Quei quaderni del carcere di Oslo

Si interrogava su Dio, si consolava con l’analisi: l’analisi matematica. Tentò di salvarsi con la scrittura, ma morì prima di finire deportato in un campo di concentramento: Petter Moen, eroe della Resistenza norvegese, nacque nel 1901 e morì a soli 43 anni – fu il suo 8 settembre – sulla Westfalen, naufragata al largo della Danimarca con a bordo 200 soldati tedeschi e 50 prigionieri norvegesi. Dei primi ne sopravvissero 73, dei secondi 5, tra cui un compagno di cella di Moen che ne rivelò il segreto: durante la prigionia alla Møllergata 19, il carcere nazista di Oslo, Petter tenne un diario clandestino (sia leggere sia scrivere erano rigorosamente vietati e quasi impossibili a causa della semioscurità), incidendo con un ferretto della tenda i fogli di carta igienica, poi arrotolati e nascosti in una griglia della presa d’aria nel muro. In totale, tra il 10 febbraio e il 4 settembre del 1944, scrisse quasi un migliaio di pagine, per la prima volta edite in Italia da Quodlibet (in libreria da venerdì), con il titolo di Møllergata 19, la traduzione di Bruno Berni e la curatela di Maurizio Guerri.

“Ora per esempio ho faticato per giorni con un integrale trigonometrico… Non mi do per vinto. Il Serret-Scheffers (manuale di geometria analitica) in mano e la questione sarebbe stata risolta in cinque minuti”: Moen era di formazione un matematico ma, dopo una parentesi impiegatizia in un’agenzia assicurativa, si dedicò al giornalismo, diventando redattore del London-Nytt, uno dei tanti giornali clandestini che circolarono nella Norvegia occupata dai nazisti tra il 1940 e il 1945. Proprio durante il “crollo della stampa”, l’attacco contro le pubblicazioni illegali, Moen fu arrestato insieme con la moglie Bergliot Gundersen. I fogli clandestini giocarono un ruolo decisivo nella Resistenza: per quest’attività furono arrestate 3-4.000 persone, 212 delle quali morirono poi in carcere, nel lager o furono direttamente giustiziate.

“Papà andò a ritirare il Nobel con un’altra e mamma lo lasciò”

“Non era un padre presente ma ha dato tanto all’umanità”. Ricorrono 60 anni dalla consegna del Nobel per la Letteratura al poeta e traduttore Salvatore Quasimodo. Suo figlio Alessandro, attore, regista e scrittore, lo racconta: amori e dissidi di un “uomo del suo tempo”.

La Sicilia, la ferrovia e poi il terremoto. La vita in un vagone. Quanto ha inciso l’infanzia nella lirica quasimodiana?

Moltissimo. Nella poesia Al padre c’è tutto. L’infanzia gli è stata sottratta. A causa del terremoto, ha vissuto in un carro bestiame con la famiglia. Senza luce né acqua. Quel senso di tristezza, di difficoltà a rapportarsi agli altri, è stato anche la molla che ha dato origine alla sua poesia. Per fortuna c’è stato il periodo dell’istituto fisico matematico Jaci. Ha avuto un professore di Lettere eccezionale, Federico Rampolla del Tindaro, che gli faceva leggere Dostoevskij, Verlaine e Rimbaud.

Che tipo di padre era?

È stato molto latitante, a differenza di mia madre. Quando sono andato a vivere a Siracusa a casa dei genitori di Elio Vittorini, marito della sorella di mio padre, mi è venuta voglia di avvicinarmi a lui attraverso la sua opera. Non era uno che mi comprava il gelato, non mi portava alle giostre. L’unica volta che gli ho chiesto aiuto è stata a scuola: dovevo comporre un sonetto sul Natale. Lo abbiamo trasformato insieme in endecasillabi. La mia non era una famigliola come questa che vorrebbero i leghisti. Mio padre lavorava di notte e finiva all’alba. Dormiva poche ore. I nostri orari non coincidevano.

Non con tutti i poeti dell’epoca ebbe rapporti facili. Com’era quello con Eugenio Montale?

Montale scrisse un articolo bellissimo su Solaria, però poi ne fece scrivere uno terribile sul Corriere. La storia è di una bassezza strepitosa. Si passa da una stima reciproca, testimoniata dalle lettere che sono state pubblicate, a un’ostilità palese. Il rapporto con Montale è cominciato quando mio padre è arrivato a Firenze da Elio Vittorini. Ha ricevuto il premio “Antico Fattore”, che l’anno prima era stato di Montale. Poi, durante la guerra, la raccolta Ed è subito sera è arrivata a tre edizioni. Questa cosa a Montale non è andata giù ed è uscito un articolaccio sul Corriere. Mio padre ha risposto con la poesia A un poeta nemico. Da allora i rapporti non sono più stati ottimali, si incontravano qualche volta alle feste di Arnoldo Mondadori.

Quello con Giorgio La Pira invece fu un sodalizio. Perché?

C’era grande intimità tra loro. Andavano assieme a scuola. Erano in sintonia, cristiani e di sinistra. Si erano illusi, dopo la guerra, di rifondare la società, di rifare l’uomo come diceva mio padre, che oggi sarebbe sgomento. Era uno coerente e non si curava dell’appartenenza politica.

C’è nella poesia di suo padre l’eco dei poeti precedenti?

Dante, Leopardi sicuramente, anche Pascoli e D’Annunzio. I cosiddetti crepuscolari e Gozzano. Nell’articolo pubblicato su Letteratura nel 1939 dopo la morte di D’Annunzio, scrisse: “Noi gli fummo avversi non per mancanza d’amore”. Per Quasimodo Alcyone era uno dei più importanti libri della letteratura italiana, come anche Il Notturno.

Quasimodo, poeta e traduttore. Che ruolo ha avuto la traduzione nella sua vita?

Nel periodo in cui ha conosciuto mia madre, Maria Cumani, ha scoperto la musica e la danza. Il loro legame è durato 22 anni e ha influito sulla sua produzione. Ha sempre sostenuto che solo i poeti possono tradurre altri poeti. In quel periodo, Saffo, Archiloco, i lirici greci erano il pane quotidiano. Poi ha affrontato Shakespeare. Nel caso di Neruda, invece, è stato il cileno a sceglierlo, perché era l’unico poeta vicino al suo mondo, impegnato nel sociale.

Com’era il rapporto tra lui e sua madre?

Quando si è messo a tradurre i lirici greci, lavorava di notte. Se non trovava un sinonimo che lo convincesse, la teneva sveglia fino a quando non individuava la parola giusta. Neruda è stato tradotto quasi interamente da mia madre, perchè conosceva lo spagnolo. Aveva trovato in lei una compagna alla pari.

Il Nobel è arrivato nel 1959. Se lo aspettava? Che ricordi ha di quel momento?

Sì, perché l’anno prima l’Accademia di Svezia aveva raccolto materiale su di lui e mio padre ne era a conoscenza. Quando ha vinto il Nobel avevo 18 anni. In quel momento mia madre decise di separarsi perché lui andò a ritirarlo con un’estranea. Non ho risentimenti. Ma le cose negative non le cancelli, restano. Mio padre non va mitizzato. Era un uomo del suo tempo – come diceva lui stesso – e ha dato moltissimo all’umanità.

Lei ha venduto per 100 mila euro la medaglia del Nobel. Perché?

Ho ritenuto che non fosse così importante, perché il Nobel nessuno glielo avrebbe tolto. L’aveva lasciata in eredità alla sua amante con uno scritto autografo. Lei se l’è venduta a fine anni 80. L’ho ricomprata da un numismatico di Milano e l’ho pagata 30 milioni di lire. Era doppiamente mia. Non l’ho ereditata, l’ho comprata.

“Vale la pena questa lotta? La libertà richiede vittime”

 

Giovedì 4 febbraio 21° giorno

Stamattina andrò probabilmente alla V.T. (Victoria Terrasse, un edificio nel centro di Oslo, dal 1940 utilizzato dalla Gestapo come luogo di interrogatori, tortura e detenzione, ndr). È qualcosa di assolutamente mostruoso. Ho paura dei maltrattamenti. Prego Dio di aiutarmi. Lui ora è il mio unico sostegno.

Donnerwetter ha fatto una perquisizione! Non ha trovato il mio diario. Sta ordinatamente attaccato sul chiodo della carta igienica. Non ha trovato la mia penna. È un perno della tenda da oscuramento. I miei “scacchi” erano nel calzino sul gancio proprio davanti al suo naso. Perquisizione nella nuda cella di un prigioniero – anche questo è Gestapo… Ho sete e faccio pipì. Angoscia e tensione. Signore mio! Presto sarà un’abitudine avere paura. Facciamo una dura lotta. Forse me la caverò.

Un nuovo esempio della pressione psicologica qui: il postino mi mostra dallo sportello il mucchio di lettere – mi porge una lettera e dice: È per te? Naturalmente c’era un altro nome. Bisogna essere idioti per non capire lo scopo di certe cose. Spero che i miei compagni comprendano questi piccoli trucchi. Se compresi sono innocui. I piccoli uomini che hanno inventato certe cose vogliono dominare il mondo. Nonostante tutte le loro chiacchiere su Gross e Reich i tedeschi sono limitati. Per non parlare della Gestapo. Non c’è accenno a una “morale del dominatore”… Che Dio mi aiuti – e aiuti tutti gli altri. È terribile.

4 marzo – 30° giorno

“La tirannia nazista” è una realtà per noi “delinquenti” politici. Sappiamo cosa significa e proprio per questo siamo disposti a sacrificare molto nella lotta contro di essa. Io sono preparato a morire per questa causa. La morte è una conseguenza amara ma “pulita”. Quelli che io e probabilmente tutti i prigionieri dei nazisti temiamo più della morte sono i maltrattamenti. Non ci sono parole capaci di esprimere i miei sentimenti nei confronti della tortura di massa che qui viene esercitata. Mi priva di ogni fede. Io dico: come può Dio lasciare che questo accada? Il pensiero si ferma di fronte a questo problema. Alcuni forse vengono condotti sulla via della riflessione tramite la sofferenza ma i più? Si può finire rapidamente nella disperazione e nel rinnegamento. Due dei boia sono stati qui oggi.

15 marzo – 41° giorno

Il giorno della morte del tiranno (Giulio Cesare, ndr)! Ma il mondo partorisce sempre nuovi tiranni. Nelle prigioni ci sono sempre uomini che hanno alzato la voce o la mano contro ingiustizia e violenza. Vale la pena allora di fare questa lotta? Sì e ancora sì. Ogni libertà sarebbe presto soffocata senza di essa e senza le vittime che richiede. La lotta norvegese per la resistenza ha portato noi 300 qui al numero 19. Non mi pento di niente di ciò che ho fatto o scritto e mi dispiace solo di ciò che non ho fatto. Nelle prigioni dei nazisti devono esserci degli uomini. Se io non fossi qui ci saresti tu – tu che ancora sei libero. Ansimo sotto il giogo – ma non vorrei non aver fatto ciò che ho fatto… C’è quasi sempre semioscurità… La gente sta in cella di punizione. È un po’ più duro di come sto io – giaciglio più scomodo e mai una passeggiata nel cortile per l’aria. Sì – è dura – ma non ci spezzeranno…

Voglio scrivere ancora qualche parola oggi – solo per consolarmi un po’. La solitudine consuma le forze per pensare – perché il pensiero è abituato a stimoli esterni. Ora per esempio ho faticato per giorni con un integrale trigonometrico… Inoltre ho il cuore pesante. “Non si trova pace”. È difficile in queste condizioni non cedere al bisogno di pigrizia o sogni a occhi aperti. Devo impegnarmi molto per evitarlo. Non capisco bene il mio carattere. Sono debole e sentimentale – ma riesco a superare queste avversità… per ora.

19 marzo – 45° giorno

Anche io avrei voluto essere un uomo coraggioso. Non lo sono. Avrei potuto lasciare che le bestie della V.T. mi facessero a pezzi e tacere – tacere. Non ce l’ho fatta. L’angoscia e il dolore mi hanno spezzato. Nel corso di una serie di interrogatori i segreti mi sono stati tirati fuori. Mi vergogno a tal punto di questo che non ho voglia di incontrare nessuno dopo la guerra. Spesso penso: la cosa migliore sarebbe una condanna a morte. Questo contiene i miei tre desideri: il mio desiderio da Amleto viene esaudito – Ammenda per la viltà e forse avrò la fama postuma… Se questo dovesse finire con la morte vorrei che il mio diario fosse salvato… Ho cercato di essere sincero – di non abbellire per guadagnarmi una lettera dorata nella fama postuma e non diffamarmi per avere la lode della vergogna. Scrivo sotto la minaccia di un pericolo che è più grande di quanto possa permettermi di dire. Alcuni forse avranno difficoltà a capire la mia angoscia per la sofferenza e il dolore se apparentemente sono preparato a morire. Il dolore è cosciente. E la morte – Già che cos’è la morte?

Frustrazione, bulli e fake: 2019, prima fuga dai social

I social network rendono possibile ciò che prima era impossibile. Questa asserzione, che fino a qualche tempo fa avremmo accolto con l’ottimismo compiaciuto che si riserva alle grandi invenzioni, sta svelando tutte le sue implicazioni terribili. Il “prima” è il tempo della vita analogica, quando per ritrovare un vecchio amico di scuola (uno degli intenti di Facebook ai suoi esordi) era necessario consultare elenchi telefonici e percorrere chilometri, investire tempo, denaro e aspettative nel conseguimento di un obiettivo sociale. Oggi, alfabetizzati da tante ore di pratica sottratte proprio a quella vita e a quella socialità, cominciamo a vedere le crepe di questo prodigio.

Grazie anche ai pentimenti di persone che quel dispositivo hanno contribuito a inventarlo, è ormai chiaro che su Facebook è possibile la compresenza di diverse opzioni relazionali: si può fare amicizia, oppure inventarsi un’identità fittizia per nuocere a qualcuno, diffamarlo o spiarlo, inscenare omicidi e suicidi, bullizzare e adescare adolescenti, fare attentati in tempo reale, esporre alla gogna persone riprese nella loro vita privata. Grazie al nostro consenso ai termini d’uso, Facebook può fare ciò che a qualunque azienda o multinazionale era prima impedito dalla tutela della dignità umana e dai diritti dei consumatori e dei lavoratori: detenere il controllo fisico e neurobiologico dei suoi clienti trasformati in schiavi felici, garruli, geo-localizzati e gonfi di dopamina.

I “mi piace” e il numero di follower agiscono da fattori di rinforzo, cioè svolgono la stessa funzione dei biscottini-premio per i cani addestrati. Il progettista di Google Tristan Harris ha detto di aver disegnato la piattaforma sulla base del meccanismo psicologico delle “ricompense variabili intermittenti”: tirare la levetta della slot machine è una intermittenza tra la frustrazione della sconfitta e la ricompensa della vittoria.

A maggio del 2017 il New York Times ha intervistato uno dei fondatori di Twitter, Evan Williams, “l’uomo che ha aperto il vaso di Pandora”. Williams dice: “Credo che Internet si sia rotto”. Su Facebook si trasmettono omicidi in diretta, Twitter è invasa dai troll (profili veri e finti dediti alla provocazione), le fake news e le molestie sessuali pullulano nel loro brodo d’elezione.

Dunque l’umanità è vittima di un’ambizione faustiana irreversibile, di un’eterogenesi di fini stabiliti dal Capitale, e ora non sa più gestire il potere che pensa di aver acquisito in cambio della sua anima? Forse è persino peggio di così. L’esperto di reti Jaron Lanier, già autore de La dignità ai tempi di Internet, nel recente Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social (Il Saggiatore) definisce i social “un grande miraggio” al quale regaliamo porzioni sempre più estese di cervello e di libero arbitrio. La “macchina della fregatura” mina la verità, toglie significato ai concetti alti (le “legioni di imbecilli” di Umberto Eco oggi godono davvero della stessa risonanza di un premio Nobel), distrugge la capacità di provare empatia inducendo torpore mentale e abituando a nefandezze, corrompe la democrazia mentre proclama di incoraggiarla.

Nella postdemocrazia, l’attenzione maggiore la ottengono non i contenuti ragionati, ma quelli a più alto tasso di emotività: accuse, denigrazioni, messaggi crudeli e paranoici. La politica in crisi di visione gode di riflesso di questa luce sinistra. Il whistleblower che ha rivelato all’Observer il ruolo della società Cambridge Analytica nel raccogliere i dati di 50 milioni di profili Facebook in occasione delle presidenziali Usa del 2016, ha ammesso di aver “mirato ai demoni interiori” delle persone. Il dissenso svanisce dentro un auto-obliterante pulviscolo carico di risentimento.

Spesso sono gli stessi i politici a aizzare i loro sostenitori contro i giornalisti, pubblicando passaggi decontestualizzati di articoli critici, che nessuno legge fino in fondo perché richiedono attenzione e perché sono a pagamento, e lasciando poi che le opposte fazioni si scannino tra loro. La popolarità di un politico si gonfia con gli strumenti del marketing applicati a una logica tribale: fidelizzazione, finta familiarità, coesione in caso di attacchi esterni.

Al contrario di quel che pensavano gli intellettuali integrati, a risentirne è anche la capacità linguistica. Trasformati in macchine di mera analisi del contenuto, ci abituiamo a usare solo il primo livello delle parole, quello denotativo e letterale, per evitare di essere fraintesi o sottoposti a fact-checking. Legioni di censori sotto botta dopaminica fanno partire shitstorm (letteralmente: tempeste di merda) contro autori di frasi che richiedono abilità di secondo livello, fraintese nel loro livello connotativo, spesso ironico, antifrastico o iperbolico. La precauzione si trasforma in autocensura per evitare grane (“Il mondo cade nelle mani della gente più rozza, egoista e meno informata. E chi non è stronzo fa la fine peggiore”, scrive Lanier). È un prodromo della società del controllo, dove ogni dominato aspira a diventare dominatore, delatore, carnefice.

Lo stress continuo a cui ci si sottopone toglie lucidità e stimola reazioni bellicose o ripugnanti (delle dieci ragioni di Lanier, la terza è: “I social media ti stanno facendo diventare uno stronzo”). Senza accorgercene, abbiamo lasciato che un disturbo ossessivo-compulsivo diventasse placidamente parte della nostra normalità e che i bisogni indotti da questi strumenti entrassero nella nostra economia psicofisica.

La presenza sui social è un classico caso di dilemma del prigioniero. Essere visibili, localizzabili, targetizzabili è, contro ogni ragionevolezza, la condizione per esistere. Cancellarsi dai social (l’invito è stato diffuso con la campagna #DeleteFacebook anche da Brian Acton, co-fondatore di WhatsApp, che ha poi venduto a Mark Zuckerberg per 19 milioni di dollari) è un atto politico (si rifiuta di partecipare all’ingrasso di una macchina regressiva e negatrice dell’umano) e una misura di igiene mentale che sempre più persone stanno compiendo. Daniele Luttazzi, osservatore acuto delle distorsioni della comunicazione digitale, ha scritto un articolo sul suo blog dal titolo I social network sono tossici, a cui ha fatto coerentemente seguire la cancellazione dei suoi account.

Nei Manoscritti economico-filosofici Marx consigliava di diffidare di qualunque dispositivo rendesse possibile l’impossibile (uno di questi è il denaro). I social non sono che la reincarnazione virtuale del denaro trasfigurato nella fregatura economica, linguistica e neurologica più riuscita della Storia.

Crolla parete a scuola: feriti cinque bambini e una maestra incinta

Cinque alunni contusi per il crollo di una parete nella scuola primaria di Sant’Anastasia, Comune della provincia di Napoli. Primo piano del plesso scolastico De Rosa, ultimo giorno di scuola in vista delle vacanze di Pasqua. All’improvviso il cedimento della tramezza costruita per trasformare un unico vano in due diverse aule: una classe terza e una quarta. Nel crollo è rimasta contusa anche la maestra impegnata con un alunno disabile: la donna – al quarto mese di gravidanza – è rimasta colpita alla testa e alla spalla. Nel mese di settembre quello stesso edificio era stato sottoposto a verifiche rispetto alla stabilità nel suo complesso. La struttura divisoria costruita in siporex (calcestruzzo cellulare) pare non abbia retto alla pressione che si sarebbe generata dall’altra parte della parete. La dinamica, tuttavia, è ancora al vaglio della autorità competenti. I vigili del fuoco dopo essere intervenuti nelle prime fasi dei soccorsi hanno effettuato una serie di controlli su altre pareti per verificarne la stabilità e scongiurare altri crolli.

Inquinamento Pfas, il Veneto scrive alle altre Regioni. “Presenza significativa nel Po”

Da ieri due cose sono certe: la presenza di Pfas nel fiume Po e il documento ufficiale che lo certifica. Le perfluoroalchiliche (Pfas) sono sostanze chimiche che rendono impermeabili le superfici, utilizzate per i tessuti, i sedili delle auto oltre che nei contenitori per alimenti. Non si sapeva, però, che nelle acque del Po è accertata una “significativa presenza di C6O4”, ovvero Pfas di nuova generazione.

Non si può parlare di allarmismo ma di realismo alla luce della lettera ufficiale spedita da Nicola Dell’Acqua – direttore dell’Area Tutela e Sviluppo del Territorio oltre che commissario delegato dalla Protezione Civile – ai colleghi di Lombardia, Emilia Romagna e Piemonte, per comunicare i dati e i riscontri prodotti dell’Arpav (l’Agenzia regionale per la prevenzione e protezione dell’ambiente Veneto), sui campionamenti effettuati lungo il corso del fiume più lungo d’Italia. “La comunicazione – si legge – avviene in assenza di limiti nazionali in materia, pur nella consapevolezza che si tratta di un campanello d’allarme che merita attenzione anche nelle altre regioni”. In Veneto, dove si è cominciato a parlare di inquinamento da Pfas nel 2016, si è fissato a “zero” il limite di presenza nelle acque destinate al consumo umano.

Dato per assodato che le recenti tracce delle sostanze rilevate dalla centraline dimostrerebbero che l’elemento chimico inquinante, sia pur avendo lo stesso ceppo dei Pfas non ha la stessa origine, al momento non si conosce la fonte di provenienza. E mentre dall’ Università Cà Foscari fanno sapere di aver messo a punto un nuovo sensore per la misurazione immediata di sostanze inquinati, le“Mamme no Pfas” , il movimento della “zona rossa” (provincia di Vicenza, Verona e Padova) maggiormente esposta alla contaminazione da perfluoroalchiliche hanno inviato un appello alla ministra Grillo affinché nelle mense scolastiche si utilizzi acqua in bottiglia anche per cucinare oltre che da bere.

Borgo Mezzanone, ruspe nella baraccopoli abusiva sequestrata dai giudici

I numeri non sono quelli del ghetto di San Ferdinando, in provincia di Reggio Calabria. E anche la decisione di abbattere le baracche abusive di Borgo Mezzanone, uno “degli insediamenti illegali più noti e grandi d’Italia”, è diversa.

Il provvedimento eseguito ieri, infatti, non è stato disposto dalla prefettura o dal ministero dell’Interno, ma dai magistrati della Procura di Foggia che, già nelle settimane scorse, avevano iniziato l’opera di demolizione dell’accampamento. Se le prime fasi, quella del 20 febbraio e del 27 marzo, hanno interessato quelle strutture utilizzate dai migranti come attività illecite (un’officina e una discoteca abusiva), ieri le ruspe del Genio Guastatori di Foggia, gli oltre 200 agenti delle forze dell’ordine e i Vigili del fuoco hanno abbattuto una ventina di baracche utilizzate come abitazioni da una sessantina di migranti. Due di queste baracche sarebbero state utilizzate come case a luci rosse dove alcune ragazze di prostituivano. Stando al decreto di sequestro preventivo, firmato dal gip Manuele Castellabate, nella baraccopoli di Mezzanone c’erano non solo migranti irregolari, ma anche “soggetti regolari che in assenza di alternative sono stati costretti a occupare i manufatti abusivi.”

Si tratta di migranti che, senza un’occupazione, sono “vittime di una delle ultime forme di schiavitù, ossia dell’intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, tenuto conto che spesso sono proprio alcuni loro connazionali ad assumere il ruolo di intermediario verso imprenditori agricoli, provvedendo personalmente a procacciare manodopera direttamente nel ghetto e percependo somme del tutto spropositate anche per il trasporto, peraltro in condizioni oltremodo pericolose”.

Da qui la scelta della Procura di smantellare il ghetto di Mezzanone sul quale è intervenuto pure il ministro dell’Interno Matteo Salvini secondo cui, in provincia di Foggia, “la risposta dello Stato è presente ed efficace”.

Ladri e potenziali assassini come nel videogioco gangster: “Agivano per sete di violenza”

Calci e pugnial volto e alla testa, fendenti scagliati con coltelli e catene, dopo aver letteralmente accerchiato la “preda” che aveva “osato” calpestare il suolo del centro di Monza perché era zona loro. Così agiva il branco di sei giovanissimi arrestati ieri dalla Squadra Mobile di Monza che si ispirava al violento videogioco di gangster “Gta” di cui parlavano al telefono, tanto da farsi un tatuaggio sul palmo della mano come i ganster protagonisti. Grand Theft Auto, spesso abbreviato in Gta, è un videogiochi d’azione sviluppato in Usa per Pc, smartphone e tablet e venduto in oltre 200 milioni di copie, seguitissimo da molti adolescenti e che hanno suscitato già varie polemiche per la violenza della trama e dell’azione in cui si cala chi gioca. In Gta i protagonisti, partendo dal furto d’auto, devono gestire una gang e contendersi la città con missioni violente contro le bande rivali. La banda dei giovanissimi di Monza aveva scelto un tatuaggio di numeri che una volta chiusi e accostati i palmi permette di leggere la scritta Acab (acronimo di All Cops Are Bastards, tutti i poliziotti sono bastardi). “Tu da qui non te ne vai finché non lo decido io” e, ancora, “questa è zona nostra” erano le minacce ricorrenti. Come “trofei” per le aggressioni, rapinavano i malcapitati di sigarette, cuffie, cellulari e poco altro. Nelle intercettazioni uno del gruppo spiegava: “Gioco alla X-box ma non sono uno da X-box. Le cose le facevo in giro. Sulla Play io mi annoio”. E ancora riferendosi al videogame Gta: “Quello lì dove tu rubi, fai le rapine, rubi le macchine. Ma farlo sulla Play (…) a me viene voglia di prendere uscire e farle fuori capito?”. Gli arrestati sono tutti gravemente indiziati, a vario titolo, di un tentato omicidio e di dieci rapine aggravate, oltre ai delitti di lesioni, furto, minacce gravi e spaccio di droga. In città erano noti come la “compagnia del Centro”. “Le rapine sono di più, per questo rivolgiamo un appello a chi le ha subìte perché superi la paura e denunci”, ha spiegato il Procuratore Luisa Zanetti, che ha aggiunto: “La loro violenza non ha altra ragione se non il soddisfacimento della sete di violenza. Il loro obiettivo era umiliare e spaventare, tanto che alcuni giovani non vogliono più frequentare il centro di Monza”.

Giuseppe diventa Yusuf: dalla Sicilia sognando il martirio in nome dell’Islam

Nella cabina del suo camion ha un coltello in mano quando manda un selfie all’amico internauta che come lui sogna il martirio. “Così sono più convincente”, è la didascalia della foto inviata via Whatsapp il 22 novembre scorso, invitando a “licenziare chi non rispetta le regole della religione musulmana”.

Dialogo tra due giovanissimi fermati e ora in carcere, su ordine della Procura di Palermo che a Giuseppe Frittitta, siciliano di Bagheria, 24enne convertito all’Islam cambiando il proprio nome in Yusuf El Saqilli, e Ossama Ghafir, marocchino di 18 anni compiuti a gennaio e residente a Certano, in provincia di Novara, contesta i reati di apologia del terrorismo e addestramento con finalità terroristiche. Per chi indaga “si ritenevano liberi di agire in totale autonomia, esattamente come dei veri e propri lupi solitari”. Internet era diventato il loro muro virtuale di propaganda nel nome dell’Isis: si ritenevano liberi di agire in totale autonomia, esattamente come dei veri e propri “lupi solitari”. Ma la rete era anche il luogo dell’addestramento. E soprattutto il mezzo per raggiungere una serie di contatti che non si fermava all’Italia, ma arrivava anche negli Stati Uniti e in Africa.

Il siciliano Frittitta a luglio di un anno fa si era trasferito al nord per fare l’autotrasportatore in un’azienda di Alfianello, nella Bassa Bresciana e per sposarsi con una ragazza marocchina che a maggio compirà 22 anni che abita a Oggiono, nel Lecchese. “Quando con lei avrò una figlia la faccio crescere secondo i dettami della religione islamica perché se seguo come fate crescere le femmine voi dovrò tagliarle la testa”, dice il 24enne ai genitori nel corso di una telefonata intercettata. Per gli inquirenti il camion sul quale Frittitta saliva ogni giorno da luglio scorso, da quando si era trasferito nel bresciano, poteva rappresentare un’arma da utilizzare in qualsiasi momento da chi non nascondeva il desiderio di “morire da kamikaze, che è l’unico modo per andare in paradiso”. I due fermati dagli uomini della Digos di Palermo, che già nel 2016 avevano tenuto sotto controllo l’italiano convertito, sarebbero potuti passare all’azione. “Se non vengono fermati è concreto il rischio che compiano attacchi terroristici”, scrive il pm Calogero Ferrara nel corposo decreto di fermo. Ossama Ghafir e Giuseppe Frittitta, che si incontrano anche di persona e non si limitano a contatti in rete, avrebbero anche pensato di andare in Siria a combattere: “Per sentirci veri musulmani”, è il pensiero che i due manifestano attraverso sms e telefonate, in cui esprimono il malessere per le loro condizioni di vita in Italia. “La fratellanza che si instaurava tra Frittitta e il Ghafir – scrive il pm – li portava a condividere tra loro i momenti di forte disagio legati all’impossibilità di potere essere ‘musulmani al 100%’, in quanto il paese in cui vivevano, a loro dire, non lo consentiva. È proprio questo malessere interiore che accresce la loro radicalizzazione e rafforza in loro l’idea di seguire la hijira (migrazione) e recarsi in Siria, ossia in dar-ul-islam (terra dell’Islam)”.

Rai, niente nomine e tanta polemica sui palinsesti “grigi”

La presentazione dei palinsesti estivi, fino al 7 settembre, è stato il momento principale del Cda Rai di ieri a Viale Mazzini. Un consiglio che, contrariamente al previsto, non ha affrontato il capitolo nomine di corporate, a partire da quelle alla comunicazione, ufficio che è stato spacchettato in quattro. E le critiche dei consiglieri hanno riguardato proprio i palinsesti, ritenuti assai deboli, senza novità, con una valanga di repliche e nessuna vera nuova sfida. “In estate è il periodo in cui si può sperimentare, magari lanciando qualche nuovo format o personaggio. E invece non c’è niente di tutto ciò”, osserva Riccardo Laganà, il consigliere eletto dai dipendenti. Ma le critiche sono arrivate anche da Rita Borioni e dai consiglieri in quota Lega e 5 Stelle: “Il cambiamento in Rai continua a non vedersi”. Al settimo piano di Viale Mazzini si sentivano ancora gli strascichi della Vigilanza, dove molte critiche sono piovute addosso al presidente, Marcello Foa. Sempre ieri è stata annunciata la chiusura del bilancio 2018 con perdite per 16 milioni, mentre non si è parlato della chiusura di Rai Movie e Rai Premium, tema che ha generato molte polemiche.