L’ultima tegola: il figlio di Arata fa il consulente per Giorgetti

I Palazzi del potere romano in cui adesso è di casa la Lega, li frequenta da un pezzo. Ma finora, per Federico Arata, non c’era stato nulla più che una consulenza informale. Consigli da spin doctor sulle questioni economiche e internazionali, visto che lui del mondo ne sa e a 34 anni nemmeno compiuti si vanta di aver visitato “123 Paesi in tutti e sei i continenti” (è stato pure in Antartide, presumiamo).

Ma al figlio di Paolo, il manager dell’eolico finito ieri nell’inchiesta per corruzione con il sottosegretario leghista Armando Siri, mancava il pezzo di carta che consacrasse il legame tra i big del Carroccio e la famiglia genovese degli Arata: ci ha pensato Giancarlo Giorgetti, l’eminenza grigia che siede alla Presidenza del Consiglio. E che gli ha appena affidato un incarico da “esperto” al Dipartimento per la programmazione economica. Il contratto è stato appena registrato alla Corte dei Conti e non compare sui canali ufficiali. “Il ruolo era in iter”, tiene a specificare adesso Federico Arata, che precisa come finora non abbia “mai lavorato con il sottosegretario Giorgetti a Palazzo Chigi”.

La Lega diffonde il curriculum del manager che vive tra Londra, la Svizzera e il Pakistan, per dimostrare che non si tratta di un raccomandato ma di un professionista di livello: in effetti, al diploma, alla laurea e al master nelle migliori accademie internazionali, è seguita una sfilza di incarichi prestigiosi nel mondo delle banche e della finanza: da Bnp Paribas a Nomura, da Credit Suisse a Sturgeon Capital. Negli archivi pubblici della Company House di Londra risultano due società di Federico Arata, entrambe inattive. La Sikander Ventures Ltd, creata nel 2017 è ancora presente sul web con un sito focalizzato sulle opportunità di impresa in Asia ma è chiusa da gennaio. Mentre la Aracorp Investment Ltd nella quale ha avuto un ruolo anche la sorella Silvia, classe 1987, è chiusa dal 2014. Al di là della carriera, però, di lui si è scritto molto ne Il libro nero della Lega di Giovanni Tizian e Stefano Vergine che, tra le altre cose, hanno raccontato come sia stato lui a organizzare l’incontro fra Donald Trump e Matteo Salvini l’8 dicembre 2017 a New York. E anche come sia sempre Federico Arata ad aver accompagnato l’ex stratega di Trump, Steve Bannon, nella sua trasferta romana nel settembre scorso.

Ieri La Stampa ha aggiunto il particolare di una email in cui Arata junior “parla del viaggio negli Usa di Salvini come di un’occasione per dare visibilità alla proposta di Siri sulla flat tax” e in cui lo stesso Siri viene descritto come “una persona onesta, con le giuste motivazioni”. Interlocuzioni che è probabile siano state attivate anche nel caso della trasferta americana di Giorgetti, che ai primi di marzo è stato cinque giorni tra Washington e New York, causando non pochi mal di pancia nella parte grillina del governo, che non ha mai capito fino in fondo a che titolo il sottosegretario avesse condotto la sua attività diplomatica.

Oggi chi frequenta i Palazzi racconta che Arata fosse di casa al Viminale. Così come lo ricordano spesso insieme al sottosegretario Guglielmo Picchi nelle stanze del ministero degli Esteri. Ma all’epoca, nessuno conosceva i legami di famiglia, che andavano ben oltre l’attività dello spin doctor. Ora che il padre Paolo è accusato d’aver dato o promesso 30 mila euro al sottosegretario della Lega che doveva aiutarlo a cambiare le leggi per favorire i suoi affari, tutto cambia. E dal Movimento parte immediata la richiesta di revocare quell’incarico, oggi diventato così ingombrante. “La domanda che, per una questione di opportunità politica, ci poniamo – scrivono i 5 Stelle in una nota – è se Salvini fosse a conoscenza di tutto ciò”. Tirano in ballo il vicepremier e si augurano che “sappia fornire quanto prima elementi utili a chiarire. Non solo al M5S, con cui condivide un impegno attraverso il contratto di governo, ma anche ai cittadini”. La partita è salita di livello. Per la Lega “si sgonfierà nell’arco di qualche ora”. A occhio, non sembra.

Cantone replica a Salvini: “Sminuisce un reato grave”

“io credo che il patteggiamento giuridicamente corrisponda a una condanna. Per me uno che patteggia una bancarotta è colpevole di bancarotta”. Per il presidente dell’Anac, Raffaele Cantone, i precedenti giudiziari del sottosegretario ai Trasporti, il leghista Armando Siri, oggi indagato per corruzione e che in passato aveva patteggiato una condanna per bancarotta, non possono essere trascurati. Il n. 1 dell’Autorità anticorruzione ha espresso il suo parere alla trasmissione radiofonica Circo Massimo. La questione nasce dal fatto che, a prescindere della nuova inchiesta in cui è coinvolto, Siri era entrato nel governo gialloverde nonostante avesse già dei trascorsi, archiviati però da Matteo Salvini, che ha definito il sottosegretario “persona onesta e specchiata”. Al riguardo, Cantone ha aggiunto: “Io ho le mie valutazioni, ritengo che la bancarotta sia un reato grave, evidentemente Salvini la pensa diversamente”. Nessuna replica dal leader del Carroccio: “Non ho tempo per parlare di Cantone, della Raggi e di Toninelli”, ha glissato il vicepremier.

L’assessore Barberini torna in libertà “Restano gravi indizi”

A una settimana dall’arresto torna libero, su disposizione dello stesso gip che aveva disposto i domiciliari, l’ex assessore regionale alla sanità della Regione Umbria, Luca Barberini, indagato nell’ambito dell’indagine sui presunti concorsi pilotati all’ospedale di Perugia. La revoca dei domiciliari era stata chiesta stamani dal difensore di Barberini, che è stato l’unico dei principali indagati a rispondere all’interrogatorio. Il giudice, però, ha sottolineato che “rimane inalterato il grave quadro indiziario a suo carico.” Parlando, anzi, di una “ricostruzione alternativa poco persuasiva” in relazione a una conversazione al centro del fascicolo, relativa alla procedura per l’assunzione di infermieri. Barberini però intanto ha documentato di avere lasciato il suo incarico, e proprio questa circostanza viene ritenuta “idonea” a mutare il quadro cautelare: non essendo più assessore, è “assai più difficile se non improbabile la ripetizione dei medesimi delitti nell’ambito del settore sanitario”. Si è invece avvalso della facoltà di non rispondere su consiglio dei suoi difensori l’ex segretario umbro del Pd Gianpiero Bocci, anche lui ai domiciliari.

Dodici mesi di pressioni: il senatore (e la Lega) hanno spinto la lobby eolica

Adesso che “tutto è più chiaro”, ora che agli occhi dei 5 Stelle di governo è diventato “plastico” che “quando certe cose non le abbiamo capite, abbiamo fatto bene a metterci di traverso”, i ricordi riaffiorano. E si mettono insieme i pezzi di questo anno a Palazzo Chigi con Armando Siri.

Maggio 2018. Lega e M5S sono al tavolo per la stesura del Contratto di governo. La composizione dell’esecutivo è ancora lontana. Ma Siri, l’ideologo della flat tax che segue le politiche fiscali per conto della Lega, è tra coloro che più insistono per ammorbidire i requisiti di nomina per ministri e sottosegretari. Lui, d’altronde, ha patteggiato per bancarotta e (come leggete a pagina 3) anche per la sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte. Alla fine il codice etico con l’elenco dei reati che sbarravano la strada alla nomina non lo lascia fuori. “Ma Siri era molto attento, invocava maglie larghe” sostiene un big 5 Stelle.

Luglio 2018. Al ministero per lo Sviluppo economico, dove è aperto il dossier sulle Rinnovabili, arriva la richiesta di Siri, che nel frattempo è diventato sottosegretario alle Infrastrutture e Trasporti: vuole una modifica al decreto ministeriale del 2016 che stabilisce quali impianti possono avere accesso alle “tariffe incentivanti”, allargando la platea a chi non ha rispettato il termine per la presentazione dei documenti al Gestore dei servizi energetici. Il gabinetto del ministro Luigi Di Maio lo giudica una “sanatoria” e lo accantona. Siri insiste e per quattro volte trova un muro: il capo di gabinetto Vito Cozzoli e la sua vice Elena Lorenzini, il sottosegretario Davide Crippa, l’allora direttore generale del mercato elettrico, Rosaria Romano. Tutti gli rispondono che quella norma non si può inserire. Anche perché, dicono nel M5S, “ogni volta che ci contatta Siri alziamo l’attenzione del 1000 per cento”.

Agosto 2018.Stefano Besseghini diventa presidente dell’Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente (Arera). Il via libera arriva dopo una “lotta mostruosa” che i sottosegretari 5 Stelle Davide Crippa e Stefano Buffagni hanno dovuto “tenere con i denti”. La Lega voleva per quel posto Paolo Arata, ora accusato di aver corrotto Siri.

Dicembre 2018. La legge di Bilancio è all’esame del Senato. Siri ripropone la richiesta sugli incentivi. L’emendamento è firmato dal capogruppo della Lega a Palazzo Madama, Massimiliano Romeo. “Quando leggiamo quel nome drizziamo sempre le antenne – raccontano oggi da Chigi – perché sappiamo che è una richiesta che arriva dall’alto, direttamente dal partito”. Prima della bocciatura politica, però, arriva il parere negativo dei tecnici del ministero dell’Ambiente, secondo i quali “si sposta in avanti un termine per l’applicazione agli impianti a fonti rinnovabili di tariffe incentivanti più vantaggiose. Così si registrerebbe un impatto negativo sulle bollette per riconoscere un vantaggio ad impianti comunque già entrati in servizio”. Siri e la Lega non mollano: chiedono che il parere del ministero venga riformulato. Ma arriva lo stop del ministro dei Rapporti con il Parlamento Riccardo Fraccaro, che stava “scremando” gli emendamenti alla manovra. Lo stesso fanno il sottosegretario Crippa e la viceministro Laura Castelli quando il pressing della lobby dell’eolico arriva anche sul Milleproroghe.

Marzo 2019. Scoppia la crisi sul Tav, che per il Movimento è il male e per il Carroccio una grande opportunità. La Lega preme, e parla apertamente della necessità di nominare un commissario alle grandi opere, cioè di commissariare il ministro alle Infrastrutture dei 5Stelle Danilo Toninelli. “Secondo me sarebbe una soluzione di buon senso, ci eviterebbe una via crucis”, afferma Siri in radio a Mattino 24, l’11 marzo. E ora un graduato del M5S racconta: “I più accreditati dal Carroccio per quell’incarico erano proprio lui, Siri, e l’altro sottosegretario Edoardo Rixi”. Il Movimento però fa muro, e Max Bugani lo dice a L’aria che tira il giorno dopo, il 12 marzo: “Non arriverà nessun commissario Basettoni a commissariare il Mit”.

Così Mr. Flat Tax portava all’estero i soldi delle tasse

Armando Siri, senatore della Repubblica, sottosegretario ai Trasporti, militante leghista, teorico della flat tax, non sa nulla della mazzetta da 30 mila euro che – secondo le accuse della Procura di Roma – avrebbe preso dal professor Paolo Arata. Non sa nulla di emendamenti di legge cambiati per favorire il “re dell’eolico” Vito Nicastri. Non sa nulla dei rapporti tra Nicastri e il superboss di Cosa nostra Matteo Messina Denaro.

Non può non sapere, però, di avere patteggiato, il 20 maggio 2014, davanti ai giudici del Tribunale di Milano, una condanna a 2 anni e 6 mesi di reclusione, ridotta a 1 anno e 8 mesi per la scelta di patteggiare. È una condanna per bancarotta fraudolenta: la sua società, Mediaitalia srl, è fallita lasciando debiti per oltre 1 milione di euro.

Il capo del suo partito, Matteo Salvini, dopo le accuse di corruzione avanzate nei giorni scorsi dalla Procura di Roma, lo ha difeso affermando che “Armando Siri è persona specchiata e onesta”. È stato il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone, a ricordare però ieri anche la vecchia storia del patteggiamento per bancarotta e a dichiarare: “Per me uno che patteggia una bancarotta è colpevole di una bancarotta. E la bancarotta è un reato grave, anche se evidentemente il ministro Salvini la pensa diversamente”.

Ma c’è di più. La vicenda del crac Mediaitalia è già stata in parte raccontata dai giornali e Siri ha tentato di spiegarla come la conseguenza spiacevole di un affare andato male. Succede, a chi si accolla il rischio d’impresa, di non farcela e fallire. Nel suo caso, però, non è andata così. Ciò che i giornali non hanno ancora raccontato è che il suo patteggiamento non riguardava soltanto la bancarotta, ma anche un altro reato: la “sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte”. Siri ha nascosto soldi all’estero per non pagare le tasse e non doverli restituire ai creditori.

La sua società inizia a operare nel 2002. Con due soci, produce contenuti editoriali per media e aziende. Ma gli affari vanno male e nel 2005 ha già un rosso di 1 milione di euro. Che cosa fanno allora Siri e i soci? Chiudono Mediaitalia, di cui viene nominata liquidatrice una cittadina dominicana, che di mestiere fa la parrucchiera. Una prestanome, secondo i giudici, una testa di legno. Intanto Mediaitalia viene svuotata e il suo patrimonio viene trasferito a un’altra società, la Mafea Comunication, così i creditori restano a bocca asciutta. Altre due società in cui Siri ha ruoli spariscono dall’Italia trasferendo la sede legale nel Delaware, paradiso fiscale nel cuore degli Stati Uniti.

Quanto al reato di “sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte”, i giudici della seconda sezione penale del Tribunale di Milano scrivono che Siri e i suoi complici “ordiscono un’operazione” in quattro mosse, al fine, appunto, “di consentire a Mediaitalia srl di sottrarsi fraudolentemente al pagamento delle imposte”.

Prima mossa: costituiscono una nuova società, la Mafea Comunication srl, “alla quale, senza alcun contratto né corrispettivo, venivano ceduti tutti i beni mobili, le attrezzature, i computer di Mediaitalia srl, nonché un contratto di leasing avente a oggetto una autovettura Mercedes Slk 200”.

Seconda mossa: trovano la prestanome per far gestire Mediaitalia ormai in stato di decozione, nominando liquidatrice Nancy Maria Marte Milniel, che i giudici definiscono “vera e propria testa di legno, priva del benché minimo ruolo gestionale”. Terza mossa: il 12 aprile 2007 il Tribunale di Milano emette la sentenza che dichiara fallita Mediaitalia. Poi arriva la quarta mossa. Siri, socio di maggioranza della società Top Fly Edizioni srl, delega un commercialista, Antonio Carlomagno, a diventare presidente dell’assemblea straordinaria e a deliberare “di azzerare il capitale sociale, al fine di coprire la perdita emersa dal bilancio d’esercizio, chiuso al 31 dicembre 2006”.

Così spariscono altri 2 mila euro, il valore della quota sociale vantata da Mediaitalia in Top Fly Edizioni. Carlomagno è lo stesso professionista che viene indagato (e poi assolto) nell’inchiesta sulla Perego Strade, la società di Lecco scalata e spolpata dalla ’ndrangheta tra il 2008 e il 2010.

L’operazione in quattro mosse ottiene il risultato di togliere al fisco 162 mila euro, tra cui 96 mila euro di imposte non pagate, 4,8 mila euro di contributi Inps e 62 mila euro di contributi Enpals non versati.

Quanto al reato di bancarotta fraudolenta, Siri e i suoi complici “cagionavano il fallimento della società per effetto di operazioni dolose”, “svuotando il patrimonio sociale attraverso operazioni distrattive”. Ma, per Salvini, Siri resta “persona specchiata e onesta”.

Caso Siri, i pm ora cercano i finanziamenti alla politica

La Dia indagherà sui flussi finanziari partiti dalle società di Paolo Arata, l’imprenditore ritenuto dai pm di Palermo prestanome di Vito Nicastri, il “re” dell’eolico, secondo i magistrati stessi, legato al boss Matteo Messina Denaro. Arata, in Sicilia, è indagato per trasferimento fraudolento di valori con l’aggravante di aver favorito l’associazione mafiosa. Ma ha guai anche a Roma, dove è iscritto per corruzione con il senatore leghista, Armando Siri. I pm capitolini, Paolo Ielo e Mario Palazzi, accusano il sottosegretario di aver tentato di promuovere provvedimenti per favorire Arata in cambio di 30 mila euro dati o promessi. Analizzando i bilanci, ma anche tutti i documenti presi durante le perquisizioni a casa e presso le società di Arata, gli investigatori vogliono capire se l’imprenditore abbia finanziato i partiti politici, e quindi anche la Lega Nord alla quale si è avvicinato dopo un passato da parlamentare forzista al punto da scrivere il programma del partito sull’energia. Le indagini sono all’inizio. Solo alla fine si saprà che giri ha fatto il denaro dell’imprenditore. Il Fatto ha chiesto a un portavoce della Lega se risultano finanziamenti da parte di società di Arata alla Lega o ad associazioni legate al partito. La risposta è stata: “Non lo so”.

In mancanza di certezze dalla politica, si attende l’esito delle indagini. Tra le altre cose, gli investigatori controlleranno anche il contenuto dei pc e del cellulare sequestrato ad Arata, come pure le sue agende. Anche in questo caso si vogliono chiarire i rapporti con la politica. Intanto ai pm già risulta come, proprio dopo le ultime elezioni e con il governo che doveva ancora formarsi, Arata si sia attivato per spingere con esponenti politici la nomina di colui che poi diventerà sottosegretario. I pm non hanno dubbi: “Arata è stato anche sponsor per la nomina” di Siri “proprio in ragione delle relazioni intrattenute”, è scritto nel decreto di perquisizione di due giorni fa. Su chi siano stati gli interlocutori politici dell’imprenditore si tiene però il massimo riserbo.

Intanto, due giorni fa, sono stati interrogati come persone informate sui fatti, il sottosegretario allo Sviluppo economico Davide Crippa, il capo di gabinetto di Luigi Di Maio, Vito Cozzoli e l’ex direttore generale del mercato elettrico, Rosaria Romano. Ieri, invece, è stata la volta di Elena Lorenzini, vicecapo di gabinetto del Mise. I testimoni sono stati sentiti per ricostruire la vicenda e chiarire anche le presunte pressioni che, secondo la Procura di Roma, il sottosegretario Siri faceva per “promuovere provvedimenti regolamentari o legislativi che contengano norme ad hoc tese a favorire gli interessi economici dell’Arata, ampliando a suo favore gli incentivi per l’energia elettrica da fonte rinnovabile a cui non ha diritto”. Tra Arata e Siri, secondo i pm, vi era uno “stabile accordo”.

Davanti ai magistrati così i testimoni hanno chiarito per esempio la modifica al decreto ministeriale che dava gli incentivi anche agli impianti che avevano presentato in ritardo la documentazione al Gse, la società pubblica che eroga incentivi per le rinnovabili.

Gli alti funzionari del ministero dello Sviluppo economico guidato da Luigi Di Maio, hanno quindi raccontato, tra le altre cose, l’iter di presentazione del testo con oggetto “emendamento articolo 24, comma 2, D.M. 23/6/2016” e come questo sia stato bloccato dal loro intervento.

 

Si chiama crisi

Chiamiamo le cose con il loro nome. Nel breve volgere di una settimana, il vicepremier Matteo Salvini ha, nell’ordine: delegittimato il premier Giuseppe Conte, impegnato in una difficilissima mediazione diplomatica sulla guerra in Libia, facendo incontri paralleli con rappresentanti libici e non; impartito direttive sulla panzana dei “porti chiusi” ai vertici militari e costringendo lo Stato Maggiore della Difesa a spiegargli con un’inedita nota scritta la corretta linea gerarchica Quirinale-Palazzo Chigi-Difesa-Esercito, escluso dunque il Viminale; tentato di commissariare i sindaci di tutta Italia con una sgangherata direttiva ai prefetti che ne aumenta i poteri in caso di non meglio precisate “denunce” di “illegalità” (escluse, immaginiamo, quelle dei leghisti); aggredito con assalti quotidiani la sindaca della Capitale, Virginia Raggi, fino alla ridicola richiesta di dimissioni per il ridicolo “caso” montato da ridicoli giornali (tutti) sul bilancio farlocco dell’Ama, bocciato dal collegio sindacale e da tutte le istituzioni preposte a valutarlo, dunque sacrosantamente respinto dal Campidoglio; difeso a spada tratta la permanenza al governo del pluri-impresentabile sottosegretario Armando Siri, che ha patteggiato 1 anno e 8 mesi di carcere per bancarotta fraudolenta e sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, ed è di nuovo indagato per presunte tangenti da un socio occulto del prestanome di Messina Denaro, in cambio di una norma su misura per una sua società; annunciato il no della Lega a una misura già concordata in Consiglio dei ministri per la fine della gestione commissariale del debito di Roma (13 miliardi di buco accumulati dagli anni 50 al 2008 dalle giunte di pentapartito, di sinistra e di destra, e dirottati in una bad company da B. e Alemanno, cioè da FI, An e Lega), che farà risparmiare ai romani e al resto degl’italiani centinaia di milioni rinegoziando gl’interessi con le banche.

Questa escalation di smargiassate e gaglioffate da guappo di cartone ha un solo nome: crisi di governo. “È fattuale”, come direbbe il Feltri di Crozza. Qui siamo ben oltre le punzecchiature fra alleati, le sparate propagandistiche (come l’irrealizzabile Flat Tax) e le rivendicazioni delle proprie specificità tipiche delle campagne elettorali nei sistemi proporzionali. Quella di Salvini è una lucida e cinica strategia per schiacciare il partito di maggioranza relativa, i 5Stelle, mentre si riprendono anche mediaticamente il ruolo loro affidato dagli elettori il 4 marzo 2018. Il vicepremier sabota sistematicamente il governo. Straccia il contratto di programma.

E distrugge quel poco di buono che potrebbero ancora a fare i giallo-verdi per affermare che l’Italia è cosa sua e mascherare il suo nervosismo. Da un mese l’avanzata della Lega nei sondaggi s’è fermata, anzi molti la danno in discesa. E lo scandalo Siri, che poi è lo scandalo Arata, dimostra plasticamente i virus introiettati da quel vecchissimo partito finto-nuovo che è la Lega imbarcando il peggio dell’Ancien Régime e del Partito degli Affari, dalla Sicilia in su. Arata, sul Carroccio, non l’ha portato la cicogna: l’ha portato Salvini. Gli ha fatto scrivere il programma leghista sull’energia in barba al suo clamoroso conflitto d’interessi; ha tentato di piazzarlo all’Authority per l’Energia; gli ha fatto sistemare da Giorgetti il figlio Federico (amico di Bannon) al Dipartimento programmazione economica, gli ha regalato un potere abnorme che lo autorizzava a sponsorizzare Siri come sottosegretario e poi a commissionargli una norma ad (suam) aziendam. Ora, nel tentativo disperato di dirottare altrove l’attenzione generale, Salvini chiede in combutta col Pd la testa della sindaca eletta dal 67% dei romani, con l’aiuto della stampa amica e di quella finto-nemica. Purtroppo per lorsignori, la Raggi non ruba. E più escono le sue chat e le sue conversazioni, più si scopre che dice in privato ciò che dice in pubblico. Ma ancora una volta viene usata da tutti come arma di distrazione di massa: dalla Lega per nascondere Arata e Siri; dal Pd per far dimenticare Zingaretti indagato per finanziamento illecito, la giunta umbra dei concorsi truccati e tante altre vergogne; da Forza Italia per occultare Forza Italia; e dai giornaloni (anche de sinistra) per fare pari e patta tra il finto scandalo Ama e i veri scandali dei vecchi partiti.
Il 16 maggio 2018, in una leggendaria diretta Facebook, Salvini magnificava “le bellezze di Roma” e aggiungeva entusiasta: “E non ci sono buche, almeno qua dove sono io!”. Una ridicola captatio benevolentiae al futuro alleato di governo, con cui stava trattando per il Contratto: possibile che scopra le buche un anno dopo, quando sono pure diminuite per la partenza di molti cantieri stradali? È chiaro come il sole che Salvini vuole arrivare alle Europee con i 5Stelle sotto le scarpe, pronto a mollarli subito dopo per andare al più presto alle elezioni anticipate. La sua ascesa si sta esaurendo e attendere altri mesi, per un bulimico da social e da sondaggi come lui, sarebbe esiziale. Se non ufficializza ancora la crisi, è solo perché non saprebbe come spiegare agli italiani la caduta di un governo col 60% di consensi che, senza alternative, getterebbe l’Italia nel marasma in un momento tanto delicato. Spetta dunque ai 5Stelle e al premier Conte rompere gli indugi, evitare altri compromessi al ribasso e sfidare Salvini a viso aperto: o libera il governo dalla presenza inquinante di Siri (e la Lega, se può, dei vari Arata), vota la norma taglia-debito di Roma e riprende a collaborare lealmente (sempreché conosca il senso dell’avverbio) con i partner che s’è scelto 10 mesi fa, oppure è lui ad aprire la crisi. E sarà lui a dover spiegare ai fan perché, fra l’Italia e gli Arata, sceglie i secondi.

Riecco Vezzoli: no politica, no party

Senza scomodare Platone e i suoi richiami al “buon politico” di non cadere “nella vertigine del vizio”, già le cronache mondane del conte Robert de Montesquiou della Parigi della Belle Époque come pure i romanzi di Oscar Wilde (Teleny tra tutti) e le celebri affiches di Henri de Toulouse-Lautrec durante le serate trascorse al Moulin-Rouge testimoniano come l’uomo politico, il serissimo e integerrimo uomo politico, è in sé attratto dal “vizio”, dal varietà, dal cabaret, dalle feste patinate, dalle occasioni mondane, dalle dive del palcoscenico intente a scoprire la gamba nella mossa del Can-Can di Offenbach.

La mistura di questi due mondi, ironica e sfavillante ricetta per un sacro e profano à la carte, si ritrova tutta nel nuovo progetto artistico di Francesco Vezzoli, dall’affabulante titolo PARTY POLITICS. L’intrattenimento della politica, la politica dell’intrattenimento.

Come in TV 70: Francesco Vezzoli guarda la Rai del 2017 l’artista metteva in scena filmati, sketch, spezzoni di trasmissioni degli anni 70 all’interno di un teatro della visualità di cose già viste che tuttavia acquisivano lì un nuovo significato tanto generale quanto particolare, nell’odierna esposizione romana Vezzoli si adopera in un progetto di arte visuale quasi storiografico.

Incorniciate come dipinti ed energicamente esasperate nei colori pop, sfilano le fotografie di Sandra Milo con Gianni De Michelis, o della stessa Milo con il presidente della Repubblica Sandro Pertini mentre gli porge una mela, e poi Edwige Fenech con Enzo Biagi prima e con Susanna Agnelli dopo, Gina Lollobrigida con Giulio Andreotti, e lo stesso Andreotti in mezzo a Corrado, Vittorio De Sica, Grillo a una kermesse dei Telegatti; e ancora Giuliano Ferrara accanto a Moana Pozzi, Cicciolina in Parlamento mentre sfoglia L’Unità o sfila nuda avvoltolata in una bandiera americana, Mara Venier con Cacciari al Carnevale di Venezia (al netto dell’ultima querelle sull’eventuale candidatura della Venier a sindaco della Serenissima).

Tuttavia, quella che solo all’apparenza può sembrare un’esaltazione del pop nella politica, è in realtà una storiografia del contrasto, dell’ambivalenza del vero: quello che si definisce kitsch o trash, Vezzoli lo rilegge sospendendo ogni giudizio etico e lo vivifica con una cornice estetica dirompente, suggerendo a chi guarda la sua mostra una grande verità, e cioè che l’immagine è la prova che l’estetica precede ogni etica.

Vampiri e yeti non sono mai stati così simpatici

Cosa c’è di più gustoso delle caccole? O cosa di più divertente che vedere due occhi uscire dalle orbite e rotolare a terra in mezzo a una schiera di invitati? E siamo sicuri che, in fondo, quello che ci hanno sempre raccontato sugli “altri” corrisponda al vero? Siamo a Notturnia, regno delle Creature della notte, e se avete voglia di far leggere ai vostri bambini questi meravigliosi libri dovete lasciare il bon ton fuori dalla porta. Anche quando leggete di esclamazioni in forma di rutti. Protagonista de “Il ballo di mezzanotte” e del “Regno degli unicorni” è Amelia Fang, generosa seppur bruttina vampirella – ma del resto i vampiri non sono mai belli – figlia della contessa Frivolezza e del conte Sauro, grande amico del Re Vlad. Amelia ha due amici del cuore: la yeti Ulla e l’annunciatore di morte Tazio (che in verità proprio coraggioso non è). Insieme dovranno fare amicizia con Arsenico, il figlio viziatissimo di Vlad – nel primo libro – e scoprire cosa accaduto alla mamma di lui, che è una fata – nel secondo. Già, una fata. Come possono andare d’accordo Creature delle tenebre e abitanti del giorno, soprattutto se la propaganda tiene i due mondi separati e timorosi l’uno dell’altro? Dalla penna della disegnatrice Laura Allen Anderson sono nati dei personaggi talmente mostruosi da far sganasciare dalle risate. Anche gli adulti.

Il nuovo Mister No, ribelle contro il conformismo del Sessantotto

Il reboot è sempre un’operazione complicata: si prende un personaggio già conosciuto, si azzera il suo passato narrativo e lo si rilancia da zero. Il rischio è di non riuscire a conquistare nuovi lettori e di irritare quelli più affezionati. Da qualche anno, la Sergio Bonelli Editore sperimenta questa operazione con alcuni decenni di ritardo rispetto a Marvel e DC nel mercato americano. Con risultati alterni. Mister No è uno di quelli meglio riusciti. Jerry Drake, nella versione originaria ideata da Sergio Bonelli (sceneggiatore con lo pseudonimo di Guido Nolitta) era un reduce della Seconda guerra mondiale che pilotava un piccolo aereo in Amazzonia: un ribelle, a modo suo, che preferiva l’avventura al benessere piccolo borghese anni Cinquanta. Questo alter ego narrativo è rimasto per anni il più incongruo degli eroi bonelliani, sempre fuori tempo e per questo affascinante. Michele Masiero e Alessio Avallone rilanciano il personaggio dopo la chiusura della serie regolare con una storia, pubblicata in un elegante volume a colori, e una scelta non ovvia: slittano l’ambientazione di Mister No di una quindicina d’anni. Non è un reduce della Seconda guerra mondiale ma del Vietnam, non nell’America repressa degli anni Cinquanta, ma nel pieno della contestazione del Sessantotto che, con una sensibilità molto contemporanea, questo nuovo Jerry Drake osserva come l’ultima declinazione del conformismo. Nell’episodio di presentazione, questo nuovo Mister No vede il meglio e il peggio del movimento per i diritti civili degli omosessuali e degli afroamericani, si trova senza chiederlo sul fronte violento, con le Pantere nere. E lui, refrattario a ogni appartenenza, sceglierà una sua strada personale. Questo Mister No non ha il fascino vintage dell’originale. Ma ha fascino.