Quel “Mysterium” assoluto di Nino Rota

Ho promesso un secondo articolo dedicato a Nino Rota in occasione dei quarant’anni che ci ha lasciato. Il primo era dedicato al grande compositore per film e alla sua simbiosi con Fellini. Adesso debbo parlare del compositore “assoluto”.

Il suo catalogo è immenso perché egli era tanto portato alla musica da non poter stare senza comporre; e la sua dottrina era pari al suo genio. Il lato brillante era in lui pur presente: ha scritto una deliziosa Operetta, Il cappello di paglia di Firenze. Ma soprattutto musica sinfonica, della quale un Balletto di surrealismo metafisico concepito per Maurice Béjart, Le Molière imaginaire, che tuttora lascia attoniti per il senso della pura bellezza.

La sua cultura fuor della musica: aveva del mondo classico, quindi del Latino e del Greco, una conoscenza da filologo: e il suo sodalizio col poeta Vinci Verginelli sulla comune passione greco-latina si basava. Verginelli gli stese il testo de La vita di Maria, un Oratorio battezzato nel settembre 1970: ero presente alla prima esecuzione, diretta dall’Autore. Nel 1962 era nato un altro “Oratorio”, pel quale Verginelli aveva scelto testi scritturali, intitolato Mysterium. Opera ferrigna e severa, nella quale mai riconosceresti la mano del grottesco fratello di Fellini.

Ho perplessità sull’attribuzione del Mysterium al “genere” dell’Oratorio. Gli storici della musica per “Oratorio” intendono solitamente un’Azione la quale, a differenza di quelle del teatro musicale, non venga rappresentata e venga proiettata su di un teatro ideale. Così il Mysterium, nel quale narrazione non v’è ma solo contemplazione di verità di fede e del messaggio evangelico, è piuttosto ascrivibile alla forma della Cantata.

La distinzione conta meno del giudizio estetico su questo capolavoro. Suddiviso in sette parti e facente spazio anche al coro infantile al quale la chiusa estatica è affidata, esso s’apre sulla cupa terribilità dell’annuncio “In principio erat Verbum” sottolineato da “ostinati” orchestrali e figure a ritmo puntato. Su “Et ego resuscitabo eum in novissimo die”, fanfare appaiono una citazione del Requiem di Berlioz.

Il modello del Mysterium sembra essere la Sinfonia di Salmi di Stravinskij, una delle più belle opere del Maestro russo; Rota se ne discosta per il suo fare spazio al quartetto vocale e per una ricerca ritmica che rende difficoltosa l’esecuzione della partitura. Vi sono sezioni nelle quali a ogni battuta l’indicazione di tempo muta e i ritmi asimmetrici abbondano. In più, il Mysterium è radicato in una dottrina contrappuntistica altissima, celata dietro l’eloquio evangelico percepibile.

L’orchestrazione era un altro dei doni posseduti dal compositore; sicché la vasta orchestra con i legni a tre produce sonorità magmatiche rinserrate nel grave e altre eteree alle quali apporta colore chiaro l’arpa. Il “Veni sancte Spiritus” finale si chiude sopra una lievissima dissonanza. Nel Novecento, metterei accanto al Mysterium solo i Salmi di Florent Schmitt e Albert Roussel.

Amici, incontri e cattiverie: l’arte in ventisei ritratti

Fortunato è il caso, come questo, in cui la copertina di un libro ne racconti compiutamente il senso. Tenendo in mano Interviste sull’arte di Robert Storr (Il Saggiatore, a cura di Francesca Pietropaolo, pp. 416, euro 38), osserviamo l’immagine del citofono di un palazzo in cui a ognuno dei 26 interni raffigurati corrisponde il nome di un artista: Letizia Battaglia, Louise Bourgeois, Richard Buckminster Fuller, Francesco Clemente, Alex Kats, Ellsworth Kelly, Jeff Koons, Paul McCarthy, Gerhard Richter (tra gli altri).

Cosa sia l’arte, quali siano i meccanismi istintuali che la muovano, è una domanda che non ha mai una risposta sola, ma sempre una risposta molteplice. Pertanto, l’idea di un condominio di più voci, di più ricordi (che molto cita la metafora di Sant’Agostino di un palazzo della memoria), calza perfettamente con il tono di queste interviste – intime, autentiche, riflessive – in cui gli artisti ascoltati non vogliono certo definire l’arte dentro l’etichetta del linguaggio, quanto piuttosto regalare l’inedita esperienza della chiamata all’arte, dello schianto che si prova quando si capisce di essere artisti.

Per la fotografa Letizia Battaglia (1935), tutto nasce dall’amore per la città di Palermo: mentre ricorda gli anni da fotoreporter per il quotidiano palermitano L’Ora, ammette “non me ne fregava in realtà molto di essere [una fotografa]. A me interessava Palermo”; così come per il collettivo Alterazioni Video, il progetto artistico Incompiuto Siciliano (2007) – che racconta “parcheggi senza uscite, dighe senz’acqua, stadi di polo senza cavalli e così via” – è un modo per “cambiare la percezione degli edifici incompiuti in Italia nati dalla speculazione degli ultimi trent’anni”. Ugualmente “politico” è l’istinto di Jeff Koons (1955), che racconta le lotte e la rabbia sociali con l’arte che però, precisa, “non può stringere alcun tipo di alleanza politica, se non con se stessa”. Ma le ragioni possono essere meno collettive e più intime, senza perdere il loro carattere universale. Se per la scultrice Louise Bourgeois (1911-2010) modellare la materia equivale a curare le ferite del rapporto con la madre, l’essere stato un bambino presbite e strabico agli inizi del ’900 – quando l’ottica non era una scienza così avanzata – insegna a Richard Buckminster Fuller (1895-1983) che “ci sono modi diversi di vedere le cose”: inventore, architetto, designer, costruì la sua prima casa (“una casetta graziosa in mezzo al bosco, ancora in piedi” racconta) per sfuggire ai cugini più grandi che lo bullizzavano.

Se la sincerità è tale, è perché nelle interviste di Robert Storr non c’è scampo: lui pone “domande reali” e vuole sapere “cosa pensano e come pensano”. E proprio come in un condominio, non stupirà captare nel libro antipatie e pettegolezzi: Koons non vuole “banalizzare” il proprio lavoro, serializzando con multipli a basso costo come Keith Haring, e sempre lui limita Andy Warhol a sostegno della grandezza di Marcel Duchamp. Per il pittore Gerhard Richter (1932), l’arte del suo connazionale Beuys è “un mezzo falso, quasi una truffa” e le sue idee sociali “assolutamente stupide”. Louise Bourgeois, invece, ricorda le difficoltà con un André Breton “geloso e possessivo”, Le Corbusier “patetico” come figura paterna per i giovani, e Peggy Guggenheim “una donna contro le donne”. Mentre Alex Katz (1927) odia i biopic sentimentali dedicati ai pittori e Paul McCarthy (1945) iniziò a dipingere col pene per “prendere in giro la New York School e l’idea di espressionismo”.

Ma nel riavvolgere senza rete di protezione la propria vita dedicata all’arte, c’è spazio anche per i maestri. Per Katz, è il compositore John Cage, un uomo “sempre aperto”, come pure per l’artista visual russa Olga Chernysheva (1962) che pone Cage, “il più internazionale per mentalità e influenza di tutti gli artisti americani del XX secolo”, accanto al regista russo Sergei Eisenstein; il pittore e scultore Ellsworth Kelly (1923-2015) confessa: “Picasso mi faceva venire voglia di dipingere”. Un tratto emerge, dunque, comune: che sia con un maestro amico o con un nemico, è l’incontro (con il mondo o con sé) il motore primo dell’arte, un incontro – come dice Letizia Battaglia – “o con la morte o con la vita”.

Stanlio e Ollio: uno lavorava, l’altro si dava da fare col golf

Arriva in sala il 1º maggio “Stanlio e Ollio”, il film con Steve Coogan e John C. Reilly che ripercorre una parte della storia del duo. Cos’erano loro realmente lo ha raccontato il collega Dick Van Dyke nell’elogio funebre per Stan Laurel, nel febbraio 1965. Il testo è riportato in “Mr Laurel & Mr Hardy” di John McCabe edito in Italia da Sagoma (www.libridivertenti.it).

 

Trent’anni fa, quando nella mia città natale, in Illinois, arrivava il nuovo film di Stanlio e Ollio, lo andavo a vedere alle proiezioni del sabato mattina; vale a dire dalle undici del mattino fino a, forse, le nove o le dieci di sera, o comunque fino all’ora in cui mia madre o mio padre venivano per riportarmi a casa. […] L’influenza che ha avuto Stan su di me mi ha spinto per prima cosa a entrare nel mondo dello spettacolo e la sua influenza ha formato il mio punto di vista, il mio modo di pormi verso la comicità. […]

Quando Stan ci ha lasciato, la sua piccola scrivania è rimasta stracolma di lettere scritte da fan che lo inondavano di corrispondenza da tutte le parti del mondo; questo avveniva regolarmente nei suoi ultimi anni; restava seduto là, a quella piccola macchina per scrivere portatile, a rispondere a ognuna di esse, personalmente, e certamente aveva accumulato degli arretrati; ma anche se era indietro di mesi e mesi nelle risposte, non si è mai fermato. […] Alle ore piccole di una delle sue ultime mattine sulla terra, un’infermiera entrò nella camera di Stan per una terapia d’urgenza. Stan la guardò e le disse: “Sa cosa? Preferirei essere a sciare”. L’infermiera rispose: “Le piace sciare, Signor Laurel?” e lui: “Lo detesto! Ma meglio sciare piuttosto che stare qui!” Stan una volta raccontò che Chaplin e Lloyd avevano girato dei film importanti mentre lui e Babe (uno dei soprannomi di Oliver Hardy, ndr) avevano realizzato solo dei piccoli film poco costosi. “Ma mi hanno detto”, continuava, “che i nostri piccoli film sono stati visti da molte più persone negli anni rispetto a quelli importanti. La gente si deve essere accorta di quanto amore ci mettevamo nel farli”. E questo è ciò che pone Stan Laurel una spanna sopra tutti gli altri, sia come artista che come uomo. Mise nel suo lavoro un ingrediente speciale. È stato un maestro della comicità e un grande artista, ma è stato anche in grado di usare quell’ingrediente che è parte solo dell’essere umano, che è l’amore. L’amore per il proprio lavoro, l’amore per la vita, l’amore per il suo pubblico. Eccome se amava quel pubblico: non è mai stato ignorante o stupido, per Stan Laurel. […] Stan non fu mai elogiato per la sua arte perché si preoccupò troppo di nasconderla: celava le ore di duro lavoro creativo che aveva messo nei suoi film. Non voleva che voi vedeste le sue abilità: voleva soltanto farvi ridere, e voi avete riso! Non sareste mai riusciti a farlo pontificare sulla comicità. […] Se doveva capitare qualcosa di brutto in un film di Stanlio e Ollio, Stan lo riservava al personaggio di Stanlio. Stan era il creativo della coppia, e questo Babe lo apprezzava moltissimo. Quest’ultimo passava il tempo libero sui campi da golf. Era un uomo gioviale, disinvolto, estroverso, e a Ollie piaceva che le cose stessero così. Stan si sentiva realizzato nelle ore in più che passava allo Studio, adorava lavorare su nuove gag o su nuove idee comiche. La comicità era la sua vita. Quando qualcuno gli chiedeva dei progetti futuri, Ollie aveva una risposta ricorrente: “Chiedete a Stan”. […] Una volta ho provato a fare l’imitazione di Stanlio nel mio show televisivo e sono stato meticolosamente attento a cercare il cappello giusto, i vestiti adatti e a fare in modo che tutto fosse al posto giusto. Siamo andati in onda e, tutto eccitato, dopo la trasmissione l’ho chiamato e gli ho chiesto “che ne pensi?”. Ha risposto “Andava bene, Dicky, ma…” …per i successivi quaranta minuti mi ha elencato dettagliatamente tutto ciò in cui avevo sbagliato. Era un perfezionista. Alla fine ha salutato con il suo “Che dio ti benedica” e ha chiuso. Avrei voluto avere una registrazione di quella telefonata: mi ha insegnato più cose in quell’occasione sul mio lavoro, o sull’importanza dell’essere umano di essere in grado di ridere di se stesso, di quanto io non abbia mai imparato in tutta la mia vita.

Un uomo come Stan Laurel ha insegnato a milioni e milioni di persone a ridere di se stessi. […] Tre generazioni di persone hanno trovato la sua comicità ugualmente umana, calorosa e divertente attraverso i suoi film, di cui in realtà non è mai stato proprietario, e forse accadrà anche alle future generazioni; ma uno come lui non ci sarà mai più e il mondo sembra essersene accorto. […] Ci sono strani posti dove sono andati Stan e Ollie – non si sono mai presi in verità lunghi periodi di vacanza – ma una volta fecero un viaggio da turisti e andarono in Cina. Erano nella più lontana, recondita parte della profonda Cina e, da forestieri, visitarono un tempio Buddista. Furono invitati a entrare e a guardare l’altare, e proprio là ci ritrovarono una gigantografia enorme, stampata addirittura a colori, di Ollie e Stan. Una volta si trovavano in Inghilterra – in tournée – e si meravigliarono del fatto che, ovunque andassero, venivano seguiti da folle di persone. Non avevano ancora capito quanto fossero amati dalla gente. Un giorno, erano in incognito a Cobh, in Irlanda, per riposarsi un po’, e all’improvviso sentirono le campane della chiesa di quel paese che cominciavano a suonare… Era la “Danza dei Cuculi”. Stan ha dichiarato: “Ci siamo commossi fino alle lacrime quella volta, perché abbiamo sentito quanto amore proveniva dalle persone”. […] Stan e Ollie ora non ci sono più e io riesco a percepire il suono delle risate divine che provengono dai corridoi del Paradiso allo scorgere della coppia.

Vorrei augurare a Stan quel che augurava sempre a tutti noi quando ci salutava: “Che Dio ti benedica”.

Pasqua e le confraternite d’Italia: in alcune città non c’è famiglia senza un confratello

La Settimana Santa è una delle ricorrenze dell’Anno Liturgico più sentite in regioni del Centro e Sud Italia come la Puglia, la Campania, la Sicilia. L’apice delle celebrazioni religiose si ha nel corso del Venerdì Santo, con la processione dei Misteri.
In Puglia per esempio (il reportage che pubblichiamo in queste pagine è ambientato proprio in questa regione), la Settimana Santa è nota per la presenza molto attiva delle confraternite laicali.
Tra queste, vi sono confraternite molto numerose, alcune delle quali arrivano a contare anche un migliaio e più di iscritti, come l’Arciconfraternita del Carmine e la Confraternita dell’Addolorata a Taranto. Quasi sempre le confraternite più numerose, e più antiche, sono proprio quelle legate alla Settimana Santa. Alcune sono state fondate addirittura nella metà del XIII secolo, molto prima quindi della Controriforma seguita al Concilio di Trento che mise al bando le “sacre rappresentazioni”, manifestazioni di devozione popolare chiamate “Misteri” consistenti nella recitazione, in forma di quadri teatrali in movimento, dei testi evangelici durante la Settimana Santa. Le “sacre rappresentazioni” furono quindi sostituite dalle processioni organizzate dalle confraternite
in cui i “Misteri” erano però non più persone nel ruolo di attori, ma statue raffiguranti Gesù Cristo, la Madonna Addolorata e i vari personaggi della Passione.

il sud dei “misteri”: riti e processioni del venerdì santo

A piedi nudi, in un tempo senza tempo che inizia nel Sedicesimo secolo, laddove gli spagnoli lasciarono il segno della loro dominazione. A piedi nudi e con un cappuccio che fa vedere pochissimo. Due forellini quasi invisibili anziché due buchi. Sono i perdùne ed escono in coppia, a due a due

A Taranto sono le tre del pomeriggio di Giovedì Santo, caduto quest’anno il 18 aprile. È il primo, solenne atto della Settimana Santa nella città dei due mari e dell’Ilva.

Il Giovedì Santo è il giorno dell’Ultima Cena, quando Gesù non solo istituì l’Eucaristia, ma lavò anche i piedi agli apostoli. Pietro: “Non mi laverai mai i piedi”. Gesù: “Se non ti laverò, non avrai parte con me”. Sono le ore che a Gerusalemme precedono il tradimento di Giuda, l’arresto nell’Orto degli Ulivi, il processo, la flagellazione, la crocifissione. È il racconto evangelico della Passione e della Morte di Cristo.

Questi passi dettano l’ordine di sfilata delle processioni della Settimana Santa. In Spagna le più note sono quelle di Siviglia e di tutta l’Andalusia. In Italia ci sono la Puglia, la Sicilia, la Campania, l’Abruzzo e non solo. Tra fiaccole e lampioni, gli incappucciati rappresentano ogni singolo momento di questo racconto. Ci sono i dadi con cui i soldati romani si giocarono le sue vesti. I flagelli che lo torturarono. La statua o il “mistero” dell’Ecce Homo, dalle parole di Ponzio Pilato quando se lo trovò dinnanzi. Ecco l’Uomo. Per taluni è solo folklore o fanatismo, inquinato talvolta dalla presenza delle mafie. In realtà, la penisola italica è la patria dell’antropologia religiosa grazie allo storico e filosofo Ernesto de Martino, perlopiù dimenticato nel nostro paese, ma che ancora viene studiato in convegni e seminari in tutta Europa.

Il fine ultimo: espiare i peccati Il rituale della processione

I perdùne sono bianchi e cercano il perdono con la penitenza. Indossano il sacco della loro confraternita, quella del Carmine, e una mantellina chiamata “mozzetta”. Indi il cappuccio e il classico cappello nero. Il rito della loro vestizione è complesso e prevede una serie accurata di dettagli, dallo scapolare scuro alla mazza a bordone infine al nastro azzurro del cappello.

La coppia di perdùne forma una “posta”. La prima esce alle tre, l’ultima quando è già a notte fonda. È il pellegrinaggio ai sepolcri, diviso in due percorsi: uno per la città nuova, l’altro per la vecchia, cioè l’isola dopo il ponte. A piedi nudi sull’asfalto, nazzicando. I perdùne non camminano, ma si dondolano. Nazzicare, appunto. Un passo lentissimo che dilata la stanchezza della loro penitenza.

A Taranto, il pellegrinaggio dei perdùne è diretto ai sepolcri. Un nome popolare che spesso trae in inganno. I sepolcri infatti non indicano la deposizione di Cristo morto. La loro esatta definizione liturgica è quella di altari della reposizione, cioè del tabernacolo che accoglie l’Eucaristia appena istituita durante la l’Ultima Cena. “Questo è il mio corpo, prendete e mangiatene tutti. Fate questo in memoria di me”.

Nella notte che precede il Venerdì Santo c’è poi la Madre che cerca il Figlio. È la notte dell’Addolorata, che gira per le strade portata dai fratelli. Quest’anno a Taranto l’assegnazione delle “sdanghe” (le lunghe assi di legno nero che sorreggono la base e il simulacro della Vergine) è stata battuta alla cifra record di 111 mila euro. L’asta si è tenuta, secondo la tradizione, nella Domenica delle Palme, che apre la Settimana Santa. In pratica, il gruppo di portatori si è aggiudicato con questi soldi l’onore di caricarsi sulle spalle la Madonna vestita già a lutto. La processione esce dalla chiesa di San Domenico, organizzata da un’altra confraternita, e dura fino al pomeriggio del venerdì. Quasi quindici ore. Il corteo è aperto dal troccolante, che annuncia il passaggio degli incappucciati. La troccola è una tavoletta di legno con borchie e maniglie: quando viene agitata produce un rumore forte e inconfondibile. All’asta è stata battuta per 22 mila e 800 euro.

Dalla Puglia alla Sicilia, passando dalla Campania, nelle processioni della notte non c’è solo la troccola a squarciare il silenzio di città e paesini. Cori e bande spesso accompagnano gli incappucciati. Le bande intonano marce funebri e la più suonata nell’intero Mezzogiorno è quella del compositore siciliano Amedeo Vella, che a undici anni scrisse Una lagrima sulla tomba di mia madre per la morte della mamma. I cori sono invece formati da uomini e anche donne con l’abito della confraternita. Quello più noto canta il Miserere in latino, ossia il salmo di Davide che invoca misericordia per il suo peccato: ha fatto ammazzare in battaglia il fedele Uria per potere giacere con Betsabea, la moglie del soldato. Dopo il perdono, i due, Davide e Betsabea, avranno un figlio: Salomone. “Miserere mei Deus secundum magnam misericordiam”. Pietà di me o Dio, secondo la tua grande misericordia. Il Miserere ha varie versioni. C’è il Miserere gregoriano, quello dal Trovatore di Verdi e quello dell’abruzzese Saverio Selecchy.

L’obiettivo: il riconoscimento Unesco “patrimoni intangibili”

La sera del Venerdì Santo è l’acme della Passione e Morte di Cristo A Taranto ritornano i confratelli del Carmine, quelli dei perdùne. Ma non ci sono solo le poste degli incappucciati che camminano a due a due, le cosiddette “poste”. Apre la troccola, poi la banda, il gonfalone della confraternita, la croce dei misteri e quindi la teoria delle otto statue che fanno rivivere quel dramma di duemila anni fa, dall’Orto degli Ulivi fino al Golgota, la collina della crocifissione. C’è il Cristo legato alla colonna per essere flagellato. C’è il Cristo che cade durante la via della croce, “la cascata”. E poi la statua di Gesù morto, seguita dall’Addolorata. Anche le statue vengono “dondolate” e la processione si chiuderà solo stamattina, nel sabato che precede la Pasqua di Resurrezione. È l’ultimo atto dell’intensa Settimana Santa tarantina. Il troccolante avanza verso il portone della chiesa del Carmine. Il suo nazzicare è ancora più estenuante, nonostante la stanchezza. Sembra quasi immobile. Invece raggiunge il portone, alza la mazza e scuote i pesanti portali di legno. La chiesa si apre e la processione si ritira. Tutto è compiuto.

L’Unesco da anni considera le manifestazioni popolari nell’elenco della cultura. La lista dei “Patrimoni culturali intangibili”, creata dall’Unesco nel 2008, ha incluso fino a oggi un centinaio di tradizioni in tutto il mondo, per “aiutare a dimostrare le diversità e aumentare la consapevolezza della sua importanza”, come si legge nelle motivazioni di questi riconoscimenti. Tra le ultime manifestazioni antiche italiane che, per la loro bellezza e per la grande partecipazione di fedeli, meritano di essere tutelate: la Macchina di Santa Rosa di Viterbo, la Festa dei Gigli di Nola nel Napoletano, quella dei Candelieri di Sassari e la Varia di Palmi nel Reggino. Si va dal pellegrinaggio annuale al mausoleo di Sid Abd el-Qader Ben Mohammed in Algeria alle tessere Jamdani del Bangladesh, dalla musica indiana Sankirtana del popolo Vaishnava alla pesca belga dei gamberetti a cavallo. Il riconoscimento dei riti della Settimana Santa come patrimonio culturale immateriale dell’umanità Unesco resta ancora un obiettivo. E sono almeno 28 le città – coinvolte regioni dall’Umbria alla Sardegna, passando per la Puglia e la Calabria – che hanno sottoscritto un protocollo d’intesa proprio per questo, l’anno scorso.

In Puglia la Settimana Santa ferma il tempo in molte paesi, soprattutto in provincia di Taranto e Brindisi. A Grottaglie, a Castellaneta, a Ginosa, a Palagianello. A Francavilla Fontana, la processione del Venerdì Santo è curata dall’Arconfraternita della Morte e Orazione. Gli incappucciati sono neri e la loro compagnia ha una congregazione madre che si trova a Roma, in via Giulia.

Le confraternite della Morte e Orazione esistono in tanti centri italiani. Nella Capitale la fondazione avvenne nel Medioevo. Dal primo statuto: “Nell’anno del Signore 1538, alcuni devoti Christiani, vedendo che molti poveri, li quali o per la loro povertà, overo per la lontananza del luogo dove morivano, il più delle volte non erano sepolti in luogo sacro, overo restavano senza sepoltura, e forse cibi di animali, mossi da zelo di carità e pietà, instituirno in Roma una Compagnia sotto il titolo della Morte”.

Cinque secoli dopo, queste compagnie, insieme con quelle mariane, che indossano sacchi bianchi, sono il midollo della Settimana Santa vissuta in questi giorni. E da oggi comincerà il conto alla rovescia per le processioni del 2020. Funziona così, da decenni. Di padre in figlio e così via. Come recita un antico detto meridionale: “Senza le processioni non sarebbe Pasqua”.

De Gregorio-Andrini, causa chiusa con un dialogo

Il Fatto ha pubblicato il 7 febbraio scorso un’intervista a Concita De Gregorio nella quale l’ex direttore de L’Unità dal 2008 al 2011 raccontava la sua situazione: “Ogni centesimo che ho guadagnato mi è stato sequestrato per pagare le cause civili dell’Unità al posto di un editore che nel tempo si è fatto nebbia (…) Quando la Nie, il mio editore, chiude con un concordato preventivo, tramite il quale cede la testata alla cordata guidata dall’imprenditore Pessina (e partecipata anche dal Pd, tramite la Eyu, ndr) dismette la responsabilità civile per le cause di diffamazione. In quanto direttore, e in base alla legge sulla stampa del 1948, rispondo in solido per tutte le cause civili. Pago io, quindi, al posto dell’editore”. Di fronte a questo scenario speravamo che qualcuno si facesse avanti per aiutare una collega che, attenzione, non sta pagando per articoli firmati da lei ma per errori dei suoi colleghi. La legge infatti prevede la responsabilità in solido del direttore al quale si imputa il cosiddetto omesso controllo, impossibile da esercitare di fatto sulle decine di articoli in ogni edizione. L’editore Renato Soru, che chiese a Concita De Gregorio di lasciare un giornale e uno stipendio più grandi nel 2008 (era a Repubblica) per l’avventura (meglio dire sventura) dell’Unità ora ha ben altro a cui pensare. Il Pd, riferimento politico degli editori e lettori de L’Unità, si è girato dall’altra parte. Il Fatto ha pensato di non lasciare sola una collega colpevole solo di avere cercato di informare il pubblico – con gli errori che ogni giorno tutti commettiamo – soprattutto in una fase calda come quella della sua direzione. Abbiamo scoperto che uno dei risarcimenti più importanti riguardava un articolo pubblicato nel 2009 che si occupava di Stefano Andrini, allora nominato dalla Giunta Alemanno al vertice di una municipalizzata e 20 anni prima, militante di estrema destra, coinvolto all’età di 18 anni in una rissa. Nell’articolo c’era un errore. Come al solito a essere condannata a pagare è stata la direttrice. Flavia Perina, ex parlamentare di An e Fli, e giornalista, conosceva le due parti della causa, ha organizzato un incontro. Davanti all’avvocato Antonio Buonfiglio, Concita De Gregorio e Stefano Andrini si sono chiariti. Per ritirare la sua pretesa e quindi rinunciare al risarcimento che gli era stato riconosciuto dai giudici Andrini ha chiesto la pubblicazione del resoconto dell’incontro. Il Fatto ritiene che questo sia un modo civile di chiudere la controversia auspicabile anche in altri casi e ha deciso di pubblicarlo.

“Per anni calunniato sui giornali: mi hanno definito – nell’ordine – come un neofascista, un ultras della Lazio, un picchiatore di comunisti, addirittura condannato per tentato omicidio. Credetemi: non ci ho perso il sonno né la reputazione, figuriamoci. Purtroppo invece, il ‘licenziamento politico’ e una ‘inaccettabile macchina del fango’ l’ho subita”.

Comincia così lo strano incontro tra Stefano Andrini – ex ad di Ama Servizi, uno dei manager in quota An ai tempi della giunta Gianni Alemanno – e Concita De Gregorio, in qualità di ex direttrice de L’Unità controparte del quarantenne romano in uno dei numerosi processi per diffamazione da lui intentati e vinti. “Pensate: mai nessuno dei giornalisti in questione che mi abbia chiesto: ma è vero?”.

L’incontro è sui generis ma qui non c’entra la ricomposizione del romanzo nazionale tra un ex extraparlamentare di destra, oggi sindacalista dell’Ugl, e la giornalista impegnata col cuore a sinistra: qui si parla del fatto che De Gregorio è chiamata a rispondere personalmente e direttamente della richiesta di danni per cause civili di cui dovrebbe farsi carico l’Editore, e che invece ricadono sulle sue spalle.

Facciamo un passo indietro. L’Unità non c’è più, la catena proprietaria si è sfaldata, il Pd ha finora respinto ogni tentativo di chiamata in co-responsabilità sulle pendenze della testata. Quindi nel gorgo delle innumerevoli azioni giudiziarie è rimasta solo lei, Concita, con costi altissimi: da più di otto anni beni e redditi pignorati, una valanga di procedimenti a cui far fronte.

Tra questi il caso che riguarda Andrini e una serie di articoli che lui e il Tribunale di Roma hanno ritenuto diffamatori. Di qui la richiesta di risarcimento che il giudice ha quantificato in 37 mila euro. Andrini e la giornalista decidono di parlarsi.

L’incontro finirà con la rinuncia all’azione legale da parte del sindacalista e con qualche momento di umana riflessione dopo il racconto di Andrini sulla malattia e la morte del suo bambino per un tumore raro. Ci sarà anche una donazione comune a un ente per la ricerca sul cancro.

“Mi avete definito in tutti i modi, senza fare verifiche; ma la peggiore è condannato per tentato omicidio – ricorda Andrini – e non lo avete scritto solo voi. Pure per questo il mio nome era spesso citato nei pezzi su Mafia Capitale, ‘facevo scena’: anche se Panzironi, io, lo avevo addirittura denunciato per mobbing e da tutte le intercettazioni emerge che col suo giro non avevo nulla a che fare. Anzi avevo un pessimo rapporto, forse ero anche l’unica voce critica”.

La storia vera, racconta l’ex ad di Ama servizi, è che nel pestaggio che gli è costato l’unica condanna, negli anni 80 all’età di 18 anni, ebbe solo il ruolo di spettatore, insieme a suo fratello gemello Germano, “il vero skinhead tra i due”, ricorda. Accadde davanti al cinema Capranica, dopo uno scambio di insulti tra due gruppi di avversari politici che si erano incrociati per caso. “C’eravamo tutti e due, ma non fummo noi a causare le lesioni. Infatti l’unica accusa che mi è rimasta appiccicata addosso nel processo è il concorso morale in lesioni. Mi hanno condannato per quello, concorso morale, un unico episodio in molti anni di attivismo politico. E comunque già molti anni fa ho avuto la piena riabilitazione”.

Concita De Gregorio ascolta con attenzione. Ai tempi non viveva nemmeno a Roma, e di quella vicenda non rimbalzata alle cronache nazionali non ha alcuna memoria diretta. “Un direttore ha per legge la responsabilità di tutto ciò che si scrive sul suo giornale ma non può materialmente verificare tutto, e per gli articoli di cronaca solitamente delega. L’articolo in questione riprende un lancio d’agenzia Ansa. Un redattore lo integrò con alcune dichiarazioni politiche di giornata. Firmò con uno pseudonimo. Effettivamente, in seguito all’analisi delle carte, ho appreso che quel lancio di agenzia non rispettava il contenuto della sentenza ed era pertanto inesatto. Se accadesse oggi, e avessi la medesima carica in un quotidiano, pubblicherei sicuramente la rettifica”. “Be’, lei almeno qui a un tavolo con me si è seduta – risponde Andrini –. È un atto che apprezzo e per questo sono pronto a chiudere qui i conti. Perché l’onore, dalle mie parti, lo si concede anche ai vinti”.

“Sarraj tradito dal suo capo dell’intelligence”

In una sola giornata di combattimenti le forze del generale Haftar hanno perso 39 uomini, troppi per le forze in campo disponibili, tanto che in poche ore hanno dovuto abbandonare l’area di Aziziya, a sud di Tripoli, e retrocedere verso Gharian, la città sulla montagna Nafusa da cui aveva lanciato l’offensiva sulla capitale oltre ad inizio mese.

“Il governo di Tripoli è stato tradito dal capo dell’intelligence Abdullah Al Darsi”, ha rivelato al Fatto la deputata del Parlamento insediato a Tobruk, Saida Al Iaqubi, che abbandonò Tobruk nel 2014 in segno di protesta contro il riconoscimento da parte del Parlamento di Haftar come capo delle forze armate. Vive a Misurata, la città-Stato a 300 chilometri a ovest di Tripoli, che rappresenta il bastione delle forze anti-Haftar. Il premier riconosciuto dall’Onu, Fayez Al Sarraj, aveva nominato Al Darsi a capo dell’intelligence a novembre proprio per strizzare l’occhio a Haftar in vista degli accordi per le nuove elezioni. Al Darsi è sparito qualche ora prima dell’annuncio dell’arrivo delle forze del generale a Gharian.

Quella di Haftar doveva essere un’operazione lampo, ma gli scontri in corso potrebbero andare avanti per mesi. Anche fonti delle Forze Speciali di deterrenza Rada, i salafiti madkhali che per credo religioso erano visti come i potenziali alleati di Haftar nell’ovest, hanno detto al Fatto “Impossibile negoziare con lui. Vuole tutto per sé”.

Il piglio da militare evidentemente convince più all’estero che in terra libica, tanto che alla schiera degli alleati del generale, oltre i noti Egitto, Russia, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Francia, si aggiungono gli Stati Uniti. In una telefonata con Haftar avvenuta lunedì, Donald Trump avrebbe espresso sostegno al Maresciallo. La Casa Bianca ha divulgato la notizia solo ieri, forse perché è ormai chiaro che Haftar militarmente non ce la può fare da solo. Sicuramente non dopo che anche i francesi lo hanno abbandonato. Proprio ieri il ministro degli Esteri Moavero ha incontrato il collega francese Le Drian, annunciando un incontro di tutti i sostenitori di Sarraj dopo Pasqua. A Tripoli, secondo l’Organizzazione mondiale per la Sanità dall’inizio degli scontri ci sarebbero circa 205 morti, 913 i feriti; circa 25 mila gli sfollati secondo l’Unhcr. “Altroché esercito di liberazione”, dice al Fatto Mohamed, ingegnere: “Haftar è un criminale che uccide i civili”, spiega dopo la pioggia di razzi Grad che nella notte tra mercoledì e giovedì ha colpito l’area residenziale di Abu Salim, quartiere a sud di Tripoli. Mohamed ricorda che qualche ora prima dell’attacco un uomo dell’auto-proclamato Esercito nazionale libico, con l’uniforme del Battaglione 106, aveva minacciato su Facebook un attacco con i Grad per vendicare l’esplosione di lunedì al quartier generale dell’intelligence a Bengasi. Mohamed vive a soli tre chilometri dall’area dove sono caduti i razzi. “Mia figlia deve finire la scuola, e quest’anno ha anche gli esami. Non possiamo lasciare tutto a metà. Forse andremo via solo quando un razzo ci distruggerà la casa”, dice con tono sarcastico. Mentre le famiglie scappano man mano che gli scontri avanzano, centinaia di migranti restano intrappolati nei centri di detenzione, gestiti dal ministero degli Interni. Medici Senza Frontiere e altre Ong come Migrace continuano a fornire assistenza a quelli rinchiusi nel centro di Qaser Ben Gasheer, che rifiutano la proposta di trasferimento da parte dell’Unhcr in un carcere della città di Zintan. O fuori dall’inferno libico o nulla, sarebbe la loro risposta.

Il colmo per Sánchez: senza i separatisti non può governare

Dopo appena una settimana di campagna elettorale e a dieci giorni dalle urne del 20 aprile, i socialisti del premier spagnolo in carica, in corsa per il secondo mandato, Pedro Sánchez conquistano quasi quota 30 per cento di voti e, secondo gli ultimi sondaggi, si avviano alla vittoria con almeno 4 punti di distacco dalla destra del Partito popolare di Pablo Casado.

Eppure per Sánchez il futuro governo è tutto in salita. Ottenere il mandato di presidente, infatti, significherebbe un’alleanza precaria non solo con la sinistra di Pablo Iglesias – appena rimessasi in sesto dopo i litigi fratricidi con Inigo Errejon e passata dal maschile al femminile (Unidas podemos) – ma soprattutto far rientrare in casa gli indipendenti catalani di Oriol Junqueras. Sì, perché se è vero che le tanto temute destre non riuscirebbero neanche unite a ottenere la maggioranza – Pp, più Ciudadanos, più l’ultradestra di Vox a oggi arriva al 47% delle preferenze – non è facile per i socialisti, andati sotto all’ultima fiducia proprio per mano dei separatisti catalani, pensare a loro come alleati.

Almeno a giudicare dal programma del Partito socialista obrero di Sánchez, che, al capitolo Catalogna, non solo non menziona una qualche forma di referendum per l’indipendenza – è dalla pre-campagna che Sánchez ha rispolverato ‘no è no’ di femminista memoria per chiarire il concetto – ma parla genericamente di autogoverno della regione, senza approfondire la questione né tornare sul concetto di plurinazionalità dello Stato con il quale pure aveva vinto due anni fa la segreteria del Psoe. “Se c’è stata una formazione politica con la quale ho trovato un’intesa è Unidas Podemos”, ha assicurato Sánchez in apertura di campagna presentando Iglesias come la prima scelta di alleanza in caso di un governo rosso. “Al contrario, ai leader indipendentisti bisognerà rimproverare di non aver agito in buona fede, ma di aver ingannato tutti”, ha chiosato. “Noi abbiamo agito come era giusto in quel contesto, non potevamo votare il bilancio dello Stato mentre il governo aveva abbandonato il tavolo del dialogo per l’indipendenza”, spiega al Fatto Alfred Bosch, delegato per gli affari esteri della Catalogna a Roma ed esponente della Sinistra Repubblicana. Intanto a Madrid la campagna elettorale si gioca anche nelle sedute del processo ai leader indipendentisti accusati di sedizione e ribellione per il referendum del 1 ottobre del 2017 e l’autoproclamazione di indipendenza che ne seguì. Processo a cui – secondo Bosch – “si dice contrario l’80% dei catalani”.

Una tensione, quella tra il governo centrale e i separatisti che si gioca in queste settimane tutta sul filo dei numeri, dato che in Catalogna il 28 aprile tornerebbero a vincere i partiti dell’indipendenza che – non a caso – in questi giorni anche con i leader dal carcere (Junqueras e Jordi Sànchez ) hanno parlano di un “obiettivo comune: non far vincere la destra”. La quale, per ora sembra prendere tre punti meno rispetto alle Regionali andaluse di dicembre: il 7,7%. Attenzione, però, il presidente del Centro statistico avvisa: “Vox prenderà voti sconosciuti, di chi si è sempre astenuto perché non crede alla democrazia e ora si sente rappresentato”.

Il ritorno dei Troubles. La Nuova Ira: giovani, pericolosi e irriducibili

“Sono un fiero repubblicano. Siamo tutti fottuti repubblicani a Creggan”. Il cimitero di Creggan è una fila infinita di tombe di combattenti dei Troubles, un grigio punteggiato di fiori freschi. Paul è cresciuto fra queste case. Dice di non aver mai avuto a che fare con l’Ira, ma nei Troubles ha perso gli amici più cari e per strada riconosce dissidenti e anche gli agenti britannici in borghese che in queste ore più che mai presidiano le strade del quartiere. Fentan street è una via ampia, casermoni bassi, una lunga inferriata. Paul indica il punto dove giovedì notte è caduta Lyra O’Keele, 29 anni, promessa del giornalismo nord-irlandese. Era qui per raccontare gli scontri fra la popolazione locale e la polizia. “Gli sbirri sono arrivati in massa, con più di 20 Land Rover. Hanno perquisito le case, dicevano di cercare armi nascoste per le commemorazioni di Pasqua”. La settimana di Pasqua è sempre tesa in queste aree, nel ricordo dell’Easter Rising di Dublino del 1916, la prima rivolta indipendentista irlandese schiacciata nel sangue dalle truppe britanniche.

A Creggan le perquisizioni andavano avanti da mesi. Giovedì sera la comunità ha reagito, è scesa in strada, sono partite le bombe incendiarie contro i mezzi della polizia. Poi qualcuno ha sparato. “Vedi quella inferriata? Hanno infilato l’arma fra le grate all’angolo della strada, puntato a caso”. Lyra era dietro ai poliziotti. È stata colpita allo stomaco, caricata in un mezzo della polizia diretto all’ospedale. È morta quasi subito. “Un cazzo di incidente. Non sarebbe mai dovuto succedere. La gente qui è disgustata”. Sarebbe disgustata se invece di una giovane giornalista nord-irlandese fosse morto un poliziotto britannico?

“Non gliene sarebbe fregato un cazzo”. Per il capo della polizia nord-irlandese la pista più probabile è che dietro questo “attentato terroristico” ci sia la New Ira, l’ultima reincarnazione della lotta armata, veterani della Provisional Ira, irriducibili che non hanno mai accettato gli accordi del Venerdì santo, esattamente 21 anni fa, e la scelta di deporre le armi. “La minaccia più seria al processo di pace” secondo il Chief Constable George Hamilton. È stata la New Ira a rivendicare l’autobomba esplosa lo scorso gennaio di fronte al tribunale della centralissima Bishop Street, sempre a Derry, e quattro lettere esplosive ritrovate a marzo a Londra e Glasgow. Gli esperti ne minimizzano il potenziale militare: gli effettivi sarebbero poche decine, i simpatizzanti qualche migliaio. Niente di paragonabile alla potenza di fuoco degli anni Settanta e Ottanta. Ma con un efficace braccio politico, Saoradh (Liberazione), un partito di estrema sinistra creato nel 2016 da veterani dell’Ira disgustati dal Sinn Fein, accusato di aver venduto la causa dell’indipendenza repubblicana per sete di potere. Saoradh nega ogni associazione con la New Ira, ma tutte le fonti confermano che i vertici dei due gruppi si sovrappongono.

Con una strategia chiara: reclutare nuove leve nei quartieri più poveri, quelli che non hanno mai visto i dividendi del processo di pace. Ventenni che dei Troubles non hanno memoria viva, ma subiscono quotidianamente la pressione della polizia e le perquisizioni. La prospettiva di una Brexit dura, con il ritorno di un confine fisico, getta benzina sul fuoco, tanto che Saoradh la considera un regalo alla causa. Una retorica che, nelle roccaforti dei dissidenti repubblicani, ha fatto breccia. Negli ultimi anni, alle tradizionali commemorazioni del lunedì santo a Derry, ad applaudire i paramilitari in mimetica c’era una folla sempre più numerosa. Fino a giovedì. Per la New Ira colpire una civile innocente è un tragico errore, che rischia di compromettere ogni supporto, in una città che non vuole tornare alla violenza di 20 anni fa. Dal quartiere generale di Saoradh non parlano, ma il gruppo ieri ha pubblicato un duro comunicato. “La responsabilità di quanto è successo ricade interamente sulle forze della corona britannica, che hanno cercato lo scontro con la comunità per ragioni di propaganda” si legge sul sito. “Durante questo attacco alla comunità un volontario repubblicano ha tenuto di difendere la gente dalla polizia. È tragico che la giovane giornalista Lyra McKee sia stata uccisa accidentalmente mentre si trovava dietro gli agenti armati”. Seguono condoglianze ai familiari e amici di Lyra. Per i tanti che temono il ritorno della violenza è già diventata un simbolo. Da Belfast si era trasferita a Derry per amore di una donna e della città. In uno dei suoi tweet scriveva: “Ai tempi migliori che ci aspettano, lontano dalle bombe e dai proiettili una volta per tutte”.

“Ha ucciso quattro pazienti”: ergastolo per Fausta Bonino

L’infermiera di Piombino, Fausta Bonino, è stata condannata all’ergastolo per quattro delle morti sospette di pazienti in corsia e assolta per altri sei casi, perché il fatto non sussiste. Assolta, inoltre, per abuso di ufficio. Dopo cinque ore di camera di consiglio è arrivate la sentenza che chiude il processo con rito abbreviato. L’infermiera era imputata di omicidio volontario plurimo per i decessi di 10 pazienti nel reparto di rianimazione dell’ospedale di Piombino tra il 2014 e il 2015. Fausta Bonino, accompagnata dal marito e da un figlio, è uscita dall’aula in lacrime dicendo: “Non è giusto, non ho fatto nulla.” La difesa della donna ha sempre sostenuto l’impossibilità tecnica del coinvolgimento dell’infermiera e aveva chiesto l’assoluzione per non aver commesso il fatto. Fausta Bonino venne arrestata nel 2016, accusata di aver causato la morte di 13 pazienti (poi saliti a 14 e quindi ridotti a 10) nel reparto di rianimazione all’ospedale di Piombino dove l’infermiera lavorava. I decessi erano avvenuti per emorragie improvvise e letali che, secondo l’accusa, sarebbero dovute alla somministrazione di massicce dosi di eparina. Le motivazioni sono previste entro 90 giorni.