La Nigeria chiede l’arresto dei manager Eni

Arrestate Roberto Casula. È la richiesta della Efcc, l’agenzia speciale anticorruzione della Nigeria, accolta dal giudice federale del Paese africano che ha disposto l’arresto di sei persone, tra cui due manager dell’Eni, Casula e Stefano Pujatti, e due ex ministri nigeriani, quello del petrolio, Dan Etete, e della giustizia, Mohammed Adoke Bello. Devono “essere arrestati ovunque si trovino”, ha stabilito il giudice nigeriano, in forza del diritto anglosassone, “vista la loro persistente assenza davanti alla Corte” da cui erano stati convocati. Ora i sei sono ricercati dalla polizia della Nigeria e dall’Interpol. Dunque anche in Italia, dove vivono Casula, capo operazioni e tecnologia di Eni, e Pujatti, responsabile finanziario di Eni East Africa.

La vicenda è quella di Opl 245, un gigantesco campo d’esplorazione petrolifera conquistato da Eni e Shell nel 2011. Secondo un’inchiesta per corruzione internazionale aperta dalla Procura di Milano, le due compagnie petrolifere per ottenere i diritti di sfruttamento pagarono 1,3 miliardi di dollari su un conto del governo nigeriano. Ma neppure un cent restò nelle casse pubbliche, perché i soldi furono girati, dirottati e dispersi in una girandola di conti in giro per il mondo. Finirono – secondo le ipotesi d’accusa – alla società nigeriana Malabu Oil & Gas Ldt, dietro cui c’è Dan Etete, l’ex ministro del petrolio che nel 1998 aveva venduto a Malabu, cioè a se stesso, la concessione di Opl 245, al prezzo di soli 20 milioni di dollari. Una parte del danaro pagato da Eni e Shell finisce nelle tasche di governanti della Nigeria e mediatori italiani e internazionali (gli italiani Luigi Bisignani e Gianfranco Falcioni e il russo Ednan Agaev), con qualche stecca tornata nelle tasche dei manager Eni: 917 mila dollari sarebbero arrivati a Vincenzo Armanna; 50 milioni in contanti a Casula, allora responsabile delle attività operative in Nigeria; 21 milioni di franchi svizzeri al mediatore Gianluca Di Nardo.

Il caso è oggetto di un processo in corso a Milano, in cui i pm milanesi Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro hanno portato a giudizio le due società, Eni e Shell, e undici persone, tra cui l’ad di Eni Claudio Descalzi e il suo predecessore Paolo Scaroni. In Nigeria lo scandalo è restato a lungo coperto, finché il vecchio presidente, Goodluck Jonathan, non è stato sostituito dal nuovo, Muhammadu Buhari, eletto due anni fa dopo aver promesso di combattere cla corruzione. È stata allora costituita la Efcc (Economics and Financial Crimes Commission), una superpolizia che va a caccia dei reati economici e finanziari. Il suo presidente, Ibrahim Magu, scelto direttamente dal presidente Buhari, ha condotto un’inchiesta su Opl 245 e ha fatto aprire un processo che ha coinvolto ex politici nigeriani e responsabili di Eni e Shell. Gli indagati non si sono presentati, e dunque è scattato il mandato d’arresto.

Alitalia salvata dai Benetton per dimenticare il Morandi

Atlantia, la holding dei Benetton che controlla Autostrade per l’Italia (Aspi) sembra avviata a partecipare al salvataggio di Alitalia. E lo scontro col governo sulla revoca della concessione dopo il disastro del ponte Morandi di Genova sembra sempre di più un ricordo lontano. È di fatto lo stesso esecutivo ad ammetterlo. “Sono due cose che non c’entrano niente”, ha spiegato ieri Di Maio, secondo il quale “la promessa di revocare la concessione sarà mantenuta, nel senso che c’è una commissione al ministero dei Trasporti che se ne sta occupando”.

La realtà è che il governo non esclude l’ingresso della holding della famiglia veneta nella nuova società che nascerà dalle ceneri della vecchia Alitalia, il cui salvataggio è stato affidato alle Ferrovie. Servono circa 900 milioni di nuovi capitali. Il gruppo guidato da Gianfranco Battisti non andrà oltre il 30%. Finora ha trovato il partner industriale nell’americana Delta, che metterà il 15%; il Tesoro entrerà con un altro 15% convertendo parte del prestito ponte pubblico da 900 milioni che scade a giugno. Serve un altro partner forte. Dopo il rifiuto arrivato da tutte le aziende statali (Poste, per dire, aveva promesso di mettere 150 milioni) l’advisor delle Frecce, Mediobanca, ha bussato alla porta di Atlantia, trovando una certa disponibilità.

Pubblicamente dal gruppo controllato dai Benetton smentiscono. Ieri l’ad di Atlantia, Giovanni Castellucci, indagato per il disastro di Genova, ha spiegato all’assemblea dei soci di tifare per il salvataggio di Alitalia, ma che il gruppo “ha troppi fronti aperti in questo momento” per intervenire. Fonti finanziarie però spiegano al Fatto che la società si prepara a convocare un cda straordinario il 26 aprile prossimo per discutere dell’ingresso nella nuova Alitalia. L’investimento sarebbe intorno ai 300 milioni. Se arriverà l’ok, le Fs chiederanno ai commissari che gestiscono la compagnia aerea in amministrazione straordinaria altre due settimane per chiudere l’operazione. Bisognerà infatti trovare un altro investitore che copra la parte restante (intorno al 5-10%), anche perché nessuno degli attori in causa vuole diventare l’azionista di controllo, che significherebbe consolidare a bilancio i conti della nuova Alitalia (e le eventuali nuove perdite). Prima, però, a Palazzo Chigi il premier Giuseppe Conte convocherà i ministeri coinvolti, dallo Sviluppo economico, guidato da Di Maio, alle Infrastrutture e al Tesoro per dare il via libera politico.

Dal punto di vista industriale, Atlantia ha buone ragioni per intervenire. Alitalia vale circa il 40% del traffico passeggeri di Fiumicino, gestito da Aeroporti di Roma, controllato dalla stessa holding dei Benetton. Il fallimento della compagnia aerea metterebbe a rischio quasi il 45% del fatturato di Adr. Resta l’opportunità politica di risolvere un problema al governo, con cui finora ha battagliato, alla vigilia delle elezioni europee.

Dopo il disastro del Morandi, il governo Conte ha annunciato subito la guerra ai Benetton e ha poi avviato la revoca della concessione ad Aspi con una lettera inviata il 20 dicembre. Aspi deve rispondere entro 90 giorni e la scadenza è il 3 maggio. Rispetto a dicembre lo scenario sembra però assai diverso. Revocare la concessione è complicato da un sistema di regole scritte apposta per favorire la lobby dei concessionari autostradali. Atlantia e Autostrade sono meno preoccupate di prima e puntano a vincere il ricorso sulla ricostruzione del ponte Morandi da cui sono state estromesse per legge dal governo, pur risultando al momento proprietari dell’infrastruttura.

Al governo, la Lega – che ha sempre addossato ai 5Stelle la guerra ai Benetton – spinge per l’ingresso di Atlantia. E ai vertici del Movimento, i toni non sembrano più bellicosi. L’iter della revoca della concessione è affidato a una commissione giuridica del ministero dei Trasporti, composta da consiglieri e avvocati dello Stato, che dopo il 3 maggio dovrà verificare le risposte di Autostrade, poi consegnerà le sue valutazioni al governo. La scelta finale spetterà alla politica.

“Prenderò più voti di B.? Io ci sono per tutti, sempre”

Per incredibile che possa apparire, la questione sembra questa: l’onorevole Aldo Patriciello, latifondista molisano del voto, rischia di superare nelle preferenze, alle prossime Europee, niente di meno che Silvio Berlusconi, il suo capolista. È un tema scabroso e perciò il colloquio che segue ha pure momenti di fortissima tensione emotiva. “Dottore carissimo, quello che mi dice mi rallegra e mi allarma. Mi fa sobbalzare e insieme acquietare. Ascolto anch’io (da uomo del territorio) e mi dico: sarà vero? sarà falso?”.

Tutti sanno che Patriciello è una forza della natura, è la vanga che smuove le montagne.

Io lavoro sul territorio (scusi se mi ripeto) e sono vicino alle ansie dei miei concittadini, ai problemi quotidiani, a volte alle difficoltà che la vita ci para dinanzi. Nei momenti del dolore, oppure della salute malferma, io ci sono.

Venti cliniche sono di Patriciello. Una holding, la Neuromed con sede a Venafro, e tante partecipate sparse nel sud Italia.

Istituto di altissimo pregio scientifico. Siamo all’avanguardia nel campo neurologico, con una particolare dedizione ai problemi dell’epilessia.

Però senza la politica Patriciello sarebbe stato farfalla senza ali, gattino cieco.

Cioè?

Politicamente ha avuto molteplici connessioni.

E chi può negarlo?

Molto profittevoli.

Questo no, mi addolora assai quel che dice, carissimo dottore.

I suoi 150 mila voti fanno paura a Forza Italia. Sarebbe uno scuorno (disdoro, nda) per Berlusconi giungere al traguardo dopo di lei.

E questo chi lo dice?

Ovunque in lista, in qualunque partito metti Patriciello, i suoi voti sono lì che aspettano di essere solo contati.

Dunque, specifichiamo. Io raccolgo simpatie in tutte le aree politiche. Infatti non mi intrometto mai nelle passioni degli amici. Sei di sinistra? Benissimo. Sei di destra? Benissimo.

Patriciello non ama i sogni ma solide realtà.

Non interferisco, non polemizzo. Lascio ciascuno libero di professare il suo credo nella sua Chiesa.

Atteggiamento irriducibilmente laico.

Chiedo solo, al momento del voto, se la simpatia ha costruito una amicizia e l’amicizia una confidenza e la confidenza una domanda…

Amico mio, fai la propaganda per chi vuoi ma nell’urna vota me.

Esattamente.

C’è questa sua speciale capacità di raccogliere nella semina altrui.

È dovuta al mio impegno, discende dalla carica emotiva, dal radicamento territoriale.

Dall’afflato.

Col cuore in mano, senza null’altro da offrire che la mia disponibilità: giorno e notte, cellulare sempre acceso. Numero uguale negli anni. Reperibilità assoluta.

Io chiamo per un malanno.

Patriciello c’è.

Io chiamo per un problema di lavoro.

Patriciello se può ti aiuta.

Io chiamo per una festa.

Patriciello è lieto di condividerla.

Onorevole, lei è il deputato di Forza Italia che fa più paura a Forza Italia.

Vuole allarmarmi ma non ci riesce.

Io sono a complimentarmi: tale è la forza.

Così mi imbarazza e mi costringe a ringraziarla.

A che posto in lista l’hanno messa?

Numero sei.

O sei o sessantasei, Patriciello viene eletto.

Nella mia circoscrizione, quella meridionale, il mio pronostico è il seguente: due eletti e mezzo.

Il mezzo non è Patriciello.

Lei mi vuol far fare gli scongiuri.

Lei sa che io so.

Lei è troppo buono.

Lei è troppo forte e Berlusconi, declinante, è troppo in allarme. Sarebbe gravissimo se il leader fosse superato dal gregario.

Con umiltà e dedizione farò campagna elettorale.

Con quale accoppiata? Adesso c’è l’obbligo di fare uomo/donna. Sa, le questioni di genere.

In genere io faccio da solo, in politica non ci si accoppia.

Lei ha molti elettori di sinistra.

Almeno il 40 per cento.

E di destra.

Molti gli apolidi. Gente senza partito.

Patriciello, quante inchieste giudiziarie per via dell’esercizio trentennale e spregiudicato di un potere che ha ridotto il Molise alla sua vasca da bagno?

Ma scherza? Così mi offende! Sono illibato. Neanche una sentenza, e le inchieste, doverosissime, si sono sempre fermate allo stadio iniziale. Ed è giusto che siano state avanzate, nobilissimi sono quei provvedimenti che attendono alla ricerca scrupolosa della verità.

Comunque le liste di Forza Italia sono davvero debolucce.

Sul punto convengo parzialmente.

E quindi il nome di Patriciello risplenderà ancora di più. E sarà sia un bene che un male. Perché l’invidia…

Faccio gli scongiuri, pratico la nobilissima arte della politica, sto sul territorio, non metto zizzania.

Ha visto come hanno sabotato Mara Carfagna?

Alcune candidature sono leggere. Penso a quella di Barbara Matera.

Ma dove li prende i voti Barbara? Chi glieli darà? È vero che è europarlamentare uscente, ma insomma…

E che ne so?

Vedrà che verranno a chiederle di limitare la sua capacità espansiva, morigerare la tensione emotiva.

Vuole imbarazzarmi?

Patriciello è il primo uomo politico che deve fare la campagna elettorale all’inverso.

Vado dove mi chiamano. Qualunque sia il paese o la città.

Ferme restando le passioni politiche di ciascuno.

Le idee sono indiscutibili e io sono rispettoso.

Aldo Patriciello sarà il primo eletto di Forza Italia. Che se lo mettano in testa.

Buonasera.

Def, il Parlamento approva le mozioni ma resta il nodo Iva

Via libera al Def, con la risoluzione di maggioranza approvata da 272 deputati alla Camera e 161 sì al Senato. Non è risolto il tema dell’Iva anche se M5S e Lega, nella risoluzione di maggioranza impegnano l’esecutivo ad “adottare misure per il disinnesco delle clausole di salvaguardia fiscale” per il solo anno prossimo. Ma non è per nulla chiaro come si bloccherà l’aumento. Se si mette nero su bianco che non ci dovranno essere patrimoniali sembra molto probabile che si passerà per tagli alla spesa pubblica. Il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, assicura che le risorse verranno trovate, e le clausole disinnescate. Per pignoleria, Tria sottolinea che non si tratta di clausole ma di una legge vigente, e che dovrà essere modificata. Anzi, verrà cambiata “se si prende la decisione politica di evitare l’aumento dell’Iva – sottolinea l’economista di Tor Vergata -. Questo problema verrà affrontato quando si disegnerà la legge di bilancio 2020, assieme alla riforma fiscale”. Gli scatti dell’Iva da evitare, d’altra parte, non sono una novità del governo giallo-verde: sono stati neutralizzati già in passato, anche dagli esecutivi targati Pd.

“Noi e il Carroccio opposti sulla legalità”

L’uomo che riempiva le piazze scrive subito la sua, su Facebook: “Ho sempre sostenuto questo governo, lo sosterrò ancor di più se il sottosegretario Siri si dimetterà il prima possibile”. Così ieri mattina l’ex deputato dei Cinque Stelle Alessandro Di Battista morde il leghista, indagato per corruzione, chiedendone le dimissioni immediate come fa tutto il M5S. Ma nel corso della giornata deflagra anche il caso degli audio di Virginia Raggi diffusi da L’Espresso, e allora la Lega invoca la testa della sindaca.

Voi del M5S siete garantisti a intermittenza?

Quando mai il Movimento ha difeso un proprio esponente indagato per corruzione o per altri reati gravissimi? Marcello De Vito lo abbiamo cacciato nel giro di poche ore.

La differenza la fa il tipo di reato?

Certo. L’inchiesta che portato al processo per la sindaca Raggi, poi assolta, non è certo un’onta come l’indagine per corruzione che riguarda il sottosegretario e uomini che vengono descritti come vicini a esponenti della mafia.

Circolano audio in cui la sindaca parla a muso duro all’allora ad della municipalizzata dei Trasporti Ama, Lorenzo Bagnacani. Raggi lo o invita a “modificare il bilancio” e parla di “città fuori controllo” e di romani che “vedono la merda”. Brutto no?

Ma quale brutto. Quella della Lega è una ripicca da quinta elementare, segno della difficoltà per l’inchiesta su Siri. Raggi ha detto in una conversazione privata ciò che ha sempre affermato pubblicamente, ossia che non vuole firmare un bilancio con dei premi per i dirigenti di Ama. Fanno molto rumore per nulla.

La Lega ne chiede le dimissioni.

Ma neanche per sogno.

Voi e il Carroccio avete una concezione diversa della legalità?

Abbiamo una concezione del tutto diversa del tema. Non siamo mica noi a essere alleati con Silvio Berlusconi e altri pregiudicati, a livello nazionale e locale. Siamo cose totalmente diverse. Io però mi auguro che il Carroccio possa ripulirsi un po’ seguendo l’esempio del Movimento.

Se Siri non si dimettesse il governo dovrebbe andare avanti ugualmente?

Sono convinto che Salvini si renderà conto del fatto che un sottosegretario alle Infrastrutture, che si occupa di questioni delicatissime come appalti e finanziamenti, non possa restare in quel ruolo di fronte a un’inchiesta del genere. Auguro a Siri di essere pienamente innocente, sia chiaro. Ma finché c’è solo il sospetto che abbia avuto a che fare con personaggi che sono legati alla criminalità organizzata deve farsi da parte.

E se tra qualche mese si dimostrasse che il leghista non c’entrava nulla? Chi lo risarcirebbe?

Se tra qualche mese accadesse questo Siri dovrebbe rientrare nel governo, è chiaro. E Luigi Di Maio lo ha giustamente detto.

Entrare e uscire da un esecutivo non è una passeggiata.

Troveranno una soluzione. Se un sottosegretario del M5S si fosse trovato nella posizione di Siri si sarebbe dimesso in cinque minuti.

Il ministro dei Trasporti Toninelli gli ha ritirato le deleghe.

Danilo è un ottimo ministro, che ha bloccato l’aumento dei pedaggi. E su Siri ha compiuto un’azione molto forte, comportandosi come deve fare un ministro a 5Stelle.

Gialloverdi contro, adesso è guerra sulle dimissioni

Dalla pantomima ai cazzotti, veri. Anzi, alle richieste di dimissioni. Se in questi giorni i gialloverdi avevano (anche) fatto finta di litigare, pur di lasciare al margine dal gioco Pd e Forza Italia, in un giovedì da nevrosi gli alleati per forza, Lega e M5S, si mordono alla gola e se le promettono: sulle agenzie, in un Consiglio dei ministri che pare un ring, e sulle tv, dove Matteo Salvini e Luigi Di Maio si rincorrono in serata. Con i 5Stelle che indicano la porta al sottosegretario leghista Armando Siri, indagato, e il Carroccio che risponde invocando la testa della sindaca di Roma, Virginia Raggi. E nell’attesa minaccia di prosciugarle i fondi, bloccando la norma Salva Roma. Perché il governo è stato ferito dal suo primo caso giudiziario, l’indagine per corruzione piovuta sulla testa del sottosegretario alle Infrastrutture Siri, fedelissimo di Matteo Salvini. I pm lo accusano di aver preso una tangente. E l’altro vicepremier Luigi Di Maio va dritto: “Se i fatti fossero confermati, sarebbe opportuno che Siri si dimettesse”.

Ma il Carroccio fa muro, con Salvini che lo dipinge come “una persona specchiata e limpida”. Solo che nel frattempo il ministro dei Trasporti Danilo Toninelli, di cui la Lega ha puntato la poltrona (su cui pensa di poter far sedere proprio Siri, malignano nel M5S) ritira le deleghe al leghista. Ed è il segnale della battaglia, con Salvini che tira in mezzo la sindaca che per lui è una preda, e inveisce contro “i due pesi e due misure del M5S che per Raggi non aveva chiesto le dimissioni”. Però ci sarebbe anche un Consiglio dei ministri in trasferta, a Reggio Calabria.

E nella riunione il premier Giuseppe Conte prova a sedare il ministro dell’Interno, che già prima del Cdm urla contro la ministra della Difesa Trenta, tanto che Conte lo porta in una stanza per parlargli. Ma Salvini non si placa: “D’ora in poi anche noi chiederemo le dimissioni di chiunque”. Di Maio assicura: “Matteo, non ce l’abbiamo con voi della Lega, ma l’istituzione va tutelata, qui si parla di una tangente, di mafia. E a Roma Marcello De Vito lo abbiamo cacciato subito”. Ma finisce senza una tregua. E al termine Conte ricorre a toni felpati: “Non esprimo una valutazione, ma avverto il dovere di parlare con Siri. All’esito del confronto valuteremo, tenendo conto che il contratto di governo prevede che non possono svolgere incarichi ministri e io dico sottosegretari sotto processo per reati gravi come la corruzione”. Tradotto, il premier proverà a convincerlo a dimettersi, anche in virtù di quel contratto che il M5S cita come un’arma. Nel frattempo però l’Espresso diffonde alcuni audio in cui Raggi si rivolge a muso duro all’allora ad di Ama, la municipalizzata dei Trasporti, parlando di “una città fuori controllo”, in cui “i romani si affacciano e vedono la merda”. E per Salvini è una manna. Così i ministri del Carroccio invocano le dimissioni della sindaca, con Erika Stefani che fa il verso a una dichiarazione di Di Maio: “Se il contenuto delle intercettazioni corrispondesse al vero sarebbe la confessione di un grave reato”. Nel M5S si agitano, ma fanno scudo: “È una ripicca, Raggi non è nemmeno indagata”.

Invece il Carroccio rilancia e chiede di stralciare dal dl Crescita la norma “Salva Roma”, grazie a cui il Comune farebbe rinegoziare il suo debito al Tesoro. E il vicecapogruppo alla Camera del M5S Francesco Silvestri replica: “E allora la Lega paghi i 2,5 miliardi che verrebbero risparmiati”. Finisce con Salvini che da Porta a Porta invita Raggi “a cambiare mestiere” e giura: “Quando ci sono stati problemi con i ministri del M5S sono rimasto zitto”. E Di Maio che a Dritto e rovescio promette: “Il governo tiene”. Chissà come.

“Municipalizzata, conti non corretti e non veritieri”

“Il manager (di Ama, la municipalizzata dei rifiuti di Roma, ndr) ha una responsabilità: tenere la città pulita. Io non ho fatto nessuna pressione, mi sono limitata a riportare al manager di questa società (Bagnacani, ndr) una cosa che mi era stata detta dal ragioniere generale e dal dg del Comune, dall’assessore al bilancio, dal segretario generale e dai dipartimenti e dal collegio dei revisori: il bilancio così non era approvabile perché non veritiero e corretto. Casomai sono stata io e i miei uffici a subire pressioni perché approvassimo un bilancio non veritiero”. È la risposta di Virginia Raggi ieri sera a PiazzaPulita su La7. Giornata scandida dalle polemiche sull’affaire Ama, con il Pd che aveva occupato l’aula Giulio Cesare del Campidoglio issando i cartelli “Dimettiti” e scandendo il “non ce ne andiamo. Va in tv ma non capiamo perché non possa venire in Assemblea”. “Salvini – ancora la Raggi in tv – sta chiedendo le dimissioni, forse vuole coprire quello che è successo con Siri? Se ivece di cambiarsi le felpe andasse a lavorare non farebbe danno. Se mi dà la felpa da ministro dell’Interno per un giorno intanto vado a sgomberare CasaPound”.

Giampaoletti e il caso 2017: polemiche e indagini

Manager ambientalista, esperto di multiutility e da tempo vicino ai 5Stelle, già nominato dal sindaco di Parma Pizzarotti vicepresidente della Spa elettrica Iren e poi chiamato dalla sindaca di Torino Appendino a presiedere la municipalizzata dei rifiuti. I rapporti tra Virginia Raggi e Lorenzo Bagnacani iniziano nel maggio 2017, quando il sindaco lo precetta: “Devi venire ad aiutarci a Roma”. Rapporto però destinato a durare poco, fino al marzo 2018 quando firma il suo primo bilancio di esercizio dell’Ama che il Comune non approva. Sul bilancio della società del Comune c’erano stati problemi anche per l’esercizio 2017, come riportato in febbraio, con l’iscrizione nel registro degli indagati di Franco Giampaoletti, direttore generale del Campidoglio e capo ad interim del Dipartimento capitolino Partecipate. L’ipotesi di reato dei pm: concussione, per le modalità con cui il Campidoglio aveva indicato all’Ama Spa di approvare il bilancio 2017 con un segno negativo

Rifiuti, le accuse dell’ex manager: “Pressioni sul bilancio”. “Falso”

La “monnezza” di Roma diventa il combustibile che alimenta un duro conflitto tra il sindaco di Roma, Virginia Raggi, e Lorenzo Bagnacani, l’ex presidente e amministratore delegato dell’Ama, l’azienda comunale della nettezza urbana. Licenziato in tronco a febbraio, insieme a tutto il consiglio d’amministrazione, Bagnacani ha risposto con un esposto alla Procura di Roma in cui sostiene di avere ricevuto pressioni “finalizzate a determinare la chiusura del bilancio dell’Ama in passivo, mediante lo storno dei crediti per i servizi cimiteriali”. Secondo le anticipazioni del settimanale L’Espresso, la sindaca avrebbe premuto su Bagnacani e sull’intero cda dell’azienda per far chiudere in rosso il bilancio 2017. Per ottenere questo risultato, avrebbe “spinto il manager a togliere dall’attivo dell’azienda crediti che invece erano certi, liquidi ed esigibili”. Si tratta di 18 milioni di euro raccolti negli anni da Ama per i servizi cimiteriali.

Per sostenere le sue dichiarazioni, Bagnacani ha portato in Procura “alcune registrazioni contenenti colloqui tra lui, Virginia Raggi e altri dirigenti comunali, oltre a centinaia di conversazioni a due fatte con la sindaca su Telegram e WhatsApp”. L’Espresso ne riporta alcune. “Lorenzo, devi modificare il bilancio come chiede il socio”, dice Raggi, “se il socio ti chiede di fare una modifica la devi fare! Anche se loro dicono che la luna è piatta”. E ancora: “Roma è praticamente fuori controllo, i sindacati fanno quel cazzo che vogliono, i romani si affacciano e vedono la merda. In alcune zone purtroppo è così, in altre zone è pulito e tenute bene… cioè non c’è modo, non c’è modo. Allora… ai romani gli dico: sì, la città è sporca però vi aumento la Tari? Cioè, mettono la città a ferro e fuoco, altro che gilet gialli!”.

Virginia Raggi, sulla sua pagina Facebook, spiega i suoi interventi su Bagnacani come la protesta nei confronti del responsabile della pulizia della città da parte di un sindaco esasperato per il fatto che le strade di Roma restavano piene di rifiuti. Aggiunge Gianni Lemmetti, assessore al Bilancio del Comune di Roma: “Bagnacani si qualifica da sé. L’integrità di una persona si vede dal fatto che va in giro con il registratore. Noi non siamo abituati così”.

L’assessore spiega così la vicenda. Nel novembre 2017, l’Ama, dopo molte insistenze, paga finalmente al Comune 18 milioni che aveva raccolto negli anni per servizi cimiteriali e che spettano al Comune. Contemporaneamente, però, Ama li inserisce come crediti nel suo bilancio. Così il rosso scompare. Ma non si può fare, sostengono all’assessorato: il rischio è di essere chiamati a rispondere di falso in bilancio. Il Comune avrebbe potuto riconoscere ad Ama i costi eventualmente sostenuti nell’erogazione del servizio, ma non può accettare che sia messa a credito di Ama una partita che spetta invece al socio.

La spiegazione ufficiale del Campidoglio arriva con una nota che ricapitola la vicenda: “Il bilancio di Ama proposto dall’ex amministratore delegato Lorenzo Bagnacani non poteva essere approvato dal socio Roma Capitale e, quindi, dalla giunta. Il ragioniere generale, il direttore generale, il segretario generale, l’assessore al Bilancio e tutti i dipartimenti competenti hanno certificato l’assoluta mancanza di possibilità di riconoscere il credito inserito nel progetto di bilancio caldeggiato dall’ex ad”. Sono i 18 milioni che Ama aveva già pagato al socio, il Comune di Roma. “Non c’è stata quindi alcuna pressione, ma la semplice applicazione delle norme”.

Continua la nota: “L’approvazione di quel bilancio non avrebbe rispettato la legge e avrebbe condotto al pagamento di premi per lo stesso ad, i dirigenti e i dipendenti”. Ecco un’altra conseguenza che sarebbe scaturita dal firmare un bilancio in attivo: i dirigenti di Ama sarebbero stati premiati, mentre le strade di Roma erano piene di “monnezza”. Anzi: il 50 per cento dei premi, per un importo di 1,5 milioni, sono stati effettivamente pagati. È la conseguenza di una delibera del 2011 varata dalla giunta Alemanno che attribuisce premi a dirigenti e membri del cda di società comunali, se il bilancio è in utile. La metà è stata già erogata, malgrado il bilancio 2017 di Ama non sia stato ancora chiuso.

Dal Palazzo di giustizia di Roma intanto si apprende che, mentre sono indagati per tentata concussione il direttore generale del Campidoglio Franco Giampaoletti, l’ex ragioniere del Comune Luigi Botteghi e il capo del controllo organismi partecipati Giuseppe Labarile, Virginia Raggi non risulta invece indagata, perché quelle al numero uno di Ama sono richieste che non si sarebbero mai tramutate in vere e proprie minacce.

I tweet e il pressing per la nomina. Il caso Siri è anche caso Salvini

L’indagine per corruzione sul sottosegretario Armando Siri chiama in causa le responsabilità politiche di Matteo Salvini. Siri è accusato di avere messo a disposizione del suo amico Paolo Arata sia la sua funzione politica di senatore sia quella di sottosegretario alle infrastrutture, in cambio della promessa o dazione di 30 mila euro. Salvini poteva non sapere della presunta mazzetta ma doveva conoscere l’attività imprenditoriale dell’uomo al quale ha affidato la stesura del programma della Lega sull’energia. A Arata – secondo i giornali – Salvini voleva affidare niente meno che la guida dell’Autorità Indipendente dell’energia.

Ora non può dire che non conosceva il suo doppio mestiere perché Arata – mentre si spendeva per modificare le leggi grazie a Siri e al suo peso nella Lega – era un imprenditore del settore delle energia e dei rifiuti, non in segreto ma alla luce del sole. Questo rende indifendibile Salvini a prescindere dal fatto che il ministro non sapesse nulla degli affari segreti di Arata con il re dell’eolico siciliano Vito Nicastri, legato secondo i pm al boss Matteo Messina Denaro.

Per capire quanto sia imbarazzante politicamente questa storia per Salvini bisogna partire da tre tweet del vicepremier. Il 16 luglio del 2017 il segretario federale della Lega Nord rilanciava sui social con hashtag #Arata il video dell’intervento dell’ex parlamentare di Forza Italia al convegno della Lega Nord all’hotel Best Western di Piacenza.

Arata in quell’intervento, postato da Salvini su Youtube non faceva mistero di essere un imprenditore del settore energia. Le condivisioni e i like dei tweet non arrivano a 70, numeri infimi per il bulldozer del web. Però il messaggio giungeva chiaro a chi doveva sentirlo: quell’ex parlamentare ormai 69enne di FI è l’uomo dell’energia di Salvini, colui il quale ha steso il programma del partito sull’energia. Il manager che, al primo giro di nomine nel luglio 2018, doveva finire alla presidenza dell’Autorità dell’Energia, Arera. La classica volpe a guardia del pollaio. Ad Arata i pm contestano di essere il prestanome di un imprenditore come Vito Nicastri, legato al boss Matteo Messina Denaro, di qui l’aggravante di tipo mafioso, cioé l’ex articolo 7 ora divenuto 416 bis n.1.

Al di là della questione penale però l’inchiesta pone una questione politica grande come una casa.

Salvini poteva non sapere di Nicastri ma avrebbe dovuto sapere che l’uomo al quale ha affidato il programma della Lega sull’energia controlla molte società che si occupano di energia in Sicilia. A Salvini sarebbe bastato fare le visure camerali sul web per scoprire che Arata e i suoi familiari controllano la Etnea Srl titolare di un impianto di energia eolica a Calatafimi-Segesta, in provincia di Trapani; poi la Solgestra Srl, che vuole costruire, con l’ostilità del M5s, due impianti per il trattamento dei rifiuti, a Calatafimi e Francofonte, provincia di Siracusa. Mentre con altre due società (Ambra Energia e Bion) Arata vuole fare un paio di campi foto-voltaici e con la Solcara punta a far nascere impianti di biogas.

Il problema di Matteo Salvini è che oggi il leader della Lega fa il ministro dell’interno e non può attribuire con leggerezza a un tipo così le politiche energetiche del partito. Chi realizza campi di energia eolica nel trapanese non dovrebbe avere voce in capitolo nelle norme in materia. Possibile che Salvini non sapesse nulla delle manovre di lobby di Arata e Siri a Roma? Possibile che non sapesse nulla dei legami imprenditoriali e politici di Arata in Sicilia?

La società dell’uomo scelto da Salvini per il settore energia in fondo non si chiama Monte Rosa srl ma Etnea Srl e questa inchiesta svela il mutamento genetico della Lega. L’uomo di Salvini nell’energia – per i pm – va a braccetto con il re del vento in Sicilia al quale hanno sequestrato un patrimonio di 1,3 miliardi perché ritenuto legato a Matteo Messina Denaro.

A leggere le carte dei pm sembra che la Lega sovranista non si faccia solo eliminando la secessione dallo statuto ma anche avviando una fattiva integrazione economica con la Sicilia più profonda.

E già perché Nicastri non è solo ‘il re dell’eolico’ come lo definisce lo stesso Arata. Ecco il ritratto che ne fa il pm Guido nel suo decreto di sequestro: “Condannato in via definitiva per i reati di corruzione e truffa aggravata, commessi in relazione a iniziative imprenditoriali nel settore delle rinnovabili, a Nicastri è stata applicata, nel 2012, la misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale, nonché quella reale della confisca di un ingentissimo patrimonio, accumulato illecitamente”.

La situazione è davvero insostenibile per il ministro dell’interno. Per i pm, in passato una parte dei soldi guadagnati dal giro di imprese legate a Nicastri finivano proprio al boss: “Il concorso di Nicastri all’associazione mafiosa è stato colto nell’aver sviluppato un’attività speculativa su terreni agricoli con il contributo, e in favore, di appartenenti al sodalizio mafioso, facendo loro guadagnare somme di denaro, in parte destinate anche al latitante Matteo Messina Denaro”.

Per il pentito Giuseppe Sucameli, dal 2006-2007 Nicastri si vanta di potere sviluppare i suoi affari anche grazie “all’appoggio ‘dell’amico di Castelvetrano’”, cioè Matteo Messina Denaro.

Nemmeno dopo l’arresto di Nicastri, Paolo Arata ha cambiato registro. Lui e il figlio Francesco, anche lui indagato, “infatti, non hanno avuto alcuna esitazione a proseguire un rapporto societario di fatto con il detenuto Nicastri, architettando molteplici escamotage per consentire una continua, ed a volte anche diretta, interlocuzione con il re dell’eolico”. Per i pm “Arata ha trovato interlocutori all’interno dell’Assessorato all’Energia della Regione Siciliana, tra tutti l’Assessore Pierobon, grazie all’intervento di Gianfranco Miccichè, a sua volta contattato da Alberto Dell’Utri (fratello di Marcello)”. secondo i pm Arata sarebbe andato anche a chiedere una intercessione sulla Regione a Calogero Mannino. Al Fatto Alberto Dell’Utri dice “Arata mi ha chiamato come ex parlamentare di Forza Italia, amico di mio fratello, e mi ha chiesto di essere messo in contatto con Gianfranco Miciché”. Il presidente del consiglio regionale di FI conferma: “l’ho incontrato un paio di volte e mi ha parlato dell’opposizione che c’era a qualche suo progetto, mi ha chiesto di essere messo in contatto con l’assessore Pierobon, cosa che ho fatto”. Mannino dice: “mi è venuto a trovare a Palermo ma non ho fatto niente per lui. Lo avevo conosciuto come dirigente dell’Icram, un ente che si occupa di ambiente, quando ero ministro dell’agricoltura della Dc, 30 anni fa”. Tutti e tre dicono che Arata non si presentava come leghista ma come ex politico di Forza Italia interessato agli affari dell’energia in Sicilia.

Ecco perché il caso Siri è imbarazzante per Salvini. Perché rivela che dietro la patina del Governo del ‘cambiamento’ il sistema, da Milano alla Sicilia, dalla Lega a Forza Italia, dal 1994 al 2019, resta sempre lo stesso. Armando Siri è accusato di avere usato il suo potere per concordare interventi normativi in favore di chi gli prometteva soldi. Il vero problema però non è la presunta mazzetta da 30 mila euro. Il problema è che la Lega di Salvini si è dimostrata penetrabile come il burro agli interessi privati dell’impresa di Arata e (per i pm) anche di Vito Nicastri, famoso in tutto il mondo come il re dell’eolico vicino a Matteo Messina Denaro. Di questo non deve rispondere Siri. Di questo deve rispondere il ministro dell’interno che deve dare la caccia a Messina Denaro: Matteo Salvini.