A Piolenc, dove scompaiono i bimbi: arriva il thriller rivelazione in Francia

Quanti angoli di buio ci sono in un’inchiesta infinita, senza soluzione per quasi trent’anni? Sono decine e quando vengono padroneggiati con semplicità e maestria allo stesso tempo, ecco venir fuori una trama cupa e avvincente. Come quella dei Gemelli di Piolenc di Sandrine Destombes (traduzione di Maurizio Ferrara), che nel 2018 è stato premiato come miglior thriller francese. A ragione.

Siamo a meno di 40 chilometri da Avignone, capoluogo della Vaucluse. Piolenc è un paesino di cinquemila abitanti che si trascina dal 1989, l’anno della caduta del Muro, un mistero atroce. Due gemelli rapiti (?), di undici anni: Solène e Raphaël. Era la fine di agosto e i due bambini scomparvero durante la sagra dell’aglio. Lei, Solène, venne ritrovata oltre due mesi dopo in un cimitero parrocchiale. Uccisa. E vestita con un abito bianco e una corona di fiori tra i capelli. “Sembrava un angelo”, disse il giardiniere che scoprì il piccolo cadavere. Per tre decenni, il padre Victor tenta disperatamente di risalire alla verità e soprattutto sapere che fine ha fatto il gemello maschio. La moglie, distrutta, nel frattempo si è impiccata. Trent’anni dopo, nel 2018, a Piolenc sparisce un’altra bambina, Nadia, che però torna a distanza di due giorni e recapita un messaggio di Solène per Victor. I colpi di scena, tratteggiati seccamente, senza fronzoli, si succedono a ritmo continuo, seguendo una logica cartesiana – come quella del capitano Fabregas che indaga – ma senza un movente. Sono appunto gli angoli bui di un’inchiesta vastissima. Il lettore non fa in tempo a sospettare di qualcuno che subito viene smentito e spiazzato.

Il viaggio di Alda: scegliere il male per finire nel bene

Regola numero uno: provare a limitare al minimo l’estensione di una storia. Esempio: se si racconta una maratona, descrizione della partenza, del chilometro dieci, del chilometro quaranta, arrivo.

Regola numero due: i personaggi agiscono in funzione dell’intreccio e le loro biografie dovrebbero essere appena accennate; ridurre anzi se possibile eliminare i flashback.

Queste sono due fra “le regole” della narrativa che Francesca Capossele al suo secondo romanzo scardina con pervicace sfrontatezza. Nel caso non mi riconoscessi propone ai lettori un corpo a corpo sull’attenzione narrativa con una consapevolezza quasi provocatoria.

L’esordio di Capossele, 1972, era connotato dai limiti geografici (un trasferimento da Ferrara a Bologna) e cronologici (tutto ruotava intorno agli anni 70). Tutto all’opposto Nel caso non mi riconoscessi che invece abbraccia l’asse Italia-Germania nel Novecento, in uno sviluppo in tre atti, dal 1939 al 1953, dal 1953 al 1989, dal 1989 al 1995. Nel corso di questi la protagonista Alda, anche stavolta una ferrarese, affronta le pene della Seconda guerra mondiale, diventa l’amante di un Hauptmann tedesco, non riesce a espatriare, ma è costretta a fare da crocerossina per un altro soldato crucco (primo atto). Molti anni dopo abbandona il fidanzato italiano, di facciata, per correre invece oltre confine dal suo Stephan Felder e diventare la signora Carin Condotti-Felder, non più Alda, e da cittadina della DDR vedrà amici e amiche morire, sarà spiata e spierà, verrà cornificata e cornificherà (secondo atto), per poi…

Il terzo atto è il movimento finale durante e dopo la caduta del muro, un epilogo di fantasmi, una pacificazione, quasi una beatificazione di Alda.

C’è materiale per la Recherche, eppure si tratta di un romanzo di meno di duecento pagine.

La scrittura di Capossele è scarna, asciutta. Non ha fronzoli, ma possiede una poderosa forza evocativa. Le bolle biografiche che si gonfiano sotto o sopra la superficie dell’intreccio non esplodono mai, sono fragilissimi macchinari che sostengono il racconto di Alda. Di ogni personaggio scopriamo vita precedente, motivazioni, drammi, sotterfugi. Questa sorta di archivio letterario sui personaggi maggiori e secondari ha l’aria di un rendiconto spionistico, come se la Stasi avesse forgiato il romanzo in una lingua letteraria base. Si deve sapere tutto di tutti, e in questo delirio di onnipotenza orwelliana non si arriva mai a conoscere i baratri umani dei personaggi che appaiono come punte di iceberg.

La combinazione di questa superficie e del sospetto della profondità rende il testo ipnotico, quasi mantrico, senza che si percepisca l’esigenza di un rifugio nel passato, come è spesso accaduto in narrazioni recenti. La stessa Alda, in fondo, compie un viaggio anomalo, anticonformista: dall’Est tutti volevano scappare verso l’Ovest, mentre lei segue un percorso inverso.

Sempre in direzione ostinata e contraria, è anche la sua etica. Nel finale rothiano (nel senso di Joseph), salvifico e mistico, Alda sceglie il bene, anche perché “ha scoperto che fare il bene è molto più facile che fare il male. Per la cattiveria ci vuole talento, forza, fantasia, dolore, intelligenza, carattere, follia”. Più o meno quello che serve per scrivere i romanzi.

 

L’attore Cristicchi spicca il “Volo”: “L’arte mi ha salvato la vita”

Cosa impedisce all’uomo di volare? Simone Cristicchi non pretende di dare una risposta a una domanda così grande, ma racconta la sua visione personale regalando al pubblico momenti di riflessione e bellezza: nel suo spettacolo Manuale di volo per l’uomo, sui palcoscenici romani fino a domani (al Teatro Sala Umberto), l’artista entrerà nei panni di Raffaello, un uomo adulto con l’anima da bambino. “A volte solamente gli individui che riteniamo pazzi possono permettersi di trattare temi enormi come l’amore, la sofferenza e la bellezza senza sembrare retorici”, spiega Cristicchi, che oltre a essere il principale interprete è autore del testo, dimostrando di saper conquistare il pubblico anche attraverso il teatro, oltre che tramite la musica.

Come egli stesso commenta, facendo un bilancio sul tour di questo spettacolo – che sta per giungere a termine dopo aver fatto tappa in 29 città italiane –, “le persone che sono venute a vedere la rappresentazione hanno apprezzato moltissimo. Si sono meravigliate: per me è stato un azzardo passare dalle vesti di narratore a quelle di attore completo, ma è stato un passo successivo verso un altro linguaggio che prescinde da quello della musica”. Questo dipende dai temi trattati, che si prestano meglio a una narrazione teatrale? “Tutto nasce da una ricerca sulle grandi domande dell’essere umano. Io ho provato a dare la mia risposta, che non pretende di essere universale, perché è figlia della mia personale esperienza: quando avevo solo 12 anni subii un grande lutto, e precipitai nel dolore. A salvarmi fu l’arte: mi ha curato. Per questo ritengo che sia fondamentale riscoprire la poesia, la bellezza”. È quindi in questo che risiede l’ingrediente segreto per spiccare il volo? “Anche, ma non solo: secondo me sono fondamentali le sinergie che nascono dall’interazione con gli altri e dal silenzio, che dobbiamo coltivare quotidianamente per riscoprire la nostra dimensione più intima e tornare a porci le domande che contano”.

Con Paolini-Ulisse allo Chalet Olimpo

Gli antichi greci erano ossessionati dal limite, ma il limite era anche la loro ricchezza: ciò che li rendeva umani, e quindi finiti e mortali, al contrario degli dèi. Questa visione del mondo precluse loro alcune strade – ad esempio, il calcolo infinitesimale (l’infinito era caos orrendo) e quindi l’analisi matematica –, ma ne spianò altre, come la straordinaria affabulazione sul pantheon olimpico, con le sue divinità annoiate e perciò capricciose e rissose. Tutto questo pippotto preliminare per dire che la mitologia non è una barzelletta, benché le baruffe tra Zeus ed Era, Afrodite e Artemide, Apollo ed Ermes, eccetera, facciano ridere. E per dire anche, en passant, qual è la crepa strutturale di Nel tempo degli dèi. Il calzolaio di Ulisse: la riduzione del mito, se non a barzelletta, a storiella, con l’eroe che si fa tapino e gli dèi macchietta.

Lo spettacolo di e con Marco Paolini ha chiuso ieri le repliche al Piccolo Teatro Strehler di Milano (che per la prima volta ha prodotto l’artista, insieme con Jolefilm), ma la tournée proseguirà. Oltre a Paolini, che firma anche il testo con Francesco Niccolini, la regia è affidata a Gabriele Vacis, lo “stile” a Roberto Tarasco e la recita agli attori e/o musicisti Saba Anglana, Elisabetta Bosio, Vittorio Cerroni, Lorenzo Monguzzi ed Elia Tapognani: l’ensemble è ottimo, ma qualcosa nella fattura della pièce non convince fino in fondo, a partire dalla drammaturgia.

È da anni – dal 2003 almeno – che Paolini è sulle tracce di Ulisse, qui immaginato come un calzolaio viandante, con remo in spalla come da profezia di Tiresia: è appena ripartito da Itaca, dopo essersi frettolosamente riconciliato con moglie e figlio e aver fatto strage di achei, un’“ecatombe” (più di un centinaio di proci massacrati e una dozzina di ancelle loro amanti impiccate) imperdonabile; perciò, è condannato a nuovo esilio in solitaria, ramingo per i monti, diretto, forse per vendetta, verso lo “Chalet Olimpo”. La riscrittura è iper-attualizzata, con riferimenti spuri dall’algoritmo alle mele golden, dal voto di scambio all’arte contemporanea, dai tweet di Polifemo ai migranti, dalle terre dei fuochi ai rifiuti tossici, dal “rottamare” al “cambiamento”. Talvolta si scade anche nel triviale: cacca, spritz, bacche di goji, intolleranza al lattosio, e “che figata, e che storia”… e così il fantomatico delitto e il castigo di Ulisse perde peso e interesse e con lui le bagatelle tra gli dèi, così simili alle liti tra parenti ai matrimoni.

È pur vero, però, che sia il primattore sia il regista hanno voluto raccontare il lato b – diciamo umano – dell’eroe omerico: per il primo, infatti, Ulisse è colui che “davanti alle sirene dell’immortalità sa trovare le ragioni per resistere”; per il secondo è, invece, “l’anziano che ha bisogno di comprendere quell’inferno che sono gli altri”. Ma questo Tempo degli dèi è così schiacciato a terra che del Sottoterra non c’è traccia.

Scarlett piglia tutto, dal Kgb al nazismo agli Avengers

Dopo Avengers: Endgame, l’ultimo capitolo della saga sul gruppo di supereroi di Marvel Comics in uscita in Italia il 24 aprile, Scarlett Johansson tornerà a interpretare la spia russa Natasha Romanoff in un nuovo kolossal diretto da Cate Shortland: sul set in estate, Black Widow (come il nome in codice del suo spregiudicato personaggio) sarà un prequel delle vicende narrate nei vari Avengers e seguirà la protagonista Natasha nella sua formazione presso il Kgb. La 34enne star newyorchese apparirà nei prossimi mesi su Netflix e nella sale con Adam Drivere Laura Dern in una nuova commedia di Noah Baumbach, ancora senza titolo, che racconterà la separazione di una giovane coppia sposata. Scarlett, inoltre, ha ultimato nei mesi scorsi in Germania le riprese di Jojo Rabbit, il nuovo film del regista e attore comico neozelandese Taika Waititi, già autore del recente Thor: Ragnarok. Ambientato durante il regime nazista, il lungometraggio racconta la storia di un bambino senza padre costretto a letto per una ferita: suggestionato e condizionato dalla propaganda di Hitler, il piccolo immagina ingenuamente accanto a sé il dittatore come fosse un eroe positivo. Quando scoprirà che sua madre nasconde in casa una ragazzina ebrea sarà, però, costretto ad affrontare realisticamente i suoi problemi.

Vincenzo Marra gira da qualche settimana nelle periferie romane La volta buona, un nuovo lungometraggio (di cui è anche sceneggiatore) prodotto da Lotus e Leone Film Group e interpretato da Massimo Ghini nel ruolo del protagonista, oltre che, tra gli altri, da Massimo Wertmuller e Max Tortora. Le riprese si sposteranno in seguito in Trentino Alto Adige e in Uruguay e dureranno sino alla fine di maggio.

Nuovo cinema McEnroe: il tennis formato 16 mm

“Il profano non può percepire quello che succede dentro il giocatore”. Al Tennis come esperienza religiosa ci introdusse David Foster Wallace, complici l’ineffabile Roger Federer e uno Us Open da antologia, al tennis come esperienza epistemologica ci ammette il francese classe 1978 Julien Faraut, tramite il documentario John McEnroe – L’impero della perfezione. Il postulato è del sommo Jean-Luc Godard: “Il cinema può mentire, lo sport no”, le immagini in 16mm dirimenti, le conseguenze veridittive: stiamo guardando una partita di tennis o vedendo un film sul tennis? “Usando filmati in 16mm dell’Institut National du Sport et de l’Education Physique girati al Roland Garros all’inizio degli anni 80, ho cercato di mettere in risalto i momenti di verità che la competizione rappresenta”, spiega Faraut, ma quando McEnroe si oppone al dispositivo cinetelevisivo che succede? Quando minaccia il tecnico audio per un microfono troppo intrusivo, quando guarda in camera con dichiarata sfida, che ne è del cinema del reale e che ne è della realtà filmata?

Sebbene ne riproduca gli alterchi con i giudici e ne cristallizzi icasticamente i rovelli agonistici e il disagio al cospetto del pubblico, il regista non concentra la nostra attenzione sulla leggenda bizzosa del campione, piuttosto intende “mostrare McEnroe come uno sportivo professionista impegnato a realizzare l’unica cosa che veramente gli interessa sul campo da tennis: battere gli avversari”. E battere il tempo, la variabile che tutto può e nulla concede, sul campo come al cinema. Se a Miami 2014 il match tra Marko Nieminen e Bernard Tomic (6-0 6-1) si risolve in appena 28 minuti e 20 secondi, la durata – sottolinea la voce narrante di Mathieu Amalric – di un episodio di Alfred Hitchcock presenta, servono i tre capitoli del Padrino, per giunta intervallati da una pausa di un’ora, per conoscere il verdetto dell’incontro tra l’americano John Isner e il francese Nicolas Mahut che a Wimbledon 2010 gareggiarono per 11 ore e 5 minuti, ossia 70 game a 68.Come altrimenti negli anni 80 avrebbe potuto Serge Daney, direttore dei Cahiers du Cinéma, scrivere di tennis per Libération, se non assecondando il minimo comune denominatore, la durata? Quanto tempo occorre prima che compaia la parola “fine”? Quante possibilità per inventare il tempo? E non è, sempre con Daney, proprio l’invenzione del tempo il senso dei grandi film?

McEnroe non butta oltre la rete una pallina, bensì compete filosoficamente, raggiungendo nel 1984, quasi, la perfezione: il 96,5% di vittorie in una stagione, record ancora imbattuto. E non è un caso che siffatti interrogativi gnoseologici sorgano proprio dallo sport e dai campioni indagati attraverso il cinema, come già Zidane, un portrait du XXIe siècle, un documentario del 2006 di Philippe Parreno e Douglas Gordon: la bellezza del gesto, è tutto. Dal 6 maggio in sala, non perdetelo questo Impero.

 

Cannes in progress. Il grande dubbio Tarantino

Dieci anni dopo il mussoliniano Vincere, Marco Bellocchio torna in Concorso al Festival di Cannes con Il Traditore, ovvero un altro protagonista della storia patria: Tommaso Buscetta, mafioso e collaboratore di giustizia. Due anni fa, presentando il progetto proprio sulla Croisette, sostenne che “tradire non sempre è un’infamia”, oggi – ieri, Giovedì Santo, quello del tradimento di Cristo – si appoggia al Giuda di Amos Oz e calibra il tiro: “Il mio Buscetta è assai complesso, né altarino né condanna per lui, la sfida era fare un film, come si diceva una volta, aperto”. A incarnare il “boss dei due mondi” è Pierfrancesco Favino, ma a differenza del Bettino Craxi che sta interpretando in Hammamet di Gianni Amelio la rassomiglianza fisica non è prioritaria, Il Traditore non cerca il calco bensì la trasfigurazione, “assomiglia un po’ a Buongiorno, notte, perché i personaggi si chiamano coi loro veri nomi, ma lo sguardo è più esposto, all’esterno”.

Non aderendo d’abitudine a un genere, nel caso il mafia-movie, e rimanendo fedele alla propria poetica, l’altra sfida per Bellocchio sarà rendersi appetibile sia per chi conosce Buscetta sia per quanti, a partire dalla platea internazionale di Cannes, lo ignorano: il compromesso potrebbe risiedere nella intenzionale elusione “dei tempi psicologici, quelle nevrosi e psicosi ‘borghesi’ che sono state spesso la materia prima di molti lavori che ho fatto in passato”. E poi, certo, ci si riallaccerà alla tradizione d’impegno del nostro cinema, così celebrata all’estero: “È anche un film civile (o di denuncia sociale come si diceva una volta), evitando però ogni retorica e ideologia”.

Il primo grande pentito di mafia, dunque, troverà residenza immaginifica in “un’opera misteriosa, personalissima e insieme oggettiva, su una materia che ho imparato a conoscere anche attraverso le testimonianze di chi vi ha vissuto vicino e dei grandi esponenti delle istituzioni, quali Saverio Lodato, Francesco La Licata e Gianni De Gennaro”. Una lunga teoria di violenze e drammi – “Quel che vedrete non mi è mai accaduto in vita, penso alle sparatorie” – che inizia con l’arresto in Brasile e l’estradizione in Italia, passando per l’amicizia con il giudice Falcone e i silenzi del Maxiprocesso: “Abbiamo girato proprio nell’aula bunker, trovando qualche sorpresa di rappresentazione”. Quando scoppia la bomba a Capaci, Buscetta fa il nome di Andreotti e – dispone la sceneggiatura firmata da Bellocchio con Ludovica Rampoldi, Valia Santella e Francesco Piccolo, in collaborazione con La Licata – sarà un tragico boomerang che lo costringerà a fuggire dall’Italia per sempre. Con attenzione ai “preziosissimi piccoli dettagli”, un utilizzo “non caricaturale” della lingua siciliana e l’accento sulla “duplicità e triplicità del tradimento”, arriverà sui nostri schermi il 23 maggio, nel ventisettesimo anniversario della strage di Capaci. Giorno più, giorno meno, passerà anche a Cannes, che dal 14 al 25 maggio celebra la settantaduesima edizione: per ora Bellocchio – parziale eccezione l’italoamericano Abel Ferrara con Tommaso a Special Screenings – è l’unica presenza tricolore, ma la Selezione ufficiale è da completare e ancora da annunciare sono i cartelloni di Semaine de la Critique e Quinzaine des Réalisateurs, sicché da Pietro Marcello (Martin Eden) a Mimmo Calopresti (Aspromonte, la terra degli ultimi), da Igort (5 è il numero perfetto) a Lorenzo Mattotti (La famosa invasione degli orsi in Sicilia) e Giorgio Diritti (Ligabue) potrebbe avere compagnia. A meno che anche da Trieste in giù non si preferisca puntare sulla Mostra di Venezia, cui l’autorevole The Hollywood Reporter già accredita “un altro grande anno” e, implicitamente, una pletora di star sul tappeto. Al festival francese, diretto da Thierry Fremaux, non difettano gli aficionados, da Jim Jarmusch (The Dead Don’t Die, film d’apertura con cast stellare: Iggy Pop, Tom Waits, Selena Gomez) a Terrence Malick (A Hidden Life), da Pedro Almodóvar (Dolor y gloria) ai fratelli Dardenne (Le jeune Ahmed), da Ken Loach (Sorry We Missed) a Xavier Dolan (Matthias et Maxime), però le assenze si fanno sentire, e una potrebbe marchiare a fuoco l’intera edizione: C’era una volta a Hollywood di Quentin Tarantino, con Brad Pitt e Leo DiCaprio, rischia di non essere pronto, per i tempi di lavorazione in pellicola.

Stante il mancato accordo tra Cannes e Netflix, The Irishman di Martin Scorsese, in predicato per il Lido, The Laundromat con Meryl Streep e The King di Noah Baumbach non vedranno la Costa Azzurra, ma a marcar visita, a oggi, sono pure titoli dati per certi, quali Ad Astra di James Gray, sempre con Pitt, The Truth del giapponese Hirokazu Kore-eda, Ema di Pablo Larraín. La coppa di champagne mezza piena, viceversa, conta su Elton John, atteso per il suo biopic Rocket Man diretto da Dexter Fletcher e interpretato da Taron Egerton, e Diego Armando, ovvero il Maradona documentario di Asif Kapadia, quello bravo di Senna e Amy (Winehouse).

Notre-Dame e le idee malsane di Macron

Tra i fumi tossici sprigionati dall’incendio delle carpenterie gotiche e neogotiche di Notre-Dame c’è anche quello che intossica e uccide l’idea stessa di Stato, di collettività, di interesse pubblico. Come in un’Italia qualsiasi, anche in Francia lo Stato è ormai evaporato, preso com’è tra due fuochi.

Da una parte il potere smisurato dei capitali privati. I signori della moda e del lusso sono accorsi al rogo: per aiutare, dicevano. Per legittimare, invece, anche sul piano simbolico e dell’immaginario collettivo un potere economico e politico che surclassa in misura quasi grottesca quello dello Stato. Sul sagrato di Notre-Dame, mentre ancora infuriano le fiamme, il presidente della Repubblica indice una questua: lo Stato pezzente, col cappello in mano, si prostra in diretta mondiale. Contemporaneamente, i paperoni che evadono per miliardi di euro gettano i loro soldi nel cappello, addossando allo Stato stesso (attraverso la defiscalizzazione) buona parte del costo di questa ‘beneficenza’. Così è compiuto il ritorno all’antico regime: la vita o la morte del patrimonio dipende dalla graziosa benevolenza del signore feudale, che alza o abbassa il pollice decidendo cosa si salva e cosa perisce. E così lo Stato esce anche dall’immaginario: e il patrimonio di tutti torna a legittimare il potere di pochi, come prima del 1789. Dall’altra parte, lo Stato è umiliato dall’indegno ceto politico che occupa i suoi stessi vertici. Innanzitutto, attraverso il criminoso definanziamento della tutela: in queste ore il Canard Enchaîné ha rivelato che il governo ha assegnato, per il 2019, alla manutenzione di ciascuno dei suoi monumenti (tra cui 86 cattedrali) meno di 100.000 euro: 18 milioni in tutto, una ridicola miseria.

Ma non è solo un peccato di omissione: bensì anche di parole, e di opere. “Non passa giorno dopo l’incendio di Notre-Dame senza che il presidente della Repubblica e il suo governo non ci gratifichino di annunci uno più scandaloso dell’altro”: così ha scritto Didier Rykner, il direttore della benemerita Tribune de l’Art, che da anni denuncia le colpe della politica nella decadenza del patrimonio culturale francese. Nella fattispecie, Emmanuel Macron ha pensato bene di annunciare un concorso internazionale per la ricostruzione della Flèche, la guglia inghiottita dalle fiamme in diretta mondiale. Notando che “non era originale”, Macron pensa di far riprogettare un ‘segno’ ultramoderno a un Renzo Piano o a un Frank Gehry. Una convinzione che galleggia su un oceano di brutale ignoranza: la Francia, come tutti i Paesi civili, ha sottoscritto la Carta di Venezia che regola il restauro architettonico vietando ogni ‘eugenetica dei monumenti’: non si può ‘debarocchizzare’ una chiesa romanica, o eliminare le parti ottocentesche di una chiesa gotica. Non si può perché i monumenti sono corpi vivi, accresciutisi lentamente grazie all’apporto di generazioni e generazioni: sono il risultato di una storia da leggere e da amare. Una storia che non si può cancellare come prova a fare sui nostri poveri corpi la chirurgia estetica: peraltro con risultati in generale terrificanti. Macron ignora tutto questo, e si comporta anche lui come un sovrano dell’antico regime: calpestando competenze tecniche, saperi, leggi e trattati. Vuole evidentemente imitare Mitterrand (senza la cultura di Mitterrand) e lasciare il suo segno sul volto di Parigi, approfittando dell’incendio. Questo misto di ignoranza e arroganza, quest’uso spregiudicato del patrimonio culturale, questa ostentata retorica della bellezza unita a un’attiva distruzione del sistema di tutela ricorda da vicino lo stile del clone italico di Macron: Matteo Renzi, che ha puntualmente pubblicato sul Foglio una incomprensibile, esilarante supercazzola retorica sulla bellezza di Notre-Dame. Come Macron anche lui, che voleva un referendum sulla costruzione della facciata michelangiolesca di San Lorenzo a Firenze e faceva trapanare gli affreschi di Vasari per trovarsi a tu per tu con un Leonardo inesistente, sa bene che il patrimonio può essere una efficacissima arma di distrazione di massa. Con o senza incendi.

Russiagate, Trump disse: “È la fine, sono fottuto”

Ci sono voluti 20 giorni perché il rapporto del procuratore speciale del Russiagate Robert Mueller sull’intreccio di contatti nel 2016 tra la campagna dell’allora candidato Donald Trump ed emissari del Cremlino venisse pubblicato: versione non integrale, il Dipartimento della Giustizia ne ha espunto – è la spiegazione ufficiale – tutti i passaggi sensibili per la sicurezza nazionale. Alla conferenza stampa, Mueller non si presenta. E alcuni suoi collaboratori fanno filtrare ai media che il documento originale è più imbarazzante per il presidente e l’Amministrazione della versione ora trasmessa al Congresso. Parla invece il ministro della Giustizia William Barr, politico navigato, già ministro di Bush senior all’inizio degli anni Novanta.

Barr non fa nulla per smentire la sensazione, alimentata dall’opposizione democratica, che egli sia l’avvocato del presidente più che l’avvocato degli americani: i russi – ammette – cercarono d’interferire in modo coordinato con il processo elettorale, ma non ebbero la cooperazione di Trump o della sua campagna; e Mueller non ha trovato “alcuna prova” di collusione. Ammesso che uomini di Trump e Wikileaks di Julian Assange abbiano agito in combutta per danneggiare Hillary Clinton, questo non sarebbe un reato. In realtà, Mueller ha individuato 10 episodi potenziali di ostruzione alla giustizia da parte di Trump. Ma Barr spiega come, dopo consultazioni all’interno del Dipartimento di Giustizia, si sia stabilito che le prove non erano sufficienti per accusare il presidente, “sulla base dei fatti e dei criteri legali applicabili”. Alcune azioni del presidente potrebbero, infatti, essere più ‘ingenue’ che ‘maliziose’, nella lettura del Washington Post. Se l’inchiesta di Mueller è ormai chiusa, restano aperti 14 procedimenti giudiziari collaterali, alcuni dei quali hanno già condotto in carcere il capo della campagna Paul Manafort e suoi collaboratori, l’avvocato del presidente Michael Cohen, amici e consiglieri come Roger Stone e Michael Flynn.

I legali di Trump hanno visto il rapporto Mueller prima della sua pubblicazione. La Casa Bianca non ha richiesto o apportato modifiche. Ma Trump non ha aspettato la pubblicazione del rapporto per twittare con accenti trionfali che quella che lui aveva sempre definito “una caccia alle streghe” è ‘”la maggiore bufala politica di tutti i tempi. Reati sono stati, invece, commessi dai democratici”’ – affermazione che, nel rapporto, non ha alcun riscontro –. Trump è un fiume in piena: il Russiagate è “qualcosa che non dovrebbe accadere a nessun presidente”.

I democratici, dal canto loro, reagiscono a questa ondata di (per loro) cattive notizie chiedendo che Mueller testimoni in Congresso il prima possibile: è necessario, sostengono all’unisono la speaker della Camera Nancy Pelosi e il capo dell’opposizione al Senato Chuck Schumer. Nella conferenza stampa, Barr ha illustrato le interazioni che ci sono state fra il suo Dipartimento e la Casa Bianca nelle ultime settimane e ha anche spiegato come ha deciso di rivedere il rapporto, pubblicandone alcune parti ed eliminandone altre. Quando seppe della nomina di Mueller, il 17 maggio 2017, Trump saltò sulla sedia: “Dio mio! Sono fottuto: è la fine della mia presidenza”; e si scagliò sull’allora ministro della Giustizia Jeff Sessions, poi silurato (“Avresti dovuto proteggermi… È la cosa peggiore che mi sia capitata”).

Polonia, la rivolta dei maestri

Da molte mattine nessuno legge l’appello degli alunni tra sedie e banchi vuoti delle scuole primarie e secondarie. Da due settimane sono i professori a essere assenti: è strajk, sciopero degli insegnanti nella Polonia che lotta per la sua busta paga. Le campanelle di fine ora restano mute, da inizio aprile suonano solo i tamburi della rivolta dei maestri che chiedono un aumento del 30% dello stipendio.

Dai 1.800 ai 3.000 zloti, circa 500 e 800 euro al mese: è quanto guadagnano gli insegnanti polacchi che vogliono un aumento del 30% indispensabile per tornare in aula. Lo dicono da gennaio scorso e dopo mesi di parole, sono iniziate settimane di azione. I “lavoratori dell’istruzione” – professori, maestri, tutori – sono in mobilitazione. Lo sciopero nazionale che coinvolge l’80% delle scuole del paese conta quote di adesione che non si vedevano dagli anni 90: 600 mila insegnanti, armati di rabbia, matita e righello, hanno incrociato le braccia dall’8 aprile scorso, perché hanno bisogno di una cosa: rownosc, uguaglianza economica.

Insegnano storia, geografia, matematica, inglese. Proiettano le nuove generazioni nel futuro di un Paese che li sta lasciando indietro. Da quando le mamme polacche hanno cominciato a portare i figli al lavoro perché le maestre erano assenti, il governo ha capito che il problema stava diventando sempre più serio. Alle elementari del quartiere Praga, a Varsavia, le madri marciano con le maestre: “Chi insegnerà ai nostri bambini? Siamo qui per i nostri figli”. Nella Capitale una paga così bassa finisce prima che nel resto della Polonia. Il cambiamento richiesto è irricevibile per la squadra del Pis, partito ‘Diritto e Giustizia’ al potere, notoriamente incline allo scontro e mai al compromesso, ma che ha già registrato la sua prima disfatta. I professori hanno dato uno scacco matto con effetto immediato, assentandosi proprio prima dei test di fine anno: il 10 e 15 aprile. In Polonia la notte prima degli esami a non dormire sono stati i politici e non gli studenti. “State danneggiando gli alunni polacchi, ma gli esami non verranno rimandati” ha detto Anna Zelewska, ministra dell’istruzione. Il suo ministero, che vorrebbe fermare lo sciopero ma non sa più bene come, è stato costretto per quest’emergenza a richiamare in servizio maestri pensionati, supplenti, perfino tutori religiosi per le prove di fine anno. I maestri sono diventati quello che nessuno in Polonia si aspettava diventassero: lo zoccolo duro che tiene testa al partito al potere, dopo la marcia del 17 marzo e la futura del 24 aprile, quando con poche bandiere ma tanti punti esclamativi disegnati, marceranno fino al Sjem, il Parlamento polacco.

A lezione di storia e di rivolta vanno anche gli studenti, che restituiscono il senso della battaglia dei professori a modo loro, ballando con le casse da concerto puntate verso le finestre del Men, il ministero dell’istruzione polacco. Perfino l’ex premier, Beata Szydlo, è stata coinvolta per tentare di regolarizzare la situazione. Vestita di rosso porpora, ha proposto ai professori un aumento di stipendio del 15%, la metà di quanto richiesto: “È una buona proposta”. Ma a qualsiasi compromesso al ribasso la risposta polacca è ‘no’, fischi e assenza in aula ad oltranza. Anche l’uomo che Szydlo scelse nel suo governo come ministro dell’economia scuote la testa. Oggi è il premier del paese. Mateusz Morawiecki, imbolsito dalla campagna elettorale per le urne europee, è impegnato a pubblicizzare promesse di investimenti da destinare ad altre categorie: pensionati, giovani coppie con figli, liberi professionisti. Per gli insegnanti “mancano fondi nel budget”.

A tenere testa alle autorità è Slawomir Broniarz, a capo del Znp, sindacato insegnanti polacchi: “Questo sciopero durerà in maniera indefinita”. Sa che per il Pis cedere vuol dire farlo in futuro anche con altre categorie di lavoratori. “Il governo sta solo simulando di negoziare”. Broniarz, dai palchi dei concerti di solidarietà a quelli dei sit-in nel Paese, ripete: “Vogliamo l’aumento del salario e della dignità”.

È una promessa e una minaccia: i maestri non sono disposti a cedere, proprio come accadeva alle manifestazioni di Solidarnosc oltre un quarto di secolo fa nei cantieri di Danzica. Ieri i porti, oggi le scuole. Scioperi così diffusi non si vedevano da allora e per ricordarlo i maestri scelgono questo paragone iperbolico. Meglio di tutti lo sanno loro, che la storia la insegnano.