Notre-Dame e i soldi dei ricchi: cronache dall’età vittoriana

Dacché Notre-Dame è bruciata le meglio penne fanno a gara a baloccarsi coi simboli, finendo per dimostrare una volta di più che il turismo da cartolina è il loro vero universo culturale: alcuni, in quel rogo, vedono l’Europa che brucia (no, affonda coi barconi, ricordano altri); altri al contrario vi scorgono il falò dello stato nazione; certuni lo stato miserando del cristianesimo, certi altri il luogo in cui l’umanità si riscopre unita. Noi, volgaroni come siamo, parleremo di soldi. In passato gli allarmi sulle condizioni di Notre-Dame erano corredati sui media da espressioni come “fondi insufficienti”, “vincoli di bilancio” e altre a cui siamo abituati. Oggi, invece, fallita la tutela statale, abbiamo la fila dei miliardari che s’offrono di pagare la ricostruzione: le famiglie Pinault (Kering), Arnault (Lvhm) e Bettencourt-Meyers (L’Oréal), la Total, eccetera hanno promesso circa 800 milioni e da allora viviamo in una sorta di età vittoriana senza Dickens (quanto sono buoni i ricchi…). Julia Cagé, economista di scuola volgarona, ha fatto notare che – grazie alla legge sul mecenatismo – quelle donazioni saranno detratte al 60%, cioè che degli 800 milioni promessi 480 ce li metterà lo Stato. Pinault ora dice che lui rinuncerà allo sconto, il suo consigliere culturale invece, l’ex ministro Jean-Jeacques Aillagon, chiede di far salire lo sgravio al 90%. I ricchi sono così: lo Stato gli piace minimo, ma poi non disdegnano che s’allarghi – se è lecito parafrasare un celebre aforisma del dottor Stefano Ricucci – se gli serve a fare i mecenati col culo degli altri.

Così Dc e Br hanno rimosso insieme la verità su Moro

Anche gli storici ormai riconoscono nel 1978 una data periodizzante della storia dell’Italia repubblicana che coincide con la fine di uno sviluppo espansivo e di segno progressivo della vita nazionale sul piano economico, sociale, civile e culturale: subito prima la crescita vertiginosa dello stragismo di destra e della lotta armata di sinistra coincise con il punto più alto della legittimità democratica della cosiddetta “Repubblica dei partiti”.

Mentre subito dopo, si assistette alla progressiva sconfitta del terrorismo ma iniziò anche il declino dei grandi partiti di massa che cominciarono a perdere la loro presa sulla società proprio quando celebravano la più grande vittoria, ossia la tenuta delle istituzioni democratiche davanti alla duplice sfida portata avanti dal “partito delle stragi” e dal “partito armato”. Col trascorrere degli anni, il sequestro di Moro e la sua uccisione – i due momenti devono essere tenuti distinti perché se le Brigate rosse avessero voluto assassinare Moro e basta lo avrebbero fatto già il 16 marzo insieme con gli agenti della scorta – si sono trasformati in un luogo paradossale e ambiguo della memoria repubblicana: per un verso, tutti sono inclini ad affermare il valore simbolico e il rilievo di quei 55 giorni nella storia italiana, per un altro, non esiste probabilmente altro argomento in grado di suscitare divergenze interpretative e di provocare polemiche tanto laceranti. È come se la comunità nazionale avesse scelto di non curare la ferita provocata dalla morte di Moro, e abbia preferito lasciarla andare in putrefazione puntando sull’inevitabile processo di dimenticanza e di sfinimento dei cittadini, scommettendo sulla sua trasformazione in una grande nevrosi collettiva: la storia di un trauma e della sua mancata rielaborazione sul piano storico.

La sterminata saggistica sull’argomento si è divisa e ossificata in due filoni generali, ormai prevedibili nelle loro movenze e retoriche, quello degli “spiegazionisti a oltranza” e quello dei “dietrologi”. Per i primi tutto sarebbe chiaro ed è come appare: la storia delle Brigate rosse, i comportamenti della politica e del governo, la dinamica del sequestro, la morte di Moro, la tormentata vicenda dei suoi scritti dalla prigionia. Nel campo della saggistica si è realizzata una sorta di pacificazione interpretativa, del tutto interessata, fra i nemici di ieri – le forze dello Stato e quelle dell’anti-Stato – in piena corrispondenza con quanto avvenuto sul terreno giudiziario nel corso degli anni Ottanta del Novecento. Sarebbe, dunque, emersa una verità “ufficiale”, “dicibile”, “concordata”, “pattuita” sul caso Moro, periodicamente amplificata da zelanti campagne giornalistiche, in cui si registra una perfetta e simmetrica coincidenza tra le versioni accreditate dagli uomini di governo di allora e quella dei militanti del “partito armato” di ieri, all’insegna di un imprevedibile “c’eravamo tanto odiati”.

Questo incontro, soltanto all’apparenza incestuoso e impensabile in altri Paesi civili, è simbolicamente culminato in una patetica sceneggiata italiana, andata in onda in televisione nel marzo 2005, che vide protagonisti l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga e l’ex brigatista Adriana Faranda, i quali si rimpallarono davanti alla telecamera, tra moine, buffetti e reciproci contriti ammiccamenti, l’effettiva responsabilità di avere ucciso Moro. Al contrario per i “dietrologi” nulla è come appare e tutta la storia sarebbe frutto di un inestricabile intreccio di trame nazionali e internazionali, variamente intese e di opposto colore sino al punto che la visione cospirativa e ossessionata dei terroristi finisce per coincidere con quella dei loro interpreti. Come ha notato Giovanni Moro, si tratta “di due pensieri ‘forti’ e del tutto autoreferenziali” che “utilizzano paradigmi di razionalità abnormi”: quello dietrologico è un “paradigma di fantascienza, in cui davvero tutto è possibile”; quello spiegazionista invece, “fa pensare, più che altro a una razionalità di un organismo monocellulare”. Due forme di arroganza del pensiero. E così, entrambe le attitudini, all’apparenza tanto distanti, si sono trasformate nelle due facce della stessa medaglia perché le finalità sono troppo spesso le medesime: semplificare per negare, complicare per confondere.

Intendiamoci: molti di questi contributi meritano rispetto e attenzione scientifica e sarebbe sbagliato pensare che sposare una tesi precostituita o scrivere a ridosso degli avvenimenti, animati da ragioni identitarie di ordine politico, giudiziario o affettivo sia di per sé un fattore che inficia il rigore dell’analisi. Che dire? Armi e bagagli (1987) di Enrico Fenzi è un libro importante, così come quello di Alfredo Carlo Moro, Storia di un delitto annunciato (1998) ed è secondario che gli autori siano l’uno un brigatista e l’altro il fratello dell’uomo politico democristiano. Sono belli e utili a prescindere. La tendenza dietrologica ha un preciso momento di inizio, ossia il romanzo I giorni del diluvio, uscito anonimo nel 1985, e la cui paternità, che corrisponde al nome di Franco Mazzola, emerse soltanto cinque anni dopo. L’opera merita attenzione perché il suo autore, nella primavera 1978, era il sottosegretario al ministero della Difesa e, nel marzo 1979, ricevette la delega ai Servizi segreti. Egli, dunque, si trovò nell’occhio del ciclone, dove notoriamente si capisce poco o nulla della reale dimensione della tempesta in corso e dei suoi effetti distruttivi. Tuttavia, ritenne opportuno, seppure abbracciando la libertà dell’invenzione romanzesca che consente, per statuto, di mescolare il vero, il falso e il verosimile, di fornire una propria interpretazione dei fatti, utilizzando nomi di fantasia facilmente individuabili.

La dietrologia italiana sull’affaire Moro, quindi, ha un’origine dall’alto, diciamo pure di carattere istituzionale, a riprova della sua preziosa funzione sovversiva e diversiva. Essa si propone di alzare una coltre interpretativa utile a mascherare la verità storica, con l’argomento di cercarla sempre e ancora altrove, attribuendo così la responsabilità dell’epilogo del sequestro Moro a forze straniere e non ai conflitti fazionari all’interno delle classi dirigenti italiane, anche del “partito armato”, ovviamente. Ciò è avvenuto con un evidente scopo autoassolutorio e deresponsabilizzante che è servito a garantire la sopravvivenza personale, professionale e politica della stragrande maggioranza dei protagonisti della vicenda, sia dalla parte del fronte governativo sia da quella dell’aria di contiguità alla lotta armata, un fenomeno ormai ridotto, nel sentire comune, alle sole Brigate rosse e a Prima linea o quasi.

A questo proposito forse non è inutile ricordare che una ricerca statistica del 1981, basata sulla rivendicazione dei singoli attentati nel decennio precedente, registrò la presenza in Italia di ben 484 sigle praticanti, a sinistra, la lotta armata, più altre 92 che realizzarono soltanto una o due azioni. Dove sono finiti gli autori di queste imprese? Evaporati, acquattati, sommersi, immersi, trasformati, cambiati, rinnegati, sopravvissuti, essi sono ancora fra noi. Spero che anche loro leggeranno questo libro, il quale però è soprattutto rivolto a quanti nel 1978 non c’erano ancora e non hanno memoria di ciò che accadde: a chi adesso ha vent’anni ed è curioso di sapere da dove veniamo e di immaginare dove stia andando l’Italia di oggi, zoppicante ma, come sempre, in cammino.

Antico e moderno: la biblioteca scatena la “guerra”

Un referendum popolare per difendere la biblioteca della città. Si terrà a San Daniele del Friuli. In un clima di contrasti che i giornali locali chiamano, con toni forse un po’ enfatici, “la guerra della biblioteca”. Di che cosa parliamo? Della Guarneriana di San Daniele, una delle biblioteche più antiche d’Italia. Ha più di 12 mila testi antichi, 600 codici, 84 incunaboli, 700 cinquecentine e altre preziose rarità. Fu fondata nel 1466 da Guarnerio d’Artegna e raccolse via via numerose opere miniate, una rara edizione dell’Inferno di Dante del XIV secolo, la “Bibbia Levantina” con miniature che incrociano elementi orientali e occidentali e numerose edizioni stampate del Cinquecento, dono dell’arcivescovo Giusto Fontanini alla sua città. Dopo che nel 1797 la Repubblica di Venezia cadde per opera di Napoleone, il commissario francese Gaspard Monge sottrasse alcuni dei suoi preziosi manoscritti, ancora oggi conservati a Parigi presso la Biblioteca Nazionale di Francia. La Guarneriana fu visitata da personaggi illustri come Ugo Foscolo, Ippolito Nievo, Giosuè Carducci.

Oggi il patrimonio storico convive con i libri moderni e a visitare la biblioteca sono, insieme, gli studiosi che lavorano su opere antiche e i ragazzi delle scuole che vogliono leggere l’ultimo buon romanzo. Ma tutto ciò sta per finire, perché il sindaco Pietro Valent (Lega) vuole “valorizzare” il patrimonio storico, dividendo antico e moderno, tagliando con la spada il nodo gordiano, trasferendo la sezione dei libri attuali in una sede in periferia ed esponendo invece alcuni codici in una “vetrina turistica” nel centro della città, nell’ex Albergo Italia. Contro la separazione del presente dalla storia si è costituito un comitato, che ha chiesto un referendum cittadino. La divisione non si deve fare – spiega l’ex direttore della biblioteca Dino Barattin – per dieci buoni motivi. Eccone alcuni.

La biblioteca Guarneriana è una sola e si è sviluppata nei secoli in maniera unitaria, fino a oggi. Il patrimonio della sezione moderna è dedicato alla pubblica lettura, ma serve anche da supporto allo studio dei documenti antichi. La vicinanza di antico e moderno permette la valorizzazione di entrambi. La sezione moderna è un elemento essenziale per far rimanere vivo il centro storico di San Daniele, che deve restare un luogo di erogazione di servizi e non procedere verso la sua ulteriore desertificazione. L’utilizzo dell’ex Albergo Italia come “vetrina turistica” per l’esposizione di codici è un’assurdità per motivi di sicurezza (attualmente i manoscritti sono conservati in una sala blindata) e di conservazione (luce, sbalzi di calore e di umidità possono compromettere la loro conservazione). Inoltre, nessuna “vetrina turistica” può restituire il fascino di una visita guidata alla Sala Fontaniniana della Biblioteca.

Dino Barattin è preoccupato anche per il futuro dei libri antichi: a chi saranno affidati? In che mani finiranno, visto che esistono casi di biblioteche antiche, messe nelle grinfie sbagliate, che sono state letteralmente saccheggiate, come la Girolamini di Napoli? Anche sul prezzo c’è poi da ridire – canterebbe De André: il sindaco ipotizza di spendere 1 milione di euro per costruire una nuova sede, quando invece basterebbe sistemare la sede attuale, allargando gli spazi della sezione antica trasferendo altrove gli uffici della pro loco e acquisendo nuovi edifici contigui per la sezione moderna.

Insomma: le due anime della Guarneriana si rafforzano a vicenda, il passato arricchisce il presente e l’attualità rende viva la storia. E infine: per la prima volta nasce un comitato di cittadini che, invece di voler cacciare i rom, vogliono difendere la loro biblioteca. Buone notizie dal Nordest.

FI, dalla nave che affonda scappano i topi

Sul Fatto del 15.4 Antonello Caporale fa un divertente elenco dei transfughi di Forza Italia che lasciano in articulo mortis Silvio Berlusconi cercando un approdo più o meno sicuro nella Lega o dalla Meloni. Fra i più noti ci sono Elisabetta Gardini, Denis Verdini, Vittorio Sgarbi, Paolo Bonaiuti, seguiti da una serqua di consiglieri regionali, comunali e altri che hanno incarichi di rilievo in quel partito. Caporale nota che fra coloro che hanno disertato e che si vergognano un po’ di questo voltafaccia, l’ipocrita formula di rito è: “Lascio Forza Italia dopo una lunga e dolorosa riflessione”.

Una menzione speciale fra questi voltagabbana meritano Bonaiuti e Sgarbi. Quando lavoravo al Giorno negli anni 80, e Silvio Berlusconi non era ancora apparso sulla scena politica, il collega Bonaiuti era più a sinistra di Satanasso e io, per lui, naturalmente un “fascista”. Sotto le elezioni del 1996 la direttrice di Annabella mi chiese di fare un’intervista al Cavaliere. Gli accordi erano che avrei mandato delle domande scritte all’Ufficio stampa di Roma e poi mi sarei incontrato ad Arcore con Berlusconi. “Telefona al capo dell’Ufficio stampa”. Telefonai. Dall’altro capo del filo mi rispose proprio Paolo Bonaiuti. Ne rimasi un po’ stupito. “Ah, sei tu?” dissi un po’ sorpreso non avendo ancora percepito – siamo ancora all’inizio dell’esperienza berlusconiana – la slavina di trasformisti, di sinistra e di estrema sinistra, che in seguito sarebbe diventata una vera e propria valanga, che si stava attaccando alla giacca del Cavaliere. L’intervista poi non si fece perché Bonaiuti farfugliò su alcune domande che potevano mettere in imbarazzo il Cavaliere. Ma non fu questo che mi colpì, mi colpì l’assoluta disinvoltura di Bonaiuti che nemmeno con me, che conoscevo i suoi precedenti, si vergognava un po’. Comico è il pretesto preso da Vittorio Sgarbi per filarsela. Del resto in anni lontani Patrizia Brenner allora sua fidanzata e che lo conosceva bene mi aveva preavvertito: “Guarda che se Berlusconi dovesse vacillare di Vittorio si vedrà solo la polvere della sua fuga”. Qual è il pretesto preso da Sgarbi? Lo “schiaffo di Sutri” (parafrasando lo storico “schiaffo di Anagni”, noblesse oblige): aver disertato “per ben due volte” la cerimonia di intitolazione di un giardino alla madre dello stesso Berlusconi. Di Sutri Sgarbi, che come politico non ha mai combinato assolutamente nulla, è sindaco per meriti berlusconiani: l’aver attaccato per vent’anni, dalle tv del Biscione, nei modi più violenti e giuridicamente sgrammaticati, per star bassi, la magistratura. Sutri è una cittadina di 6.000 abitanti. Come si può pretendere che un uomo di 83 anni, malato, che entra ed esce dagli ospedali, che ha ancora importanti impegni politici si sobbarchi un viaggio a Sutri per non offendere la “delicatezza” di Sgarbi?

I transfughi di oggi devono tutto a Silvio Berlusconi, onori, improbabili carriere, quattrini. A me fanno più ribrezzo di Berlusconi che nella sua più che ventennale avventura politica ha messo la propria enorme energia, gli altri sono solo dei parassiti che gli hanno succhiato il sangue.

Sia chiaro che io non cambio una virgola di ciò che penso di Berlusconi, che proprio in questi giorni mi ha querelato per una dozzina di articoli che ho scritto su di lui, querela che se dovesse andare a buon fine mi ridurrebbe sul lastrico e forse al gabbio. Cosa, quest’ultima, che non mi dispiacerebbe poi tanto perché in un Paese dove Berlusconi è a piede libero il solo posto decente per una persona normalmente perbene è la galera. Ma i topi che lasciano la nave che affonda mi danno ancora più disgusto. Sto dalla parte di Alessandro Sallusti che da direttore del Giornale difende l’ultima ridotta berlusconiana, come i guerriglieri dell’Isis si sono difesi a Baghuz. Coraggio Alessandro, se si deve cadere, è molto più nobile e coraggioso cadere in piedi.

Grandi opere, si rischia il ritorno al passato

Per i trasporti ci sono in ballo 133 miliardi di opere grandi e piccole, mai valutate, lasciateci in eredità dal governo precedente, che hanno creato grandi aspettative di soldi pubblici in arrivo, aspettative politiche e industriali, che prescindono totalmente dalla loro urgenza e utilità, sulle quali occorre decidere. È altamente improbabile che ci siano soldi per farle tutte, e il rischio di infiniti cantieri che si aprono e non si chiudono mai è reale. Soprattutto in tempi di strette alla spesa, e a parte la certezza di sprechi di scarsi soldi pubblici.

Toninelli ha iniziato un tentativo di selezionare le opere in base a serie e oggettive analisi costi-benefici, tentativo che tuttavia incontra ostacoli rilevantissimi. Se ci si ferma di fronte a questi ostacoli, il partito del cemento, come sempre è successo, vincerà ancora una volta la partita, e anche questo governo rientrerà nei ranghi di un sistema che certamente non ha contribuito alla crescita italiana; il cemento invece delle tecnologie è oggi un ritorno a uno scenario paleoindustriale passato che non tornerà, tanto più quanto più limitate sono le risorse pubbliche, cioè quanto più le scelte di investimento devono essere selettive.

Se invece questo tentativo deve proseguire, come è ben auspicabile, bisogna però fare alcune cose importanti, cioè le cose per le quali il progetto di valutazione è partito: innanzitutto trasparenza nell’uso dei soldi pubblici, anche con aspri dibattiti sulle analisi, cosa che è iniziata a emergere per la prima volta, e che deve continuare per tutte le scelte, specie quelle più onerose. Qualsiasi selezione “a priori” di opere che possono evitare l’analisi perché se ne temono i risultati genererebbe una grave perdita di credibilità.

Rientra in questo aspetto la pubblicazione di tutte le analisi svolte e con il massimo anticipo possibile rispetto alle scelte politiche. Si ricorda infatti che uno degli scopi principali dell’operazione è legato alla trasparenza delle scelte e al dibattito democratico, molto più che dire dei “Sì” o dei “No”, che giustamente spettano alla politica; altrimenti i sospetti di manipolazione non possono che crescere, e si tornerebbe alla discrezionalità del passato. Un pessimo segnale.

In secondo luogo, occorre rivedere l’assunzione, acritica e in perfetta continuità con il governo precedente, che la “cura del ferro” sia sempre sensata. Come si può dimenticare che questo modo di trasporto rappresenta una voragine per le casse pubbliche? L’argomento ambientale certo in molti casi è valido, ma va visto in termini rigorosi: si ricorda a solo titolo di esempio che raddoppiare il trasporto merci su ferro ridurrebbe le emissioni di CO2 di meno dell’1%, con costi altissimi per lo Stato. Inoltre è certo che le emissioni dei veicoli stradali nei prossimi anni continueranno a diminuire, e quindi questo fatto, dato il lungo periodo richiesto dalla realizzazione di grandi opere ferroviarie, ridurrà l’importanza di spostare traffico sul ferro.

Per il problema della congestione stradale, generata soprattutto da automobili private, come dimenticare che la popolazione del Paese è prevista in diminuzione, soprattutto al sud? E che dire del fatto che l’attuale modesto ruolo economico del trasporto di merci su ferro sia tale nonostante decenni di tassazione elevatissima del trasporto su gomma e di sussidi elevati a quello su ferro? Non si può riflettere che data la struttura del territorio italiano e le caratteristiche del sistema produttivo, basato su imprese medio-piccole, il trasferimento alla ferrovia è molto difficile, considerato che questo modo di trasporto non può essere capillare, cioè può servire solo alcune direttrici con elevata domanda?

Più di ogni altra cosa, infine, serve trasparenza, della quale deve far parte la necessaria denuncia politica di questo non glorioso passato. Come dimenticare i meccanismi di affidamento del maggior progetto infrastrutturale degli ultimi vent’anni, l’Alta Velocità ferroviaria? Investimenti per oltre 50 miliardi, tutti a carico dei contribuenti, supportati da analisi o inesistenti o chieste agli interessati, e affidati senza gara pochi giorni prima che scattasse l’obbligo europeo? Ma la storia reale è molto peggio di questa. Lo Stato firmò con i consorzi di imprese cui “regalava” questi affidamenti miliardari, contratti con cui si “auto-multava” per molte centinaia di milioni se non avesse realizzato l’opera o la avesse affidata ad altri. Perché un comportamento così incredibilmente generoso, se questo non avesse costituito un qualche corrispettivo per alcuni “costi” sostenuti dai fortunati concessionari, anche se non esplicitabili nei contratti? Il dubbio è legittimo. E queste “curiose” multe condizionano ancora molte delle opere oggi sul tavolo. La trasparenza è anche ricordare come si è arrivati a questo. Il grande democristiano Nino Andreatta dichiarò nel 1992 a Repubblica: “Chi parla di grandi opere è solo interessato alle proprie tangenti”. Chi dimentica il passato è condannato a ripeterlo.

Mail box

 

Il Perugia-gate è solo la punta dell’iceberg

Non vi sembra di aver scoperto l’acqua calda con questo scandalo sulla sanità di Perugia? Sono un medico e negli anni, circa 35, di vita ospedaliera, mi sono vista scavalcare da decine di colleghi meno competenti, con minori punteggi e minore anzianità di servizio di me. Quando non erano poi decisamente delle capre! E nello stesso modo ho raccolto confidenza di decine di colleghi e ho assistito a decine di assurde nomine intorno a me. Credo che qualsiasi medico in Italia, soprattutto dopo la “mitica” riforma Bindi della sanità, possa raccontare di essere vittima o anche privilegiato di questo sistema. E sono anni che scrivo ai giornali e sui social che il peggiore problema della sanità italiana è la scomparsa della meritocrazia. Cosa ci lamentiamo poi quando vengono fuori casi di malasanità, non dico gli errori, ma le vere e proprie associazioni a delinquere ai vertici di reparti ospedalieri, quando la stessa carriera di alcuni primari è iniziata con una truffa! Perugia è solo la punta dell’iceberg! Travaglio è di Torino, no? Vada a contare quanti medici hanno lasciato gli ospedali per la sanità privata negli ultimi anni. Non sono tutti affamati di guadagni. Sono alla ricerca di gratificazione personale. E nel privato è il paziente che ti gratifica scegliendoti e tornando da te. Negli ospedali se ti va bene il primario del reparto, sicuramente raccomandato politicamente, per un caso fortuito è anche bravo! Che tristezza.

Grazia Ciccarelli

Cara Grazia, come vede la magistratura procede in varie città d’Italia. Perché non fa un giro in Procura e denuncia ciò che sa?

M. Trav.

 

La corruzione nella Sanità è nel rapporto con i privati

“D’ora in poi solo chi presenterà e voterà una riforma che smantella le Regioni, costruisce un federalismo comunale e riporta la sanità in mano allo Stato avrà diritto di parola e di indignazione”.

Queste le vibranti parole pubblicate il 14 aprile, sul Fatto Quotidiano, nell’editoriale a cura di Marco Travaglio, dopo l’ennesimo scandalo della Sanità dell’Umbria dove un’allegra brigata di politici, massoneria, Vaticano, compari e concorrenti tra loro, si spartivano concorsi, nomine e assunzioni. Ma il maggior focolaio di corruzione che avvolge e soffoca la Sanità pubblica è il suo rapporto di convenzione con le strutture sanitarie private all’interno del quale si creano le condizioni per ogni tipo di imbroglio (Formigoni è in galera per queto) e qui avviene il passaggio fraudolento di soldi pubblici nelle tasche dei privati. Occorre separare nettamente la medicina pubblica e quella privata convenzionata e obbligare i medici a una scelta etica, o scegliere di essere al servizio dei cittadini, o essere al servizio dei profitti di imprenditori privati, che fanno della loro attività speculazione. La medicina privata appartiene al mercato con le sue logiche, non ha alcun bisogno di essere sostenuta dallo Stato, se non fa profitti semplicemente chiude, come accade a qualunque attività imprenditoriale. La medicina pubblica non è un’azienda, e i politicanti che oggi la gestiscono devono sparire e lasciare il posto a funzionari del Ministero della Sanità. Prevenzione, educazione alimentare, informazione sessuale, per uno stato civile si trasformano in enormi risparmi di denaro e di sofferenze per i suoi cittadini, e ricordiamo che la maggior voce di spesa sociale (110 miliardi di euro l’anno) è quella della Sanità. Comunque complimenti al Fatto, che oltre a criticare si fa carico anche di fare proposte, e questo è il giornalismo che ci piace.

Paolo De Gregorio

 

Oggi c’è troppa distanza tra la stampa e le persone

La critica alla classe politica da parte degli organi di informazione dovrebbe essere una garanzia di controllo a beneficio dei cittadini. Credo che in un tempo passato fosse davvero così, ma oggi devo drammaticamente constatare che anche i giornalisti e i vari “esperti” in materia (almeno una buona parte di essi) ormai sono diventati parte della commedia politica italiana. Non si assiste più a una critica costruttiva con lo scopo di stimolare la classe politica a migliorare ed a fare ciò che è stata chiamata a svolgere, ma ad un continuo rimpallo di responsabilità, di ricette inverosimili, di scenari apocalittici, di denigrazioni reciproche. Una vera recita, anche piuttosto scadente. Vorrei che i partecipanti non politici ai vari dibattiti avessero come scopo principale quello di informare e, se possibile, tutelare noi cittadini. Ed invece sono soltanto una parte in commedia, lautamente retribuiti e distanti anni luce dai problemi quotidiani della gente.

Luca Battistini

 

Gli stipendi dei calciatori dipendono anche dai tifosi

Non tifo per nessuna squadra di calcio, ma quando una squadra italiana affronta una squadra straniera, parteggio sempre per i colori di casa nostra. Ecco perché non capisco chi gioisce per la sconfitta della Juventus. Altro discorso è intavolare una discussione sui quattrini che piovono sul mondo dorato del pallone. Ma finché ci saranno milioni di tifosi pronti a spendere soldi per biglietti, abbonamenti e vari gingilli, il fatturato consentirà spese mastodontiche, a volte non ripagate.

Fabio Sicari

Notre-Dame. La solidarietà è importante. Ma non diventi “la carità che fa notizia”

Alle terribili immagini dell’incendio che ha devastato Notre-Dame si sono aggiunte le solite polemiche: a partire da chi contesta le “lacrime facili” per la cattedrale e quelle “inesistenti” riservate alle tragedie umanitarie per finire alla questione “carità”: abbiamo assistito a una gara a chi dona di più, per vedere – dicono i contestatori – il proprio nome sui giornali di tutto il mondo. Credete siano polemiche pretestuose? Oppure c’è un fondo di verità?
Antongiulio Pivano

 

L’emozione suscitata dall’incendio di Notre-Dame è sincera da qualunque parte arrivi. Sembra del tutto logico, infatti, essere colpiti da un evento che in qualche modo entra a far parte della nostra vita personale, perché in tanti sono stati a Parigi, hanno visitato quella cattedrale, la riconoscono come parte del proprio vissuto. Le cose sono sembrate andare diversamente quando abbiamo visto scattare la carità da parte di grandi gruppi privati come Bernard Arnault, François Pinault, gli eredi della L’Oréal, etc. Sembra che fino a ieri siano stati raccolti fino a 700 milioni di euro. E in soli due giorni. È lecito chiedersi dove erano tutte queste risorse quando invece si trattava di contribuire a sostenere il patrimonio culturale o, semplicemente, il livello della tassazione. Il quotidiano francese online, Mediapart, ha pubblicato una testimonianza autorevole, quella del giornalista indiano-statunitense Anand Giridharadas, già editorialista del New York Times (dunque non un sovranista di casa nostra). Il quale si è detto molto stupito nell’osservare le grande famiglie di Francia annunciare donazioni di centinaia di milioni di euro “che saranno in gran parte defiscalizzate e quindi pagate dallo Stato”. In Francia, infatti, vige una deduzione fiscale del 60% sulle donazioni a cui, fino a ieri sera, aveva rinunciato solo Pinault. “Persone molto ricche che dovrebbero in realtà implorare la nostra indulgenza per la loro evasione fiscale divengono invece degli eroi perché risolvono le situazioni di cui in parte sono la causa”. Affermazione netta e impegnativa ma che fa riflettere sulla “carità che fa notizia”, sulla esposizione pubblica del proprio marchio accanto a eventi tragici ma emozionanti come quello parigino e che hanno anche un ritorno di immagine. Se davvero l’arte, la cultura, la “cosa pubblica” stanno così a cuore a chi può sborsare in un’ora 100 milioni di euro, perché non applaudire quando qualche politico fantastica di istituire una patrimoniale sulle grandi fortune invece di gridare costantemente allo scandalo?

Salvatore Cannavò

Sul ring è vincente, ma Teheran la vuole in carcere per aver indossato i pantaloncini

È scattato il mandato di arresto per la prima donna pugile iraniana. Il giubilo per la vittoria di sabato in un incontro amatoriale a Royan, in Francia, è sfumato mentre Sadaf Khadem, 24 anni, era diretta all’aeroporto di Parigi. Sarebbe tornata a Teheran assieme al suo allenatore, Mahyar Monshipour, se non fosse stata avvertita che ad attenderla c’erano le manette. “Stavo combattendo in una partita legale in Francia, ma indossavo pantaloncini e maglietta, cosa del tutto normale agli occhi del mondo, ho infranto le regole del mio paese”, ha dichiarato l’atleta al giornale francese L’Équipe. La scelta di omaggiare l’Iran in canotta verde, fascia bianca e pantaloncino rosso non è stata gradita. L’ambasciatore iraniano a Parigi non ha voluto rilasciare dichiarazioni. Né ci sono stati commenti da parte del governo islamico. “La signora Khadem non è membro della federazione iraniana di pugilato e dal nostro punto di vista tutte le sue attività sono personali”, ha detto a una agenzia di stampa locale il capo della federazione, Hossein Soori, che nega la notizia dell’arresto. Di certo non sarebbe il primo. Rea di non aver indossato l’hijab, obbligatorio per le donne in Iran, e di essere stata allenata da un uomo, Sadaf si aggiunge alla lunga lista delle ribelli iraniane, col primato di essere la prima sul ring. Fino a qualche tempo fa non avrebbe potuto gareggiare neanche con l’hijab per motivi religiosi. Per il regime islamico la violazione del codice di abbigliamento prevede, già in età infantile, il carcere fino a 2 anni o una multa pecuniaria. Dopo il movimento My Stealthy Freedom, nato nel 2014, le donne si sono date appuntamento in piazza per i “mercoledì bianchi”, durante i quali sventolano a capo scoperto i veli. Risale al 2 febbraio l’arresto di 29 di loro. Turbavano l’ordine pubblico. In carcere è finito anche il volto-simbolo della rivoluzione bianca, Vida Movahed, che sta scontando un anno di reclusione.

Le tangenti brasiliane colpiscono ancora: si uccide Garcia, ex presidente del Perù

S’è sparato quando la polizia s’è presentata al suo domicilio per arrestarlo ed è morto poche ore dopo, nell’ospedale di Lima dov’era giunto in condizioni disperate. L’ex presidente del Perù, Alan Garcia, leader del partito Alleanza Popolare Rivoluzionaria Americana, era coinvolto nell’inchiesta sull’impresa brasiliana Odebrecht, a sua volta implicata nell’indagine brasiliana nota come Lava jato, che è già costata la condanna e il carcere all’ex presidente brasiliano Luiz Inacio Lula da Silva e l’arresto per l’altro ex presidente brasiliano Michel Temer, l’uno di sinistra, l’altro conservatore. Mentre si compiva la tragedia di Garcia, un altro ex presidente peruviano, Pedro Pablo Kuczynski, veniva ricoverato d’urgenza per problemi cardiaci in una clinica di San Isidro. Kuczynski, 80 anni, è da mercoledì 10 in stato di detenzione preliminare, il reato che gli viene contestato è riciclaggio, nel quadro di presunti legami con Odebrecht.

Garcia, 60 anni, divenne presidente nel 2006, dopo aver vinto il ballottaggio con il candidato dell’Unione per il Perù Ollanta Humala, e rimase in carica fino alla metà del 2011; dopo di lui, fu la volta di Humala. Politicamente molto giovane, García era già stato presidente dal 1985 al 1990 e s’era pure candidato alla presidenza nel 2001, sconfitto al ballottaggio da Alejandro Toledo. Finì sotto inchiesta anche per il ruolo avuto nel periodo del terrorismo senderista. Kuczynski, 80 anni, fu eletto nel 2016, battendo al ballottaggio Keiko Fujimori, figlia dell’ex presidente degli anni 90 Alberto, finito in carcere nel 2007 per corruzione e crimini contro l’umanità.

Per il Natale 2017, Kuczynski diede la grazia proprio a Fujimori. Nel marzo 2018, dovette dimettersi: si scoprì che aveva barattato la liberazione di Fujimori con un voto dell’opposizione a suo favore, in una vicenda di corruzione. Nel marzo 2018, gli succedette l’attuale presidente, Martin Vizcarra, ora “costernato per la morte” di Garcia. Secondo una ricostruzione, l’ex presidente, quando ha visto arrivare gli agenti, si è sparato alla testa. All’ospedale Casimiro Ulloa l’intervento chirurgico non l’ha salvato. Gli agenti dovevano eseguire un ordine di arresto preventivo del pm José Domingo Pérez, per presunti contributi della Odebrecht alla campagna di Garcia del 2006. Negli anni 90, Garcia visse in esilio in Colombia: nel ‘95 il Parlamento gli revocò l’immunità per l’accusa di avere avuto mazzette dal consorzio italiano Tralima, per la costruzione della metropolitana di superficie di Lima.

“Assicurare la chiesa? Costerebbe quanto il Pil della Francia”

Si confessa “emotivamente distrutto” dall’incendio della Cattedrale di Notre-Dame, ma un po’ più sollevato all’idea che non tutto sia andato perduto. “Sarebbe bastato che il rogo durasse altri 15 minuti e non sarebbe rimasto niente”. Eike Schmidt è il direttore delle Gallerie degli Uffizi di Firenze e davanti alla “tragedia” di Parigi spiega che – anche se nessun sistema è sicuro al 100% – esiste un modo per proteggere un edificio così importante e imponente: “Si tratta di un sistema di sicurezza all’avanguardia integrato, cosiddetto ridondante, cioè composto da due sistemi che si monitorano a vicenda, come sugli aerei. Se uno va in blocco interviene l’altro, evitando così anche falsi allarmi”.

Direttore Schmidt, in queste ore sta montando in Francia la polemica sull’assicurazione mancata della Cattedrale, secondo lei sarebbe stata utile?

Dal punto di vista commerciale, le opere d’arte non sono assicurabili. Solo per gli Uffizi non basterebbe l’intero Pil italiano e poi i costi supererebbero di gran lunga i benefici. Nel caso delle Gallerie, ad esempio, anche solo la distruzione del Tondo Doni di Michelangelo sarebbe così devastante che neanche tutto il denaro del mondo potrebbe ripagarlo. Per lo Stato sarebbe come assicurare la vita di ogni suo singolo cittadino. Solo Paesi che non hanno molte opere d’arte possono farlo, ma per l’Italia o la Francia non sarebbe sufficiente neanche il Pil di tutta l’Europa per assicurare tutte le opere o i monumenti.

Pensiamo alle nostre chiese simili a Notre-Dame dal punto di vista strutturale, si può fare qualcosa per metterle al sicuro?

Certo, le due più simili sono San Pietro, il Duomo di Milano e quello di Firenze. Non sappiamo ancora come fosse protetta Notre-Dame, ma con un sistema all’avanguardia di cui gli Uffizi stanno per dotarsi si può alzare di molto il livello di sicurezza anche in caso di incendio. A questo poi va affiancato l’uomo, presenza di cui non si può ancora fare a meno per arginare rischi di questo tipo.

Cosa ha pensato quando ha visto l’incendio?

Sono rimasto molto scosso da questa quarta prova a cui è stata sottoposta la Cattedrale, sopravvissuta alla Rivoluzione francese e poi alle due Guerre mondiali e più volte ricostruita.

A proposito di stratificazioni, come andrebbe eseguita secondo lei la ricostruzione?

Per prima cosa va fatta una diagnosi precisa di ciò che è rimasto in piedi e va messa in sicurezza la struttura. Poi si procederà a immaginare la ricostruzione.

Il Comune ha già indetto la gara per il progetto della guglia, eppure lei sostiene che non sia necessario rimetterla in piedi.

Sì, quella sulla ricostruzione è una decisione filosofica. Le ipotesi si dividono in due generi: quella ‘com’era, dov’era’ per cui si ricostruirebbe Notre-Dame com’era e con gli stessi materiali. In questo caso però bisogna stabilire però se si possano utilizzare le stesse tecniche di costruzione. Poi c’è la teoria radicale: ciò che è andato distrutto non ce lo restituisce nessuno. In questo caso si parla di ricostruzione post-moderna. Nel caso specifico, ad esempio, per le vetrate distrutte si potrebbe pensare di rifarle come per le 12 chiese di Colonia dopo la Seconda guerra mondiale che furono affidate ad artisti dell’epoca che si rifecero a quelle antiche dando vita a dei classici contemporanei.

Gli Uffizi hanno offerto il loro aiuto e quello dell’Italia in caso ce ne fosse bisogno.

In segno di solidarietà abbiamo esposto all’ingresso delle Gallerie l’immagine dell’autoritratto di Chagall con Notre-Dame sullo sfondo. Ognuno di noi dovrebbe sentirsi parte di questa tragedia, come di quella che colpì l’estate scorsa il Museo nazionale brasiliano riducendo in cenere anche opere indigene brasiliane che non saranno più recuperate. Ma penso soprattutto alle maestranze italiane per il ‘Restauro’ soprattutto per le vetrate o per il legno: in questo siamo ai primi posti nel mondo. Se la Francia oltre ai suoi – che sono comunque tra i migliori – avesse bisogno di più profili, siamo a disposizione, così come abbiamo fatto in passato inviando ingegneri e storici nelle Marche e in Abruzzo dopo il sisma.