Caressa &C., la notte degli sbarellati

Muoia Sansone con tutti i filistei! Umiliato dal giovane collega olandese Ten Hag, Max Allegri trascina nella rovinosa caduta tutti, dal presidente Andrea Agnelli all’ultimo dei trombettieri di tv e giornali. Il presidente, occhio da pugile suonato, elogia nel dopo gara la “giovinezza” della Juventus fatta a pezzi dall’Ajax, quella dei super stagionati CR7, Szczesny, Bonucci, Matuidi, Pjanic ed Emre Can, per non parlare di De Sciglio, Alex Sandro e Rugani, tutti più vecchi dei giovanissimi virgulti olandesi: e non si capisce il perché, visto che per vincere la Champions ha comprato a 110 e stipendia a 60 milioni l’anno, per 4 anni, CR7 che va per i 35 (!). E mentre Agnelli infierisce infliggendo ai tifosi un colpo ancor più duro dell’1-2, cioè la notizia della conferma di Allegri, in tv e sui giornali sbarellano tutti.

Sbarella Ilaria D’Amico che nel salotto Sky, non sapendo come fare per tenere alto lo stendardo, dice: “Non dimentichiamoci che anche gli investitori continuano a tributare alla Juventus affidabilità e investimenti in Borsa”; infatti alla riapertura il titolo crolla perdendo il 24% e bruciando tutti i soldi occorsi per l’affare CR7; sbarella Fabio Caressa, che in telecronaca vede rigori a raffica per la Juve, persino per un volo alla Cuadrado di Emre Can, e nel finale, su un “mani” petto-braccio di Blind non punito dall’arbitro, urla: “Questo in Italia è rigore tutta la vita” (ce n’eravamo accorti, grazie); Caressa che aveva irriso l’Ajax dicendo: “Sono curiosissimo di vedere questa squadra che tutti dicono essere di fenomeni contro la concretezza dei bianconeri”.

Un po’ come Sua Santità Mario Sconcerti (“Corriere”) che alla vigilia aveva detto: “Di un bel bambino a Firenze si dice che è bellino. Ecco, per me l’Ajax è bellino. Ma la Juventus è nettamente più forte e nel calcio vincono quelli forti, non quelli belli”. Ite missa est. Deo gratias.

Il tonfo in Coppa riaccende la battaglia in casa Agnelli

L’ennesima Champions svanita non è soltanto una maledizione per la Juve – sette finali perse, la prima proprio con l’Ajax di Johan Cruijff nel ’73 – ma è pure una sciagura che s’abbatte sui conti del club e sul rapporto mai idilliaco tra il presidente Andrea Agnelli e il cugino John Elkann, il capo di Exor, la cassaforte di famiglia che controlla la Fca e la Vecchia Signora.

John è il nipote dell’avvocato Gianni Agnelli. Quello prediletto. Ma c’era Andrea, vent’anni, sbarbato, in giacca di jeans, accanto a zio Gianni, in tribuna d’onore all’Olimpico di Roma. Era il 22 maggio ’96. Quel giorno la Juventus ha vinto ai rigori l’ultima Champions League contro l’Ajax, la stessa squadra che martedì ha eliminato Cristiano Ronaldo e compagni dal torneo più prestigioso d’Europa. Il sintomo di un declino, che non va troppo enfatizzato, è il titolo che sprofonda in Borsa a -17,6 per cento e viene sospeso per eccesso di ribasso. Qui il tema è più prosaico: parenti serpenti. Andrea ha in dote la Juve, un giocattolo che gonfia l’immagine e l’autostima, il più ombroso John ha il potere di revocare la dote.

John è un tifoso a distanza e distante, a volte commenta senza impegno, un paio di passerelle, qualche fotografia ufficiale, osserva e attende, silente, finché Andrea non combina pasticci, cioè non gli implora di sganciare del denaro per bullonare i bilanci. L’Ajax dei fuoriclasse ragazzini ha avvicinato inesorabilmente quel momento. Oggi la Juve di Andrea, il figlio del dottore Umberto, è padrona del campionato italiano con otto scudetti consecutivi in una bacheca stracolma di tricolori. E però la Juve, che ha investito 339 milioni di euro per Cristiano Ronaldo tra cartellino pagato al Real Madrid e ingaggio per quattro anni, è anche una società con un debito in costante e pericolosa crescita (384 milioni al 31 dicembre 2018) e con i ricavi (402 milioni nel 2017/18) che non seguono il passo dei costi. La relazione semestrale al 31 dicembre 2018 avverte gli azionisti con una postilla al documento: “L’esercizio 2018/2019, attualmente previsto in perdita, sarà come di consueto fortemente influenzato dall’andamento dei risultati sportivi e in particolare della Champions League”. Oggi l’influenza negativa sul bilancio è certificata: la semifinale smarrita vale circa 20 milioni di euro, la conquista del trofeo altri 20 per restare agli incassi da stadio e ai premi. Il 2019 ha indotto già la Juve a intervenire sul bilancio con il ricorso al sistema delle plusvalenze – 36,8 milioni di euro in gennaio con la clamorosa cessione al Genoa dell’infortunato Stefano Sturaro per 18 milioni – e l’emissione di un prestito obbligazionario non convertibile di 175 milioni. Il cosiddetto CR7 bond è altro debito usato anche per ridurre il debito: prima che la Champions diventasse un’ossessione collettiva, il 30 giugno 2017, era di 162 milioni, più che raddoppiato in un anno e mezzo. La Juve ha smentito sempre la necessità di un aumento di capitale, anche se il patrimonio netto in un esercizio s’è ristretto da 93 a 72 milioni, dunque ha smentito il bisogno di chiedere soccorso a Exor. Il cugino John aspettava Andrea sull’uscio, pare, e non per cingerlo con un caloroso abbraccio. Exor non ha intenzione di ripianare i buchi di Andrea, lucidare il giocattolo Juve e prolungare il divertimento. O almeno, non gratis: la dinastia Agnelli è in tensione perenne per l’eredità.

Quando Andrea è rimasto incastrato nell’inchiesta sportiva della Federcalcio sui biglietti ai finti ultrà legati alla malavita, John ha tentato di riprendersi la Juve con il sostegno logistico del direttore generale Beppe Marotta. Andrea ha resistito con estrema abilità; ora Marotta lavora all’Inter. Con il bilancio non più splendido, l’estate scorsa, Andrea ha rilanciato con la gigantesca operazione CR7 con la garanzia di ottenere la benedizione mediatica, una sorta di immunità rispetto a John e l’illusione di un successo immediato. Dopo la batosta degli olandesi, Andrea s’è presentato ai microfoni col tono del politico che ha perso le elezioni principali e sciorina i trionfi in provincia e, soprattutto, ha promesso che la Juve ci riproverà la prossima stagione. Come spingere la notte più in là. E poi svegliarsi con John.

“Mani sulla città”. Assolto l’ex sindaco di Benevento

L’ex sindaco di Benevento, Fausto Pepe, insieme con altri 35 imputati, tra cui figurano assessori comunali, dirigenti e imprenditori, finiti sei anni fa in un’inchiesta per alcuni appalti in Comune (denominata “Mani sulla città”), sono stati assolti perché – secondo i giudici – il fatto non sussiste. Si conclude così una lunga vicenda giudiziaria esplosa nel 2013 con l’inchiesta del pm Antonio Clemente che aveva acceso i riflettori su appalti e forniture di beni e servizi al comune di Benevento. Quattro imputati, accusati di abuso d’ufficio, sono stati invece condannati a due anni, pena sospesa. Per l’ex primo cittadino di Benevento è arrivata l’assoluzione dal reato di abuso d’ufficio.

Immediata la reazione del mondo politico. A cominciare dall’ex sottosegretario Umberto Del Basso De Caro, del Partito democratico: “Esprimo profonda soddisfazione – ha detto –. Agli amici dichiarati estranei dagli addebiti mossi è stato restituito l’onore personale e quello politico, la dignità e la libertà della quale alcuni di essi erano stati ingiustamente privati”.

Ambiente, le pagelle ai parlamentari Ue

Un Parlamento europeo che negli ultimi cinque anni non è stato all’altezza della sfida su clima: è la fotografia pubblicata ieri dal Climate Action Network (Can), una coalizione internazionale di ong, in un rapporto che contiene una classifica sull’operato di gruppi parlamentari e i loro membri insieme a un dossier sulle politiche ambientali dei governi. “La maggioranza dei gruppi politici dell’Ue ha ottenuto un punteggio basso o molto basso – si legge nel rapporto – ENF, PPE ed ECR sono in fondo alla lista. In particolare, l’estrema destra dell’ENF vota costantemente contro le politiche climatiche”. I Verdi/Efa, Gue/Ngl, S&D e Efdd con Alde ottengono voti buoni o molto buoni.

Il dossier dedica focus a ogni nazione, analizzando l’operato dei singoli partiti. “I risultati italiani rispecchiano la natura divisa dell’attuale politica italiana, con i due partiti che formano il governo agli estremi dello spettro”. Il M5S guida infatti la classifica con oltre l’85% mentre la Lega è in fondo alla classifica “mostrando forte negazione dell’urgenza delle azioni per la difesa del clima”. Nel mezzo, c’è il Partito democratico che, seppur con buoni punteggi, “è in ritardo rispetto alla maggior parte dei partiti socialdemocratici all’interno del gruppo S&D”.

Anche Forza Italia ha un punteggio inferiore alla media dei colleghi del gruppo PPE. “È un riconoscimento importante che certifica il lavoro di questi cinque anni di legislatura al Parlamento europeo nella lotta ai cambiamenti climatici – ha detto Eleonora Evi, europarlamentare del M5s –. Abbiamo sempre dimostrato con i fatti il nostro sostegno all’azione per il clima e alla transizione ecologica”.

Il secondo dossier, invece, racconta quale sia la situazione sui piani nazionali energia e clima (PNIEC). E tutti risultano troppo poco ambiziosi. Solo sei Paesi hanno fissato un obiettivo di zero emissioni mentre l’Italia viene chiesto di alzare l’obiettivo 2030 per le energie rinnovabili: oggi è al 30% contro il 35% europeo, nonostante sia stato uno dei Paesi a spingere per aumentare il target. Inoltre prevede che l’eliminazione graduale del carbone avvenga il gas fossile “Questo – si legge nel rapporto – rischia di ancorare al combustibile fossile sul lungo periodo”.

Il tiro al bersaglio contro Greta, nuovo simbolo “buonista”

I dubbi sul libro e sul viaggio (“Libro scritto da chi? Tour pagato da chi?”), le accuse di essere manipolata da forze opache (“Greta è un pupazzo. Spero lo abbiate capito”), la retorica della bufala del global warming dei veri interessi che muovono la sedicenne svedese. Greta sbarca a Roma – lo ha fatto ieri, alla stazione Tiburtina, per poi incontrare a San Pietro papa Francesco, che l’ha incoraggiata ad andare avanti – accompagnata dalla prevedibile scia dei dietrologi e accusatori. I quali, soprattutto su Twitter, la tacciano di essere strumentalizzata dai partiti che ora usano slogan eco-friendly, oppure paventano il rischio che la salvaguardia del pianeta si traduca in nuove tasse o nell’obbligo di accoglienza dei rifugiati climatici.

Ma passino i social media, dove il neologismo “gretinismo” viene condiviso con entusiasmo da chi, comodamente seduto, gioca lo stanco ruolo del politicamente scorretto. Le accuse vengono anche dalla stampa, con Il Messaggero che, in un articolo sul quotidiano di ieri, ha parlato di “macchina mediatica targata Thunberg e del think tank del catastrofismo globale”. E ha tirato fuori il sospetto tempismo nella pubblicazione del libro Scena dal cuore della madre di Greta, Malena Erman, e la questione della start up We Do not Have Time, dell’imprenditore Ingmar Rentzhog (legato alla socialdemocratica Kristina Personn), che avrebbe raccolto 2,8 milioni di euro tramite crowdfunding grazie al nome di Greta – inserita nel board della start up. Peccato che Greta Thunberg, che ha sempre sostenuto di non far parte di nessuna organizzazione e di viaggiare pagata dai suoi genitori, non sia più nel board della società da tempo, come ci scrive lo stesso Ingmar Rentzhog in una email. “Non sono l’agente di Greta né l’ho mai pagata”. La vicenda è stata ben ricostruita dal sito Valigia Blu, che proprio ieri ha precisato che i contatti tra Greta e Rentzhog sono interrotti e che da sempre era stato chiaro che i profitti del libro, tradotto in italiano con La casa è in fiamme (Mondadori), sarebbero andati in beneficenza.

Ma se Greta, che oggi alle 11 sarà in Senato per un convegno scientifico su clima e ambiente, deve difendersi da illazioni di vario genere, anche il movimento dei Fridays for Future, nato dallo sciopero della stessa Greta, sta facendo un grande sforzo per evitare ogni possibile appropriazione da parte di associazioni connotate ideologicamente o politicamente. È bastata un’agenzia in cui si diceva che il palco della manifestazione di domani venerdì alle 11 in Piazza del popolo a Roma (che vedrà protagonista – alle 12.30 – la stessa Greta), era fornito dalla Cgil, per scatenare le accuse di essere legati al sindacato. L’organizzazione ha smentito seccamente e ribadito che il costo della manifestazione e in particolare il palco a pedali, alimentato dall’energia prodotta da 120 biciclette, si sta autofinanziando tramite una raccolta fondi su Gofundme (https://www.gofundme.com/gretaroma). L’evento sarà incentrato, ovviamente, sul messaggio di Greta, messaggio che lei stessa ha ribadito con forza arrivata – sempre in treno, visto che non prende più l’aereo per motivi ecologici – in Europa, proprio mentre la cattedrale di Notre-Dame bruciava. “Quando la tua casa è in fiamme, una certa dose di panico è richiesta”, ha detto durante il suo discorso al Parlamento europeo il 16 aprile, in cui ha invitato i cittadini europei a votare per i partiti che più hanno a cuore l’ambiente.

Accusata di fare catastrofismo ambientale, la ragazzina vegana col cartello bianco e il piumino viola ha sempre sostenuto, invitando giornalisti e influencer a parlare della crisi, che quando si tratta di sopravvivenza non esistono i grigi e che “o evitiamo un aumento della temperatura di 1,5 gradi oppure no”.

E proprio questo è il punto. La dietrologia è facile: basterebbe prendere il libro La mia casa è in fiamme, dove quella che viene raccontata è una famiglia complicata e segnata da varie diagnosi, autismo per Greta, ADHD per la più inquieta sorella Beata, ma ce n’è anche per la madre, che racconta la Svezia come un Paese in preda al disagio psichico e ai disservizi sociali.

Ma che Greta possa soffrire di disturbi non cambia di una virgola la verità scientifica sul nostro pianeta, né sminuisce l’efficacia del suo messaggio. Né, soprattutto, aumenta le nostre possibilità di salvezza. E forse questo è il messaggio migliore che si possa dare nei giorni, comunque preziosi, della sua presenza nel nostro Paese.

Delitto Mollicone, indagini chiuse su tre militari dell’Arma

La Procura di Cassino (Frosinone) ha concluso le indagini sull’omicidio di Serena Mollicone, la studentessa di Arce uccisa all’inizio del giugno 2001, con il relativo “avviso” ai cinque indagati. Ci sono l’ex comandante dei carabinieri di Arce Franco Mottola, la moglie e il figlio Marco e due carabinieri all’epoca dei fatti in servizio nel Comune in provincia di Frosinone. I tre membri della famiglia Mottola sono indagati per concorso in omicidio aggravato e occultamento di cadavere. L’ex comandante della stazione dei carabinieri di Arce Franco Mottola, la moglie Annamaria e del figlio Marco, che dovranno rispondere di omicidio volontario sono indagati per concorso in omicidio aggravato e occultamento di cadavere. Il sottufficiale dell’Arma Vincenzo Quatrale è indagato per concorso in omicidio volontario mentre un altro militare, Francesco Suprano, è indagato per favoreggiamento.

Secondo una ricostruzione contenuta in un’informativa acquisita agli atti dalla Procura di Cassino, Serena sarebbe stata uccisa negli alloggi della caserma dei carabinieri di Arce.

Il rito della stampa quotidiana perde il suo sacerdote laico

Se, come diceva Hegel, il giornale è la preghiera del mattino dell’uomo moderno, con Massimo Bordin se ne va il suo sacerdote. La voce “più importante, più autorevole e più bella di Radio Radicale”, come ha annunciato ieri pomeriggio Alessio Falconio, direttore dell’emittente fondata da Marco Pannella, è morto a 67 anni per una malattia che lo aveva colpito da tempo e su cui ha voluto mantenere il massimo riserbo. “È una notizia che non avremmo voluto dare e che diamo con immenso dolore” ha detto Falconio che Bordin lo ha conosciuto come direttore, avendo Massimo guidato la Radio dal 1991 al 2010.

Tutto il mondo politico e giornalistico si è genuflesso e abbeverato alla sua Stampa&Regime, la rassegna dei giornali su cui fondare la propria agenda quotidiana. La quantità e qualità di dichiarazioni di cordoglio, di affetto e di sgomento che ieri affollavano le agenzie, e che hanno portato il suo nome a essere trend topic di Twitter, e che sarebbe impossibile riassumere, lo dimostra.

Voce inimitabile del primo mattino in grado di rintracciare nella lettura dei quotidiani un filo conduttore anche nelle giornate più scialbe, evidenziando sfumature e particolari poco noti ai più, ingaggiando polemiche e ragionamenti di profilo altissimo e culturalmente irresistibili. Con questo giornale aveva un contenzioso da tempo, lui figura radicale del garantismo giudiziario non tollerava soprattutto la ricostruzione da noi fatta della “trattativa” Stato-mafia.

Ma leggendo cronache o commenti di cui non condivideva nemmeno una riga, nella voglia di ingaggiare un conflitto, a volte anche durissimo, si intravedeva comunque una passione immarcescibile. Perché Bordin era un giornalista a tutto tondo e, soprattutto, era davvero colto, dotato di una cultura politica di altri tempi, la cui mancanza nel dibattito politico parlamentare e partitico oggi si misura a vagonate.

Lui che negli anni della gioventù si era formato tra i trotzkisti della Quarta internazionale alle lezioni di Livio Maitan (frequentata anche da chi scrive) per cui nutriva stima e affetto anche dopo decenni, quando invece era diventato un liberale radicale.

Come ebbe a dire a Francesco Merlo in un recente ritratto scritto da questi per il Venerdì di Repubblica “Mi impegnavo anche con i libroni, ho letto persino Pietro Secchia. E collaboravo con Praxis, la rivista di Mario Mineo (padre di Corradino, ndr), roba per palati fini. La letteratura invece non aveva gran seguito e ancora oggi, che pure la amo, preferisco la saggistica”.

Poi l’incontro e la fascinazione con Marco Pannella. Non prima di aver frequentato Radio Città Futura diretta da Roberto Rossellini, radio del Movimento del ’77, e da lì passare a Radio Radicale con Pannella e tutti gli altri. Convinto garantista, liberale, libertario, nonviolento (tutto attaccato), salveminiano, einaudiano nel dogma del “conoscere per deliberare” che è lo slogan di Radio Radicale, e, ancora, filo-israeliano, sciasciano convinto, fino all’avversione per i “professionisti dell’antimafia”, simpatizzante per un socialismo liberale che non è solo storia del Psi ma anche figure dell’ex Pci come Emanuele Macaluso e Giorgio Napolitano (che non a caso ieri lo compiange). Bordin era tutto questo.

Con Pannella dà vita a una serie lunghissima di interviste nei pomeriggi un po’ assonnati della radio, verso le 17,30, che diventano un fenomeno cult, pieni di verbosi interventi del leader radicale e di contrappunti ragionati e scanzonati dell’ottimo conduttore. Poi, a un certo punto, si passa a scontri aperti, a battibecchi che degenerano quasi in insulti, pugni sbattuti e fogli spostati dal tavolo. Il fattoquotidiano.it ha realizzato una seguitissima clip di siparietti che hanno fatto un pezzo di storia radicale.

E oltre alla rassegna stampa c’erano le rubriche su Israele con Fiamma Nirenstein e quella sugli Stati Uniti con Giovanna Pajetta. E un’altra sua creatura, decisiva, lo Speciale Giustizia con la trasmissione di interi brani di processi rilevanti, riassunti e commentati con innegabile perizia.

Un professionista dell’informazione, un politico, un uomo di cultura, una figura rara, la cui scomparsa getta un’altra manciata di oscurità su questi tempi cupi.

Depistaggio Cucchi, Ilaria: “Arma e Difesa parti civili”

Ci sono voluti quasi dieci anni, ma anche alti ufficiali dei carabinieri, compreso un generale, accusati di aver coperto i responsabili del pestaggio che nel 2009 ha portato alla morte di Stefano Cucchi, da ieri sono imputati e nelle prossime settimane sapremo se saranno processati, come ha chiestola procura di Roma. E Ilaria Cucchi, al Fatto rilancia l’invito alle istituzioni di costituirsi subito parti civili nel processo: “Dopo anni di battaglie, sarebbe un grande segnale avere già in udienza preliminare l’Arma e il ministero della Difesa al nostra fianco: chi esce danneggiato in tutto questo non è solo la famiglia Cucchi ma tutti i cittadini che, come noi, si affidano delle istituzioni”.

Il procuratore Giuseppe Pignatone e il pm Giovanni Musarò hanno chiesto il rinvio a giudizio per otto carabinieri ritenuti responsabili – a vario titolo – di depistaggi, falsi e calunnie. Sotto accusa anche chi all’epoca dei fatti aveva ruoli di comando a Roma, a cominciare dal generale Alessandro Casarsa: Cucchi fu arrestato il 15 ottobre del 2009 e morì per le botte il 22 ottobre all’ospedale Pertini. Secondo la Procura, da Casarsa, nel 2009 comandante del gruppo Roma, sarebbe partita la richiesta di modifica delle due annotazioni ordinate ai piantoni della caserma di Tor Sapienza, dove fu portato Cucchi la sera dell’arresto.

L’attuale generale, poi diventato capo dei corazzieri al Quirinale fino a pochi mesi fa, è accusato di falso – come i tenenti colonnelli Francesco Cavallo (già capoufficio del comando del Gruppo Roma) e Luciano Soligo (ex comandante della Compagnia Montesacro), il luogotenente Massimiliano Colombo Labriola (ex comandante di Tor Sapienza) – per aver fatto scrivere una nuova nota al piantone Di Sano, anche lui imputato, modificando la parte che riguardava lo stato di salute di Cucchi. Gli ufficiali sono accusati dello stesso reato anche per l’annotazione di Gianluca Colicchio, dalla quale furono eliminati i “forti dolori al capo, giramenti di testa e tremore”. Fu scritto che il ragazzo “dichiarava di soffrire di epilessia, manifestando uno stato di malessere verosimilmente attribuito al suo stato di tossicodipendenza”. Colicchio non è indagato perché si rifiutò, a differenza del collega, di firmare la versione addomesticata e al processo in corso ai carabinieri per omicidio preterintenzionale ha raccontato che quel giorno protestò con Soligo. Sono imputati anche il colonnello Lorenzo Sabatino (ex capo nucleo investigativo Roma) e il capitano Tiziano Testarmata (comandante della quarta sezione del Nucleo investigativo di Roma) per omessa denuncia: nel 2015 – dopo che la Procura chiese di riacquisire gli atti – scoprirono le doppie versioni di Colicchio e Di Sano, le trasmisero in procura ma senza annotazione sul falso. Testarmata è accusato pure di omessa denuncia perché quando scoprì che era stato sbianchettato l’originale del registro del fotosegnalamento alla data del 16 ottobre 2009, portò in Procura una copia.

“La Prefettura non funzionava”: così fu ignorato il primo sos da Rigopiano

“La prefettura di Pescara non funzionava. Ed è proprio tale cattivo funzionamento che si cercherà di coprire agli organi investigativi”. Lo scrive un’informativa dei Carabinieri forestali, spiegando l’origine del depistaggio sull’inchiesta bis di Rigopiano.

Alle 11.28 del 18 gennaio 2017 Gabriele D’Angelo chiama dall’hotel Rigopiano. “Ci sono 45 persone, compresi 5 bambini, isolate dalla neve. Mandate al più presto una turbina a liberare la strada”. Quella telefonata, però, resterà ignorata, anche perché – sostengono gli investigatori – queste erano le direttive. E poi verrà omessa dalle relazioni di servizio, motivo per cui l’ex prefetto di Pescara Francesco Provolo, i due viceprefetti Salvatore Angieri e Sergio Mazzia, più altri funzionari sono indagati per depistaggio nell’inchiesta bis sul disastro di Rigopiano.

Dalle intercettazioni agli atti si capisce meglio cosa successe. O meglio, cosa non funzionò. “La Prefettura non funzionava. Io mi ricordo quando sono arrivato, le prime riunioni le ho fatte io, ma potevo fare tutto io, son stato pure male”. Lo ammette il prefetto Provolo, e aggiunge che doveva essere chiusa perché “non c’erano le persone per farla funzionare”.

Con un’organizzazione migliore, forse, le cose sarebbero andate diversamente. Ma d’altra parte la carenza di personale non è l’unico motivo per cui gli allarmi furono ignorati. Erano le direttive date dagli stessi dirigenti a chiederlo. Lo si capisce dalle parole della coordinatrice della sala operativa, Ida de Cesaris: “Ho detto facciamo così: io con il mio cellulare privato mi relaziono con le istituzioni, ma i privati che si lamentano si rivolgano al Sindaco”. E appunto un privato era Gabriele D’Angelo. “Mica potevo sapere che poi ci sarebbe stata la valanga, che ci sarebbero stati ventinove morti”, si giustifica. Neanche col senno di poi, però, i dirigenti ammettono l’errore: “Se quella dice a questo D’Angelo chiama il tuo sindaco ha fatto bene”, spiega De Cesaris al suo vice Giancarlo Verzella, che le dà ragione: “Certamente, ha fatto bene”. Ma come notano i pm la direttiva “cozza” col piano della protezione civile. “Quello mi dice abbiamo paura. Se avete paura state li belli belli al caldo ed aspettate qualcosa facciamo”, commentava ancora la De Cesaris.

Questa telefonata prima viene ignorata. Poi sparisce anche dalle relazioni successive al disastro. Per questo la procura di Pescara nel dicembre 2018 ha aperto un nuovo fascicolo per depistaggio. L’indagine si è chiusa pochi giorni fa. Dalle intercettazioni emerge anche il rimpianto dei due viceprefetti Angieri e Mazzia di aver firmato quel documento: “Ti ricordi, io non ero felicissimo di firmarle queste cose”, dice Mazzia. “Dovevamo dirgli, noi guardate noi ce ne torniamo a casa. Lo so, dovevamo avere la forza di dirgli ‘visto che è così non è negli accordi non lo firmiamo e ce ne torniamo a casa”, risponde Angieri. Ma a chiederlo fu proprio Provolo, come emerge da un altro passaggio: “Perchè lì la relazione l’abbiamo fatta io e te, ce la fece firmare il Prefetto”. Adesso rischiano tutti il processo.

La guerra per salvare il Titano. San Marino guarda alla Russia

Un castello – pardon, una rocca – di carte. Pronto a cadere. Adesso sulla scena di San Marino spuntano Russia e Ue. Roba da James Bond. Quella che sembrava una lotta tra cordate di potere intorno alle banche travolge tutto.

Partiamo dal 19 marzo scorso quando nella Repubblica del Tritone sbarca con tutti gli onori Sergei Lavrov, ministro degli Esteri russo. Che cosa è venuto a fare l’emissario di Vladimir Putin in una Repubblica piena di storia, ma con 33mila abitanti? Lavrov sceglie il palcoscenico del Tritone per lanciare bellicosi proclami ad America ed Europa: “Apprezziamo il fatto che San Marino, nonostante le pressioni, non abbia aderito alla spirale sanzionatoria antirussa promossa da Bruxelles, su dirette istruzioni di Washington”. Lavrov non si ferma qui: “L’approccio autonomo e pragmatico di San Marino favorisce lo sviluppo di legami economico-commerciali e finanziari”. Il cronista non ha avuto risposta sul contenuto del documento che Lavrov avrebbe sottoscritto sulla Rocca. Cosa cerca la Russia a San Marino? “Forse un voto amico negli organismi internazionali di cui San Marino fa parte”, ipotizza Marco Galli (parlamentare della Dc che qui esiste ancora ed è all’opposizione). Ma c’è chi sostiene che Mosca potrebbe aver cercato di dissuadere la Repubblica dalla sigla di trattati con l’Ue. Insomma, che avrebbe spinto per far sì che restasse un paradiso finanziario, a due passi dalla Riviera romagnola amata da oligarchi russi pronti a far girare miliardi. San Marino cosa vorrebbe in cambio? Basta leggere il rapporto di marzo dell’Fmi: le banche sammarinesi sembrano al livello di quelle greche, con un Npl ratio – rapporto tra impieghi e sofferenze – del 54% (2017). Solo per la Cassa di Risparmio (proprietà pubblica) le casse statali hanno dovuto impegnare 530 milioni. Un bubbone pronto a scoppiare. Per la Russia trovare qualche centinaio di milioni è come puntare una fiche a poker. Per San Marino sarebbe la salvezza.

La battaglia per tenersi stretto un potere che va in pezzi potrebbe assumere, però, un altro significato. L’ultimo tassello è di ieri: l’inchiesta del Commissario di Giustizia che ha indagato Sandro Gozi (ex sottosegretario con Matteo Renzi e Paolo Gentiloni, in passato vicino a Romano Prodi) e Catia Tomasetti (presidente della Banca Centrale di San Marino). L’accusa: Gozi avrebbe indicato Tomasetti alla presidenza. E lei, sostiene il Commissario, l’avrebbe sponsorizzato per una consulenza da 120mila euro l’anno più 100mila di premi. Un’inchiesta che fa traballare la poltrona della presidente.

La difesa di Gozi e Tomasetti replica che è tutto falso. Il nome dell’ex sottosegretario ai fini della consulenza non fu fatto dalla presidente, ma dall’ambasciatrice di Malta, consultata dal Renzi del Tritone (Nicola, segretario agli Esteri, nemmeno parente di Matteo). Così qualcuno suggerisce una chiave di lettura addirittura ‘planetaria’: Gozi e Tomasetti avversati da chi boccia l’avvicinamento all’Europa e preferirebbe cacciarsi nelle braccia dei russi. Suggestivo. Ma più si guarda da vicino e meno si capisce. Trame da Guerra fredda si intrecciano con beghe da pianerottolo: spuntano dossier che accusano magistrati di relazioni sentimentali con le mogli di imputati in processi delicatissimi, dove si indaga su decine di milioni di denari pubblici finiti per salvare banche portate al collasso da prestiti a industriali amici. Volano intercettazioni: “Abbiamo un consiglio direttivo che non governiamo…”, si dice. Alla faccia dell’autonomia della Banca centrale. Un colloquio contenuto nell’ordinanza di un’inchiesta del 2018 sulla disastrata banca Cis. Ma, annota il magistrato, si tratta di un’intercettazione privata.

“L’inchiesta – raccontano fonti dell’Agenzia di Informazione Finanziaria di San Marino, Aif – sta valutando l’ipotesi di crediti dati da Cis senza garanzie, utilizzando anche liquidità proveniente dalla banca centrale”. Aggiunge la fonte: “Anche l’Aif sta studiando queste operazioni. Tra i beneficiari dei crediti per circa 750mila euro risulta anche la società Protex – non indagata – una grande impresa sammarinese specializzata nello smaltimento di rifiuti che lavora con diverse aziende pubbliche italiane” come Hera. Tra i soci (7,84% delle quote) Vittorio Prodi, fratello di Romano, già presidente della Provincia di Bologna.