Forza Italia a pezzi: se ne va anche il sindaco di Catania

Un brutto colpo per Forza Italia. Il sindaco di Catania, Salvo Pogliese, lascia il partito berlusconiano dopo i contrasti col commissario regionale Gianfranco Miccichè sulla scelta dei candidati alle Europee. “Me ne vado, con tanti amici e amministratori non ci riconosciamo più in un partito che sta andando verso l’autodistruzione”, ha spiegato Pogliese, che nel giugno 2018 stravinse le elezioni sconfiggendo al primo turno il sindaco uscente Enzo Bianco. Oltre alla batosta di perdere un primo cittadino di peso, alla guida di una città di 500 mila abitanti dove il partito azzurro viaggia ancora intorno al 20 per cento, per FI c’è il rischio di un vero e proprio smottamento, con decine di esponenti siciliani con la valigia in mano, pronti a migrare verso altri lidi. E alcuni già se ne sono andati, seguendo Pogliese, come il vicecoordinatore Basilio Catanoso e l’ex assessore regionale Santi Formica. Per alcuni (Catanoso) l’approdo sarà Fratelli d’Italia, ma altri guardano alla Lega.

Il motivo dello strappo, ufficialmente, è per le liste. Al momento di comporre la squadra di candidati, infatti, è andato in scena un braccio di ferro tra Miccichè e Pogliese sul nome di Giuseppe Milazzo, spinto dal primo, poi candidato, mentre Pogliese avrebbe preferito Giovanni La Via in rappresentanza della Sicilia orientale, quella di Catania appunto. Su La Via, però, molti hanno storto il naso perché ha il demerito di aver abbandonato Berlusconi per Angelino Alfano. Di più: alle ultime Regionali, proprio col partito alfaniano, aveva sostenuto il candidato del centrosinistra Fabrizio Micari, proponendosi come suo numero due. E ora si è riaffacciato tra i berluscones.

In realtà la disfida tra palermitani (Miccichè) e catanesi (Pogliese) spiega solo in parte la faccenda. Perché nella politica siciliana le vicende seguono spesso logiche locali difficilmente comprensibili altrove, fatte di alleanze, amicizie, rotture, tradimenti e ricomposizioni che si sedimentano nel corso dei lustri, rendendo la situazione complessa ed esplosiva. In questa storia, per esempio, contano anche le provenienze. Pogliese è un ex An e la sua elezione è frutto del Patto dell’arancino tra FI, FdI e Lega che, nel novembre 2017, ha portato alla vittoria Nello Musumeci. Se il sindaco di Catania vorrebbe una Forza Italia più sterzata a destra, fedele alleata della Lega, Miccichè con Salvini è entrato spesso in contrapposizione. “Sono liberale. Fascista mai!”, ha detto in più di un’occasione. Basti ricordare, in tal senso, la pioggia di critiche piovute su Stefania Prestigiacomo (da sempre vicina a Miccichè) quando, in gennaio, a bordo di un gommone con Riccardo Magi e Nicola Fratoianni ha raggiunto la Sea Watch per portare solidarietà ai migranti che il vicepremier non faceva attraccare.

Alla fine, dunque, Milazzo entra e La Via resta fuori. “Lasciare il partito per questa vicenda è un gesto esagerato, quando si fanno le liste ci sono sempre scontenti e delusi. Questo era il momento di stare uniti, i conti si potevano regolare dopo le Europee. Pogliese già da tempo meditava l’addio e ha colto la palla al balzo”, afferma un deputato forzista che chiede l’anonimato.

Il problema, ora, è che in tanti potrebbero seguire il sindaco di Catania. Massimiliano Giammusso, primo cittadino di Gravina, e Antonio Bonanno, sindaco di Biancavilla, due piccoli centri del Catanese, hanno già lasciato il partito. Come anche numerosi esponenti dei municipi cittadini. Lascia FI anche l’ex assessore regionale Santi Formica. “Prendiamo atto che nel partito non si possono più portare avanti istanze di destra che hanno sempre contraddistinto il nostro percorso politico”, spiega Formica, fedelissimo di Catanoso. E Miccichè, l’uomo del 61 a zero alle Politiche del 2001, non può fare altro che stare a guardare.

Il premier: “Fatto grave la corruzione, serve chiarezza”

“Ho appreso delle indagini questa mattina, sarebbe un fatto di corruzione. Non voglio sminuire la gravità di un fatto di corruzione. Il contratto di governo contiene un codice etico in virtù del quale non possono svolgere il ruolo di ministri o sottosegretari coloro che sono sotto processo per fatti gravi e il reato di corruzione è indicato come fatto grave”. Lo ha dichiarato ieri il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, al termine del Consiglio dei ministri tenuto nel pomeriggio a Reggio Calabria, sulla vicenda che riguarda il sottosegretario alle Infrastrutture e senatore della Lega Armando Siri, della Lega, indagato per corruzione.

“Questo governo ha l’obiettivo di recuperare la fiducia dei cittadini nelle istituzioni. Per questo è un governo che ha un alto tasso di sensibilità per l’etica pubblica. Siamo di fronte a un avviso di garanzia, non c’è un processo in senso stretto. Chiederò a lui alcuni chiarimenti e all’esito di questo confronto, valuteremo tenendo conto di tutti gli elementi che ho prospettato in premessa”.

Salvini: “Da Tripoli rischio terrorismo”. Conte: “Non subito”

Nessuna invasione di migranti dalla Libia, ma il rischio “concreto” di una crisi umanitaria che si può e si deve fermare. Perché nessun interesse geopolitico può giustificare una guerra. Il premier Giuseppe Conte ha aggiornato la sua informativa al Senato, dopo quella della scorsa settimana alla Camera, alla luce delle polemiche seguite alle parole del premier libico Fayez al Sarraj (in foto) sugli 800mila migranti pronti a partire. Ed ha rassicurato che non c’è alcun rischio “imminente”, parlando allo stesso tempo di 18mila persone costrette dagli scontri ad abbandonare le loro case in un paese già duramente provato, nel quale il bilancio di morti e feriti resta incerto. Nel giorno in cui cui Tripoli ha annunciato il blocco della collaborazione con la Francia, accusata di sostenere il generale Khalifa Haftar, Conte ha inviato più di un messaggio a Parigi, tornando a ribadire che “l’unica soluzione possibile della crisi è quella politica” e che “non ci sono interessi economici o geopolitici che possano giustificare scorciatoie militari”. Il ministro dell’Interno e vicepremier Salvini, invece, ha sostenuto il contrario: “È chiaro che ci sono dei potenziali terroristi, anzi dei sicuri terroristi, pronti a partire in direzione dell’Italia”.

L’indagine antimafia partita da Palermo arrivata nella Capitale

Tutto nasce da un’inchiesta antimafia nata a Palermo. Secondo gli accertamenti della Dda di Trapani, per conto dei pm palermitani, viene ipotizzato uno scambio di favori, utilità e denaro per agevolare aziende considerate vicine all’imprenditore trapanese dell’eolico Vito Nicastri – da un anno agli arresti domiciliari – che avrebbe coperto e finanziato la latitanza di Matteo Messina Denaro. Tra gli indagati c’è il docente universitario ed ex deputato Fi Paolo Arata e suo figlio Francesco. E il sottosegretario Armando Siri, indagato a Roma: Siri, tramite Arata, avrebbe ricevuto secondo l’accusa 30 mila euro per inserire una norma in un documento che avrebbe favorito l’erogazione di contributi per le imprese delle energie rinnovabili. Norma però mai approvata. Indagati anche il figlio Nicastri, Manlio, 4 dirigenti della Regione Sicilia e un imprenditore.

Il “vate della flat-tax” che studiava da ministro

“Siri chi… il cardinale?”. A Genova quando pronunci quel cognome tutti pensano a Giuseppe, l’arcivescovo entrato tante volte in Conclave già papa e sempre uscito cardinale. Il sottosegretario no, molti fino a ieri nemmeno sapevano che fosse genovese. Armando Siri lo è, come Francesco Belsito. Altro sottosegretario che il Carroccio oggi cerca di dimenticare. Ci sarebbe anche Edoardo Rixi che si sta dando un gran da fare con il Ponte Morandi, ma che vive sotto una spada di Damocle: il processo per le spese pazze in Regione. Ma torniamo a Siri. Chi ricorda i suoi esordi parla di “un ragazzo sveglio, ambizioso e fedelissimo di Luca Iosi, socialista rampante degli Anni 90. Un passaggio scomodo che, però, Siri non ha mai rinnegato. Addirittura lo cita nella sua biografia: “Da giovanissimo è stato attivista della gioventù socialista e poi amico personale e collaboratore di Bettino Craxi”. Così come Siri non ha mai sventolato titoli di studio roboanti, anzi, ha sempre scherzato vantandosi della licenza elementare. Un giovane che brucia le tappe: a vent’anni è sposato e a 22 papà. Dal Psi agli ambienti berlusconiani il passaggio è breve: Siri diventa giornalista Mediaset. Qualcuno dice che fosse stimato da Marcello Dell’Utri. I colleghi di allora ricordano che a quei tempi nel cdr dei tg del Cavaliere trovavi Giovanni Toti. Intanto Siri sforna libri come panini: La Beffa, poi Il Sacco all’Italia . Nel 2010 L’Italia Nuova – L’Inizio quindi La Luce e l’ombra, Eurokrazia e infine quello che lo ha fatto decollare: Flat tax. Ma la parabola politica di Siri comincia prima. Con alti e bassi: nel 2010 fonda il Pin, Partito Italia Nuova. Ne diventa presidente, cerca di fondare sedi in tutta Italia. Fino alle elezioni comunali. Prima tenta di candidarsi a Milano, ma la sua lista non viene accettata e lui si ritrova sul gobbone centinaia di manifesti che già tappezzano la città (con 150mila euro di sanzioni per le affissioni). Poi prova a Genova nel 2012 e raccoglie appena lo 0,62%, cioè 1.647 voti. Nonostante la campagna elettorale in grande stile e manifesti ovunque. Anni sfortunati.

Nel 2014 Siri a Milano patteggiò una pena per bancarotta fraudolenta a un anno e 8 mesi per il crac MediaItalia che secondo i pm si era indebitata per un milione. L’accusa sostenne che il patrimonio finì in un’altra impresa con sede nel Delaware. Siri respinse le accuse, sostenne di aver patteggiato perché non aveva risorse per un processo. Acqua passata, l’astro di Siri stava già nascendo: “Una delle proposte principali di Siri – racconta il curriculum – è quella dell’aliquota unica (flat tax) al 15%”.

E scocca la scintilla: “Nel 2014 sigla una collaborazione con Salvini… nel 2015 viene nominato responsabile economico e della formazione di Noi con Salvini”. Il vate della flat tax, dicono i maligni, nel maggio 2018 già sogna la poltrona di ministro dell’Economia. Invece si trova sottosegretario alle Infrastrutture. Pare non l’abbia presa bene. Dagli archivi di Tagadà emerge una puntata in cui Siri dichiara: “Toninelli non è ministro”. E invece lo era, il suo.

L’asso nella manica apparecchiato a cena. Ma le intercettazioni furono interrotte

C’è stato un momento in cui i magistrati di Palermo stavano per registrare la voce di Armando Siri. Poteva avvenire durante una sera romana, quando il sottosegretario si siede a tavola con Paolo Arata, l’imprenditore genovese per il quale – secondo le accuse – Siri si sarebbe speso per ottenere atti legislativi che lo favorissero. Quella cena in teoria poteva essere l’asso nella manica dei pm palermitani per chiudere il cerchio e sapere se i 30 mila euro di cui parla Arata con il figlio “pattuiti a favore di Siri per la sua attività di sollecitazione dell’approvazione di norme” fossero arrivati a destinazione o fossero solo promessi. Se, ancora, quella dazione di denaro fosse il frutto di un accordo tra i due o di una millanteria. Una cosa è certa: non avremo mai la prova in un senso o nell’altro di quel che si sono detti. Quando Arata va a cena con Siri, sul suo cellulare è installato un trojan, un software che avrebbe consentito alla Dia di ascoltare e registrare tutto.

La procura di Palermo viene avvertita dagli investigatori che i due si sono organizzati per vedersi. A questo punto si tiene una riunione in tutta fretta e i pm decidono di interrompere la registrazione del cellulare di Arata, solo nel periodo in cui sta con Siri. L’intercettazione captata quella sera infatti, secondo l’interpretazione garantista della Procura, non sarebbe stata utilizzabile perchè Siri è tutelato dall’articolo 68 della Costituzione. Il principio è noto: nessun parlamentare senza autorizzazione della camera di appartenenza può essere intercettato direttamente. Il problema si pone quando le conversazioni captate sul cellulare di un altro soggetto con il parlamentare sono “casuali”. Nel caso della cena romana non c’era caso. I pm sapevano. Certo, nel caso del trojan le cose sono meno definite perché non c’è una cimice da attivare ma un telefonino che già registra. Sul punto non esiste un precedente specifico perché questo sistema è più recente. Per i pm, la voce di Siri captata dal trojan del telefonino di Arata sarebbe stata un’intercettazione “indiretta” – perchè il trojan era installato sul cellulare del terzo, l’imprenditore, e non su quello di Siri – ma non “casuale”, perchè gli investigatori sapevano dell’incontro. La cena in compenso potrebbe essere stata fotografata a seguito del pedinamento della Dia. L’incontro Siri-Arata avviene quando i magistrati hanno già in mano alcune conversazioni tra Arata e il figlio Francesco nelle quali “si fa esplicitamente riferimento alla somma di denaro pattuita a favore di Siri”. Hanno anche le conversazioni di Arata “con i suoi familiari e sodali dell’impresa” e con i “collaboratori di Siri e con altre persone (con ruoli istituzionali e non)”. Ma quello che Arata e Siri si son detti durante la cena non lo sapremo mai.

Di Maio manda in Procura le “prove” contro il collega

Dicono di avere la prova. Quella che mancava: il riscontro inconfutabile che Armando Siri abbia davvero provato a incidere nella partita dell’eolico tanto cara al suo amico Paolo Arata, che gli è costata un’indagine per corruzione. E se fino a ieri la Procura di Roma non aveva in mano i testi precisi, ora sarà proprio il ministero dello Sviluppo Economico, quello guidato dal vicepremier Luigi Di Maio, a fornire gli elementi che possono appesantire la posizione del collega di governo leghista. La “massima collaborazione” con l’autorità giudiziaria è garantita, anche se ai piani alti del Mise tutti si trincerano dietro il riserbo, vista l’indagine in corso.

È proprio in quegli uffici che Armando Siri si “è fatto carico” di portare avanti la sua missione per conto di Arata e del suo socio occulto (secondo la tesi della Procura) Vito Nicastri, l’imprenditore mafioso che avrebbe finanziato la latitanza del boss Matteo Messina Denaro.

Un tentativo, raccontano, fermato dal gabinetto del ministro che ha ritenuto non ci fossero i “presupposti” per trasformarlo in una proposta normativa: si trattava di “una sanatoria”, una “estensione di benefici” che in sostanza, già a prima vista, sembrava nascondere un favore a qualcuno. L’approfondimento su chi fosse il potenziale beneficiario della norma però, spiegano adesso, non è stato fatto. Nel caso del testo presentato al ministero dello Sviluppo economico si trattava di allargare gli incentivi previsti agli impianti più datati. Praticamente lo stesso principio contenuto nell’emendamento presentato alla legge di Bilancio, che aveva come primo firmatario il capogruppo della Lega al Senato Massimiliano Romeo.

Fallito il tentativo sulla manovra, insomma, il sottosegretario Siri avrebbe giocato di sponda con i colleghi di partito. Che hanno ripresentato a palazzo Madama l’identica richiesta: applicare le “tariffe incentivanti” a tutti gli impianti entrati in vigore entro l’estate del 2017. L’emendamento non è passato. Prima che venisse messo ai voti è arrivato il parere negativo del ministero dell’Ambiente guidato da Sergio Costa: “Si esprime orientamento tecnico contrario – si legge nel parere – in quanto si sposta in avanti un termine per l’applicazione agli impianti a fonti rinnovabili di tariffe incentivanti più vantaggiose. Così si registrerebbe un impatto negativo sulle bollette per riconoscere un vantaggio ad impianti comunque già entrati in servizio”.

Nonostante il no dei tecnici, la Lega ha insistito perché il parere venisse riformulato: a quel punto è arrivato il no “politico” del ministro dei Rapporti con il Parlamento Riccardo Fraccaro, che si occupava del vaglio degli emendamenti alla manovra. Ma Siri non si è arreso. E sempre attraverso i colleghi del Carroccio ci ha riprovato nel Milleproroghe e nella legge di semplificazione: tutti elementi dell’incartamento che ora la Procura acquisirà negli uffici dei ministeri, a cominciare da quello guidato da Di Maio.

E proprio il vicepremier del M5S in serata a Dritto e rovescio sostiene: “Negli uffici legislativi di vari ministeri c’era la proposta normativa di Siri sull’eolico, ma il M5S ha sempre dato parere negativo, perché rappresentava una sanatoria del settore. Se il Mise non avesse detto di no alla proposta probabilmente ci sarebbero stati anche membri del mio staff indagati”.

Indagato Siri: “Tangenti per favori in Parlamento”

Armando Siri, senatore e sottosegretario al ministero delle Infrastrutture, era “costantemente impegnato – attraverso la sua azione diretta nella qualità di alto rappresentante del governo e ascoltato membro della maggioranza parlamentare – nel promuovere provvedimenti regolamentari o legislativi che contengano norme ad hoc” che favorissero gli interessi economici dell’imprenditore genovese Paolo Arata, “ampliando” a suo favore gli incentivi per l’energia elettrica da fonte rinnovabile a cui non ha diritto”. Sono accuse pesanti quelle della Procura di Roma dove l’ideologo della flat tax vicinissimo al leader del Carroccio Matteo Salvini è accusato di corruzione: secondo i pm Paolo Ielo e Mario Palazzi in cambio dell’asservimento della propria funzione di sottosegretario e senatore avrebbe ricevuto “la promessa e/o dazione di 30 mila euro” da parte di Arata, ex parlamentare forzista poi nelle grazie di Salvini, che lo ha interpellato per ideare il progetto del Carroccio sulle Energie. I magistrati sospettano che ci siano state attività (rimaste dei tentativi non concretizzati) da parte di Siri per far entrare gli interessi dell’imprenditore negli atti governativi. Come? “Proponendo e concordando – è scritto nel capo di imputazione del sottosegretario – con gli organi apicali dei ministeri competenti l’inserimento in provvedimenti normativi di competenza governativa di rango parlamentare o legislativo”, come la legge Milleproroghe o quella di Stabilità.

Che dietro questa attività ci fosse una tangente ne parla in alcune intercettazioni Paolo Arata con il figlio Francesco, in cui “si fa esplicitamente riferimento alla somma di denaro pattuita a favore di Siri”. I magistrati parlano di una “incessante attività promossa da Siri per l’approvazione delle norme”. Anche questo viene ricostruito dagli investigatori tramite le conversazioni di Arata “con suoi familiari e sodali nell’impresa”, ma anche con i “collaboratori di Siri e con altre persone coinvolte (con ruoli istituzionali e non) nella redazione delle stesse”. Ieri i pm hanno disposto la perquisizione delle case di Arata tra Roma, Genova e Castellammare del Golfo (in provincia di Trapani), della sua cassetta di sicurezza presso una banca, ma anche delle società a lui riconducibili: la Etnea, la Solcara, la Alqantara e la Solgesta Srl. È stata anche fatta copia dei pc come pure del cellulare dell’imprenditore: da qui potrebbero venire fuori i contatti con il mondo leghista.

L’indagine su Siri è stata trasferita a Roma per competenza dai colleghi di Palermo, Gianluca De Leo e Paolo Guido. Qui Arata ha guai altrettanto gravi: oltre la corruzione di alcuni funzionari pubblici regionali, è accusato anche di trasferimento fraudolento di valori con l’aggravante di aver agevolato l’associazione mafiosa. Secondo i pm palermitani era il prestanome del “re” dell’eolico siciliano Vito Nicastri, imprenditore “condannato in via definitiva per corruzione e truffa aggravata” al quale nel 2012 era stato confiscato un patrimonio di oltre un milione di euro. Per gli investigatori Nicastri è legato al boss latitante Matteo Messina Denaro.

E lo racconta ai pm un pregiudicato mafioso mazarese, che parla di “un’operazione speculativa, risalente agli anni 2006-2007 e sempre nel campo delle energie rinnovabili, condotta da Nicastri che si vantava di avere l’appoggio ‘dell’amico di Castelvetrano’”, ossia Messina Denaro.

Il rapporto tra Arata e Nicastri non si era indebolito neanche quando quest’ultimo era ai domiciliari per concorso esterno a Cosa Nostra. Durante la detenzione, Nicastri ha fatto affidamento alla “rete di rapporti istituzionali” di Paolo Arata, il quale – forte anche dell’esperienza di ex parlamentare – era riuscito a interloquire con gli organi politici regionali siciliani e a introdursi “negli uffici tecnici incaricati di valutare i progetti relativi al ‘bio-metano’”. Era arrivato, per i pm, all’assessore regionale all’Energia Alberto Pierobon, “grazie a Gianfranco Miccichè, a sua volta contattato da Alberto Dell’Ultri”, fratello di Marcello. Ed era riuscito “a interloquire con l’assessore Cordaro (…) dopo aver chiesto un’intercessione a Calogero Mannino”. Circostanza che l’ex ministro, sentito dal Fatto, smentisce.

È l’Arata che traccia il solco

Mentre si discute se il sottosegretario leghista Armando Siri, indagato per corruzione in una brutta storia siciliana, debba lasciare il governo o no, diciamo subito una cosa: Siri non avrebbe mai dovuto entrarci, nel governo, avendo patteggiato 1 anno e 8 mesi per bancarotta fraudolenta. Se ci avessero chiesto di scommettere su chi avrebbe provocato il primo scandalo giallo-verde, avremmo puntato su Siri. Specie alla luce delle sue incredibili interviste a favore del Tav, dei condoni, della deregulation sugli appalti e contro l’Anticorruzione (“Per combattere le tangenti basta il buon senso”). Eppure Salvini, dopo aver tentato di promuovere il bancarottiere a ministro (beccandosi il niet del M5S), riuscì a piazzarlo come vice di Toninelli, a far la guardia alle grandi opere tanto care al Partito degli Affari. Ora però, oltre alla bancarotta, c’è un’altra ottima ragione perché Siri tolga il disturbo: l’accusa di aver asservito le pubbliche funzioni di membro del governo e del Parlamento per far approvare – in cambio di 30 mila euro – norme a favore di un imprenditore del ramo energia eolica, a sua volta ritenuto socio occulto di un uomo legato a Matteo Messina Denaro.

I dettagli li trovate alle pagg. 2-5 nelle cronache di Valeria Pacelli e nell’analisi di Marco Lillo. Qui bastano pochi elementi per illustrare la gravità dei fatti. Non solo per l’indagato Siri, ma anche per il non indagato Salvini. Il 16 luglio 2017 il leader leghista invita a parlare al convegno programmatico a Piacenza un certo Paolo Arata, genovese come Siri, ex deputato di Forza Italia, ora imprenditore dell’eolico con varie società fra cui Etnea Srl di Trapani. E lo accredita con tre tweet che lo esaltano come autore del programma della Lega sull’energia. Come far scrivere il programma sui trasporti alla Fiat o quello sulla sanità alla Bayer. Il 1° giugno 2018 Salvini diventa vicepremier e ministro dell’Interno. E ancora una volta se ne infischia del plateale conflitto d’interessi di Arata, tentando di piazzarlo addirittura alla presidenza dell’Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente (Arera). La volpe a guardia del pollaio. Ma il ministro responsabile della nomina è Di Maio, e Arata non passa. Ora i pm di Palermo che danno la caccia a Messina Denaro scoprono alcune cosette. 1) Arata è socio occulto e prestanome del “re dell’eolico”, Vito Nicastri, ai domiciliari dopo una condanna definitiva per corruzione e truffa nell’eolico e una misura di prevenzione antimafia con confisca-record di 1,3 miliardi per i legami con Messina Denaro.

2) Arata è salito sul carro di Salvini e Siri, ma non è mai sceso da quello della peggior vecchia politica siciliana, infatti per i permessi dalla Regione Siciliana mobilita Alberto Dell’Utri (fratello del mafioso Marcello), Calogero Mannino e Gianfranco Miccichè; c) Arata – scrivono sempre i pm – chiede a Siri “una modifica regolamentare degli incentivi connessi al mini-eolico”, più favorevole alle sua società, e Siri, anziché levargli il saluto, si attiva. Ma viene stoppato dal ministero dello Sviluppo, retto sempre da Di Maio. Ora, non sappiamo se Siri abbia davvero ricevuto quei 30 mila euro da Arata, o almeno li abbia pattuiti: lo stabiliranno i giudici, con qualche difficoltà, vista l’incredibile decisione degli inquirenti di interrompere le intercettazioni sul cellulare di Arata proprio mentre stava per incontrare Siri in un ristorante di Roma. Ma bastano i fatti fin qui accertati per aprire un enorme problema politico nel governo: simile ma ancor più grave (viste le implicazioni mafiose) di quello che portò alle dimissioni dal governo Renzi di Federica Guidi per un emendamento pro petrolieri sollecitato da un lobbista compagno della ministra. Né Salvini né Siri sapevano che Arata è legato all’uomo di Messina Denaro (anche se le sue società eoliche avrebbero dovuto allarmarli: nel Trapanese lo sanno anche le pietre che le pale bianche sono targate Messina Denaro).
Dunque, almeno per il suo conflitto d’interessi, Salvini avrebbe dovuto evitare di fargli scrivere il programma sull’energia e di sponsorizzarlo all’Arari; e, da ministro dell’Interno (e della Polizia), avrebbe potuto informarsi sulle sue strane attività trapanesi. Non l’ha fatto e dovrebbe scusarsi con gli italiani, leghisti e non, per la clamorosa leggerezza commessa di puntare sull’uomo sbagliato. E prestare in futuro maggiore attenzione a chi sale sul suo carro, soprattutto al Sud. Siri, che incontrava spesso Arata, avrebbe dovuto respingere le sue richieste di interventi normativi ad personam: invece si diede da fare per assecondare i suoi interessi privati, e tanto basta – che l’abbia fatto gratis o in cambio di mazzette – a renderlo incompatibile (come la Guidi) con un incarico di governo. La vecchia Lega Nord di Bossi, al solo sentir parlare di appalti in Sicilia e di suoi uomini in combutta col socio del prestanome di un boss, per giunta amico dei Mannino e dei Dell’Utri, avrebbe fatto subito piazza pulita. Invece Salvini difende a spada tratta Siri (di Arata prudentemente non parla) e chiede le dimissioni indovinate di chi? Della Raggi. Cioè: la sindaca di Roma, che diversamente da Siri non è né indagata né sospettata di prendere tangenti, deve dimettersi per non aver firmato lo strano bilancio dell’Ama già bocciato da collegio sindacale, ragioniere generale, direttore generale, segretario generale del Comune, che avrebbe consentito ai dirigenti di assegnarsi lauti premi per il pessimo servizio reso alla città. Invece Siri, indagato per tangenti in quel bell’ambientino, deve restare al governo. Forse un giorno capiremo perché Salvini non può scaricare né Siri né Arata. E forse non sarà una bella scoperta.

Pure i Della Robbia emigrati in Canada

Risalente al 1400, trafugato nel 1971, il 4 aprile scorso il bassorilievo raffigurante una Madonna col Bambino di Luca e Andrea della Robbia è potuto rientrare in Italia, grazie a lunghe indagini e pazienti trattative del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale. Con il supporto dell’Ambasciata italiana in Canada e del Consolato Generale italiano di Toronto, il Nucleo Tcp ha ottenuto la spontanea restituzione dell’opera da parte di una collezionista canadese, che l’aveva acquistata in buona fede. Un risultato frutto di un’attività operativa pluriennale, il cui resoconto per il 2018 è stato presentato ieri a Roma, presso la Caserma La Marmora, alla presenza del ministro per i Beni e le attività culturali Bonisoli: 56.400 i beni recuperati, tra oggetti antiquariali, archivistici, librari e archeologici. Tra di essi, rientrano anche una scultura rubata da Villa Borghese (Roma) e una statua proveniente dall’abitazione di Roberto Benigni. Le indagini, iniziate con un improvviso aumento di furti del materiale archeologico della Capitale, hanno scoperchiato il vaso di pandora dei traffici illeciti riguardanti le opere d’arte: solo nell’ultimo anno, sono 474 i furti registrati, in aumento rispetto al 2017 ma ben lontani dalle cifre del 2012 (in cui si attestano 891 furti), controbilanciati dall’individuazione e l’arresto di 34 persone e dalla denuncia di ben 1.195 membri di associazioni criminali. Ma i dati rivelano anche una realtà inaspettata: il primato per le Regioni più colpite dalle rapine spetta all’Emilia Romagna, a cui seguono la Lombardia e il Lazio. Gli oggetti trafugati, inoltre, sono prevalentemente libri o documenti preziosi, mentre le opere pittoriche e scultoree si posizionano al secondo e quinto posto in classifica. Il loro valore è inestimabile, ma quello dell’operato dell’arma no: 118.012.202 euro, infatti, è il corrispettivo totale delle opere recuperate. “Riguardo la tutela del patrimonio culturale, emerge la professionalità e la competenza di una straordinaria eccellenza italiana”, ha commentato Bonisoli.