Consiglio di Stato: i due strani verbali sul giudice Santoro

È probabile che nelle prossime settimane Sergio Santoro, presidente della Sesta sezione del Consiglio di Stato, sarà nominato presidente aggiunto, affiancando il presidente suo arci-nemico Filippo Patroni Griffi. È quanto si deduce dall’istanza inviata da Santoro stesso al Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa (Cpga), in cui tra l’altro il cosiddetto “Csm” amministrativo viene messo al corrente di dettagli sconcertanti dell’incidente giudiziario che aveva azzoppato Santoro.

Il 24 gennaio scorso, ventiquattro ore prima che il plenum del Cpga formalizzasse la nomina di Santoro dopo la designazione della Quarta Commissione, è uscita la notizia che Santoro era indagato per corruzione in atti giudiziari. Mica poco. Quello di Santoro, si è letto, è “un nome che scotta nel lungo elenco di consiglieri di Stato, imprenditori e avvocati che da anni pilotavano le sentenze amministrative in Italia”. Così il presidente del Cpga Patroni Griffi, ha sospeso il procedimento di nomina di Santoro, e ha chiesto notizie al procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone. Il quale ha risposto che Santoro era indagato per fatti “commessi in Roma in epoca anteriore e prossima al 31 dicembre 2015”. Santoro fa notare nell’istanza che allora era presidente di una sezione consultiva, dove non si facevano sentenze. Santoro è indagato dallo scorso luglio, ha saputo di esserlo a gennaio in seguito alla richiesta di proroga delle indagini e non ha mai saputo di che cosa è accusato né quali indagini siano state compiute. Ha chiesto di essere interrogato, ma il pm Paolo Ielo ha per ora respinto la richiesta.

A quanto è dato sapere – visto che tutto rimane segreto fuorché la notizia che qualcuno è accusato di un grave reato – le disgrazie giudiziarie di Santoro coincidono con quelle del segretario del Pd Nicola Zingaretti. Il 6 luglio 2018 l’avvocato Giuseppe Calafiore, arrestato nel febbraio precedente insieme all’avvocato dell’Eni Piero Amara, ha parlato a Ielo di Santoro e Zingaretti. Sul leader politico ha firmato un verbale in cui dice che l’imprenditore Fabrizio Centofanti, arrestato con lui, “era sicuro di non essere arrestato (…) in ragione di erogazioni che aveva fatto per favorire l’attività politica di Zingaretti”. Alla domanda se fossero erogazioni lecite, Calafiore risponde: “Assolutamente no, per quanto egli mi diceva”. Non si sa se i pm romani abbiano chiesto conferme a Centofanti. Si sa solo che hanno iscritto Zingaretti nel registro degli indagati e quando è uscita la notizia, un mese fa, hanno fatto circolare l’ipotesi di un’imminente archiviazione.

Il caso di Santoro è ancora più singolare. Nello stesso interrogatorio si chiede a Calafiore di descrivere il sistema lobbistico di Centofanti. Dice Calafiore a verbale: “Vi è un dipendente del Consiglio di Stato, Antonio Serrao, che riceve denaro da Centofanti, ma anche da Amara, per influire su decisioni di appartenenti al Cds, ai quali versa una parte delle somme che gli pervengono. A mia memoria (…) Virgilio, tale Bianchi e Santoro erano magistrati che ricevevano tali elargizioni, secondo quanto ho appreso dal Serrao medesimo”. Così Santoro è stato indagato per corruzione in atti giudiziari. Si noti che l’ex magistrato del Consiglio di Stato Riccardo Virgilio era già indagato quando furono arrestati Amara, Calafiore e Centofanti, e con lui il giudice amministrativo Nicola Russo. Sono accusati di prendere soldi e Calafiore conferma. Quando Ielo gli chiede: “Ricorda altri nomi?”, Calafiore dice una cosa che nella trascrizione stenografica risulta opposta alla sintesi del verbale che ha firmato. Riferendo delle relazioni di Serrao, dice che il funzionario si vantava di “controllare” Santoro. Ielo: “Santoro, che prendeva soldi”. Calafiore: “Non ho detto che prendeva soldi”. Ielo: “Per quello che le ha rappresentato Serrao, chi di questi prendeva i soldi?”. Calafiore: “In quella vicenda lui mi ha detto che doveva portare soldi a Virgilio”.

Tre anni fa Patroni Griffi fu nominato presidente aggiunto del Consiglio di Stato scavalcando il più anziano Santoro, e allo stesso modo l’anno scorso Patroni Griffi è diventato presidente. Tra i due è nato un contenzioso a colpi di ricorsi respinti con sentenze non del tutto convincenti. La sventura giudiziaria di Santoro poteva chiudere la partita con la sua morte reputazionale. Ma il missile ha centrato il bersaglio quando al vertice della giustizia amministrativa era sopraggiunta la pax patronigriffiana che prelude alla sua prossima elezione alla Corte costituzionale. Se il missile era farlocco, il plenum del Cpga sistemerà le cose senza ulteriori danni alla reputazione del Consiglio di Stato.

 

Mondo al rovescio: Greta s’incazza per le canne di sua madre

Quanto va ripetendo Greta Thunberg sull’emergenza clima è incontestabile. Se lei è un fenomeno mediatico, chiediamoci cosa non lo è. Se è stato pensato a tavolino, complimenti al tavolino. Viviamo nell’età del percepito. Percepisci e porta a casa. Inoltre, qualcosa di decisivo nel nostro tempo deve essere accaduto e il fenomeno Greta ne è la miglior prova. Il conflitto generazionale esiste dalla notte dei tempi ma per la prima volta si presenta a rovescio. I tutori delle regole e della morale, i catoni censori sono i figli; gli irresponsabili, gli incoscienti, i giamburrasca sono i padri. Cinquant’anni dopo il ’68, il mondo si è davvero capovolto di 90 gradi. Non invidiamo questi millennials destinati a ereditare un pianeta sull’orlo del baratro, però non invidiamo nemmeno i genitori. “Papà, mi sbaglio o stamattina hai preso la macchina?” “Eh, sì” “Ma come? Mi avevi promesso di prendere solo la bicicletta” “Lo so Greta, ma avevo un appuntamento urgente. Scusa”. “Non mi interessano le scuse. Voglio i fatti”. “Ti prometto che è l’ultima volta”. “Sarà meglio”. “Mamma, ti sei fumata una canna?” “Ma no, Greta, che dici”. “E allora cosa sono questi mozziconi che ho trovato mentre ispezionavo la differenziata? La prossima volta almeno buttali nella carta”. “Greta, anche stasera resti a casa?”. “Per forza, devo finire di scrivere il discorso, poi devo rispondere al Papa e a Formigli”. “Ok. Allora noi andiamo”. “Buona serata. Ma mi raccomando: a mezzanotte in punto, qui”.

Mail Box

Gli ospedali non assumono i giovani e li ostacolano

“Il vecchietto dove lo metto?” cantava nel secolo scorso uno scanzonato Domenico Modugno dandosi anche la risposta: “…dritto dritto in ospedale”. È quello che sta succedendo nella sanità, dove, a quanto pare, è saltato ogni tipo di programmazione visto che la carenza di personale, a ogni livello, è divenuta critica nonostante fior di manager dai curricula straripanti di titoli e master sull’argomento. Mancano medici, infermieri, si chiudono reparti, si tagliano servizi. Per tamponare il collasso dell’intero sistema si è pensato di richiamare gli ottuagenari in meritata quiescenza o, se ancora in servizio, di invitarli caldamente a restare. Così avremo chirurghi, anestesisti, ortopedici che metteranno le mani su loro coetanei sperando che i naturali acciacchi dell’età non pregiudichino l’esito degli interventi. Intanto i giovani delle facoltà mediche restano disoccupati o precari a vita. Altro che cambio generazionale, qui si persegue il perpetuo geriatriale! Invece poi di eliminare il numero chiuso all’università lasciando che sia il percorso di studi a fare la naturale selezione si è pure pensato di affidare ai soli infermieri la gestione in toto dei reparti creando qualche logica perplessità: a che serve essere medico se poi le mie competenze, la mia professionalità non valgono un fico secco? In mezzo ci stiamo noi, pazienti due volte, prima perchè siamo malati, poi perchè costretti a subire queste ideone partorite non tanto per noi quanto per il dio Bilancio che reclama la sua esclusiva priorità su tutto il resto, salute nostra compresa.. E per le strade sempre più trafficate è facile incrociare minibus guidati da ultraottantenni che trasportano coetanei verso nosocomi distanti tra loro decine di chilometri per visite ed esami impossibili da avere vicino casa ed altri che accompagnano le equipe itineranti, un’altra suggestiva trovata, di medici che vanno per un’appendicectomia all’ospedale X, per poi spostarsi per un trapianto a quello Y, finendo la giornata allo Zeta per sistemare una frattura femorale. Un tourbillon per cui, trepidanti, non resta che affidarci alla divina Provvidenza affinchè butti il suo benevolo occhio

Vittore Trabucco

 

Invece di aumentare l’Iva, stanate gli evasori

Sono contrario all’aumento dell’Iva. In Italia abbiamo già le tasse e imposte più alte del mondo, e anche la benzina è tra le più care del mondo! Aumentarle, sarebbe un brutto segno di manifesta incapacità di questo governo. Ritengo invece che la Guardia di Finanza debba stanare i corrotti e i corruttori, e anche gli evasori fiscali, che purtroppo nel nostro Paese abbondano. Le stime più recenti indicano tra i 30 e i 60 miliardi di euro all’anno di evasione fiscale: una cifra da capogiro, con la quale si risolverebbero tanti problemi del nostro Paese, compresa la riduzione del debito pubblico gigantesco: 2.360 miliardi di euro! Circa 40.000 euro di debito pubblico a persona, compresi i neonati! Un aumento dell’Iva o una patrimoniale sarebbero una beffa per chi ha sempre pagato tutte le tasse e imposte.

Sergio Cannaviello Obradovïch

 

Pasolini ci ha insegnato a diffidare dell’intolleranza

La vita intellettuale italiana, dal dopo guerra in poi, è stata attraversata da una riga oscura di intolleranze, e questo è un fatto. Direi però che queste intolleranze, di vario colore (dalla sinistra verso la non sinistra, dai cattolici verso i non cattolici, lai laici vero i non laici eccetera) sono state, a mio avviso, trasferite di peso nella vita culturale dalla vita politica, e oggi ne abbiamo la certezza con una avvenuta cristallizzazione di interessi; la politica (soprattutto quella dei diritti civili dei disobbedienti) usa gli intellettuali come scudo, per tornaconti editoriali o giornalistici.

Confondendo i veri guasti di un sistema (di potere) da loro organizzato e pianificato. Ricordo mentalmente la lettera che Pier Paolo Pasolini, un anno prima di essere ucciso, mentre la Dc perdeva consensi, scrisse ad Alberto Moravia: “Caro Alberto, ci risiamo: la Dc e buona parte del Pci parla di una deriva in atto fascista contro la democrazia. Ma cosa c’entra il fascismo?! Sono oltre trent’anni che il fascismo è morto e non c’è più. A te, Alberto, non sembra che lo si ritiri fuori invece per non far pensare e non farci realizzare cosa il paese e la sua vita democratica stia realmente attraversando e rischiando, con questa classe politica? Ti abbraccio forte Alberto, seppure preoccupato!”

Massimo Testa

 

Quegli attacchi infamanti contro la giovane Greta

Che Greta abbia ragione nel portare avanti la sua battaglia per la salvaguardia del Pianeta lo dimostrano tutti coloro che la criticano. I vari appartenenti al fronte negazionista in termini ambientali, infatti, invece di rispondere nel merito del problema, attaccano la giovane svedese con ragionamenti dietrologici e infamanti.

Il fatto essenziale e inequivocabile è uno solo: la situazione climatica sul nostro Pianeta è drammatica, l’indifferenza verso questo problema da parte delle autorità mondiali è criminogena, bisogna agire subito. Ha ragione Greta.

È vergognoso che a portare all’attenzione del mondo questo problema, che ci coinvolge tutti, deve essere una adolescente coraggiosa e testarda.

Mauro Chiostri

Ape social. Le vittime di una misura ingiusta e dalla coperta troppo corta

Vi scrivo per esporre il mio caso dopo numerosi tentativi di risoluzione non andati a buon fine sull’Ape social. L’anticipo pensionistico sociale prevede che possano andare in pensione tutte le categorie di lavoratori, esclusi i commercianti. Purtroppo a volte rientrano nella categoria commercianti anche persone che in realtà non lo sono, come è capitato a me, e non capisco perché Salvini o Di Maio non abbiano modificato questo meccanismo. Io ho lavorato 33 anni consecutivi per un’azienda che poi si è trasferita all’estero, così sono rimasta senza lavoro e senza stipendio. In seguito sono riuscita a lavorare 4 mesi come coadiuvante versando altri contributi 16 anni fa. A causa di questi 4 mesi io rientro nella categoria dei commercianti e in base alla legge attuale non ho diritto all’Ape social. Io compio 65 anni a luglio 2019, con la legge Fornero dovrei andare in pensione a 67 anni, se non oltre. Penso che dopo aver versato per anni i contributi questa sia un’ingiustizia.

Pasqualina Moretti

 

Gentile signora Moretti, quella che lei chiama ingiustizia non è altro che il welfare caratterizzato da un importante aspetto: una coperta troppo corta che non riesce ad accontentare tutti per mancanza di quattrini. L’Ape sociale è un’indennità pagata interamente dallo Stato (cioè senza alcuna penalità sul futuro assegno pensionistico) ed erogata dall’Inps. E anche se l’ultima legge di Bilancio l’ha prorogata (è una misura introdotta dal governo Renzi), i paletti che la contraddistinguono restano molti, proprio per contenere la platea dei possibili beneficiari. Per ottenere l’Ape social occorre, infatti, aver compiuto almeno 63 anni e aver versato 30 o 36 anni di contributi entro la fine del 2019. E ancora: il richiedente deve essere un disoccupato “involontario”; occuparsi di un parente malato; essere invalido almeno al 74%; essere un lavoratore dipendente addetto a mansioni gravose e usuranti che devono, comunque, essere state svolte per almeno 6 anni. Limitazioni che, ad esempio, l’Anticipo pensionistico volontario invece non ha, dal momento che questa misura si ottiene grazie a un prestito bancario che il pensionato si paga da solo. Per superare la legge Fornero, come si sa, il governo gialloverde ha puntato su Quota 100, la misura per cui – insieme al Reddito di cittadinanza – sono stati destinati 38 miliardi di euro per il triennio 2019-2021. L’obiettivo è erogare entro maggio 50 mila assegni per le uscite anticipate.

Patrizia De Rubertis

Rai gialloverde: va in onda la lite continua

“Il principale fondamento dell’antipolitica al governo sta nel rapporto diretto che si instaura tra il leader e i cittadini attraverso i mass media, in particolare la televisione”

(da L’antipolitica al governo di Donatella Campus, Il Mulino, 2006 – pag. 11)

Nel frastuono della “crisi coniugale” che minaccia la tenuta della maggioranza e la sopravvivenza del governo giallo-verde non c’è da sorprendersi che, a meno di un anno dall’insediamento del Consiglio di amministrazione della Rai, i 5Stelle e i leghisti siano arrivati alla rissa sulla gestione del servizio pubblico e in particolare sulla presidenza sovranista di Marcello Foa. In primo luogo, perché la tv pubblica è da sempre il sismografo che registra e nello stesso tempo amplifica le scosse telluriche della politica italiana. E poi, per il fatto che questo cda è il figlio degenere di un metodo spartitorio che il “governo del cambiamento” non è riuscito minimamente a cambiare: lottizzazione era e lottizzazione è rimasta, con qualche rara eccezione in ordine alle competenze individuali.

È mancata, soprattutto, quella Grande Riforma radiotelevisiva che ormai invochiamo da troppo tempo, come fosse un prodigio soprannaturale o un evento catartico, per liberare la Rai dalla subalternità alla partitocrazia. Del resto, per quanto riguarda la Lega, questa non è una novità: al governo con Berlusconi fin dal 1994, il Carroccio ha partecipato in prima linea all’occupazione manu militari del servizio pubblico, sostenendo il duopolio e il regime televisivo in funzione degli interessi preminenti di Sua Emittenza. Né risulta che l’impavido Salvini abbia mai detto o fatto alcunché per dissociarsi da questa pratica inveterata.

Ai 5Stelle bisogna dare atto invece di aver quantomeno indicato un amministratore delegato, nella persona di Fabrizio Salini, che corrisponde ai requisiti di professionalità e di esperienza. Quanto alle capacità, si potrà fare un bilancio alla fine del mandato. Ma intanto è legittimo difenderne la funzione e l’autonomia – come stanno facendo i rappresentanti del M5S nella Commissione di Vigilanza – di fronte alle interferenze del presidente Foa che tende a invadere la sfera delle sue competenze, dimenticando di avere un ruolo di garanzia a tutela di quel pluralismo che è il fondamento stesso del servizio pubblico.

Basterebbe ricordargli che occupa quella poltrona in forza di un’investitura ricevuta da una forza politica (la Lega) che nell’attuale Parlamento rappresenta il 17 per cento. Senza dimenticare neppure che per la sua controversa elezione, ripetuta due volte dopo la prima bocciatura nella Commissione di Vigilanza, il deputato Michele Anzaldi (Pd) ha chiesto ripetutamente alla presidenza del Senato la verifica delle schede, finora senza risultato. Ma tant’è. Sull’onda del sovranismo, Foa si sente in diritto d’interpretare il proprio ruolo in modo autocratico ed egemonico.

Ha ragione allora il pentastellato Gianluigi Paragone quando lo accusa di comportarsi come “l’amministratore delegato ombra”. E fa più che bene il vicepresidente della Vigilanza, Primo Di Nicola, a contestare la doppia nomina di Foa alla presidenza della Rai e di RaiCom, in forza della quale svolge incarichi operativi all’interno di una società controllata dalla stessa azienda. Non può stupire, dunque, che ora volino le scintille nelle file della maggioranza giallo-verde né che scoppi la lite al vertice del Tg1 fra il direttore Giuseppe Carboni (indicato dal M5S) e il suo vice Angelo Polimeno Bottai (espresso dalla Lega). È l’esito fatale di una lottizzazione che non ha nulla da invidiare a quelle precedenti.

Quale svendita? Napoli ha per faro Rodotà

L’articolo di Alberto Lucarelli e di Ugo Mattei, apparso il 10 aprile sul Fatto Quotidiano, lascia davvero sorpresi.

La narrazione, infatti, che nell’articolo viene fatta di tutto il percorso politico e amministrativo condotto dal Comune di Napoli fa emergere il sospetto che impegni politici abbiano forse distratto gli autori dal seguire con attenzione gli sviluppi e i risvolti internazionali che l’esperienza napoletana ha raggiunto in materia di beni comuni negli ultimi anni. Attenzione, invece, che viene prontamente ritrovata nel segnalare l’errore tecnico che ha portato all’inserimento, negli elenchi allegati alla delibera di bilancio del 31 marzo, di tre immobili che sono stati riconosciuti come beni comuni emergenti. Questione, questa, che è stata immediatamente evidenziata dalla giunta De Magistris e che sarà risolta con un emendamento, nel quale si riafferma con chiarezza che sono da considerarsi rientranti nella categoria dei beni comuni tutti i beni funzionali all’esercizio dei diritti essenziali delle collettività, così come individuati dai numerosi atti approvati dalla giunta e dal Consiglio comunale in questi ultimi anni. Delibere che hanno portato la città di Napoli a essere riconosciuta in tutta Europa quale modello di riferimento sul tema dei beni comuni, del neomunicipalismo, della democrazia partecipata e sul prevalente interesse pubblico sancito dalla Costituzione.

Dal 2013 a oggi, infatti, l’Amministrazione ha riconosciuto il valore di esperienze già esistenti nel territorio comunale, portate avanti da gruppi e comitati di cittadini secondo logiche di autogoverno e di sperimentazione della gestione diretta di spazi pubblici, dimostrando, in tal maniera, di percepire quei beni come luoghi suscettibili di fruizione collettiva e a vantaggio della comunità locale. Esperienze che si sono configurate e si configurano come “case del popolo”, ossia luoghi di forte socialità, elaborazione del pensiero, di solidarietà intergenerazionale e di profondo radicamento sul territorio. In tal senso, il procedimento di individuazione del bene non parte dallo spazio fisico, e neanche dagli elenchi del patrimonio, quanto dalla riconoscibilità e dai valori che le collettività individuano in esso e che trovano nei regolamenti di uso civico la loro attuazione.

È questa la vera innovazione degli atti amministrativi della giunta De Magistris, che provano a definire un percorso in grado di dare concreta attuazione alla relazione tra luoghi e diritti, tra proprietà collettiva e utilità sociale, tra uso e redditività civica, così come definito da Stefano Rodotà nelle sue ultime e più avanzate riflessioni sul tema, condotte nella città di Napoli, e come dimostra anche il recente rinnovo dei componenti dell’“Osservatorio per i beni comuni”, composto da studiosi, ricercatori universitari, attivisti e cittadini.

Napoli, allora, non svende il suo patrimonio, ma ne sostanzia il suo valore e la sua trasmissione alle future generazioni, attraverso la creazione di “comunità civiche urbane” e la disciplina degli usi temporanei. E si tratta di una sfera più ampia: dalla valorizzazione sociale del patrimonio alla gestione partecipata dei beni comuni, al diritto alla città, alla difesa dei diritti essenziale delle persone, alla tutela del territorio (valgano gli esempi di Scampia, Bagnoli, delle aree ex Nato), la città di Napoli si riconosce nei principi fondamentali della Costituzione e ha a proprio faro quel Rodotà che ha lasciato, proprio a Napoli, il suo ultimo e più profondo pensiero in materia di beni comuni. Quel Rodotà, che, dunque, merita di essere riconosciuto nella sua complessità e unicità di argomentazioni, e non può essere relativizzato a un pensiero della prima ora, a formare una base per una raccolta di firme di una legge di iniziativa popolare, che riteniamo ancora molto embrionale.

 

I nodi irrisolti del Pd (citofonare calenda)

È giusto fare un’apertura di credito verso Zingaretti: è segretario Pd solo da un mese, assume la guida di un partito reduce da una disfatta elettorale seguita da un anno di inerzia, sconta cospicui condizionamenti interni. Ma il nodo cruciale eminentemente politico del nuovo corso attiene al profilo identitario del Pd, ancora tutto da definire dopo la torsione impressagli dal corso renziano.

I test elettorali regionali, pur nella sconfitta, hanno mostrato come tuttora il centrosinistra disponga di un suo bacino elettorale e il gruppo dirigente – da Zingaretti a Gentiloni – ha preso a sperare che, con il tempo, sia possibile ripristinare una sana polarizzazione destra-sinistra e che non ci si debba rassegnare a un’anomala polarizzazione tra Lega e 5 Stelle o tra asseriti populisti e sedicenti democratici. Sull’Espresso, Cacciari ragiona sul mutamento delle linee di frattura tra destre e sinistre in occidente. Sia sulla radicalizzazione della competizione-opposizione tra loro; sia sulla appropriazione da parte della destra di issues tradizionalmente di sinistra come quelle del disagio sociale, delle disuguaglianze, della sollecitudine per la condizione dei ceti popolari. Non più dunque una competizione che si sviluppa e si decide nella conquista del centro politico moderato, stemperando le differenze tra i competitor. Tanto più in quanto da noi ci siamo messi dietro le spalle la regola elettorale maggioritaria: la stagione renziana fu dominata infatti dalla esaltazione della logica maggioritaria, dalla suggestione del partito della nazione che converge al centro e dalla conseguente mutazione del Pd quale partito liberale e moderato contiguo a settori del centrodestra con i quali non sono mancati fasi e motivi di cooperazione. Nel nuovo scenario si richiederebbe invece, da parte di Zingaretti, di marcare una identità alternativa del Pd alle destre e dunque una netta discontinuità rispetto al corso renziano. Non si comprende perciò il peso riconosciuto dal nuovo Pd a Calenda, al suo manifesto, ai suoi candidati. Persino al rilievo assegnato a “Siamo europei” nel simbolo elettorale. Al netto delle differenze personali (in realtà l’ego ipertrofico li accomuna), non si scorgono particolari differenze politiche tra Renzi e Calenda. Di più: nel riferimento alle famiglie politiche europee, Calenda assai più di Renzi – cui paradossalmente si deve la decisione, non so quanto convinta e attuale, di portare il Pd nel gruppo dei socialisti – si è mostrato ondivago e ambiguo, facendo intendere semmai una sua maggiore sintonia con il gruppo liberale. Lo stesso documento di Calenda “Siamo europei”, nella sua prima versione, poi emendata, contemplava un giudizio più che lusinghiero sui governi Renzi-Gentiloni (nei quali egli fu ministro di peso). Al punto da elevarli a governi riformatori tra i migliori della storia della Repubblica. Può il nuovo corso Pd, a valle della sonora bocciatura dello scorso anno e in presenza della sfida fattasi più radicale tra destra e sinistra sulla questione sociale cui si è fatto cenno, riproporsi quale partito liberale? Può pensare di ridefinire se stesso, la propria cultura, le proprie politiche e di “recuperare a sinistra” elettori (non ceto politico) semplicemente includendo un paio di candidature non di primo piano indicate da Mdp? Ben altro è il lavoro politico e culturale richiesto!

Un indizio che la questione clou sia ancora tutta da istruire sta nella composizione delle liste. Le si racconta come unitarie in quanto espressive di un estenuante negoziato tra le correnti. In realtà liste che trasmettono l’idea di una identità politica irrisolta. È significativo che si sia paracadutato Calenda quale capolista nel nord est e che neppure si sia provato a proporlo appunto a Cacciari, pur suggerito da qualificati settori di opinione. Candidatura non meno autorevole, decisamente più radicata in quei territori e soprattutto più congeniale alla ricerca del profilo di una sinistra nuova, alternativa alla destra e, perché no, non timorosa nell’ingaggiare un confronto con il mondo dei 5 Stelle al fine di contrastare la destra di Salvini.

Si può comprendere che un segretario neoeletto abbia voluto privilegiare la mediazione e l’unità interna. Ma difficilmente egli potrà eludere il problema del profilo identitario del Pd quando la politica e la sua logica imporranno un chiarimento.

Italia, il Bengodi dei soliti ladri

“Io credo che il delitto alla lunga renda bene e offra soddisfazioni: le ore di lavoro non sono molte; non dipendi da nessuno; viaggi; conosci gente interessante… Insomma, è un buon lavoro, in generale”. Molti dei lettori avranno riconosciuto in queste parole il tocco ironico di Woody Allen, che le fa pronunciare all’irresistibile Virgil Starkwell in Prendi i soldi e scappa (celebre pellicola del 1969).

Potrebbe sembrare un’istigazione a delinquere, e allora sarà il caso di riportare un successivo scambio di battute dalla stessa commedia:

Louise: “Quanto devi stare in prigione?”.

Virgil: “Vediamo… ecco… io penso che, facendo un calcolo approssimativo… Che cosa è oggi, mercoledì?”.

Louise: “Sì”.

Virgil: “Dieci anni!”.

Sarà anche vero che il delitto offra dei vantaggi (sia “un buon lavoro” secondo le parole di Woody/Virgil), ma generalmente comporta il rischio di pene, e ciò deriva dal fatto che compiere delitti significa violare delle regole e spezzare il patto della convivenza civile. Lasciamo ora da parte i riferimenti a Hollywood e ripartiamo dalla nostra Costituzione, che all’art. 2 così recita: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Ogni riferimento ai diritti implica uno speculare richiamo ai doveri: infatti qualunque dovere, positivo o negativo, corrisponde a un diritto di altri soggetti. “Non uccidere” corrisponde al diritto alla vita. “Non rubare” corrisponde al diritto di proprietà. “Non diffamare” corrisponde al diritto alla reputazione e così via. Torniamo all’art. 2. Le parole sono importanti: “riconosce e garantisce” significa che i diritti inviolabili sono intesi come una limitazione di sovranità. Infatti la Repubblica non li conferisce, ma li riconosce come a sé preesistenti e si impegna a garantirne l’osservanza. Altri diritti naturalmente sono conferiti dalla legge o dai contratti che, fra le parti, hanno la stessa forza della legge. Osservare la legge significa perciò rispettare i diritti degli altri e, al contrario, violare la legge significa non rispettare i diritti altrui.

Václav Havel, l’ex presidente della Repubblica Ceca scomparso nel 2011, diede una volta una definizione molto bella, anche se forse non del tutto completa, di legalità: “La legalità è il potere di chi non ha potere”. Il rispetto delle regole tutela infatti soprattutto i deboli: chi è forte (ovvero chi è in grado di usare la violenza, il denaro, o altri strumenti per condizionare gli altri) non ha bisogno di regole, o quantomeno ne ha meno bisogno. Sarebbe importante pensare alla legalità non in termini rigidi e claustrofobici, come una rete di obblighi e di divieti che infastidiscono e appesantiscono la vita quotidiana, ma come uno strumento prezioso e utile. Al di là dei principi etici – che pure, intendiamoci, sono importanti – dobbiamo convincerci che la legalità conviene, e infatti nei Paesi dove c’è minore illegalità di solito si vive meglio. Facciamo subito qualche esempio concreto. Sul breve periodo può anche sembrare che violare le regole paghi, o premi chi viola quelle regole, ma sul medio e lungo periodo ci si rende conto che il sistema non può funzionare. Se non venisse più represso il furto, inevitabilmente il numero di ladri aumenterebbe. Però, il numero dei ladri non può aumentare all’infinito e non può arrivare a superare il numero dei derubati: ci vorrà sempre qualcuno che produca reddito, oltre a qualcuno che lo distribuisca.

Il ladro, paradossalmente, svolge una funzione di redistribuzione del reddito, toglie qualcosa a chi ce l’ha e la tiene per sé, o la dà ad altri. Se però tutti ci mettessimo a distribuire reddito, senza che nessuno lo produca, prima o poi moriremmo tutti di fame; se quindi un intero popolo si dedicasse, per assurdo, all’attività del furto, tutti morirebbero di fame. Alterando questi meccanismi di autoregolazione si possono determinare conseguenze gravi, cioè il dissesto di un Paese! Lo stesso vale per altre forme di devianza, come il crimine organizzato, la corruzione, i reati nel settore dell’economia. Un sistema può funzionare se le violazioni della legge sono l’eccezione, non la regola. Ci si dovrebbe attendere di conseguenza che le violazioni della legge siano pochissime. E questo in primo luogo per ragioni pratiche di opportunità, che sono mirabilmente riassunte nel precetto evangelico della reciprocità, che fin da bambini ci viene insegnato con le parole “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te” (a essere precisi l’evangelista Matteo volge la regola in positivo: “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro”, Matteo 7, 12). Viceversa, ovunque si osserva una larga diffusione di comportamenti illegali, e purtroppo il nostro Paese non fa eccezione. Anzi, sembrerebbe che la crisi della legalità da noi sia più profonda e radicata che altrove. Già nel 1991 la Commissione ecclesiale Giustizia e Pace della Conferenza Episcopale Italiana emise una nota pastorale intitolata Educare alla legalità. Per una cultura della legalità nel nostro Paese che denunziava con preoccupazione il mancato rispetto delle regole. E sembra essere cambiato ben poco negli ultimi trent’anni, se in più occasioni il Pontefice stesso si è duramente scagliato contro la dilagante corruzione, definita un cancro.

Per quale ragione un comportamento che dovrebbe essere ovvio – rispettare i diritti altrui – nel nostro Paese è frequentemente non mantenuto? Uno dei padri della moderna economia politica, Adam Smith, chiarì che non è dalla benevolenza del fornaio, del birraio o del macellaio che dobbiamo attenderci il nostro pranzo, ma dalla loro considerazione per il proprio interesse. Allo stesso modo, non possiamo attenderci l’osservanza dei nostri diritti da parte di altri se non è evidente che osservarli conviene in primo luogo a loro. Aggiungiamo un tassello: è più difficile attenderci l’osservanza dei nostri diritti da parte di altri se non è evidente anche che dalla loro violazione derivano conseguenze sfavorevoli. Magari pesanti conseguenze sfavorevoli. In Italia la situazione al riguardo è addirittura paradossale perché esiste una subcultura diffusa secondo cui a violare le leggi sono i furbi, e a rispettarle sono i fessi! Esiste una lunga tradizione volta a cercare di convincere le persone che non conviene osservare le regole. Qualche esempio? I condoni (in materia edilizia, in materia fiscale, ecc.) sono atti attraverso i quali viene perdonato chi ha violato la legge senza – di solito – apprezzabili conseguenze. E si tratta, appunto, di un costume tipicamente italiano. Certamente ci sono altri Paesi che mettono in atto provvedimenti simili, ma non con la frequenza con cui in Italia è stato fatto ricorso a tali provvedimenti.

La Rai cambia idea: “Il Paradiso delle signore” non chiude

“Il Paradiso delle signore” non chiude più. La fiction del pomeriggio di Rai1, che Viale Mazzini in un primo momento aveva deciso di cancellare, è salva e andrà in onda anche la prossima stagione e quella successiva. La Rai qualche mese fa aveva deciso lo stop: secondo il vertice di Viale Mazzini il prodotto costava troppo rispetto allo share che faceva. Decisione che ha generato parecchie polemiche, con proteste di vario tipo e i lavoratori della fiction che sono arrivati a manifestare davanti alla sede Rai. Il salvataggio ora è possibile grazie a una razionalizzazione delle spese studiata a fondo dall’ad Fabrizio Salini, che ha permesso di poter tornare sulla decisione presa. La riduzione dei costi sarà ingente – il 40% – ottenuta con la diminuzione delle puntate e delle riprese in esterna. Inoltre ci sarà una partecipazione di RaiCom alla co-produzione per il 10%. Il prodotto, infatti, sarà poi commercializzato all’estero, com’è nella mission di RaiCom. Insomma, se prima il Paradiso delle signore costava quasi 18 milioni a stagione, con questi tagli verrà meno di 10 milioni. Ma andrà in onda.

Massimo Bordin, un grazie universale

L’aula della Chiesa Valdese non ha potuto contenere le centinaia di persone accorse al funerale di Massimo Bordin, esponente storico di Radio Radicale. I suoi compagni, i giornalisti e politici di ogni opinione, da Emma Bonino a Fausto Bertinotti, da Paolo Mieli ad Adriano Sofri. Tra i presenti anche i due ex Nar Mambro e Fioravanti.