L’infinita Via Crucis dei supermercati: scioperi e licenziati

Pasqua e Pasquetta con le serrande abbassate in 5 Regioni d’Italia. I sindacati Filcams-Cgil, Fisascat-Cisl e Uiltucs-Uil hanno proclamato per oggi e domani un’astensione dal lavoro in Emilia Romagna, Toscana, Lazio, Puglia e Sicilia dove, con diverse modalità, sciopereranno i lavoratori del commercio (come i negozi d’abbigliamento), dei centri commerciali e dei supermercati. Ma i sindacati hanno già proclamato altri due giorni di proteste per il 25 aprile e per il primo maggio. “La festa non si vende”, “Vi romperemo le uova nel paniere”, sono alcuni degli slogan che campeggiano nei volantini preparati. Alla base delle proteste c’è “il no alla liberalizzazione selvaggia delle aperture” previste dal decreto Salva Italia del 2011. L’obiettivo, non raggiunto, del governo Monti era il rilancio di consumi e occupazione, puntando sulla massima disponibilità, senza limitazioni di orario e di giorni. “Aperture indiscriminate che però – spiega la Filcams Cgil – non hanno né aumentato i consumi né l’occupazione. Le ore di lavoro sono state spalmate sui 7 giorni, i contratti sono peggiorati, il precariato è rimasto tale e gli stati di crisi non si sono risolti”. Proteste che cercano anche di allontanare lo spauracchio della chiusura domenicale e nelle festività di negozi e centri commerciali che, comunque, resta lontano. La proposta di legge a cui ha lavorato la maggioranza gialloverde e che doveva essere approvata “entro il 2018”, si è praticamente arenata: non entrerà nel vivo prima della prossima estate con un possibile varo, se si deciderà di accelerare, solo subito dopo.

Nel frattempo la Grande distribuzione (Gdo) continua ad essere un Giano bifronte, dimostrando tutti i limiti di un modello che non riesce a coniugare profitto e diritti dei lavoratori: da un lato ci sono gli utili registrati da quasi tutti i maggiori operatori, dall’altro c’è un mercato saturo che ha perso la propria scommessa sugli ipermercati. Come emerge dall’ultima indagine di Mediobanca, infatti, nel 2017, il fatturato dei maggiori operatori (che rappresentano il 97% del mercato alimentare nazionale) ha toccato quota 83 miliardi (+4,4% annuo) e gli utili hanno superato il miliardo di euro, miglior dato dal 2014. Ma non è tutto oro quel che luccica: i margini operativi del settore sono ai minimi storici e la redditività del capitale investito è scesa. Mentre Esselunga detiene il primato quanto a utili netti cumulati nel periodo 2013-2017 con 1.245 milioni di euro, Conad raggiunge 872 milioni, l’italianissima Eurospin 817 milioni, Selex 618 milioni e Lidl con 398 milioni. Profondo rosso invece per le francesi Carrefour con meno 663 milioni e Auchan con meno 874 milioni.

Insomma, mentre i discount godono di ottima salute, in questa crisi a rimetterci sono le grandi catene. E a dimostrarlo ci sono le tante procedure di licenziamento collettivo aperte da diverse aziende che fanno parte della Gdo.

I dipendenti di Sma Simply, catena di supermercati di proprietà della francese Auchan, presente in Italia con 260 negozi e 1.260 punti vendita affiliati, temono la vendita del gruppo e hanno aderito allo sciopero proclamato dai sindacati. Da mesi si rincorrono voci di presunte e misteriose trattative con altri gruppi, Gross e Conad, per la cessione di parti o della totalità della rete vendita, “senza che la proprietà abbia mai ufficialmente smentito o confermato”, facendo vivere nell’incertezza i circa 8.700 lavoratori del gruppo. Ieri hanno incrociato le braccia per l’intera giornata i lavoratori del Veneto, della provincia di Roma, di Perugia e Piacenza.

Tira una brutta aria anche per il marchio famoso per gli iper aperti 24 ore 7 giorni su 7. La francese Carrefour, che in Italia ha circa 20mila dipendenti, a febbraio ha annunciato altri 590 esuberi. Si tratta della quarta procedura di licenziamento collettivo dal 2017 a oggi. Con fatturati e vendite in calo, questo annuncio dimostra come il modello H24 non funzioni anche se il gruppo non l’ha mai ammesso. Eppure è la crisi economica ad aver minato gli ipermercati dalla spesa grossa, con carrelli zeppi solo nel week end. Modelli che, secondo i dati elaborati da Nielsen, nel 2018 hanno perso il 3,4% di ricavi rispetto al 2017, mentre il totale delle superfici di vendita guadagnava, nel complesso, lo 0,3%, con i discount in continua crescita (+4,4%). Una formula che stanno così rivedendo un po’ tutti: Auchan, le Coop e, appunto, Carrefour che stanno abbandonando le grandi superfici per tornare ai più piccoli supermercati nel centro delle città. Il piano di investimenti di Carrefour prevede, infatti, entro il 2022, l’apertura di 300 nuovi negozi, di cui 100 a insegna Market e 200 a insegna Express, attraverso acquisizioni di piccole catene locali.

Venerdì scorso è stato, invece, il giorno dello sciopero dei 4.200 dipendenti dei 48 punti vendita del gruppo del Cash&Carry Metro Italia. In questi anni – spiegano i sindacati – Metro ha progressivamente disinvestito sui propri dipendenti, aumentando invece i lavoratori in appalto a cui non riconosce gli stessi diritti e lo stesso salario e nei mesi scorsi sono stati annunciati improvvisamente licenziamenti nei punti vendita di Mantova e Pordenone, che sono stati chiusi senza preavviso e quelli di Bari, Catania, Mestre e Verona che sempre senza preavviso sono stati ridimensionati. Eppure Metro è un’azienda in utile: lo scorso anno ha incassato 1,74 miliardi di euro, in aumento dell’1,4% rspetto all’anno precedente.

Il prefetto vieta il corteo. I camerati: “Lo faremo lo stesso”

La prefettura di Milano ha negato il permesso al corteo previsto per il 29 aprile in memoria di Sergio Ramelli, il giovane attivista del Fronte della Gioventù ucciso nel 1975 dai militanti di Avanguardia Operaia. L’ha deciso il prefetto Renato Saccone che ha invece autorizzato una manifestazione “statica” – un sit in – nei pressi di via Paladini. Dunque nessuna fiaccolata o camminata per le vie della città per i nostalgici post fascisti. Gli organizzatori però non accettano la disposizione della prefettura e promettono: “Il corteo si farà nonostante i divieti”, si legge in un comunicato dei “camerati” che hanno indetto la marcia. Uno dei loro rappresentanti, Marco Carucci, aggiunge: “ A piazzale Susa arriveranno i camerati, che abbiamo chiamato da tutta Italia, come è nostro diritto e tradizione fare, non siamo una banda di scatenati abituati a fare casino e non è nostra volontà farlo questa volta”. Contro la decisione della prefettura – e dunque a favore del corteo – anche Giorgia Meloni e il suo partito Fratelli d’Italia, che ha fatto firmare un appello ai suoi parlamentari. “Il divieto – attacca l’ex ministra – è inspiegabile”.

“La casta si sconfigge pensando solo ai pazienti”

Alle spalle oltre 7 mila interventi chirurgici in 40 anni di carriera, tra cui l’asportazione record di un tumore da 13 chili effettuata pochi anni fa. Nel curriculum più di 200 pubblicazioni a carattere scientifico. Eppure Valeria Tonini è ancora una semplice ricercatrice. Una come tanti dentro il reparto di Chirurgia d’urgenza del Policlinico Sant’Orsola di Bologna. Nessun incarico direttivo o di prestigio. Il perché l’ha spiegato nel suo primo libro, edito da Pendragon, L’iPhone di Amélie: un romanzo, che però in realtà è anche un duro atto d’accusa contro le logiche che regolano le carriere accademiche italiane.

Un’opera di pura fantasia?

Assolutamente no, in quel sistema io ci vivo da quarant’anni, la casta universitaria esiste e la mia è una critica dall’interno. La vita nei policlinici universitari in Italia è molto complicata. Sono riuscita a sopravvivere ai cambi di direzione, senza mai stare sotto il cappello di nessuna lobby o corrente ma in questo paese fai carriera solo così, se ti appoggi a un gruppo di potere. Io invece penso solo a operare. Il romanzo è ambientato a Parigi, ma le mie critiche sono ovviamente dirette all’Università italiana.

Qualche giorno fa si è dimessa la presidente dell’Umbria, Catiuscia Marini (Pd), indagata in un’inchiesta su alcuni concorsi per assunzioni, che sarebbero stati pilotati all’ospedale del capoluogo umbro. Gli atti della guardia di finanza restituiscono retroscena di un sistema che avrebbe permeato tutto il mondo della sanità regionale: lo stesso scenario de “L’iPhone di Amélie”?

Non ho seguito molto ma certamente il sistema premia le conoscenze personali, è un problema nazionale. Per entrare all’Università o per i passaggi di carriera vengono valutate il numero delle pubblicazioni e le citazioni dei propri lavori. A chi è destinato ad entrare all’Università, chi fa parte della lobby, viene messo il nome in tutti i lavori che escono da un istituto così si risolve subito il problema. Carta straccia che non leggerà nessuno. Sicuramente Einstein oggi non avrebbe l’idoneità perché privo di un numero sufficiente di pubblicazioni. In chirurgia un professore associato ordinario può insegnare, e avviene, ai giovani futuri medici senza aver mai operato un giorno della sua vita ma solo sulla base del numero delle pubblicazioni.

Quanto conta essere donna in una gara già penalizzata in partenza?

Nella mia vita ho fatto quello che volevo, ma ho dovuto sempre combattere. E combattere è faticoso. Non ero della casta, ero donna e volevo fare di più del concesso. Alla fine credo che il sistema ostacolandomi ci abbia rimesso, avrei potuto fare molto di più di quello che ho fatto. Ancora oggi per molte donne la chirurgia è un sogno irraggiungibile, pochissime quelle che la praticano lasciando i ruoli di prestigio ai maschi. Obbligo tassativo di dedicarsi a una chirurgia meno prestigiosa, come quella ambulatoriale o delle ernie. Fortunatamente in questo campo quello che si sa fare è sotto gli occhi di tutti ed è difficile occultarlo, 7mila interventi parlano da soli.

Dallo scorso febbraio ogni presentazione fa il pienone, sono in tanti ad aver vissuto sulla propria pelle il potere della casta?

Quello che descrivo nel romanzo è un sistema universitario feudale, nelle mani delle reti di potere, dei loro affiliati e dei loro gregari. Un sistema che molti conoscono bene, tanti hanno cercato di combatterlo e ne sono stati vittime.

Chi ha vinto lei o la casta?

Ho vinto io, ma la casta è ancora là.

Il reparto si divide in due per raddoppiare i primari

Una poltrona per due o meglio due poltrone per due unità operative anziché una. Non è uno scioglilingua, ma lo strano spacchettamento e depotenziamento dell’Unità operativa complessa (Uoc) di Anestesia e Rianimazione dell’ospedale Grassi di Ostia (Roma). Un caso sui generis, dal momento che, normalmente, in tutti i nosocomi italiani esiste una singola Unità operativa di questo tipo.

Insomma, un bizzarro sdoppiamento che ha portato, oltre al raddoppiamento dei costi di direzione a causa della compresenza di due primari, anche alcune conseguenze immediate. Una su tutte la fuga dei medici che in massa hanno chiesto il trasferimento: 15 anestesisti su 28, vale a dire più della metà. Uno sdoppiamento che, tuttavia, non è affatto piaciuto al sindacato di categoria che ha fatto ricorso al Tribunale del Lavoro di Roma. Mentre il consigliere regionale di Fratelli d’Italia Fabrizio Ghera ha presentato un’interrogazione indirizzata al presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti e il Movimento 5 Stelle ha depositato una mozione.

Questo originale unicum amministrativo inizia qualche anno fa quando, dopo il pensionamento dell’allora primario dell’Uoc dell’ospedale Grassi, nel 2015 viene indetto un concorso per la nuova direzione a cui partecipa, arrivando sencondo, anche il medico che nel frattempo era stato nominato come “facente funzioni” a capo dell’unità operativa complessa del Grassi.

Il vincitore del concorso è, invece, un luminare del campo: il professore Giorgio Della Rocca, pioniere dell’anestesia nella chirurgia toracica applicata al trapianto di polmone e che fu nell’equipe che realizzò il primo trapianto di polmone in Italia nel 1991.

Pochi mesi dopo l’esito del concorso, la Asl Roma 3 ha deciso però di sdoppiare la Uoc destinata a Della Rocca creando sostanzialmente due unità operative semplici: una destinata al vincitore e una al secondo classificato, il dottore Fabrizio Marra, l’ex “facente funzioni” della Unità operativa complessa.

“Una decisione apparentemente inspiegabile quella della Asl visto che dapprima si è deciso di indire una procedura concorsuale – scrive il consigliere regionale Ghera nell’interrogazione – per la copertura dell’incarico di direzione della Uoc Anestesia e Rianimazione e, successivamente, all’esito della stessa, di assumere provvedimenti di depotenziamento della Uoc, invece di conferire l’incarico, con le relative funzioni e competenze, per il quale era stata indetta la procedura originaria”.

Tecnicamente per spacchettare l’unità operativa in due è stato anche modificato l’atto aziendale con una forzatura, denuncia il sindacato. “Questo perché – spiega Ghera – il ritocco è stato fatto senza previa approvazione regionale mediante decreto del commissario ad acta”, mentre le linee di indirizzo formulate dallo stesso commissario lo prevedono.

Ma, in attesa che il Tribunale del Lavoro o la Regione valutino il curioso spacchettamento che, secondo gli addetti ai lavori sta generando solo tanta confusione organizzativa, a pagare sono i pazienti del reparto.

Fratelli d’Italia su marte

Il progressivo infascistimento di Fratelli d’Italia sta assumendo proporzioni un po’ comiche, un po’ preoccupanti. In questi giorni è diventata virale Giorgia Meloni che durante un comizio urla come un’invasata “La Capitale d’Italia è Romaaaa!”. Difficile prenderla sul serio: se voleva dimostrare di essere brava in geografia, la domanda era troppo facile. E poi è troppo impressionante la somiglianza alla scena-cult del film “Trecento” col grido di battaglia di Leonida: “Questa è Spartaaa!”. Un meme micidiale. Difficile prendere sul serio anche la candidatura di Caio Giulio Cesare Mussolini. Per carità: un profilo professionale dignitosissimo, una carriera di tutto rispetto in Finmeccanica. Però, diciamolo: scritto così, tutto insieme, il suo nome sembra un bignami dell’imperialismo coatto. Ora però alle grida di Meloni e al pronipote di Mussolini va aggiunta pure un’altra candidata del centrodestra – Maria Limardo, aspirante sindaco di Vibo Valentia – che omaggia il suddetto Caio Giulio etc. etc. con il saluto romano, in pubblico, senza alcun imbarazzo, anzi con un certo orgoglio. Ecco, Fratelli d’Italia, insomma… va bene che Salvini è di destra-destra e voi siete piccoli-piccoli e per dimostrare che esistete dovrete strillare sempre più forte. Ma forse – forse – state esagerando un pochino.

“Viva i pensionati!” La famiglia Fatuzzo ora punta l’Europa

C’è uno strillo surreale che risuona nell’aula della Camera ogni volta che l’onorevole Carlo Fatuzzo prende la parola. Che si discuta di reddito di cittadinanza o dissesto idrogeologico non fa differenza, i suoi interventi finiscono con lo stesso grido di battaglia: “Viva i pensionati! Pensionati all’attacco!”. Per quanto strambo, non si sorprende nessuno: sono tutti abituati al deputato situazionista, i suoi discorsi sono diventati un rituale collettivo. Quando parla Fatuzzo se la ridono tutti, specie il presidente Roberto Fico. Ma intanto – attacco dopo attacco, legislatura dopo legislatura – Carlo Fatuzzo seppellisce tutti: il Partito Pensionati è diventato il più antico d’Italia.

Carlo ha la fulminante intuizione nel 1987. Genovese, classe 1944, diploma di ragioniere e perito commerciale, di mestiere radiotelegrafista. Alla tenera età di 43 anni decide di puntare su una specifica nicchia elettorale della senescente società italiana: i pensionati. È l’inizio di una storia a suo modo indimenticabile. Il ragioniere ha un piccolo ma preziosissimo seguito, soprattutto al Nord, che nel 1999 gli permette il grande salto: le 230.729 preferenze dei Pensionati alle elezioni europee gli valgono un seggio a Strasburgo.

Fatuzzo ha vinto la lotteria. Il valore del montepremi lo calcolano Rizzo e Stella ne La Casta: a fronte di un investimento di 16.435 euro per la campagna elettorale, lui e il suo partito ottengono un rimborso vicino ai 3 milioni; 180 volte il valore della cifra stanziata. Il Partito pensionati è una piccola ma fruttuosa azienda politica.

La gestione è rigorosamente familiare. Il comando, come nelle migliori tradizioni, passa direttamente dal capostipite agli eredi. Così la giovane Elisabetta, figlia di Carlo, viene imbarcata nell’impresa sin dal principio: a 20 anni è già dirigente dei pensionati.

Anche la sua carriera è generosa: nel 1990 è eletta contemporaneamente consigliere comunale a Bergamo e consigliere regionale in Liguria. Le due cariche – incredibile a dirsi – non sono incompatibili: lo Stato pare riconoscerle il dono dell’ubiquità. Nel 2005 poi Fatuzzo jr approda in consiglio regionale in Lombardia, dove rimane per due consiliature. E inciampa nell’inchiesta sulle spese pazze del Pirellone, la stessa che coinvolge (tra gli altri) il Trota Renzo Bossi, Nicole Minetti e il capogruppo leghista Massimiliano Romeo.

I consiglieri – ricorderete – con i fondi pubblici si concedevano un po’ di tutto: cene, pranzi, latticini, stuzzicadenti, degustazioni, viaggi. La Fatuzzo è nel mucchione dei condannati: 1 anni e 10 mesi in primo grado. Minuzie: la nostra è ancora in sella, Forza Italia l’ha candidata per le Europee di fine maggio; Silvio Berlusconi non si è dimenticato di lei.

Come potrebbe? Il rapporto tra l’ex Cavaliere e papà Carlo è intenso. Fatuzzo e i suoi pensionati sono una storica (piccola) stampella del centrodestra. Con una drammatica eccezione: il tradimento del 2006. Fatuzzo senior si incontra con Romano Prodi a Bologna e stringe un accordo elettorale: il suo piccolo popolo grigio si consegna all’Unione e al centrosinistra. L’esito è clamoroso: Fatuzzo regala a Prodi 200mila voti, non viene eletto ma risulta decisivo per la vittoria del professore. Che non lo ricompensa: nemmeno una misera poltrona da sottosegretario. Berlusconi però è magnanimo: una tiratina d’orecchie (“Ma ti rendi conto che hai consegnato l’Italia ai comunisti?”) e subito il perdono. Dal 2008 i Pensionati tornano nel centrodestra. Il frutto più dolce lo raccoglie 10 anni dopo: il 4 marzo 2018, dopo varie legislature comunali, regionali ed europee, The Fatuzzos approdano in Parlamento; Carlo è eletto da indipendente nelle liste di Forza Italia.

Da quel giorno è uno show continuo. Fatuzzo è incontenibile. Un incubo per i commessi di Montecitorio che talvolta devono inseguirlo e sequestragli le bandiere del Partito Pensionati che introduce di nascosto (e sventola durante le discussioni più calde).

Un’incognita per chi presiede l’aula, per i suoi interventi verbosi e spesso avulsi dal dibattito. Ma pure uno spasso, più o meno volontario. Come quando in un momento di sincerità Fatuzzo commenta con terrore la legge sul voto di scambio politico-mafioso: “Con questa riforma dovremo spostare il Parlamento dentro una galera”. O quando saluta i colleghi prima delle ferie: “Con grande simpatia mi permetto di utilizzare questi 60 secondi per augurare a tutti la buona Pasqua, a tutti i colleghi indistintamente di qualunque gruppo politico siano; e a tutti i Pasquali, come il mio collega al mio fianco Pasquale Cannatelli, e a tutti i Pasquali d’Italia. E soprattutto a tutti i pensionati, qualunque nome abbiano, una Buona Pasqua. Viva i pensionati! Pensionati, all’attacco”.

Parigi, Ingroia fermato in areoporto in “stato di ebbrezza”

L’ex pubblico ministero di Parlermo Antonio Ingroia è stato fermato ieri all’aeroporto parigino di Roissy mentre si stava imbarcando su un volo per l’Italia perché “visibilmente in stato di ebbrezza” come rivelato dal sito di “Repubblica”, secondo cui “Ingroia è stato così costretto a tornare indietro”. L’articolo cita fonti aeroportuali, secondo le quali il rifiuto di imbarco non avrebbe provocato alcuna forma di resistenza da parte di Ingroia. L’ex magistrato, che oggi pratica la professione di avvocato, sarebbe stato accompagnato in una zona dell’areoporto non lontana dai gate. Il consolato italiano è stato avvertito della situazione, ma qualche ora più tardi a Ingroia è stato fatto permesso di partire, una volta tornato nelle condizioni per prendere l’aereo e viaggiare in Italia. Il nome di Antonio Ingroia è legato all’indagine della procura di Palermo sulla trattativa tra Stato e Mafia. Nel 2013 il magistrato ha tentato l’avventura politica alla guida di Rivoluzione Civile, ma la sua lista non ha superato la soglia di sbarramento per l’accesso in Parlamento.

La Procura: nessun reato dalla Raggi. I sindacati infastiditi: “Mobilitazione”

Mentre va avanti l’inchiesta sul bilancio dell’Ama scendono in campo i sindacati lanciando l’allarme per una crisi rifiuti a maggio.

Per quanto riguarda l’inchiesta sui conti Amae sulle conversazioni “rubate” alla Raggi dall’ex ad Bagnacani, secondo una ricostruzione Ansa, la Procura “non sarebbe interessata ad attivare ulteriori verifiche non ravvisando, per ora, estremi di reato”. Un passaggio che, se confermato, toglierebbe una parte della pressione che si addensa sulla prima cittadina della Capitale. Pressione che ieri è stata rafforzata dalla doppia intervista concessa dall’ex assessora all’Ambiente, Pinuccia Montanari, a Repubblica e La Stampa, in cui ha accusato Raggi di “gestione opaca” e di voler “privatizzare l’Ama”, motivo per cui sarebbe stato richiesto a Bagnacani di chiudere in rosso il bilancio. Le risponde, sia pure indirettamente, l’assessore al Bilancio Lemmetti, sul Messaggero: Bagnacani “è stato allontanato perché non era in grado di gestire l’azienda, con performance insufficienti”.

In questo contesto si inserisce la posizione dei sindacati: “La situazione sul fronte della raccolta rifiuti a Roma per Pasqua e Pasquetta non si prospetta più critica delle precedenti festività. C’è invece grande preoccupazione per quello che potrà accadere dal 25 aprile e quindi nel mese di maggio, un mese con alta produzione di rifiuti anche per il maggiore turismo, in quanto gli impianti privati che trattano parte dei rifiuti di Roma andranno in manutenzione accogliendone di meno e Ama non ha ancora una soluzione alternativa definita”, afferma il segretario FpCgil di Roma e Lazio, Natale Di Cola: “Nei prossimi giorni proveremo nuovamente ad aprire un dialogo con amministrazione e Ama, ma è sempre più probabile la ripresa della mobilitazione per salvare l’azienda”.

Sul contenzioso pesa anche la reazione sindacale rispetto a quanto detto da Raggi a Bagnacani e diffuso dalle registrazioni pubblicate da l’Espresso. “È inspiegabile che il primo cittadino di Roma scarichi sulle spalle di sindacati e lavoratori la responsabilità di una situazione di stallo e troviamo offensivo che la Sindaca sostenga che il bilancio in attivo serviva a permettere il pagamento del salario di produttività di dirigenti e lavoratori”, avevano sostenuto i tre segretari generali di Fp Cgil, Fit Cisl e Fiadel Roma e Lazio, commentando gli audio di Virginia Raggi. Ora, la minaccia di mobilitazione, dopo mesi di silenzio.

Il re delle discariche batte cassa: vuole 900 milioni da Ama

Manlio Cerroni, patron della discarica di Malagrotta, spera che giustizia sia fatta. E che la Cassazione faccia ottenere alle sua aziende, oggi in amministrazione giudiziaria, ben 900 milioni dall’Ama, la municipalizzata capitolina dei rifiuti. Il ricorso alla Suprema Corte, depositato qualche settimana fa dagli avvocati di Cerroni, punta ad annullare la sentenza con cui a luglio la Corte di Appello di Roma ha deciso che nemmeno un euro era dovuto all’anziano imprenditore a titolo di risarcimento del danno per un impianto di smaltimento che ha realizzato all’interno dell’area che ospita anche la più grande discarica d’Europa. L’epilogo di questo ricorso tiene tutti con il fiato sospeso: l’Ama sul cui futuro è ancora buio pesto, il sindaco Virginia Raggi che sulla monnezza rischia l’osso del collo. E ovviamente Cerroniche spera di tornare agli antichi fasti di quando era ossequiato dal titolo di ottavo re di Roma. Ovviamente inchieste giudiziarie permettendo.

La controversia legale che decideranno definitivamente i giudici di Piazza Cavour va avanti da anni tra arbitrati, ricche consulenze e soprattutto molte carte bollate: la Colari di Cerroni ha finora chiesto inutilmente di essere rifusa per gli intoppi legati alla costruzione del gassificatore di Malagrotta (164,6 milioni di euro) e per la perdita dei benefici del Cip6, il sistema congegnato nel 1992 per incentivare la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili o assimilate (400 milioni). Ma pure per il mancato trattamento del combustibile da rifiuto nell’impianto (284,7 milioni) e per una serie di altre spese sostenute a vario titolo, oltre che per danni all’immagine, questi ultimi quantificati in 5 milioncini.

Tirando le somme si fa presto ad arrivare alla cifra monstre di quasi un miliardo tra danno emergente e lucro cessante. “L’Ama si è ovviamente costituita in giudizio per ribadire che nulla è dovuto” conferma al Fatto l’avvocato Gianluigi Pellegrino. Che dopo il primo grado e l’appello punta a vincere pure in Cassazione. Dove pende però anche la decisione su un’altra partita multimilionaria che non ha a che fare solo con i conti di Ama e con i rapporti tra l’amministrazione comunale e regionale e l’ex monopolista dei rifiuti. Qui si tratta della bonifica di Malagrotta che è questione nazionale non fosse che per procedure di infrazione minacciate dall’Unione europea.

La municipalizzata romana è stata condannata a versare sempre a una società di Cerroni circa 90 milioni di euro per i maggiori costi del servizio post mortem della discarica di Malagrotta. Ora però, prima che la Cassazione decida se il ristoro sia davvero dovuto, dovrà pronunciarsi la Corte di Giustizia. Che sarà chiamata a stabilire se gli obblighi ambientali che gravano per 30 anni sui gestori delle discariche ormai esaurite, valgono anche per quelli di Malagrotta oppure no. È una questione più semplice di quel che si crede: in soldoni se l’Europa dirà che il post mortem trentennale riguarda solo gli impianti aperti dopo la direttiva europea che lo ha previsto, l’Ama non dovrà corrispondere un centesimo in più di quanto pattuito già con Cerroni. Bene? Non proprio, perché quei soldi, oggetto pure questi di un lungo arbitrato, almeno a sentire l’amministratore giudiziario di Malagrotta Luigi Palumbo servono come il pane per la bonifica ora che la discarica che ha fatto la fortuna di Cerroni ha smesso di inghiottire rifiuti. Più d’uno dopo queste dichiarazioni si è chiesto se le garanzie prescritte dalla legge siano state appostate per tempo. Altrimenti chi paga?

Sgarbi ancora condannato: diffamò Nichi Vendola

Vittorio Sgarbi condannato in Cassazione per diffamazione dovrà risarcire l’ex presidente della Regione Puglia Nichi Vendola. La notizia è stata diffusa dai legali di Vendola con una nota: “La Cassazione ha confermato la sentenza della Corte di Appello di Bari del marzo 2018 che ha riconosciuto un danno nei confronti dell’ex governatore pugliese provocato durante la trasmissione tv, nella quale Sgarbi e il giornalista Vulpio usarono toni e contenuti diffamatori, associando la politica green della regione Puglia – conclude la nota – ad episodi di illegalità che circondano la materia delle energie alternative”. La trasmissione era “Ci tocca anche Sgarbi” andata in onda il 18 maggio 2011 su Rai1. In primo grado, nel novembre 2015, Sgarbi fu assolto al termine di un processo celebrato con il rito abbreviato “perché il fatto non sussiste”. La sentenza di assoluzione dal reato di diffamazione aggravata fu impugnata dalla sola parte civile, per Nichi Vendola. I giudici in Appello e ora in Cassazione non si sono pronunciati sulla responsabilità penale ma soltanto sulla sussistenza di un danno, che è stato riconosciuto e dovrà essere quantificato in sede civile.