“Leone? Era un genio egocentrico. Eastwood per lui era uno stronzo”

Sul set insieme, Cinecittà o la Spagna, anche mesi senza discontinuità nel ciak (“Era un perfezionista mai contento”); le lunghe stesure dei copioni, le battute limate, le litigate non si evitavano (“spesso ci mandavamo a quel paese. Che caratteraccio”), così come il ritrovarsi e via con un nuovo progetto insieme, e via ancora con un altro pezzo di storia del cinema. Sergio Leone è cinema (“il suo ambiente, era perfetto solo sul set”).

Il 28 aprile sono trent’anni dalla sua morte, e Sergio Donati è lo storico sceneggiatore dei suoi capolavori western. E come lui lo conoscono in pochi.

Come arriva a Leone?

A 22 anni ero già riuscito a pubblicare tre romanzi come Gialli Mondadori e grazie al direttore di allora, quel fenomeno di Alberto Tedeschi.

Perché i gialli?

Era l’argomento più semplice, meno rischioso, e andò bene tanto che sono stati acquistati all’estero. Insomma, dei piccoli successi editoriali.

Quindi…

Dopo il terzo mi cerca Sergio Leone, due chiacchiere al telefono, poi fissiamo un appuntamento. “Te devo parlà di un proggetto”.

Western?

No. Mi illustra l’idea di un thriller ambientato sulle montagne del Sestriere. Lo ascolto. Prendo appunti. Ci salutiamo e dopo una decina di giorni mi presento con un soggetto di una ventina di pagine.

Immediato.

Non ho mai impiegato molto, per C’era una volta il west sono bastati venti giorni.

Torniamo all’incontro.

Lo legge. Alza gli occhi, mi guarda e segna la strada: “Bravo, mi piace, ma tutta la parte che si svolge nella sperduta baita di montagna in realtà va ambientata in questo albergo del Sestriere”. Scusa, e perché? “Il proprietario della struttura mette i soldi, e magari durante le riprese si vuole scopare pure qualche attrice”.

Uomo pratico.

Assolutamente! Lui puntava diritto all’obiettivo, e non solo con la macchina da presa: se aveva un’idea, non si fermava, annusava la direzione da prendere e non mollava mai.

La sua reazione?

Mi prende un colpo, dentro di me penso: “Oddio, ma è questo il cinema?”. Così saluto inorridito, e decido di abbandonare il sogno, e di puntare sulla pubblicità: entro in una grande società di Milano. E lì costruisco un’ottima carriera.

Fino a quando?

Anni dopo squilla il telefono, era Sergio: “Ma che cazzo stai a fa’ al Nord?”. Lavoro. “Ma che è un lavoro? Lascia perdere, sto realizzando un film, però non mi convince, ho bisogno di un tuo trattamento”.

Cede…

Torno a Roma a spese sue e mi affida la revisione prima di Per qualche dollaro in più e poi del Il Buono, il Brutto e il Cattivo; in particolare quest’ultimo era più lungo di mezz’ora, allora lo taglio e rimonto.

Ufficialmente non lo ha firmato.

No, solo Age, Scarpelli e Vincenzoni.

Il suo rapporto con Leone?

Grande stima ma caratteri molto diversi, a volte inconciliabili, ancora oggi a volte mi stupisco di come siamo riusciti a concludere insieme così tanti film.

Com’era Leone?

Un talento smisurato, un fenomeno, uno che già prima di iniziare le riprese aveva chiarissimo il prodotto finale e sapeva conquistarsi il suo sogno, con ogni mezzo. Poi a questo associava un carattere difficile, molto egocentrico.

Arriva a Roma.

Lo incontro e esordisce con tutta la sua sicurezza, di modi e parole: “Sto a fa’ un film gajardo. Un western”. Un western in Italia? “Sì, fidate”. Leggo la sceneggiatura ed era identica a un lungometraggio di Kurosawa (La sfida dei samurai del 1961).

Lo ha detto?

Certo, e la sua risposta è stata: “Tranquillo, se questo film arriva a Caltanissetta, è già un miracolo. Non se ne accorgerà nessuno”.

Previsione perfetta.

Non aveva tutti i torti, prevedere quel successo era quasi impossibile, e poi il budget assolutamente limitato, anzi bassissimo, per questo presero Clint Eastwood, invece di Cliff Robertson, enormemente più caro: “Non ce lo possiamo permettere”, mi disse Sergio.

Tra Leone ed Eastwood?

Nessuna cordialità, Clint stava sempre da una parte, sempre per cacchi suoi, era un po’ ombroso come nei film; e anni dopo non perdonò a Sergio la storica battuta su di lui: “Eastwood ha solo due espressioni: una con il cappello e una senza”.

Feroce.

Sergio non lo stimava, lo definiva uno “stronzo” o un “manichino” in grado solo di eseguire le indicazioni, e anche io non credevo molto nelle sue qualità; mi sono stupito della grande carriera da regista.

Ma Leone era geloso di Eastwood?

Lo considerava una sua creazione, e si incazzò moltissimo quando per Il Buono, il Brutto e il Cattivo pretese un cachet da vera star hollywoodiana; per Sergio fu un affronto personale: “L’ho creato io e questo si permette pure di rompere”.

Però ha ceduto.

Per forza, era obbligato dalle major statunitensi, ma con un piccola vendetta: non poteva più ridurre la sua parte, il copione oramai era stato approvato, quindi nel film lasciò amplissimo spazio alle controscene di mimica e smorfie del grande Eli Wallach.

Eastwood l’avrà presa bene.

Anche Clint pensava di aver contribuito alla fortuna di Sergio, almeno in questo erano d’accordo, solo da lati opposti.

“C’era una volta il west”.

(Si alza dalla sedia ed estrae un tomo enorme). È la stesura originale.

Proprio lei.

Prima di iniziare le riprese dissi a Sergio: “Occhio che è troppo lungo”. E lui: “Non ti preoccupare, alcune scene le giro più brevi”. Impossibile, pensai.

Impossibile in assoluto o per uno come Leone?

Tutte e due, forse più per lo stile di Sergio. Comunque dopo poco tempo mi chiama agitato: “Per favore vieni qui in Spagna, in Almeria, c’è da tagliare”. Quindi ho caricato in macchina moglie, figlio di tre anni e baby sitter e siamo rimasti lì per oltre un mese.

Un mese, come…

Di lavoro folle e bello, di solite discussioni su come e dove tagliare, sulle battute, di rapporti con gli attori.

In particolare, con…

Ricordo benissimo Charles Bronson, mi inseguiva per studiare insieme, “voglio capire bene la parte”, mi diceva.

Non era così?

Ogni tanto provava a correggere qualcosa, e a un certo punto un accenno di fastidio lo ho anche dimostrato, della serie “io sono lo sceneggiatore e tu l’attore”; poi all’improvviso ho capito: all’improvviso ho capito che il suo problema erano le parole con la “esse”, aveva la classica zeppola.

Però non lo diceva.

Fingeva di no, così quando gli ho rivelato la mia scoperta, si è rabbuiato, come se lo avessi offeso. Avevo sottovalutato il suo complesso nel particolare e nel generale.

Nel generale?

In mezzo a un cast di fenomeni si sentiva una mezza cartuccia, per questo si atteggiava.

Henry Fonda.

Con lui Sergio mi ha fatto morire.

Cosa ha combinato?

Fonda era un vecchiotto.

No!

Prima della Spagna la preparazione è stata realizzata a Cinecittà. Un giorno attendiamo proprio Fonda, con un po’ di emozione, almeno da parte mia. A un certo punto arriva una macchina della produzione, si ferma a due metri da noi, e scende la signora Fonda con al polso due orologi, uno con l’ora italiana, l’altro con quella statunitense; dopo un paio di secondi si apre l’altro sportello e ci troviamo di fronte un vecchietto malmesso.

Fonda.

Sergio assiste alla scena e va in crisi, bestemmia: “Che ce famo co’ questo?”. Tentiamo di calmarlo, macché, non sentiva nessuno. Per fortuna ascolta il direttore di produzione: “A Se’, aspetta, non è come appare”. Allora porta Fonda nel camerino e gli dà il costume di scena. Lui si veste. E alla fine ci raggiunge sul set tutta un’altra persona: era Henry Fonda. E il bello è che seguiva entusiasta tutte le indicazioni di Sergio, non protestava mai.

Magia del cinema.

Fuori dal ciak tornava il vecchietto che dicevo prima, e il pomeriggio lo passava accanto a mio figlio per vedere i cartoni animati. Un pensionato. Sergio scuoteva la testa, non poteva crederci.

Il rapporto degli attori con Leone?

Lo rispettavano, anzi lo temevano, perché Sergio sapeva girare, sapeva comunicare, era uno nato sul set e che viveva di set; non dimentichiamoci che era figlio di un regista e di un’attrice.

Nato sul set…

Pane e cinema, e si vedeva dalla sicurezza; certi atteggiamenti sono innati, non si acquisiscono ma si possono solo perfezionare con il passare del tempo.

Tra i suoi attori anche Mario Brega…

Insieme erano due di Trastevere, parlavano la stessa lingua, la ricerca ossessiva del popolare, quando il cinismo e l’ironia si inseguivano, e per Brega il confine tra legale e illegale non sempre veniva rispettato.

In “C’era una volta il west” c’è una battuta rivolta alla Cardinale che oggi verrebbe giudicata sessista. “Se qualcuno ti tocca il sedere, tu fai finta di nulla”.

(Scoppia a ridere). Davvero la trovate sessista? Sergio era un po’ maschilista, e la Cardinale con lui spesso si ritrovava smarrita perché massacrata dai ripetuti ciak, anche 35 per una scena sola.

35 sono tanti.

Era così in assoluto, un perfezionista, non si accontentava, e gli altri zitti. Lui era il padrone e il produttore; per questo non aveva rapporti affettuosi con gli attori.

E tra di voi?

Alla fine ci limitavamo sempre e solo al set, un po’ per evitare discussioni e un po’ perché gran parte della nostra vita era lì. Ah, si scocciava per l’età…

Cioè?

Sergio aveva solo quattro anni più di me, ma quando uscivamo insieme, magari negli Stati Uniti, ci scambiavano per padre e figlio e lui sistematicamente si incazzava.

Tra Leone e Verdone?

Li ho presentati io: una sera vado in un teatrino vicino a San Pietro e assisto allo spettacolo di un giovane comico. Il giorno dopo chiamo Sergio: “Devi vedere questo ragazzo, bravissimo”. E da lì sono partiti.

Con lui il legame c’era realmente?

Credo di sì, con lui sì. E poi Carlo è una persona rara per carattere e talento.

Insomma, tra di voi…

Dopo Giù la testa avevamo molti progetti insieme, ma lui cercava sempre il capolavoro, era ossessionato. Per questo a un certo punto ci siamo allontanati, ho deciso di guardare altrove.

Litigavate.

Ci sfanculavamo.

Attualmente lei vive quasi solo negli Stati Uniti. Lì com’è valutato Leone?

Attenzione: bisogna saper scindere il giudizio umano da quello professionale e Sergio è uno dei grandissimi del cinema, anche oltreoceano lo sanno, e lo giudicano giustamente un maestro da studiare.

Insieme dovevate anche realizzare un film sull’assedio di Leningrado.

Eccome! Per questo motivo una sera usciamo con un regista russo molto importante, alla fine degli anni Cinquanta aveva girato Quando volano le cicogne (Mikhail Kalatozov). Durante la cena Sergio chiede del film, il russo tutto soddisfatto replica: “Davvero lo ha visto?”. “Certo, e ho apprezzato molto i grandi scenari, le prospettive ampie”. A quel punto cala il silenzio. E il russo freddamente risponde: “In realtà è girato e ambientato in due stradine”. Insomma, non lo aveva visto, bluffava .

Bugiardo?

Diciamo creativo, si ingegnava per arrivare a meta. Ma il cinema vero è anche questo.

Un aggettivo per Leone?

Leone…

(Perché “quando un uomo con la pistola incontra un uomo col fucile, quello con la pistola è un uomo morto”).

Twitter: @A_Ferrucci

Libia, l’intervento Nato che bombardò la ragione

L’attacco alla Libia del 2011 è forse il più lampante esempio dell’inganno che si nasconde dietro gli interventi umanitari e di promozione della democrazia intrapresi di recente e progettati per il futuro.

Come nel Kosovo 12 anni prima, i bombardamenti Nato in Libia furono giustificati con l’urgenza di impedire uno sterminio di innocenti. Secondo l’allarme lanciato dai media e dai governi europei le truppe di Gheddafi stavano per compiere un bagno di sangue a Bengasi, l’ultima roccaforte dei ribelli antigovernativi ispirati dalla Primavera araba. L’intervento militare fu rapidamente autorizzato dal Consiglio di Sicurezza.

Il suo scopo doveva essere quello di salvare le vite di migliaia di dimostranti per la democrazia dalla brutalità delle forze armate di Gheddafi, composte in larga parte da mercenari di pelle scura che si erano macchiati di stupri di massa. L’aviazione del regime aveva usato elicotteri d’assalto e caccia da combattimento per falciare civili inermi, ed erano già perite migliaia di persone.

Due giorni dopo l’autorizzazione Onu del 17 marzo 2011, fu stabilita la no-fly zone e la Nato iniziò a bombardare. Grazie al martellamento aereo, e al sostegno logistico dei paesi europei, dopo solo sette mesi i ribelli avevano assunto il controllo della Libia ed eliminato fisicamente Gheddafi.

Il successo dell’operazione sembrava totale. Media e capi di governo europei – gli stessi che fino a pochi mesi prima si erano scambiati baci e abbracci con Gheddafi durante le sue suggestive visite di Stato – erano inebriati per esserselo tolto di mezzo.

Con l’operazione libica si era riusciti a difendere la Primavera araba, evitare un genocidio stile Srebrenica e creare le premesse di migliori rapporti tra Libia e Occidente.

Ma il verdetto si è rivelato prematuro. A un esame retrospettivo, l’intervento in Libia è stato un miserevole fallimento. Non solo la Libia non si è trasformata in una democrazia ma è diventata uno stato fallito.

Dal 2011 in poi abbiamo visto susseguirsi in quel paese una decina di primi ministri e governi, per non parlare dei due parlamenti e della frammentazione tribale. Dopo otto anni di caos e di tragedie, il paese più ricco dell’Africa, abitato da una popolazione ben istruita e ben nutrita, è divenuto una landa desolata e senza legge, nella quale scorrazzano bande di delinquenti e terroristi di ogni risma.

La giustificazione dei sostenitori dell’ingerenza armata è la solita: non c’erano altre strade percorribili. Non è vero. Anche questa volta, la migliore cosa da fare era non intervenire del tutto.

Le menzogne fabbricate per favorire la guerra contro la Libia sono state smentite dagli osservatori indipendenti presenti sul posto, che non hanno trovato alcuna traccia degli stupri di massa. Non si è trovato un solo mercenario al soldo di Gheddafi, e sia il segretario alla difesa Usa, Robert Gates, che il chairman del Joint Chief of staff, Michael Mullen, hanno testimoniato di non avere avuto alcuna conferma dell’esistenza di aerei di Gheddafi impiegati per fare strage di civili. Si sono potute confermare solo 110 vittime a Bengasi, distribuite tra le parti in lotta.

Dove sono finite, allora, le migliaia o le decine di migliaia di morti sbattuti in prima pagina dai giornali occidentali? Da nessuna parte, perché sono esistite solo nella fantasia dei cronisti e degli inviati embedded, cioè dei manovali dell’inganno.

In Libia orientale, si sono documentate solo 233 morti durante il primo giorno degli scontri, e non le 10 mila riportate dalla Tv saudita Al Arabya e citate poi dai media euroamericani. La pioggia di bombe lanciate dall’aviazione di Gheddafi all’inizio del 2011 su Bengasi e Tripoli, poi, fu inventata di sana pianta.

Nel mese precedente l’Intervento Nato le perdite totali in Libia, tra civili, soldati e ribelli, ammontavano a circa 1000 persone. Il numero così basso si deve al fatto che le forze governative si erano astenute dalla violenza indiscriminata, avevano assunto come bersaglio solo i maschi combattenti e si erano sforzate di risparmiare i civili.

D’accordo, si potrebbe dire. Ma si può negare che Gheddafi abbia minacciato il bagno di sangue se i ribelli di Bengasi non si fossero arresi?

Certo che si può negare, perché è l’esatto contrario di quanto avvenuto. Il 17 marzo Gheddafi si era impegnato a proteggere la popolazione civile di Bengasi e aveva offerto ai ribelli di lasciare loro aperta una via di ritirata in Egitto. Il suo impegno era credibile perché nelle settimane precedenti le sue forze avevano riacquistato il controllo di tutte le altre città libiche senza compiere massacri di civili.

Il genocidio degli abitanti di Bengasi fu pura propaganda, confezionata dagli espatriati anti-Gheddafi in Svizzera, e bevuta pari pari dai media nostrani smaniosi di sguazzare entro le emozioni forti della guerra e del sangue. Ma l’intervento Nato ribaltò le sorti dello scontro. E i combattimenti divennero più sanguinosi perché le milizie sostenute dalla Nato si abbandonarono ad atti di violenza incontrollata, e continuarono a usarla in ostilità reciproche che si prolungano a tutt’oggi. Poiché la stima corrente è di circa 11 mila vittime totali, e le perdite prima dell’attacco Nato erano di 1000 vite umane, quest’ultimo ha accresciuto di 11 volte il pedaggio pagato dai libici all’intervento dei “liberatori” occidentali.

Nonostante perfino Obama abbia riconosciuto che l’aggressione della Libia è stato un errore, ci sono ancora dei fan delle bombe umanitarie che sostengono che il non intervento avrebbe lasciato Gheddafi in sella peggiorando le cose.

Questi “esperti “ ignorano che era in corso una transizione, preparata da vari anni dal figlio di Gheddafi, Saif, strutturata intorno a una serie di riforme in direzione di libere elezioni, una nuova costituzione, e una serie di ammende rispetto ai traumi del recente passato.

Saif aveva convinto il padre a fare un’ammissione di colpa per il massacro nelle prigioni del 1966 e a risarcire le famiglie di centinaia di vittime. Tra il 2009 e il 2010 Saif aveva ottenuto il rilascio di quasi tutti i prigionieri politici della Libia e aveva creato un programma di deradicalizzazione per gli islamisti che gli esperti occidentali citavano come un modello. È ovviamente impossibile sapere se Saif avrebbe dimostrato la capacità di trasformare la Libia, ma egli sembrava deciso ad eliminare le più eclatanti storture del regime paterno.

Nel corso dei bombardamenti Nato, lo stesso Saif tentò di intavolare una trattativa con esponenti di governi i cui capi avevano mostrato grande amicizia verso il padre, ma fu catturato e imprigionato dalle milizie filo-Nato. Come in Iraq e nel Kosovo, quindi, anche in Libia la ragione dei bombardamenti è finita col coincidere con il bombardamento della ragione.

Columbine, il massacro che non è mai finito

“Tutti quelli col cappello bianco o da baseball, in piedi!”. Nessuno, in biblioteca, si mosse. “Tutti gli atleti, in piedi! Prenderemo quelli che hanno il cappello bianco!”. Nulla. “Va bene, comincerò a sparare comunque!”.

Iniziò così, venti anni fa, il massacro nel liceo Columbine di Littleton, in Colorado: 13 morti – dodici studenti e un docente – e 24 feriti. I responsabili, due teen agers che frequentavano la stessa scuola, al termine del massacro si uccisero: si chiamavano Eric Harris e Dylan Klebold, avevano 17 anni. Era il 20 aprile 1999. Sebbene gli Stati Uniti siano terra di carneficine nelle scuole, Columbine è diventata “la strage”, anche per la notorietà avuta di rimbalzo da film-denuncia sul mercato delle armi negli Stati Uniti come “Bowling for Columbine” di Michael Moore.

Ieri la comunità di Littleton ha ricordato quei momenti: i due killer, la fuga di centinaia di ragazzi, chi quelle ferite se le porta ancora addosso. Non si trattò di una azione emotiva, ma di un massacro pianificato, come dimostrarono i Basement Tapes: Harris e Klebold documentarono i loro preparativi con registrazioni, dall’acquisto illegale di armi ed esplosivi alla loro convinzione che sarebbero divenuti parte della storia americana. I due si dissero certi che dal loro piano omicida avrebbero tratto dei film, e discutevano sugli attori e i registi che gli sarebbero piaciuti nel progetto.

Le registrazioni non sono mai state divulgate per intero, ma solo tre frammenti: uno di questi si intitola “Assassini su commissione”, in apparenza un progetto legato al corso scolastico di produzione audiovideo; Harris e Klebold interpretavano due killer a pagamento che eliminavano i “bulli” della scuola, difendendo gli altri studenti. Nella realtà, gli assassini presero di mira per primi “quelli con il cappello bianco”, ovvero gli atleti, i “privilegiati” del liceo – dal loro punto di vista – rispetto alla massa anonima. E vi fu qualcuno che fu risparmiato: quella mattina, dopo aver piazzato due bombe da nove chili, Harris tornando al parcheggio incontrò un suo compagno di classe e gli disse: “Brooks, mi sei simpatico. Vai via, va a casa”.

Columbine ha alimentato anche il perenne dibattito sulla facilità di acquisto di fucili e pistole; i democratici hanno provato a stringere le maglie della normativa, ma la Nra (National rifle association) ha sempre tirato in ballo il secondo emendamento della costituzione che assegna a ogni cittadino americano il diritto di possedere armi. Si sono formati anche movimenti di protesta, come March For Our Lives nato dall’iniziativa dei sopravvissuti alla strage de liceo di Parkland (14 febbraio 2018, 17 morti) che dopo il primo slancio però sembrano arenarsi. Il presidente Trump, che trae sostegno dalla Nra, non è certo sollecito nell’affrontare la questione, ma è bene ricordare che non è stato fatto meglio alla Casa Bianca dai leader democratici che lo hanno preceduto.

Che a distanza di venti anni la strage abbia lasciato una scia di emozioni contrastanti lo prova anche l’episodio dei giorni scorsi: Sol Pais, 18 anni, della Florida, era ossessionata dal massacro di Columbine. Aveva comprato un biglietto per Denver ed era arrivata con un fucile. Ad avvisare la polizia è stata la madre. Cento scuole del Colorado, fra cui proprio la Columbine, sono state chiuse, la caccia alla donna si è conclusa quando gli agenti l’hanno trovata morta. Si era sparata in testa: proprio come Harris e Klebold.

“La pace è stata una promessa mancata: ora New Ira arruola”

Un video pubblicato dalla polizia nordirlandese sul suo account Twitter mostra una persona con il passamontagna che sbuca da un angolo, spara sulla folla e poi sparisce. Sono stati questi gli ultimi istanti di Lyra McKee, la giornalista uccisa a Derry tre giorni fa . Due ragazzi di 18 e 19 anni sono stati arrestati. Dieter Reinisch è uno dei maggiori esperti di gruppi radicali repubblicani irlandesi e ieri era alla commemorazione di Pasqua del Republican Network for Unity, nell’enclave repubblicana di Ardoyne Avenue a Nord Belfast

Qual è il contesto che ha portato alla morte di Lyra McKee?

Derry è da sempre una roccaforte repubblicana e in aree povere come Creggan o Bogside i repubblicani sono radicalizzati. La tensione era alta da mesi, con la polizia che entra in quei quartieri per continue perquisizioni. Quella di giovedì è stata una provocazione mirata a dare una prova di forza prima delle celebrazioni di Pasqua, che per i repubblicani sono l’occasione per contarsi. La polizia è entrata a Creggan con un numero eccessivo di mezzi e la gente ha reagito. Una perfetta pubblicità per la New Ira e il suo braccio politico Saoradh che in quei quartieri stanno con successo reclutando giovani e costruendo nuovo consenso. Dietro gli scontri c’era una regia esperta ed è chiaro che chi ha sparato obbediva a un ordine dall’alto. Ma la morte della giornalista è stato un tragico incidente che ha scioccato anche loro.

Perché?

Anche nei momenti più duri dei Troubles l’Ira ha cercato di attenersi alla regola di non colpire civili. A volte senza successo, come sappiamo. Ma tutti sono consapevoli che la lotta armata non va lontano senza il supporto della popolazione e la morte di Lyra ha creato rabbia e disgusto.

Come è organizzata la New Ira?

In modo molto simile alla Provisional IRA, fortemente gerarchico, con un direttivo militare e delle brigate locali. Abbiamo il sospetto che a Derry i numeri siano cosi alti che i battaglioni operativi sarebbero due. In totale la New Ira può contare su alcune decine di “soldati”. Molto più ampio il numero dei sostenitori, soprattutto nella Repubblica Irlandese. Dal sud vengono soldi, supporto logistico, organizzazione di campi di addestramento, protezione, case sicure, le auto usate per le azioni. Una rete di alcune centinaia di persone che mantengono un profilo molto basso.

E qual è il rapporto con Saoradh, il partito politico?

L’intelligence e la polizia nord-irlandese dicono che sono la stessa cosa. Sappiamo che ci sono delle sovrapposizioni, ma non direi che una organizzazione prenda ordini dall’altra. Di certo in Saoradh sono confluiti alcuni veterani della lotta armata che hanno abbandonato il Sinn Fein quando ha riconosciuto la polizia nel 2007. Per molti anni questi irriducibili non hanno avuto una rappresentanza politica, fino alla creazione di Saoradh nel 2016.

Saoradh sembra avere un consenso crescente in alcune aree. A cosa è dovuto?

Al fatto che le promesse del Good Friday agreement non sono state mantenute. L’Irlanda del Nord è ancora una delle regioni più povere dell’Europa occidentale, la disoccupazione anche giovanile è altissima, l’economia arretrata. Non c’è un governo da due anni perché i due partiti principali, Sinn Fein e Dup, non superano le loro divergenze. E cresce la consapevolezza che il processo di pace sia sostanzialmente fallito: ha fermato la guerra, ma la violenza a bassa intensità non si è mai arrestata. Al contrario, le divisioni sono state istituzionalizzate. Nel 1994 a Belfast le barriere fisiche fra comunità repubblicane e unioniste erano una ventina. Adesso sono oltre 80.

La violenza può tornare?

Di certo non sulla scala dei Troubles, ma se ci dovesse essere una hard Brexit la New Ira di certo ne approfitterebbe.

Un voto pensando alla guerra

Il re del cioccolato si sta sciogliendo al primo caldo della primavera ucraina. Per Petro Poshenko tre giorni fa si è di nuovo riempita Maidan, ma potrebbe trattarsi dell’ultimo bagno di folla tra le bandiere gialloblu per il presidente. L’oligarca – che 5 anni fa nella stessa piazza vinse promettendo di fare la guerra agli oligarchi come lui –, quasi certamente sarà sconfitto: gli analisti di Kiev si chiedono non se fallirà, ma solo quanto rumoroso sarà il suo tonfo alle urne, mentre le preferenze per l’avversario, Vlodimir Zelinsky, che tutti chiamano ormai affettuosamente solo Ze, sono lievitate fino al 70% nei sondaggi dell’agenzia Rating.

Poroshenko “è un uomo ricco, dopo la politica potrebbe dedicarsi alla beneficenza” ha ironizzato il comico, che dal cuore di Kiev, città dopo città, ha conquistato il Paese. Nelle satire del suo show Kvartal95, quelli che da lunedì potrebbero diventare i suoi colleghi, lui li ha già imitati tutti in onda su 1+1, il canale dell’oligarca ebreo Igor Kholomolsky, di cui molti lo accusano essere la marionetta.

Contro ‘Ze’, sul web sono state scritte parole più sprezzanti del solito. Dietro ci sarebbero i troll dell’agenzia Postman, finanziati da Poroshenko, intenti a fare disinformazione contro l’attore, presentato come un drogato e un fedele del Cremlino. A scoprirlo sono stati i reporter di Babel, sito di informazioni di proprietà di Kholomolsky. A Kiev si sono succeduti, cerimoniosi e felpati, Merkel e Macron, ma solo il presidente francese ha incontrato entrambi i candidati. Scambi di frasi di circostanza, strette di mano, interrogativi europei sulla futura leadership. Durante una campagna elettorale più “ucraina” del solito, – con le foto virali delle siringhe nelle vene dei due avversari politici, sottoposti a verifiche mediche per alcol e droga, e dopo le performance allo stadio tra applausi e fischi di 70 mila “tifosi” –, due parole sono state importanti più delle altre: Crimea e Nato. La prima perché è stata evitata, la seconda propagandata. La penisola, divenuta russa dopo l’annessione del 2014, è stata dimenticata. Poroshenko, che aveva giurato di farla tornare parte dell’Ucraina, non ha mantenuto la promessa e non la ripete. E se il tycoon della Roshen si propone ancora come l’uomo che porterà l’Ucraina in Europa e ad Ovest, l’unica cosa che promette il comico è un referendum: saranno i cittadini a scegliere se entrare nell’Alleanza atlantica. “Per la squadra di Ze tutto è show e divertimento, i primi mesi di presidenza saranno imbarazzanti” ha detto Andrea Umland, dell’Istituto per la cooperazione euro-atlantica.

Zelinsky, il ragazzo nato 41 anni fa tra le fumarole delle fabbriche d’acciaio nel paesino di Krivyi Rig, che vuol dire “corno storto”, sud-ovest ucraino, perennemente accompagnato dalla compagna di scuola che ha sposato, la bionda Olena, non ha mai concesso interviste ai giornalisti. I suoi numerosi viaggi a Ginevra e Tel Aviv, basi dell’oligarca Kholomolsky, Zelensky non li ha commentati, ma questo all’architetto Natasha, seduta al costoso ristorante armeno del Kreshatik in centro, non importa: “Non parla perché sanno che strumentalizzeranno tutto quello che dice, lui è la tempesta perfetta per rinnovare il governo”. Anche suo marito, che aveva sostenuto la Timoshenko, si è piegato infine al carisma catodico del “giovane, spavaldo e insieme prudente” Zelensky che, proprio come Poroshenko, fa ancora affari in Russia: “Non si sa perché tutti voteranno Zelensky, ma perché tutti non voteranno Poroshenko. Non ha fatto nessuna riforma anti-corruzione, né giudiziaria, è stato un fiasco”.

Sono 13 mila i morti nella guerra del Donbass, i fantasmi non votano ma i loro parenti andranno alle urne e Zelensky ha promesso di trovare una soluzione per le repubbliche di Donesk e Lugansk: “Loro hanno bisogno di noi, noi di loro. La guerra finirà”. Il Cremlino però rimane silenzioso davanti a quella che sembra una lotta nel fango tra magnati e marionette nel suo cortile di casa. È un mistero, ma già triste come una farsa, per l’economista Katerina. “Amano l’immagine di Vasyl Holoborodko, il professore di storia che diventa presidente per caso. Di Zelinsky non sanno niente, hanno solo visto tutti gli episodi della sua serie tv, ma quella è Netflix, non politica”.

Nella Capitale i dialoghi sembrano la scena surreale di un film “tratto da una storia vera”. La verità è che quando si alzerà il sipario lunedì sull’eventuale presidenza del comico, il copione politico sarà un’incognita per tutti: per gli ucraini, per l’Europa. Per il personaggio Vasyl e forse per lo stesso Ze.

Svizzera, il gelo della civiltà sa un po’ di tappo

Venerdì ho partecipato al Congresso di Psichiatria Sociale organizzato a Mezzana, Mendrisio, Confederazione Elvetica. Ho sempre detestato la Svizzera dove dicevo “c’è una deplorevole mancanza di polvere”. Quando vi arrivavo dalla Germania la attraversavo a tutta velocità facendomi un punto d’onore di non fermarmi nemmeno per un caffè.

All’epoca in cui andavo molto spesso a giocare a Campione, insieme a Diego, il mio ‘compagno di merende’, e all’alba guardavamo al di là del lago, le cui acque a quell’ora si increspano leggermente, le luci di Lugano, mai una volta che ci sia venuta la curiosità di farci una capatina. In seguito mi è capitato di essere fidanzato con una giovane donna italiana che lavorava alla RSI (Radio Svizzera Italiana) che viveva a Lugano. Dopo le cinque e mezza del pomeriggio Lugano è deserta, di una desolazione che ho visto solo a Welkom, nel Free State sudafricano, dove in uno splendido pomeriggio di sole vidi in tutta la cittadina solo un nero, seduto su una panchina, solitario e silenzioso come solo i neri sanno essere (“la dignità solitaria del negro” la chiama Malaparte). Cosa facciano gli svizzeri, o quantomeno i luganesi, dopo le cinque e mezza non l’ho mai capito. Quel che so è che si alzano prestissimo e vanno a correre nei boschi sulle colline sopra la città. Quel nitore e quel silenzio mi davano così fastidio che mi rifugiavo in un bar di slavi per cercarvi un po’ di vita.

Eppure Lugano – come tutta la Svizzera – è una città assai curiosa, provinciale (ha solo 60 mila abitanti) e nello stesso tempo internazionale. In libreria trovi libri in italiano, ma anche in inglese, in francese, in tedesco. In città, per ragioni fiscali ma non solo, hanno la residenza americani, inglesi, francesi, tedeschi. Le Televisioni sono quattro, italiana, francese, tedesca, romanza. All’epoca in cui la bazzicavo sugli schermi italiani, nei talk, furoreggiavano il canaio inconcludente degli Sgarbi, la ‘tv del dolore’ di Costanzo, insomma il solito immondezzaio. Un confronto impietoso con i contenuti e il rigore delle trasmissioni svizzere, dove il conduttore non fa il protagonista, non è un domatore, non se la dà da opinion maker, né viene preso per tale, si limita a dirigere il traffico come faceva il vecchio, caro Jader Jacobelli quando conduceva l’antica Tribuna Politica in un’Italia meno imbarbarita. Mi ricordo di aver partecipato nel 2003, quando era in corso la guerra all’Iraq, a una trasmissione della Tv ticinese dedicata all’argomento, in cui erano presenti un iracheno, un rappresentante del consolato Usa, un iraniano (a quelle della Radio non mi invitavano, per ‘conflitto di interessi’, perché ero fidanzato con una che vi lavorava). Intervenne Gad Lerner. Poi il conduttore mi diede la parola e Lerner, secondo il malcostume italico, mi interruppe quasi subito. Gli dissi: “Guarda Gad che qui non siamo in Italia, siamo in Svizzera” e Lerner si zittì.

Per questo Congresso di Psichiatria Sociale mi trovavo quindi nel ‘mendrisiotto’, il buco del culo del mondo. Organizzazione perfetta. Ma questa non è una novità in un Paese in cui quando mettono un senso unico ti avvisano una settimana prima e ti indicano anche i percorsi alternativi partendo da casa tua. Meno scontato il livello degli specialisti tutti di prim’ordine, svizzeri, italo-svizzeri, italiani: psichiatri, etnopsichiatri, psicologi, psicoanalisti. Ancor meno scontato lo spessore degli interventi. Tanto che ho chiesto al giovane e simpatico Presidente, Amos Miozzari, se mi avevano chiamato come relatore o come un soggetto da studiare. Si è messo a ridere: “Non volevamo un convegno solo per addetti ai lavori, infermieri compresi. Volevamo qualche osservatore da fuori, che potesse aiutarci a chiarirci le idee. Prima di lei interverrà un filosofo, Salvatore Natoli”.

Particolarmente interessante l’intervento dello psicologo Raffaele Mattei che si occupa degli adolescenti nei casi più disperati (alcol, droga). Segue la linea basagliana che non bisogna “istituzionalizzare il malato” e non rinchiuderlo in centri di assistenza che qui chiamano foyer. Ma a differenza di Basaglia i suoi interventi sono molto concreti. Non bisogna giudicare il malato ma responsabilizzarlo. Gli si assegna un monolocale, il cui affitto è pagato dallo Stato, ma deve essere il ragazzo a cercarselo. Così se si presenta a una sciura svizzera, tutto tatuato, con piercing, casco in testa, probabilmente verrà respinto. Il ragazzo deve scegliere se cambiare atteggiamento o ritornare a fare l’elastico fra i vari foyer. In tal modo ha collocato in questi appartamenti singoli 36 adolescenti.

L’etnopsichiatra Piero Coppo che ha vissuto per molti anni in Mali e altri Paesi dell’Africa Nera ha chiarito come tutte le nostre teorie psicoanalitiche non hanno nessun senso né tantomeno efficacia presso popoli che hanno un’altra storia, un’altra cultura, altre tradizioni, una diversissima mentalità. Ha confermato tra l’altro quello che io sostengo da tempo e cioè che la depressione non esiste negli strati bassi di quelle popolazioni nere, vale a dire la stragrande maggioranza delle persone che vivono in quei Paesi che noi consideriamo sottosviluppati e arretrati. È una malattia della civiltà. I medici neri, gli sciamani, distinguono in “follia fredda” e “follia bollente”. E considerano più pericolosa la prima. La “follia bollente” è come un incendio impetuoso che, bruciando tutto ciò che gli sta attorno, alla fine si acquieta e si spegne. La “follia fredda” è più insidiosa perché non ha manifestazioni clamorose, abita dentro di noi senza che ce ne accorgiamo. Nel mio discorso ho sostenuto che in Occidente siamo tutti, o quasi, ammalati di “follia fredda”. Perché è il nostro modello di sviluppo a essere ammalante: conquistato un obbiettivo bisogna inseguirne subito un altro poi un altro ancora, senza mai poter raggiungere uno stato di equilibrio, di armonia, di pace.

Che gli svizzeri, ticinesi compresi, che pur parlano la nostra stessa lingua e sono divisi da noi da confini tracciati col righello o da fiumiciattoli come il Tresa, non siano dei campioni di calore umano non è una leggenda. È l’altra faccia del loro rigore. Negli anni Novanta un giorno un italiano imbracciò il kalashnikov e fece fuori sei svizzeri ticinesi col sotterraneo giubilo della consistente comunità italiana che vive o lavora da quelle parti. In dieci anni non era riuscito a farsi un’amicizia fra i ticinesi doc. Al Congresso di Mendrisio ho trovato simpatia, cordialità e una cortesia vera, non quella dei torinesi “falsi e cortesi”. Ma un po’ di ‘svizzerume’ gli è rimasto addosso. Io, come tutti i polemisti, sono timido e per farmi coraggio prima di un intervento pubblico ho bisogno di bere un bicchiere di vino. Ma lì non passava, i commessi schierati a difesa del lunch non ne volevano sapere. Il dottor Paolo Cicale ha fatto il diavolo a quattro per procurarsi una bottiglia di rosso. Mentre, un po’ stupito, lo guardavo armeggiare col cavatappi mi ha detto, strizzandomi l’occhio: “Sa, io vivo in Svizzera, sono svizzero, ma resto pur sempre un italiano”.

Perché vogliono salvare l’Alitalia, non Radio Radicale

C’è un nesso tra il salvataggio dell’Alitalia e il soffocamento di Radio Radicale. L’Alitalia è grossa, Radio Radicale è piccola. L’Alitalia costa miliardi di euro ai contribuenti, Radio Radicale pochi milioni. L’esecutivo Di Maio-Salvini ha ormai consolidato un’indole forte con i deboli e debole con i forti alla quale vengono subordinate le grandi scelte di governo del sistema. L’Alitalia non svolge più un servizio pubblico essenziale, nei voli interni ha ceduto largamente il passo al low cost, potrebbe chiudere domani mattina e verrebbe immediatamente sostituita dai voli di altre compagnie. Però il governo dovrebbe fronteggiare la rabbia di migliaia di dipendenti e soprattutto di creditori e fornitori, tipicamente amici degli amici. Così il ministro dello Sviluppo economico Luigi Di Maio si avventura nella missione impossibile: “Sto cercando di risolvere un problema che nessun altro ministro ha risolto”. Cioè di risanare l’Alitalia che negli ultimi dieci anni è fallita tre volte ed è costata allo Stato già quasi dieci miliardi.

Il povero Gianfranco Battisti, capo delle Fs, ha accettato di fare la questua tra le aziende statali per salvare la compagnia. Gli hanno detto “no grazie” le Poste (che a Matteo Renzi obbedivano, a Di Maio no), la Fincantieri, la Finmeccanica, l’Eni e la Cassa Depositi e Prestiti. Così il governo si è inginocchiato davanti a Giovanni Castellucci, capo di Atlantia e quindi azionista sia di Autostrade per l’Italia che di Aeroporti di Roma, chiedendogli 300 milioni per Alitalia. A Ferragosto hanno promesso ai Benetton di togliergli la concessione autostradale dopo il crollo del Ponte Morandi. Adesso gli affidano gli aerei. Di Maio dice che tra le due cose non c’è nesso: “La promessa di ritirare la concessione sarà mantenuta, c’è una commissione al ministero dei Trasporti che sta accertando il comportamento di Autostrade sul disastro del ponte Morandi”. Ma, come avrete già capito dalla parola “commissione”, tutto è già perdonato a chi è grosso e fa paura.

Radio Radicale invece è piccola e non fa paura. Quindi ci si può accanire. Ci sarebbero molti argomenti per sostenere che Radio Radicale fa un servizio di informazione e documentazione poco costoso e insostituibile; e che solo un Paese masochista se ne può privare per risparmiare 12 milioni mentre paga 2 miliardi di canone Rai. Quei 12 milioni sono più o meno quanto spendono Camera e Senato per stampare (sì, stampare) gli atti parlamentari. Ma non c’è nessuna argomentazione possibile contro la logica ottusa del sottosegretario per l’editoria Vito Crimi: “L’intenzione del governo, mia e del Mise è di non rinnovare la convenzione. Nessuno ce l’ha con Radio Radicale o vuole la sua chiusura, ma sta nella libertà del governo farlo”. Posso farlo, quindi lo faccio. Questo governo usa con voluttà la sua presunta “libertà” di aggredire tutto ciò che è minoranza e non fa paura, come se essere minoranza fosse una colpa da espiare. Lungo questa china penosa un giorno potrebbero dirci che anche i musei e gli archivi e le biblioteche interessano solo a minoranze che non hanno vinto le elezioni.

Uomini di governo che dicono “ho la libertà di farlo” concepiscono il potere come arbitrio. Di fronte a una cultura politica così spaventosa, il premier Giuseppe Conte e il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, due giuristi, dovrebbero sentire l’urgenza di rassicurare il Paese sullo stato di salute delle istituzioni. Per adesso tocca rimpiangere Massimo Bordin, uomo simbolo di Radio Radicale, perdita davvero incolmabile per la cultura politica e giornalistica, che prima di morire ha regalato alla sua radio l’ultimo colpo da maestro, definendo Crimi “gerarca minore”.

 

La risurrezione offre una meta su cui fissare il nostro sguardo

Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!”. Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte. Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti (Giovanni 20,1-9).

Il primo giorno della settimana, come scrivono gli evangelisti Luca e Giovanni, diventerà il giorno del Signore: dominica=kuriakè! in cui, settimanalmente, i cristiani fanno memoria della morte e risurrezione di Cristo Signore, vivo e presente. Il Vangelo della domenica di Pasqua mette in forte evidenza la decisa e trasparente testimonianza (parresìa) dei discepoli di Cristo. Per gli Atti degli apostoli la testimonianza deve diventare annuncio (kèrygma). La Parola di Dio inviata agli uomini, la buona notizia del perdono e della pace ha, ora e per sempre, il volto del Signore Gesù. Questo è il mistero pasquale: lo uccisero appendendolo ad una croce, ma Dio lo ha risuscitato il terzo giorno e volle che si manifestasse … a testimoni prescelti da Dio, a noi (At 10,39-41). L’aver mangiato e bevuto con Lui e l’incontro personale nella fede rendono discepoli, testimoni e annunciatori del Risorto. Cristo entra nel profondo della vita del cristiano, come attesta Paolo ai Colossesi: voi siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio. Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria (3,3-4). Il cristiano in quanto risorto con Cristo orienta l’esistenza alle cose di lassù … al pensiero di quelle, non a quelle della terra. La risurrezione ci offre una meta su cui fissare lo sguardo e là il Signore Gesù ci ha preparato un posto. L’evangelista Giovanni ci presenta tre reazioni diverse di fronte alla tomba vuota. Quando era ancora buio vediamo muoversi Maria di Magdala, sola, trepidante e smarrita, con il cuore pieno dello spettacolo angoscioso della croce, consapevole del fallimento del suo Maestro che, comunque, lei va a vedere presso il sepolcro. Lei cerca perché mossa dall’amore dell’Amato! Il secondo a correre verso il sepolcro è Pietro che sperimentò la debolezza della propria presunzione nel suo misero e codardo rinnegamento di Gesù. Ma nel cuore sono vive le parole di fiducia comunque accordatagli dal Maestro che gli aveva teneramente assicurato: Io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno. E tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli (Lc 22,32). Né può Pietro dimenticare l’appassionata e fedele premura con cui il Signore si voltò e fissò lo sguardo su di lui suscitando, nella sua coscienza, il ravvedimento che lo fece piangere amaramente (62).

Il discepolo amato, che giunge per primo al sepolcro, esprime il terzo atteggiamento possibile. Giovanni alla vista dei teli posati là intuisce la stupefacente novità della risurrezione e viene immerso oltre l’abisso dell’assenza di Gesù: vide e credette. La fede lo situa nella misteriosa Presenza di Colui che vive! La Pasqua celebra, quindi, in Maria Maddalena, l’apostola proclamata da Papa Francesco, colei che si è lasciata amare dal Risorto e che, perciò, instancabile lo continua a cercare fino all’Incontro! In Pietro il credente già perdonato che, perciò, viene inviato ad annunciare la fede. In Giovanni, colui che vede e contempla la sua Parola, che diviene Via certa per incontrare il Risorto. Buona Pasqua!

 

Diario di vita italiana sotto due bandiere

Esplode la Libia, con chi andiamo? Non abbiamo un solo governo o Paese amico, che sia normale o che sia sovranista, con cui confidarci, a cui chiedere aiuto o consiglio. Il mondo è brutto per tutti, ma è più brutto per noi, a causa dell’incrocio fra la lite continua (feroce) e il continuo canto di gloria autocertificata dei due che hanno vinto alle urne e perso al governo. Tutti vediamo che un mondo carogna si avvicina, vuole armi, prigioni, espulsioni, tacere e obbedire, e ha scelto, come nemico da combattere, solo chi cerca di informare tutti e chi si dà da fare per salvare qualcuno.

Come prova cercherò di comporre il diario di un mese italiano. Sono certo di non avere escluso alcun fatto politico di strada o di governo che possa darci un’idea della vita italiana oggi. Il mese è aprile 2019, anno primo dell’era “prima gli italiani” che (basta ripetere il triste slogan per capirlo) ha spento il Paese. Ecco i fatti del mese da ripassare insieme:

1. Chiudere Radio Radicale. Perché? Radio Radicale è un notaio accurato dei fatti italiani. Ecco la ragione. Volete che qualcuno metta in archivio e ricordi per sempre che una bambina “straniera” in una città e in una scuola leghista è stata lasciata a digiuno (un po’ di tonno e acqua) per punire la sua famiglia che non era in regola con la retta?

2. È nato (in Italia, oggi) il rito di calpestare il pane: gettare in terra i panini caldi del forno destinati a molti bambini, calpestare con gli scarponi della gente di Casa Pound il pane destinato a una comunità rom appena trasferita a Torre Maura al grido “devono morire di fame”. Gli italiani del quartiere, in quanto vengono prima, applaudono. Non hanno alcun bisogno né della casa né del pane. Ma adesso il rito del calpestare il pane fa parte del nuovo vivere Fascio-italiano.

3. Un undicenne di una scuola di Ferrara, scolaro ebreo di una città che ospita il Museo della Shoah, viene avvertito dai suoi compagni, che, da grandi, rimetteranno i forni in funzione e verranno a prenderlo.

4. Un quartiere di Roma (Casal Bruciato) insorge contro una sola famiglia rom (pochi adulti e bambini) che sta per occupare un appartamento legittimamente assegnato, di cui ha le chiavi. Provvede Casa Pound, braccio militare del “prima gli italiani”, a cambiare le serrature. Forse non sanno che i rom sono italiani e devono pur disporre di esseri umani da deportare.

5. L’ex sindaco di Riace, già destituito, allontanato da casa e dal borgo che aveva fatto rinascere, viene rinviato a giudizio. Cavallerescamente i giudici fanno trapelare che ne sentiremo delle belle sul finto santo che si era inventato, contro la legge dei giuristi Bossi e Fini, la libera e aperta accoglienza degli immigrati. Pensate a che punto era arrivato: casa, scuola, servizi sociali e nuova vita per gente in fuga, in un paese vuoto. Negli stessi giorni, il sindaco di un grosso borgo vicino a Lecco (Isino Lariano) lo ha messo in vendita, chiesa compresa, perché il borgo è vuoto. Non un immigrato è mai stato portato o accettato sul posto.

6. Le donne della parrocchia della Magliana (Roma) pattugliano la casa parrocchiale per impedire la distribuzione di pacchi per Pasqua a rom e “stranieri”. Il presidio è “di sole mamme” ma (scrive Repubblica del 19 aprile) “a pochi metri c’erano i tatuaggi sui bicipiti dei mariti”. “Ci siamo messi d’accordo con don Antonio che d’ora in poi avrebbe pensato prima a noi”, ha detto Vera, cuore nero di Casa Pound. Kostel, romeno, ha tentato di entrare in parrocchia. “Mi hanno chiesto: dove vai? Ecco i documenti, ho risposto. Mi hanno cacciato”. “Ci siamo messi d’accordo, ha detto il parroco”. I rom sono una questione che riguarda più la Caritas. “Non siamo mica razzisti”, dicono le donne di guardia.

7. Una direttiva del Viminale crea le “zone rosse” nelle città italiane. Saranno i prefetti agli ordini del ministro, e non i sindaci eletti dai cittadini, a decidere chi entra e chi non entra e dove può stare o deve sgomberare, secondo gli ordini e gli umori del personale di polizia.

8. Una direttiva del Viminale ordina alla Marina militare di non intervenire (di non salvare) se ci saranno libici in fuga dalla guerra. Il ministro della Difesa e gli Stati maggiori rispondono che ricevono ordini solo dal capo dello Stato. Il governo Conte sembra soddisfatto.

9. Bisogna chiudere Radio Radicale. Non si può tollerare il libero racconto di ciò che accade oggi in Italia.

Mail box

 

Possiamo davvero competere con l’industria cinese?

Come confrontarci con la Cina? Tra ferie, week-end, feste varie corroborate da ponti chilometrici, lavoriamo 150 giorni all’anno, per un numero di ore imprecisato vario per ogni categoria. Il nostro credo sono i diritti. I cinesi lavorano 364 giorni all’anno, per almeno 12 ore, in un Paese solo nominalmente comunista che si trasforma in sistema fascista. Senza più ideologie, teso solo all’efficienza, all’amor di Patria e al confronto col resto del mondo. Per ora fanno la quantità ma è segno che presto realizzeranno anche la qualità e così all’Occidente resterà solo discutere sul sesso degli angeli.

Gianni Oneto

 

A Matteo Salvini può rispondere solo Totò

Il vicepremier Matteo Salvini, volto arrossato come un peperone e modi adirati verso chi lo intervistava, ma pur sempre in divisa (non si sa bene di quale corpo), ha tuonato dagli schermi televisivi e ha difeso a spada tratta Armando Siri. Forse dimenticando i precedenti, lo ha definito “una persona pulita, specchiata, integra e onesta”. Quattro aggettivi, uno più forte dell’altro, che non ammettono replica.

Una bruttissima scena, roba da prendere a martellate il televisore. Dopo essermi imbattuto in questa non troppo esilarante performance, ho riavvolto il nastro della memoria e la mie mente si è fissata su questa frase, divenuta celebre, tratta da un vecchio film di Totò: “Ma mi faccia il piacere!”. La frase era rivolta ad un onorevole di turno, che si chiamava Cosimo Trombetta. Facile indovinare colui al quale, adesso, andrebbe indirizzata.

Angelo Gualtieri

 

Le querele di Renzi dimostrano la sua disperazione

Leggo in questi giorni che il senatore di Scandicci ha dato mandato ai suoi avvocati di querelare tutti quelli che lo hanno aspramente criticato e insultato e deduco che fra un po’ quasi tutti gli italiani si vedranno notificare l’azione giudiziaria per aver osato rivolgersi a Renzi con epiteti sconvenienti.

Trovo veramente ridicola l’iniziativa del senatore che mi sembra dettata dalla disperazione politica in cui si trova attualmente e che non trova molti riscontri in personaggi del passato che sono stati oggetto di attenzioni da parte di stampa, critica o elettori in generale. Denota la totale mancanza di una prospettiva politica per il soggetto che è stato e sarà sempre di più abbandonato dagli elettori e anche dai pochi fedelissimi che gli sono rimasti.

Quindi, invece di rassegnarsi al fatto che gli italiani lo hanno provato, misurato e giudicato inadatto a rappresentarli, cerca di rivalersi con le querele che potranno (forse) anche portargli qualche spicciolo in tasca, ma sicuramente sanciranno la sua fine politica in questo Paese e questo per uno così può diventare un problema serio.

Leonardo Gentile

 

Nell’articolo pubblicato il 18 aprile “La guerra per salvare il Titano. San Marino guarda alla Russia” si parla di un’inchiesta in corso a San Marino su alcune cittadine sammarinesi e italiane che forse potrebbe essere interessante per i lettori italiani. Naturalmente la Russia non è assolutamente toccata da questa inchiesta. Quello che ha suscitato il nostro stupore è stato il tentativo dell’autore di interpretare in maniera stravagante il contenuto e l’esito della recente visita ufficiale nella Repubblica di San Marino del ministro degli Esteri della Federazione Russa S.V. Lavrov. Viene avanzata l’ipotesi che la Russia cerchi di “dissuadere la Repubblica dalla sigla di trattati con l’Unione Europea”, “bocciare l’avvicinamento di San Marino all’Europa e cacciarla nelle braccia dei russi”, mantenendo “un paradiso finanziario a due passi dalla Riviera, amata dagli oligarchi russi pronti a far girare miliardi”.

A questo proposito vorremo chiarire che la prima, nella storia dei rapporti bilaterali, visita ufficiale di un ministro degli Esteri russo a San Marino è stata un evento importante che ha dimostrato l’intenzione delle parti di sviluppare relazioni realmente paritarie e reciprocamente vantaggiose. Durante i colloqui, l’argomento dell’associazione di San Marino alla UE non è stato neanche sfiorato. La parte russa ha effettivamente espresso la propria soddisfazione per il fatto che la Repubblica di San Marino non abbia aderito alle sanzioni di Ue e Usa alla Russia.

In merito al “mantenimento del paradiso finanziario” per i miliardari russi informiamo che la Repubblica di San Marino è tra i firmatari della Convenzione dell’Organizzazione per la cooperazione economica e lo sviluppo e dell’Unione Europea sul reciproco sostegno amministrativo in materia fiscale, il che presuppone un immediato scambio automatico e trasparente di informazioni in campo tributario.

Ne consegue che la parte russa non dispone né può disporre di alcun canale preferenziale rispetto agli altri paesi partner di San Marino. Per quanto riguarda la nostra concreta collaborazione in campo finanziario, le questioni relative a tale argomento sono in fase di discussione tra gli enti competenti. Nel complesso riteniamo che non valga la pena di addentrarsi in teorie complottistiche che, in un modo o nell’altro, lanciano un’ombra sui rapporti russo-sammarinesi che si stanno sviluppando in maniera costruttiva e dinamica.

 

L’Ambasciata della Federazione Russa in Italia e San Marino

Ringraziamo l’Ambasciata russa per l’attenzione. Noi non abbiamo “lanciato ombre”, ma riportato interrogativi sul contenuto dei colloqui e dei documenti firmati dal ministro Lavrov e dalle autorità locali. Il sostegno di San Marino – che ha 33mila abitanti ma esprime un voto pesantissimo in tanti organismi internazionali – interessa molti stati. Magari anche la grande Russia.

Ferruccio Sansa