“Entro due anni le discariche saranno sature in tutto il Paese. Al Sud le prime situazioni di emergenza”. È il dato che emerge dal rapporto presentato a Roma da Fise Assoambiente. “In Italia – osserva il report – si producono ogni anno 135 milioni di tonnellate di rifiuti speciali e circa 30 di rifiuti urbani, di cui avviamo a riciclo, rispettivamente, il 65% (92 milioni di tonnellate) e il 47% (15 milioni di tonnellate)”. Per raggiungere gli obiettivi fissati al 2035 il nostro Paese dovrà “riconsiderare la gestione delle discariche, facendo riferimento solo a impianti moderni e sostenibili cui destinare esclusivamente le frazioni residuali trattate. Oggi – continua Fise – la capacità residua ha un’autonomia limitata: tra circa 2 anni sarà esaurita la capienza delle discariche del nord del Paese, tra meno di un anno stesso destino toccherà al Centro, mentre diverse aree del Sud sono già oggi in emergenza”. Per rendere effettivo e completo un modello di economia circolare – osserva il rapporto di Fise – è “imprescindibile realizzare le condizioni per ‘chiudere il cerchio’ della gestione rifiuti: aumentare riciclo e recupero energetico per minimizzare l’uso delle discariche”.
“I potenti si congratulano, ma poi non fanno niente”
“Non voglio selfie con voi, voglio che agiate. Il problema non è consentirmi di parlare, il problema è che nulla viene fatto per fermare la distruzione del nostro clima. E per questo non capisco perché così tante persone importanti si congratulino con me: le emissioni continuano a salire, di cosa si congratulano?”.
Camicetta chiara, trecce e borraccia in acciaio, Greta Thunberg lancia la sua consueta provocazione ai potenti di turno. Questa volta, però, è a Roma, nell’aula Koch del Senato, dove è arrivata ieri mattina in occasione del convegno “Clima: il tempo cambia, è tempo di cambiare”. Fuori da Palazzo Madama la fibrillazione è tanta, così come il caldo di una giornata estiva nonostante sia ancora primavera. Si sono accreditati in centinaia per assistere all’intervento di Greta ma di persona, però, la vedranno in pochi, perché la sala dove si svolge il convegno è stracolma: precedenza a ospiti illustri, senatori con tanto di pargoli al seguito, mentre i giornalisti arrivati fin dalla mattina presto vengono fatti accomodare altrove da commessi e dipendenti affannati e disorientati. La vera voce di Greta, invece, non la sentirà nessuno, perché appena la sedicenne svedese inizia a parlare una voce di donna adulta le si sovrappone per doppiarla, togliendo il piacere di ascoltarla dal vivo, anche se la sua generazione l’inglese lo parla benissimo (ma non quella in sala).
Quando è il suo momento Greta si alza in piedi, a differenza degli altri relatori, consapevole del suo ruolo di leader. Non c’è ironia né rabbia nella sua voce ma, come di consueto, lucidità e fermezza. “Ci avete detto che il futuro è qualcosa a cui dobbiamo guardare, ma l’unica cosa di cui abbiamo bisogno è un futuro. Dal 2030 ci separano dieci anni, 257 giorni e 13 ore, poi ci troveremo in una situazione che sfuggirà al controllo umano, a meno che non si riducano le emissioni del 50%.”.
Per fare questo occorre un passo fondamentale: “Trattare la crisi come una crisi, ascoltare gli scienziati. Ma voi – continua – voi non volete comprendere, siete solo interessati a soluzioni che vi consentano lo stesso stile di vita di adesso”. Cita il Piano Marshall, la ricostruzione di Notre-Dame, lo sbarco sulla Luna per dire che il problema è solo la volontà. Prima di lei parla la presidente Maria Elisabetta Alberti Casellati, che in un discorso molto ampio e ben argomentato spiega che le emozioni del suo anno di presidenza sono riferibili soprattutto ai sopralluoghi nelle aree colpite da calamità, dal Veneto alla Calabria a Genova (tutte “riconducibili certamente all’azione del- l’uomo”) e lancia la proposta di una commissione bicamerale di inchiesta sul dissesto idrogeologico.
A proporre, invece, l’istituzione di una giornata nazionale dello sviluppo sostenibile, il 25 settembre, è Enrico Giovannini, statistico, ex ministro del governo Letta e oggi portavoce dell’Alleanza italiana per lo Sviluppo Sostenibile (Asvis), che annuncia dal palco anche il primo Festival dello sviluppo sostenibile, a maggio. Tra le sue proposte anche quella di inserire il principio dello sviluppo sostenibile e della giustizia intergenerazionale nella Costituzione e l’obbligo di una valutazione del- l’impatto ambientale delle leggi prima della loro approvazione. Altri due interventi di peso sono quello di Carlo Carraro, professore di Economia Ambientale e vicepresidente del Working Groupo delIpcc (Intergovernmental Panel on Climate Change) e Antonio Navarra, presidente del Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici. Il primo snocciola cifre eloquenti: la crisi è già in atto, visto che abbiamo perso 190 miliardi in termini di danni verificati, lo 0,25 % del Pil (ma il conto per l’Italia ammonta a 6/7 miliardi), quando la cifra per la prevenzione ammonterebbe allo 0,06% del Pil. 400 sono i miliardi che bisognerebbe investire subito, “ma se si pensa che si tratta della cifra che destiniamo a sussidiare i combustibili fossili si capisce che agire è possibile”.
Il presidente del Cmcc, invece, ribadisce l’importanza, oltre che dell’azione, anche della ricerca, perché “sono molte le cose che ancora non sappiamo”. Ma soprattutto parla di scenari. “Il clima non è solo un problema di temperatura e precipitazioni, ma coinvolge molti settori. Non è lo sfondo, ma un attore che sta sul palco con noi”.
Chiudono il convegno Daniela Ducato, pluripremiata imprenditrice sarda che produce prodotti come isolanti termici, pitture, rivestimenti, tessili da materie ultime che poi tornano a essere terra. E Chiara Falduto e Federico Mascolo di Duegradi, webmagazine che si occupa di come comunicare il cambiamento climatico. Alla fine dei lavori, Greta va via con una auto elettrica car sharing. Domani l’attende la piazza e dovrà recuperare energie. Perché saranno in tanti arrivati da tutta Italia per ascoltarla. Questa volta, speriamo non doppiata.
Lite in famiglia: papà è no vax, il giudice dà ragione alla madre
Non vaccinare è contro la Costituzione perché “i medici, quando pongono l’attenzione su vaccinazioni di consistente impatto nei minori fanno che quello che la Costituzione ha previsto per la nostra società: vale a dire la salute per tutti i cittadini”.
Queste le motivazioni del Tribunale di Pistoia che ha autorizzato una madre a sottoporre i due figli – di 12 e 7 anni – a tutte le vaccinazioni obbligatorie e raccomandate da Asl e pediatra, oltre che ai relativi richiami, anche senza il consenso del padre “No vax”. La donna, dopo mesi di litigi con il coniuge, aveva presentato un esposto per ottenere l’autorizzazione a vaccinare i figli. Con la sentenza del 9 aprile, il giudice ha deciso che i bambini vanno vaccinati anche senza il consenso del padre. Durante l’udienza il padre ha dichiarato di essere consenziente ai richiami dei vaccini obbligatori ritenendoli però inutili qualora i figli fossero ancora coperti. L’uomo si è inoltre opposto alla vaccinazione, facoltativa, contro il papilloma virus. Per il giudice “appare evidente che il padre abbia una scarsa concezione del valore solidaristico dell’art. 32 della Costituzione: ossia della concreta salute di tutta la collettività”.
Il bimbo di due anni è stato ucciso dalla madre: “Piangeva troppo”
Ha confessato di averlo ucciso strangolandolo con le mani.
Donatella Bona di 28 anni ha ammesso di aver ammazzato il figlio di due anni e mezzo stringendogli il collo e chiudendogli la bocca.
In un primo momento la madre aveva raccontato come il piccolo fosse stato investito da un’auto pirata. La verità – emersa più tardi – è che lo avrebbe strangolato a pochi metri dall’abitazione di famiglia in provincia di Frosinone. Secondo chi indaga il bimbo sarebbe stato ucciso per un banale capriccio mentre stavano passeggiando: piangeva perché voleva stare con la nonna. La donna, in preda a un raptus ha perso il controllo di se stessa; dopo aver compiuto il drammatico gesto si è rimessa a camminare verso casa.
“Me l’hanno ammazzato” aveva urlato la donna ai soccorritori che tentavano di rianimare il piccolo nel cortile dell’abitazione. “Mi hanno investito con mio figlio in braccio” aveva poi continuato a sostenere nella stazione dei carabinieri di Frosinone. I militari hanno quindi riportato la donna sul presunto luogo dell’incidente ma lungo la carreggiata non è stato riscontrato alcun segno che potesse far credere alle dinamiche esposte dalla madre. Poi l’ammissione.
Nel pomeriggio di ieri, battuto dalle agenzie, è arrivato anche il commento del ministro dell’Interno Matteo Salvini che su facebook ha scritto: “Una preghiera per il piccolo, volato fra gli Angeli a soli due anni. Ma come si può uccidere in un modo così???”.
Il corpo del bambino è nella camera mortuaria dell’ospedale Santa Scolastica di Cassino in attesa di essere sottoposto a esame autoptico.
La madre nel carcere femminile di Rebibbia.
Omicidio di mafia, due arresti. Alle indagini aveva partecipato anche il maresciallo Di Gennaro
Aveva partecipato anche Vincenzo Di Gennaro, il maresciallo dei carabinieri ucciso lo scorso 13 aprile da un pregiudicato a Cagnano Varano, alle indagini che hanno portato a due arresti nel foggiano per l’omicidio di Giuseppe Silvestri, detto l’Apicanese. A finire in carcere con l’accusa di omicidio aggravato dal metodo mafioso, è stato il 49enne Matteo Lombardi detto “Carpinese”, ritenuto il capo del clan Romito-Ricucci-Lombardi. In manette anche Antonio Zino di 40 anni con l’accusa di favoreggiamento. Silvestri fu ucciso a Monte Sant’Angelo all’alba del 21 marzo del 2017. Le indagini sono state condotte dai carabinieri della Compagnia di Manfredonia e coordinate dai pm Giuseppe Gatti, Ettore Cardinali e Luciana Silvestris con il procuratore aggiunto Francesco Giannella della Dda di Bari. Secondo quanto ricostruito dagli investigatori, la vittima (ritenuto vicino ai Li Bergolis) sarebbe stato ucciso perché avrebbe collaborato alla rapina di una gioielleria che era sotto la protezione del clan avversario. Gli investigatori hanno chiuso il cerchio senza alcuna collaborazione, neanche da parte della vittima della rapina.
L’assassinio di Silvestri fu il primo di una serie di delitti che si sono consumati per tre anni consecutivi, dal 2017 al 2019, proprio il 21 marzo. Tutti nell’ambito della guerra di mafia tra il clan Li Bergolis di Monte Sant’Angelo e i Romito-Ricucci-Lombardi di Manfredonia. “È come se ci fosse una Legge del 21 marzo – ha detto il sostituto procuratore Giuseppe Gatti – la mafia vuole affermare la cultura di morte proprio nel giorno in cui esplode la vita”. Lo stesso giorno in cui, l’associazione antimafia Libera celebra in tutta Italia la Giornata della memoria in ricordo delle vittime innocenti.
La carrozzina non può essere fissata e il tram non parte: sputi e insulti al disabile marocchino
Ha rischiato di essere picchiato perché con la sua carrozzina avrebbe voluto viaggiare sul tram. Per rispettare le norme di sicurezza, però, il conducente non voleva partire. Tutto ciò ha provocato ritardi e ha spazientito gli altri passeggeri, alcuni dei quali avrebbero manifestato la loro rabbia anche con sputi e frasi razziste. È la disavventura denunciata ai carabinieri da Abderrahim Belgaid, 62 anni, cittadino italiano di origini marocchine, sulla sedia a rotelle da tredici anni. Mercoledì si è rivolto ai militari perché la sera prima intorno alle 19, è stato aggredito alla fermata vicino alla stazione Porta Nuova. Belgaid era salito sul tram 4, che taglia il centro di Torino per unire due periferie, Mirafiori e Falchera. A bordo del mezzo ha chiesto al conducente di allacciare le cinture di sicurezza alla sua carrozzella, che però è troppo grande per essere fissata. In questi casi il regolamento non permette all’autista di rimettere in marcia il tram e così è stato. La norma viene seguita alla lettera dallo scorso febbraio, dopo la morte di un disabile che non era stato “assicurato” con le cinture. Per riprendere la corsa, a quel punto, Belgaid sarebbe dovuto scendere, ma lui voleva proseguire il viaggio. Mentre il conducente telefonava alla centrale per capire cosa fare, gli altri passeggeri hanno cominciato a urlare, anche frasi xenofobe, e un anziano si sarebbe accanito contro l’italo-marocchino con più violenza: “Un uomo, sulla settantina d’anni, mi ha sputato addosso – ha raccontato il 62enne a La Stampa –. E per di più mi ha detto che mi avrebbe rotto il collo se non fossi sceso”.
Tredici anni fa a rompere l’osso del collo di Belgaid era stato il suo datore di lavoro, che non lo ha mai risarcito. Sull’ultimo episodio i carabinieri stanno svolgendo gli accertamenti.
Il marmista del Verano con l’hobby dello spaccio: 110 mila dosi nel loculo
“I loculi della coca”. “I fornetti della droga”. “Le tombe dello spaccio”. Che i pusher di San Lorenzo, una delle piazze di vendita di stupefacenti più note della Capitale, potessero arrivare a nascondere la “merce” nel limitrofo cimitero del Verano, era piuttosto risaputo. Che una tomba vuota potesse arrivare a nascondere chili di cocaina, armi e quant’altro, non vi era di certo contezza. L’idea a metà fra il macabro e l’originale è venuta a Daniele Gasperini, un marmista di 42 anni, che fra un lavoro a una lapide e un memoriale spacciava anche polvere bianca. Ne aveva nascosta poco più di un chilo (1.092 grammi), chiusa in una borsa termica e custodita in sacchetti di plastica, all’interno di un loculo vuoto, nell’area del Colle del Pincetto, la zona più antica e monumentale del cimitero, a ridosso della Basilica di San Lorenzo Fuori le Mura. A scoprirlo sono stati gli agenti della Polizia di Stato, con un’operazione coordinata dalla Squadra Mobile di Roma.
Il blitz è scattato mercoledì pomeriggio, quando gli agenti della Capitale hanno notato un’auto passare ad alta velocità nel piazzale davanti al Verano, dileguandosi fra le bare e i loculi. Insospettiti, i poliziotti hanno seguito la macchina e hanno dato il via a un appostamento. Dopo una lunga attesa, gli agenti hanno notato che il mezzo, anziché abbandonare la zona, era di nuovo entrato per poi parcheggiare davanti alla tomba-nascondiglio. Gli investigatori hanno iniziato il pedinamento dell’autista e l’hanno visto entrare in alcune cappelle funerarie. E proprio in una di queste, secondo la ricostruzione degli inquirenti, servendosi di una scala, il 42enne si è avvicinato a un loculo iniziando ad armeggiare per rimuovere la pietra di chiusura. I poliziotti sono intervenuti per bloccarlo e scoprendo il contenuto nascosto dietro la lapide: alcuni contenitori di plastica contenenti diversi involucri di cocaina, bilancini di precisione e materiale per il confezionamento dello stupefacente. La droga, se immessa sul mercato, avrebbe prodotto circa 110.000 dosi. E non solo. A poca distanza dal loculo perquisito, gli agenti ne hanno notato subito dopo un altro, chiuso con le stesse modalità del primo, nel quale è stata invece trovata una scatola in cartone contenente una pistola rubata e un caricatore rifornito di cartucce calibro 9×21. L’uomo, un marmista di professione, è stato arrestato così in flagranza per la detenzione del grosso quantitativo di droga, nonché per la ricettazione e la detenzione illegale dell’arma e del munizionamento, e portato nel carcere di Regina Coeli.
Al di là dell’episodio, torna anche d’attualità il tema della sicurezza all’interno dei cimiteri romani. Il Verano, come gli altri 10 siti del Comune di Roma, è gestito dalla municipalizzata Ama. Possibile che fra gli addetti alle pulizie e il personale dell’azienda capitolina nessuno si sia mai accorto di nulla? Contattato da Il Fatto, l’ufficio stampa di Ama ha assicurato che “saranno messe a disposizione degli inquirenti le registrazioni provenienti dalle telecamere installate all’interno del cimitero”.
Disse: “Il Divo è punciutu”. Il pentito non si trova più
Narduzzo di San Cataldo non si trova più: è l’ultimo pentito con cui Paolo Borsellino parla, due giorni prima di morire, è l’unico a definire Giulio Andreotti punciutu, affiliato a Cosa nostra.
Leonardo Messina, 64 anni, ex collaboratore di giustizia prezioso per i magistrati che hanno indagato su Cosa nostra, sempre ritenuto attendibile dalle procure di Caltanissetta e Palermo, infame per i boss rinchiusi con cui ha condiviso i crimini fino al ’92, è irreperibile almeno da tre mesi, dall’ultima volta che lo Stato lo ha cercato – al domicilio conosciuto dall’Ufficio centrale per la protezione personale – per convocarlo a testimoniare in un processo per un omicidio di mafia. Messina è uscito dal programma di protezione nel marzo 2016, con una capitalizzazione di circa 50 mila euro per la collaborazione con la Repubblica italiana.
“Andreotti affiliato” e la vigilia di via D’Amelio
E gli investigatori non sarebbero preoccupati se Leonardo Messina non avesse il peso che ha nella storia recente per le dichiarazioni sulle trame oscure che ancora avvolgono il periodo delle Stragi, per le rivelazioni sui rapporti tra Cosa nostra, ’ndrangheta e massoneria deviata, per quanto raccontato su Giulio Andreotti, morto nel 2013, sette volte presidente del Consiglio, riconosciuto colpevole nel 2003 dalla Corte d’appello di Palermo per associazione a delinquere con Cosa nostra fino al 1980, ma “salvato” dalla prescrizione. Il 30 giugno 1992, Narduzzo, agli arresti da due mesi, parla nella sede dello Sco di Roma. Fra le altre cose racconta ai magistrati di Palermo, tra i quali c’è Paolo Borsellino, cose che avrebbe poi ribadito al processo Trattativa Stato-mafia nel 2013: “Lillo Rinaldi, che frequentava Piddu Madonia (oggi 73enne al 41 bis, ma fino a qualche tempo fa ancora influente seppur dal carcere, capo indiscusso della mafia di Caltanissetta, ndr) disse che Andreotti era punciutu, mentre c’era chi diceva che Andreotti fosse il figlio di un Papa. Salvo Lima e Andreotti erano i politici che dovevano garantire che il maxi-processo sarebbe stato assegnato al giudice Corrado Carnevale in Cassazione e non ci sarebbero stati problemi. L’ottimismo cessa quando i politici si allontanano e non riescono a far assegnare il processo al giudice Carnevale. C’è stato un momento in cui in Cosa nostra si decise di non votare per la Democrazia cristiana ma per i socialisti. Io ho ricevuto l’ordine preciso di votare e far votare per i socialisti. L’onorevole Claudio Martelli quando è arrivato al potere, scavalcando l’ala craxiana, non ha mantenuto i patti. Io non partecipavo alle riunioni ma venivo messo a conoscenza delle decisioni prese”. Salvo Lima, referente di Cosa nostra per la Dc in Sicilia, era già stato ucciso il 12 marzo 1992.
I colloqui con Borsellino continuarono. Narduzzo lo racconta nel 2013: “Il dottore mi disse: ‘A noi serve solo la verità. Non le congetture o i pensieri’. E così ho iniziato a collaborare parlando per ore con lui”. Il 17 luglio 1992 ci fu l’ultimo incontro: “Il dottore era molto nervoso, fumava in continuazione. Accese un’altra sigaretta e prima di andare via mi disse: ‘Signor Messina, non ci vediamo più, è arrivata la mia ora. Non c’è più tempo, la saluto’. Sapeva di morire”. Passano 48 ore e anche via D’Amelio salta in aria. Il 17 novembre 1992 l’operazione Leopardo, generata proprio da quelle chiacchierate tra Messina e Borsellino, porta agli arresti di 200 uomini d’onore in tutta Italia.
La Lega meridionale e la vedova Schifani
Le deposizioni degli anni Novanta di Leonardo Messina sono state di recente inserite anche nell’inchiesta ’ndrangheta stragista della Procura di Reggio Calabria. Messina parlò di un coordinamento tra le mafie siciliana e calabrese nella svolta di tritolo e sangue del ’92, dei legami con la massoneria deviata e con pezzi dello Stato, del ruolo di Licio Gelli nell’idea sostenuta da Leoluca Bagarella di creare una Lega meridionale, Sicilia libera, con lo scopo di una secessione da cui generare un narcostato del Sud gestito dai Corleonesi. “Mi trovai a conversare con Borino Miccichè, il Potente e Giovanni Monachino (arrestato a Pietraperzia meno di un mese fa, ndr). Umberto Bossi era andato a Catania. Io che consideravo Bossi un nemico della Sicilia dissi: ‘Perché un’altra volta che viene qua non l’ammazziamo?’ Il Miccichè rispose: ‘Ma che sei pazzo? Bossi è giusto’. Spiegò che era un pupo di Gianfranco Miglio, espressione di una parte della Dc e della massoneria con a capo Giulio Andreotti e Licio Gelli, che sarebbe nata una Lega del Sud”. Quel progetto fu poi abbandonato, scalzato dall’idea di Forza Italia.
Narduzzo, licenza elementare ma dal buon eloquio, combinato uomo d’onore il 21 aprile 1982 con la famiglia di San Cataldo, amico del feroce Piddu “chiacchiera” Madonia, fu catturato appunto nel 1992 e spiegò così il suo pentimento dopo Capaci: “La mia crisi è di tipo morale. Quando ho sentito in tv la vedova dell’agente di scorta, Vito Schifani, parlare e pregare gli uomini di mafia, le sue parole mi hanno colpito come macigni e ho deciso di uscire dall’organizzazione nell’unico modo possibile, collaborando con la giustizia”. Se Tommaso Buscetta fu il primo a parlare di un’entità che garantiva Cosa nostra, Messina fu il primo a raccontare che il punciutu Andreotti fosse il santo in paradiso dei boss, tanto da essere chiamato anche lo “zio”. Chissà ora dov’è Narduzzo.
Conte commissaria la sanità calabrese, ricorso di Oliverio
Il commissariamento della sanità calabrese era il primo punto all’ordine del giorno ed è stato approvato all’unanimità dal Consiglio dei ministri che si è riunito ieri in riva allo Stretto. L’annuncio lo hanno fatto il premier Giuseppe Conte e il ministro della Salute Giulia Grillo, secondo la quale il governo aveva “il dovere morale di intervenire sulla sanità”. Si tratta, in sostanza, di un decreto speciale per far fronte “a una situazione oggettivamente emergenziale: il disavanzo di gestione, arrivato a 168 milioni di euro nell’ultimo trimestre del 2018, e il punteggio Lea del 2017, fermo a 136, molto al di sotto del limite minimo di 160 per soddisfare i Livelli Essenziali di Assistenza”. Il decreto sulla Sanità, per la Grillo, “darà ai commissari governativi la possibilità di lavorare con qualche arma in più per fare sì che i calabresi non abbiano più una sanità di serie B”. Arriva anche la risposta al presidente della Regione Mario Oliverio che ha annunciato di voler impugnare davanti alla Consulta il provvedimento del governo: “Tutto quello che faccio – ha concluso il ministro della Salute – è nel solco della Costituzione, per questo abbiamo fatto un decreto legge temporaneo”.
Sardegna, sette assessori ancora non si trovano
Doveva essere pronta quindici minuti dopo la proclamazione degli eletti, secondo gli auspici del vicepremier Salvini. Invece a quasi due mesi dal trionfo elettorale del 24 febbraio (22 giorni dall’imprimatur della Corte d’Appello di Cagliari) la Giunta regionale sarda a trazione sardo-leghista è ancora ferma a metà: una “mini-giunta” con cinque assessori nominati su dodici e ben sette deleghe ad interim nelle mani del presidente Solinas, che prende ancora tempo mentre è impegnato a Roma a risolvere le grane della continuità aerea territoriale stoppata dall’Europa.
Il rebus delle caselle assessoriali mancanti invece è rimandando a dopo Pasqua, nel perdurante braccio di ferro fra la Lega e i piccoli piccoli partiti (in particolare i Riformatori) sull’attribuzione di ruoli e poltrone in base al risultato delle urne.
Gli eredi del partito di Mariotto Segni chiedevano di vedersi riconosciute due caselle nell’esecutivo regionale, ma probabilmente dovranno accontentarsi di una sola delega, quella ai Lavori Pubblici. Mentre il Carroccio non sembra intenzionato a rinunciare alla formula del “tre più uno”, ovvero tre assessori leghisti nell’esecutivo insieme al presidente dell’Assemblea regionale sarda. Richiesta esaudita, almeno in parte, una settimana fa quando dopo una seduta andata a vuoto finalmente l’aula ha eletto Presidente il leghista Michele Pais col voto compatto della maggioranza. Il Carroccio si conferma dunque dominus di maggioranza, nell’imbarazzo montante dei sardisti a cui i salviniani avrebbero chiesto una prova di fedeltà proprio nell’occasione della nomina del presidente del Consiglio anteponendo quest’ultima a quella degli assessori mancanti.
Ma gli ostacoli sulla via del governo non finiscono qui: il centrodestra guarda con crescente preoccupazione anche al Tar Sardegna che il 12 giugno deciderà sui ricorsi presentati da tre candidati non eletti alle regionali del 24 febbraio. Al centro dei ricorsi il problema di quattro liste (tre appartenenti alla compagine di maggioranza, tra cui quella della Lega) presentatesi alle elezioni senza raccogliere le necessarie firme, grazie all’escamotage dell’ “adesione tecnica” da parte di alcuni consiglieri uscenti poi candidatisi con altre liste. Il rischio, in caso di accoglimento da parte del Tribunale amministrativo, sarebbe che le quattro liste in questione vengano ricusate, cioè escluse dalla ripartizione dei seggi. Uno scenario che potrebbe stravolgere i già precari equilibri del Consiglio Regionale, rimescolando le carte della politica sarda. Fra i consiglieri a rischio di esclusione anche il neo eletto presidente dell’Assemblea regionale, Michele Pais.