie) toccò il punto più basso e comico col “caso Spelacchio”: centinaia di titoli, mai visti per la trattativa Stato-mafia, sull’albero di Natale del Comune. Doveva diventare il simbolo del malgoverno di Roma (altro che Mafia Capitale, altro che 14 miliardi di debiti creati dai sindaci “capaci”), invece fu un altro boomerang: un’ondata di simpatia per l’abete sfigato e per chi l’aveva messo lì. Fu allora che ci sorse un sospetto: che i giornaloni li paghi la Raggi per nascondere le sue vere colpe. Ora, dopo la canea sullo “scoop” dell’Espresso e la prima pagina pasquale di Repubblica su “Raggi indagata per lo stadio” (per la denuncia di un ex 5S, una delle 600 subite in 3 anni, che l’accusa di abuso d’ufficio per il mancato voto del Consiglio comunale sullo stadio, regolarmente previsto per l’estate dopo lo stop seguito all’inchiesta Parnasi), il sospetto diventa certezza: il mandante delle campagne anti-Raggi è la Raggi. Ancora qualche piccolo sforzo e i giornaloni potrebbero riuscire in un’impresa disperata persino per lei: farla rieleggere.

Juve, ottavo scudetto consecutivo in un campionato mai davvero partito

Ecosì fu scudetto, l’ottavo consecutivo. Record dei record, prezioso cerotto sulla ferita dell’Ajax. La Juventus, in Italia, rimane di un’altra categoria. Cosa che la rende pigra e, di conseguenza, vulnerabile non appena passa dai pesciolini rossi agli squali. Mancava solo la firma a piè di giornata, è arrivata quando ce ne sono ancora cinque da riempire, in modo tutt’altro che banale: allo Stadium, 2-1 alla Fiorentina – Milenkovic, Alex Sandro, autorete di Pezzella; applausi a Chiesa, palo e traversa – come se persino la cronaca non ne potesse più e, per questo, avesse delegato a una rivale storica la seccatura del timbro, poco dopo il titolo delle ragazze a Verona, il secondo di fila. È stato, come certificano la classifica e le modalità di consegna, lo scudetto più facile, più “normale”, più grigio. Troppo muscolosa, la Juventus. Troppa magra, la concorrenza: dai travagli societari delle milanesi alle turbolenze fisiologiche delle romane; compreso quel Napoli, l’ultimo ad arrendersi, che nel trasloco da Maurizio Sarri a Carlo Ancelotti ha smarrito pezzi d’intonaco e d’identità.

Ventiquattro vittorie e tre pareggi in 27 partite: è il pugno sul tavolo che racconta, più e meglio di ogni analisi, lo stacco, lo strappo, tutto. Poi Cristiano Ronaldo, naturalmente, e la corazza di Giorgio Chiellini. A sentire Aurelio De Laurentiis e Massimo Moratti, il marziano riassume e incarna il colpo del secolo. Andrea Agnelli non l’aveva preso “solo” per il campionato: per quello, bastavano i Matri e i Giovinco. L’obiettivo era la Champions: sarà per un’altra volta. La “solita”, altra volta. “Rimango al mille per cento”: Cristiano è stato di parola, 19 gol e una leadership mai in discussione, al di là dei sacrifici che, talvolta, i mattatori impongono. Penso a Paulo Dybala, il piccolo Sivori che il suo avvento ha trasformato in un Sivori piccolo piccolo, sradicato da quel ruolo di punta che, in tre stagioni, gli aveva fruttato un bottino di 52 reti. Era tornato Leonardo Bonucci, se n’erano andati un monumento e un investimento, Gigi Buffon e Gonzalo Higuain, un simbolo aziendale come Claudio Marchisio. E a settembre, addirittura Beppe Marotta: il manager al quale la famiglia aveva affidato la ricostruzione. Ha vinto, la Juventus, tra gli sbadigli della sua stessa gente e il brusio dei nemici, con distacchi così radicati e radicali da soffocare ogni tipo di errore arbitrale. Sei titoli senza Var e due con. Ha vinto incantando di rado, secondo la dottrina di Massimiliano Allegri, un anglo-toscano che ogni anno monta, smonta e rimonta la squadra, fedele a un motto – “il calcio gli è ‘scemplice’” – che fa imbestialire i “belpensanti” di Fusignano. Un peso massimo in una nuvola di pesi medi. Ma non per colpa sua. O esclusivamente dei suoi appetiti, del suo sentirsi fabbrica che deve produrre a ogni costo, lontano dai piagnistei nazional-popolari che le portano punti sottraendoli ai fornitori. Una Juventus ancora più thatcheriana: molto Mandzukic, il guerriero croato che fino a Natale, prima di crollare, ne aveva incarnato lo spirito, la fame, i limiti; e improvvisamente Moise Kean, il giovanotto che ne ha colorato la primavera. Urgono rivali più tosti, per far crescere proprio colei che, di norma, li divora.

Otto scudetti, 35 in totale. Ma anche le spine di Champions, i gol inutili di un Cristiano furioso, la borsa che cala, Allegri che Agnelli ha confermato più di nervi che di testa, e quel senso di frustrazione che, come un fantasma, esce dagli armadi d’Europa. Per alzata di mano, tutti voterebbero contro la Grande Noiosa. Ma attenzione a cosa ha detto Francesco Totti. “La Juventus, in Italia, è un esempio da seguire”. Ripeto: un esempio. Ribadisco: la bandiera della Roma. Che, senza Madama tra i piedi, di questi otto “scudi” ne avrebbe vinti tre.

Fognini ha la racchetta magica: adiós Nadal

Spaventoso, ma non stupefacente: non del tutto, almeno. Ieri Fabio Fognini ha semplicemente travolto Rafael Nadal e lo ha pure fatto sulla terra battuta: la casa prediletta del maiorchino. Per giunta a Montecarlo, dove Rafa ha vinto undici volte e prima di ieri aveva perso la miseria di 4 partite in 16 anni.

6-4 6-2 per il 32enne tennista ligure, che dal 3-4 ha inanellato un parziale di 8 game a zero dispensando un tennis sontuoso e lunare. Poteva vincere 6-4 6-0, infatti si è trovato 5-0 40-0 e tre match point di fila sul proprio servizio, ma li ha falliti. Un po’ perché l’altro non molla mai e non poteva concepire una tale onta aritmetica; e un po’ perché Fognini è fatto così. Un sistematico, nonché oltremodo incazzoso, dissipatore seriale di se stesso. I feticisti del presepino tennistico, quelli per intendersi secondo cui i campioni devono esser tutti santi senza parolacce né peccati, non gli perdonano le continue smadonnate & cazzate. È persino ipotizzabile che, se Fognini non avesse chiuso sul 6-2, avrebbe corso il rischio di farsi rimontare. Tutto vero.

Nell’eterno giochino del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, occorre però sempre tenere a mente come con Fognini non ci siano vie di mezzo: lui, il bicchiere, lo spacca. Sempre. Artista livido da tutto o niente, le mezze misure le lascia ai Seppi. Ieri, soprattutto nel secondo set, ha sciorinato un tennis di bellezza soverchiante e smargiassa. Si è financo permesso a tratti l’ardire osceno di zimbellare, non senza eretica ribalderia, Nadal sul rosso: un po’ come aver mandato al tappeto Muhammad Ali fischiettando nel ’65. Talento maleducato e nichilista, per non dire impertinente e indisponente, ma anche questo – soprattutto questo – è tennis. Delirio e vertigine. Gogna e quasi sempre martirio, ancor più per il tennis italiano maschile, salvo ogni tanto concedere chissà perché l’epifania del miracolo sporadico. Sia dunque lode.

Ieri Fognini ha firmato una delle più grandi imprese nella storia del tennis italiano. Era lecito attendersi una partita aperta, perché Fognini si esalta coi big e perché aveva già battuto Nadal tre volte (su 14 incontri). Tutte le vittorie erano arrivate nel 2015, due sul rosso (Rio de Janeiro e Barcellona) e poi agli Us Open (recuperando due set). Nadal ne ha stima, ma lo strozzerebbe volentieri: detesta tutti gli imprevedibili umorali, infatti le ha spesso prese pure da quel matto deluxe di Kyrgios.

Fognini è arrivato a Montecarlo dopo un 2019 assai mesto: 4 vittorie e 8 sconfitte. Lunedì, al primo turno, era praticamente fuori con Rublev. Si è salvato, beneficiando poi del ritiro di Simon. Da quel momento ha giocato il suo miglior tennis. Ha martirizzato il diversamente elettrizzante Zverev (3 al mondo), ha rimontato il sommamente moscio Coric (14) e ieri ha camminato sulle nuvole in un parossismo di lungolinea e accelerazioni controvento (letteralmente, perché il meteo era non poco empio).

È la sua prima finale in un Masters 1000 (sin qui “solo” due semi). Con questo risultato è 15 al mondo: il suo best ranking è 13, il migliore dai tempi di Panatta. Se vincesse oggi salirebbe a 12, vicinissimo al declinante Cilic (11) e dunque all’agognata top ten. Sarà però durissima. Fognini troverà il serbo Dusan Lajovic, 29 anni e 42 al mondo prima di questo exploit: uno che forse neanche osava sognarla, la finale a Montecarlo. Venerdì ha battuto l’ottimo Sonego e ieri Medvedev, fresco eversore di Djokovic, che avanti 5-1 è evaporato.

Un tennista italiano non raggiungeva la finale a Montecarlo da 42 anni (Barazzutti, ieri in tribuna). Per Fognini è un’occasione irripetibile. Parte favorito e dipenderà solo da lui, quindi sarà tutto insondabile. I due non si sono mai affrontati. Lajovic è allenato da José Perlas, a lungo con Fognini. Il serbo avrà dunque ottime dritte per sconfiggerlo, anche se Fabio – non di rado – si batte da solo. Oppure vince contro chiunque. Tipo ieri. E quando lo fa è una sublime overdose di arabeschi, ricami e abbacinante follia.