Siamo tutti omologati e pronti solo a obbedire

In Nuova Zelanda sta per essere approvata una legge che vieta ai nati dopo il 2013 di fumare. Attenzione, non solo per il periodo dell’età minorile, che sarebbe ancora ragionevole, ma per sempre. Fa specie che un popolo come quello dei Maori, che ci ha abituato a danze scatenate e liberatorie dopo una vittoria nell’America’s Cup o nei campionati di rugby, sport a sua volta liberatorio perché, sia pur entro certi limiti, permette il libero sfogo della violenza, si sia fatto irreggimentare da una legge di questo genere. In realtà la legge neozelandese non è che un aspetto della tendenza molto più generale dello Stato moderno di entrare anche negli anfratti più intimi della nostra vita privata. Di recente cinque funzionari neoassunti alla Casa Bianca sono stati licenziati perché nel questionario loro proposto avevano ammesso di aver fumato marijuana. Ora è ovvio che io non posso far uso di stupefacenti in un’azienda pubblica, ma a casa mia ho il diritto di fare ciò che più mi pare e piace. Del resto negli Stati Uniti sono da tempo in voga questionari di questo genere anche per il fumo, diciamo così, normale di sigarette. Se si scopre che uno è un fumatore non lo si assume. E come lo si scopre? Facendogli fare un esame del sangue prima dell’assunzione. E qui c’è una doppia violazione della libertà dell’individuo. Perché, almeno per la legislazione italiana, nessuno può essere sottoposto a trattamenti sanitari contro la sua volontà (è il grave problema che si è posto con il Covid e l’obbligatorietà dei vaccini che lo Stato italiano non ha potuto imporre ma solo aggirare).

La legge Mancino va ancora più a fondo nella violazione della sfera privata di un individuo, rende infatti reato l’odio che è un sentimento. E i sentimenti non sono comprimibili. Anche se non è molto intelligente, io ho diritto di odiare chi mi pare e piace. È ovvio che se gli torco anche solo un capello devo finire in gattabuia. Ma questo è un altro piano di discorso perché si passa dall’area dei sentimenti e dei pensieri a quella dell’azione. Ancora un passo – e ci siamo vicini perché in Cina, ma non solo in Cina, si stanno sperimentando queste tecnologie – e lo Stato entrerà anche nei nostri pensieri e ci metterà tutti in gattabuia perché non c’è nessuno che, almeno una volta, non abbia pensato di uccidere questo o quello o l’umanità intera.

Ci sono poi molti casi in Italia in cui solerti assistenti sociali hanno strappato i figli ai genitori perché ritenuti economicamente non all’altezza. Ma chi l’ha mai detto che vivere in un ambiente povero sia preannuncio di una sciagura certa e vivere in uno ricco una garanzia di felicità? Edoardo Agnelli si è suicidato a 46 anni, Christina Onassis a 37. “Col sole e con il mare anche un ragazzo povero può crescere felice” scrive Albert Camus (certo bisogna che ci sia il sole e il mare, secondo me le disuguaglianze climatiche non sono valutate nella loro importanza).

Lo Stato determina poi i nostri comportamenti in modo più indiretto influendo sulla cultura generale. Dobbiamo essere tutti sani e fare almeno sei check-up l’anno, cioè dobbiamo vivere da vecchi fin da giovani, perché se ci ammaliamo le spese per la nostra salute ricadono sullo Stato. Io, dico la verità, anche se giovane non sono, preferisco vivere, e lo Stato risolva questi problemi in altro modo che non sia quello di imporci una salute forzata. La salute è mia e la gestisco io.

Un altro tema è quello del fascismo/antifascismo. A parte frange assolutamente minoritarie, siamo diventati tutti “antifascisti” ora che il fascismo non esiste più, lo eravamo molto di meno quando il fascismo c’era (“Esiste oggi una forma di antifascismo archeologico che è poi un buon pretesto per prendersi una patente di antifascismo reale. Si tratta di un antifascismo facile facile.” Pier Paolo Pasolini).

Insomma ci stiamo omologando tutti a gran velocità. Ci siamo abituati a subire il Potere, politico o culturale, quale che sia. I “complottisti” sostengono che il Covid non è stato altro che una prova generale per abituarci a obbedire. Sciocchezze. È da tempo che siamo entrati nel mondo di Orwell e che il Grande Fratello decide per noi, docili come pecore, asini al basto.

 

Gasparri al Quirinale, mio zio ipocondriaco e la collezione di nonno

Per difendermi da questa civiltà intesa al successo, coltivo la pazienza cordiale e la volontà silenziosa, affinché la mia vita prosegua serrata, e si arricchisca senza sperperare nulla. E poiché la vita ideale si sviluppa per profondità e modo (essa è tema, è forma), affido il nodo delle inquietudini contemporanee alle mie Pagine di diario.

Ho una teoria. È difficile spiegarla a parole. Secondo questa teoria, esiste almeno una teoria che è difficile spiegare a parole.

Idea per un museo di oggetti della Seconda Repubblica: teche di vetro opportunamente illuminate che espongono la giacchetta per la quale non bisogna tirare Mattarella, gli specchi su cui si arrampica Renzi, il timone che ha in mano Draghi, l’asse Letta-Conte, la patata bollente delle vaccinazioni, il latte alle ginocchia che ti fanno venire i 5S quando si rimangiano le promesse (uno vale uno, due mandati, Ilva, No Tav, No Tap, no F-35, no Pd, no Draghi, uscire dall’euro, no deposito e transito di armi nucleari batteriologiche e chimiche in Italia, no immunità parlamentare), eccetera.

Chi sarebbe un ottimo presidente della Repubblica? Gasparri. Dategli uno scatolone pieno di noccioline di polistirolo e si diverte per ore.

Effetti collaterali del vaccino. L’aereo è in partenza. Voce dell’hostess: “Per favore accertatevi che il tavolinetto davanti a voi sia chiuso, e non fumate le cinture di sicurezza”.

Un mio zio era un ipocondriaco di quelli scoccianti. Perde il numero di cellulare del suo analista. Lo ritrova per caso dopo otto anni e gli telefona. E l’analista: “Ancora lei?”.

Come si scoprì poi, erano i primi sintomi della cacorrafiofobia. (È la paura esagerata del fallimento. Volevo infilarla da qualche parte.)

Il più abile a percularlo era il dentista: “Il molare forse lo possiamo salvare, ma temo che la lingua bisognerà estrarla”.

Mio nonno invece collezionava cose rarissime. Non ne aveva neanche una.

Guide turistiche che non ho finito di leggere. “Duomo di Milano. Descrivere una chiesa come un orgasmo è qualcosa che potrebbe offendere qualcuno, eppure…”.

La gente si vanta quando riesce a far ridere un comico perché non sa che il comico non ride mai della battuta che gli dicono, ma di ciò che quella battuta gli fa venire in mente. Per esempio tutti ridono delle scoregge, ma un comico ne ride perché la scoreggia annuncia lo stronzo come Giovanni Battista annunciava Cristo.

Una cosa che ho imparato sul sesso anale: bussare sempre, prima di entrare nella camera da letto dei tuoi genitori.

Indizi che tua moglie ha una tresca con Berlusconi: la sua figa puzza di stalliere mafioso; il tuo ultimo figlio a 5 anni ha già tre prescrizioni.

In Italia ci sono in media solo 1000 morti sul lavoro ogni anno. È il paradiso o no?

 

Malagò, un ritratto senza pudore

È stata la mano di Malagò! Il Foglio si concede una pausa (apparente) dall’adorazione draghista e regala tre pagine fitte fitte a una conversazione-affresco del presidente del Coni. Le colonne foglianti trasudano un sentimento di ammirazione assoluta e senza alcun pudore. Per il giornale di Ferrara e Cerasa, Malagò è “La persona dell’anno”, “l’uomo che tiene in mano i destini dello sport italiano”, “un simbolo del riscatto italiano”, uno “davvero irresistibile” (malgrado il soprannome “Megalò” coniato da Susanna Agnelli), “un Draghi più piacione, con un twist di sudamericanità”, “l’uomo che sa di più di sport al mondo” (sostiene Enrico Vanzina), “il Fidel Castro del Canottieri Aniene”. È la mano di Malagò, invisibile e divina, che ha sospinto lo sport italiano nei trionfi estivi: è Malagò che ha parato i rigori degli inglesi, è Malagò che ha corso con le gambe di Jacobs e saltato con quelle di Tamberi; è grazie a lui che “l’Italia torna finalmente di moda”. Quanto draghismo c’è in Malagò? Per il Foglio, assai: “E infatti sarebbe anche ora di fare questa riforma della Costituzione, sdoppiare Draghi: presidente del Consiglio e della Repubblica, alé. Oppure, Malagò in una delle due caselle”. Alé.

Alla ricerca del pass per il Colle

L’obbligo vaccinale è l’ultimo rifugio di chi non sa più che pesci prendere. Compreso Alessio D’Amato, assessore alla Sanità del Lazio – regione modello nella somministrazione delle fiale – che sollecita un atto d’imperio del governo per arginare la variante Omicron e l’offensiva no-vax. Peccato che, come per tutti gli estremi rimedi, bisognava pensarci un attimino prima, quando i mali non erano così estremi. Quando, cioè, si accertò che nella campagna di vaccinazione passavano i mesi ma non si riusciva a coprire quella quota del 20 per cento indifferente se non apertamente ostile a ogni sollecitazione della medicina e dei poteri costituiti. Eravamo all’inizio di agosto e si preferì aggirare lo scoglio con l’istituzione del Green pass che, tuttavia, non fece altro che duplicare i problemi e gli argomenti dei protestatari. Poiché a chi contestava la presunta dittatura sanitaria si unirono, Costituzione alla mano, i combattenti delle libertà conculcate, a loro avviso, dal passaporto verde. Fu l’autunno dell’assalto fascista alla sede della Cgil, dei portuali di Trieste convinti di girare il seguito della corazzata Potëmkin, dei cortei nei centri storici osteggiati dai negozianti imbufaliti. Tutte manifestazioni rientrate in casa complice l’arrivo di un inverno piuttosto inclemente. Con qualche eccezione, tipo l’irruzione dei medici no-vax nella sede dell’Ordine di Roma, rinfocolato a quanto sembra da ruggini pregresse tra gli iscritti. Tutto questo per dire che se alla richiesta dell’assessore D’Amato dovessero seguire i fatti, no-vax e no-pass avrebbero uno straordinario pretesto per tornare a fare un casino triplo. E poi siamo sicuri che il campione del mondo dei rospi ingoiati Matteo Salvini possa mandarne giù anche uno di tali dimensioni? Senza contare che un obbligo è tale se viene fatto rispettare. Controlli a campione, si dice, e se non ti sei vaccinato paghi un’ammenda. Figuriamoci che paura. Con l’avanzata di Omicron molto probabilmente ci si limiterà a dare un’altra stretta al Green pass. Difficile prevedere qualcosa di più energico, e impopolare, con l’elezione del nuovo capo dello Stato alle porte. Quirinal pass.

“Morti sul lavoro, adesso procura ad hoc e patente a punti per le imprese”

La tragedia di Torino con i tre operai deceduti per il crollo di una gru è solo l’ultimo episodio. I morti sul lavoro avanzano al ritmo di 100 al mese, nel 2021 si supererà il migliaio, quota sotto cui non scendono dal 2015. “Numeri impressionanti e l’unico modo che abbiamo per ridurre il fenomeno è la prevenzione, che è molto più efficace della repressione”, spiega Bruno Giordano, da luglio a capo dell’Ispettorato nazionale del lavoro, che dovrebbe accorpare le funzioni di vigilanza di ministero del Lavoro, Inps e Inail.

Il tasso di irregolarità nelle ispezioni ordinarie è del 70%, ma lei ha fornito dati impressionanti sui controlli nell’edilizia…

Da fine agosto abbiamo iniziato una vigilanza speciale sul settore, che ha il tasso più elevato di incidenti. È emerso che 9 aziende su 10 ispezionate hanno avuto delle irregolarità. Si va da quelle meramente formali al lavoro nero, dalla violazione delle norme sulla sicurezza fino allo sfruttamento del lavoro e al caporalato.

Qual è l’incidenza di quelle più gravi?

Il dato preciso ancora non c’è, ma in molti casi si tratta di violazioni concomitanti. Se trovi dei lavoratori in nero, quasi certamente ci sono violazioni su sicurezza, norme previdenziali e assicurative.

Con che criteri selezionate le aziende per controlli?

Ci sono precise direttive, non si tratta di controlli a campione. Per fare un esempio, si vanno a verificare le Pmi, visto che la maggior parte degli incidenti si verificano in questo tipo di imprese, o le aziende che erano già state ispezionate per verificare recidive o i nuovi cantieri aperti da quelli micro al Tav. Con i controlli copriamo 18 Regioni: i settori con più irregolarità sono edilizia, agricoltura e logistica.

Nel 2020 c’è stato un calo nei controlli, il 2021 sta andando meglio?

Con il decreto 146 ora l’Ispettorato ha competenza generale in materia di sicurezza con un’unica strategia ispettiva, mentre le Asl hanno hanno competenza su salute e sicurezza, ma sono centinaia e rispondono a Regioni e province autonome, il che crea sovrapposizioni e scarso coordinamento. Tra 2019 e 2021 i controlli su caporalato e sfruttamento sono aumentati del 400%, ma guardare solo alle ispezioni è riduttivo. L’Inl ha compiti vasti: ad esempio verificare il rispetto di alcune norme dello Statuto dei lavoratori, come la sorveglianza video nei luoghi di lavoro o le dimissioni delle lavoratrici madri. Ci sforziamo di fare l’impossibile con gli uomini che abbiamo.

L’ultimo decreto ha istituito la banca dati unica sui controlli, ma non la famosa patente a punti per le imprese virtuose. Non sarebbe il caso di introdurla?

Sì, ma è un sistema già previsto dal Testo unico di settore, una volta attivata la banca dati dovrà entrare in vigore. Il dl ci dà però anche un altro grande strumento: la possibilità di sospendere subito le attività che violano la sicurezza.

È favorevole a una Procura nazionale del lavoro? Il ddl che la istituisce è fermo da anni…

Sì, sarebbe molto utile perché consentirebbe di concentrare a livello distrettuale le indagini in materia di lavoro e sfruttamento, materie che richiedono competenze e specializzazioni, e questo permetterebbe anche dei processi più rapidi.

Da magistrato è favorevole pure a istituire il reato di omicidio sul lavoro?

Spetta al legislatore, ma abbiamo già l’omicidio colposo aggravato dalle circostanze delle condizioni di lavoro. Ripeto: è più efficace la prevenzione che la repressione.

Oggi servono autorizzazioni per aprire molte attività, ma basta andare alla Camera di commercio per aprire un’impresa edile e partecipare ad appalti milionari.

È vero, ma le normative comunitarie a tutela della libertà di impresa ostacolano una stretta in questo campo.

Non c’è ripresa per le donne: l’85% è precaria e 1 su 2 part time

Una ripresa debole e precaria per tutti, soprattutto per le donne. In particolare al Sud, dove la nuova occupazione femminile in alcune Regioni – come Calabria e Sicilia – arriva a essere part time per quasi tre quarti del totale. Dal Gender Policies Report, rapporto sui divari di genere nel mercato del lavoro dell’Inapp, viene fuori che sta succedendo il contrario di quanto promesso con il Pnrr: le imprese stanno assumendo soprattutto uomini e con questi ultimi stanno firmando i contratti più tutelati. Solo il 14% dei nuovi contratti firmati da donne è a tempo indeterminato, contro il 18% degli uomini; il 38,1% dei contratti femminili è a tempo determinato, il 17,7% è stagionale, il 15,3% in somministrazione e il 10,4% intermittente. Tutte le tipologie precarie, tranne il tempo determinato classico, hanno un’incidenza inferiore sugli uomini. Come anticipato poche settimane fa, nei primi sei mesi 2021 sono stati attivati 3.322.634 rapporti di lavoro; solo 1.316.017 riguardano la popolazione femminile, meno del 40%. Quanto alle stabilizzazioni, cioè le trasformazioni di contratti precari in contratti permanenti, hanno favorito donne sono nel 38,1% dei casi. Ma il 61% delle donne che hanno ottenuto un rapporto stabile si è accontentato di un part time, quindi sì a tempo indeterminato ma da poche ore e con bassi stipendi; per gli uomini questa percentuale si ferma invece al 27%.

In Basilicata, Sicilia e Calabria le nuove assunzioni coinvolgono donne al massimo in un terzo dei casi. Il 49,6% di tutti i contratti femminili attivati in Italia è a tempo parziale, contro il 26,6% degli uomini. Ma anche qui la debole struttura produttiva del Sud porta punte del 74,4% in Calabria, 72,9% in Sicilia, 73,9% in Molise. In ogni caso, mai sotto il 60% nel Meridione. “Occorre intervenire non tanto con bonus o iniziative spot – ha detto il presidente Inapp Sebastiano Fadda – ma iniziando a adottare, sin dalla fase di progettazione, una valutazione di quali possono essere gli effetti su uomini e donne di politiche concepite come universali e quindi neutre”.

Quale divano! Con il reddito oltre 700 mila han lavorato

Di tutti gli schiaffi che la realtà dei dati si è premurata, negli ultimi mesi, di assestare alla narrazione che vuole i poveri come “fannulloni” e il Reddito di cittadinanza come “disincentivo al lavoro”, questo è forse il più fragoroso. Ieri il commissario dell’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro (Anpal), Raffaele Tangorra, ha finalmente diffuso un report sull’impatto occupazionale della misura anti-povertà: ben 1,5 milioni dei contratti attivati negli ultimi tre anni hanno riguardato beneficiari del Reddito. Un quarto di questi ha coinvolto disoccupati di lunga data ritenuti, almeno in partenza, lontani dal mercato del lavoro. Numeri persino sottostimati, perché non considerano gli utenti in carico ai servizi sociali né chi svolge attività autonoma.

Il numero totale di contratti è un milione e mezzo. Sono 725 mila invece le persone coinvolte che, ancorché aiutate dall’assegno mensile, o già lavoravano quando hanno iniziato a prendere il sussidio oppure sono comunque riuscite a trovare un posto dopo aver iniziato a riceverlo, e molti lo hanno fatto malgrado la crisi scoppiata in primavera 2020 per la pandemia, con attività chiuse e occupazione crollata. Le persone che hanno firmato un nuovo contratto dopo aver ottenuto il Reddito di cittadinanza sono 547 mila, numero che contiene anche chi aveva un lavoro all’inizio e poi lo ha perso per poi trovarne un altro. I 725 mila occupati sono il 40% degli 1,8 milioni di individui indirizzati ai centri per l’impiego e obbligati per legge a firmare il “patto per il lavoro”. “Il reddito di cittadinanza non è un disincentivo per essere occupati”, è la sintesi del commissario Tangorra, che fa notare come le persone con la licenza elementare o media si siano dimostrate “molto più dinamiche rispetto alla narrazione sui percettori del Reddito e hanno accettato anche lavori a tempo determinato anche molto brevi”.

I centri pubblici, spesso indicati come l’origine di tutti i mali legati alla misura, hanno avuto un ruolo nell’aumentare le possibilità di assunzione soprattutto per i meno “occupabili”, i più deboli, con poca o nessuna esperienza e scarse competenze. Anche loro hanno migliorato la propria condizione lavorativa, sebbene in misura ovviamente minore rispetto a chi partiva con un profilo più spendibile.

La platea dei percettori transitati dai centri per l’impiego, quindi, è varia. Circa 328 mila persone, per esempio, già lavoravano quando hanno iniziato a prendere il Reddito. Cosiddetti “working poor”, occupati ma con guadagni tanto bassi da restare nei requisiti per l’aiuto statale, che dipende dalla situazione dell’intera famiglia, non quella individuale. Altri 549.633 avevano avuto almeno un rapporto di lavoro nei tre anni precedenti all’ingresso nel sussidio. Questi 878 mila costituiscono quindi la quota più “vicina” al mercato del lavoro, per loro la ricollocazione era meno complicata. Gli altri 930 mila sono quelli che non presentavano esperienze nel triennio precedente al primo accredito: molti di essi non hanno mai lavorato, ma sono comunque tenuti per legge ad attivarsi presso i centri per l’impiego. Quest’altra metà abbondante costituisce l’utenza più difficile, più lontana dal lavoro.

Circa 1,2 milioni di contratti sono stati firmati da persone dopo che hanno iniziato a prendere il sostegno. Di questi, 969 mila riguardano i più vicini al mercato del lavoro; gli altri 245 mila quelli più lontani. Si è riuscito a collocare il 45,9% dei più “facili” – si fa per dire – e il 15,4% dei più difficili. Ma non vuol dire che chi ha trovato un posto si sia “sistemato” e non sia più povero. La maggior parte è rimasta nel disagio economico perché il 63,3% dell’occupazione creata è precaria. Tra i contratti a tempo determinato, un terzo è durato meni di un mese e due terzi meno di tre mesi. Insomma, “contrattini” troppo deboli per permettere un’emancipazione.

In quali settori hanno trovato opportunità i beneficiari del Reddito? Ecco un altro sonoro ceffone ai luoghi comuni: il 22,5% dei rapporti è stato avviato nella logistica, un altro 20,1% nell’hotellerie e ristorazione, il 14,6% nell’agricoltura, il 18,7% nell’industria, edilizia compresa. Proprio i comparti che, soprattutto in estate, hanno lamentato carenza di manodopera incolpando i sussidi. Ecco perché questi dati, pure preziosi, arrivano fuori tempo massimo. Nel frattempo il piagnisteo delle imprese, fatto proprio da Matteo Salvini e Matteo Renzi, ha spinto il governo Draghi a prevedere criteri punitivi nella legge di bilancio. Inoltre, la manovra concede incentivi anche per assunzioni a termine dei percettori Rdc, con il rischio di spostare soldi nelle casse di aziende che quei contratti li avrebbero firmati comunque, dato che finora ne hanno già sottoscritti 975 mila a termine.

I numeri, in sintesi, non segnalano l’“effetto divano”, semmai l’esatto contrario: il tasso di occupazione dei beneficiari – anche dei più distanti dal mercato – cresce man mano che passa il tempo. In fase di ingresso della misura si attesta poco sotto il 18%, a sei mesi dall’inizio arriva al 22,7% e diventa il 23,2% al dodicesimo.

Sembra che la mediazione dei centri per l’impiego sia ancora poco incisiva: gli occupati risultano il 29% tra chi non ha ancora sottoscritto il patto per il lavoro e il 31,8% di chi lo ha sottoscritto. Numeri ancora troppo vicini. Considerando l’intera platea, i centri pubblici migliorano solo del 10% le possibilità di successo nella ricerca del lavoro. Ma il dato nazionale nasconde un grande divario territoriale: i centri aumentano le opportunità del 20% al Nord e appena del 2% al Sud. È incoraggiante però il fatto che l’incremento di probabilità arrivi al 23-35% al Nord e quasi al 20% al Sud se si considerano solo le categorie più lontane dal mercato del lavoro. Insomma, più l’utente è difficile da collocare, più diventa utile assisterlo tramite i centri per l’impiego.

Il dibattito pubblico è stato inquinato negli ultimi mesi dall’enorme esposizione mediatica del lamento interessato degli imprenditori. Ma i dati dimostrano il contrario: il Reddito di cittadinanza è stato un incentivo all’attivazione, non il contrario, e ha aiutato a trovare un posto a centinaia di migliaia di persone senza esperienze e con competenze poco spendibili. È successo in una fase in cui le aziende – già refrattarie a rivolgersi ai centri per l’impiego – hanno ridotto notevolmente le assunzioni, che secondo l’osservatorio Inps nel 2020 sono calate del 31% sul 2019.

Morandi, la Corte dei Conti stronca l’accordo tra Autostrade e ministero

Con Autostrade per l’Italia, lo Stato rischia di perderci due volte perché dopo la tragedia del Ponte Morandi non solo si accinge a sborsare fior di miliardi alla Atlantia della famiglia Benetton per comprare la concessionaria prima che il processo faccia chiarezza sulle sue responsabilità nel crollo. Ma rischia pure di essere esposto al pagamento dei risarcimenti dovuti in caso di condanna della stessa. Lo scrive la Corte dei Conti al ministro delle Infrastrutture, Enrico Giovannini, che aveva sottoposto alla magistratura contabile l’atto transattivo sottoscritto dal governo con Aspi per chiudere il contenzioso aperto dopo la tragedia, ricevendo come risposta una sonora bacchettata, per non dire una bocciatura.

Il collegio composto dai magistrati Ugo Montella, Marco Boncompagni e Franco Massi ha rimproverato il ministero non solo per una carenza documentale, riservandosi di dare il proprio giudizio solo quando “il provvedimento perverrà nella forma corretta e completo di tutta la necessaria documentazione”. Ma ha pure evidenziato, già a una prima ricognizione, le magagne più evidenti dell’accordo, che prelude all’ingresso dello Stato in Aspi, tramite la Cassa Depositi e Prestiti, rilevando le quote di Atlantia. L’affare sembra soprattutto dei Benetton. Ballano più di 8 miliardi (il valore che verrà pagato ad Aspi dal consorzio guidato da Cdp), ma nulla dimostra che “del costo della transazione (3,4 miliardi, ndr) si sia tenuto conto nella valorizzazione (in diminuzione) delle quote di Atlantia in Aspi”. Insomma, in assenza di questi elementi, è impossibile per la Corte “valutare l’equilibrio economico dell’Accordo e, di conseguenza, il rispetto del principio di economicità ”. Dal testo trasmesso da Giovannini infatti emerge la certezza degli oneri per lo Stato e la completa incertezza di quelli dell’azienda dei Benetton “soprattutto laddove fosse la stessa parte pubblica, acquirente delle quote di Aspi, ad assumere, di fatto, l’onere della transazione stessa”. Il che mette in discussione la stessa validità dell’atto “per difetto di causa e/o dell’oggetto, per insussistenza sostanziale di reciproche concessioni e, quindi, per violazione del canone generale di correttezza”.

La Cdc stigmatizza anche l’operato del ministero che prima ha chiesto e poi di fatto ignorato il parere reso a settembre dall’Avvocatura dello Stato, che aveva lanciato l’allarme sull’impatto dell’accordo per la possibile “decadenza” del concessionario. Sì, perché se Aspi perdesse la concessione a seguito dell’accertamento delle sue responsabilità nel processo di Genova, l’accordo “diverrebbe privo di causa” visto che “potrebbe rendersi applicabile la causa di esclusione obbligatoria prevista dal Codice dei contratti considerato che il dlgs 231 del 2001 prevede, tra l’altro, la pena accessoria dell’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione per il caso di omicidio colposo o lesioni gravi o gravissime commesse con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro”. E ancora: l’accordo con i Benetton è lasco pure sulle manleve legali per il Morandi, che pure “sembrerebbero necessarie al fine di scongiurare il rischio che debba essere il (futuro) cessionario pubblico delle quote a farsi carico di eventuali oneri risarcitori”.

“Il crollo del Morandi avrebbe dovuto imporre allo Stato un rigore esemplare nel punire chi, per avidità, ha consentito quella tragedia. Invece siamo di fronte ad accordi poco trasparenti tra chi ha la responsabilità del crollo e lo Stato. Ho presentato innumerevoli interrogazioni e chiesto il testo del contratto di vendita di Aspi, dell’accordo transattivo e del parere dell’Avvocatura: il ministero delle Infrastrutture non ha mai risposto e quando l’ha fatto ha negato di aver chiesto pareri all’Avvocatura”, è il commento del senatore di Alternativa Mattia Crucioli. “In un Paese normale, i vertici di un ministero che mente su una cosa come questa sarebbero costretti a dimettersi. Se poi mentissero per nascondere accordi lesivi per lo Stato, il loro operato sarebbe oggetto di attenzione da parte della magistratura. Vediamo se dopo la cura Draghi siamo ancora un Paese normale”, ha detto.

Manovra extraparlamentare. Il Senato inizia a votare solo ora

Sconvoca oggi, sconvoca domani, siamo arrivati al punto che ben oltre l’ora di cena del 20 dicembre il Parlamento non aveva ancora espresso il suo primo voto in commissione sul ddl Bilancio per il 2022: un record nella storia della Repubblica, che – statistiche a parte – racconta di una procedura largamente extraparlamentare, cioè di fatto illegittima, per la legge più importante dell’anno.

Una figuraccia per il ministro dell’Economia Daniele Franco, e per il premier Mario Draghi, che non è meno enorme per il silenzio con cui è stata accompagnata dai media e dai partiti, pronti in anni passati all’indignazione più vibrante per molto meno (abbiamo già raccontato nei giorni scorsi delle lacrime di Emma Bonino per il “Parlamento umiliato” nel 2018, dopo che il governo gialloverde fu costretto a cambiare i saldi della manovra a inizio dicembre dopo un inutile e dilettantesco braccio di ferro con Bruxelles).

Quel che si sa, al momento, è questo: ieri sera si tentava ancora di definire un testo, sperando di iniziare a votare gli emendamenti nella notte e andare avanti a oltranza. Il Bilancio, dunque, non sarà in Aula oggi, come deciso pochi giorni fa dai capigruppo: l’ipotesi più probabile è che ci arrivi tra mercoledì sera e giovedì 23 dicembre, quando sarà approvato col voto di fiducia. A quel punto la manovra passerà alla Camera, che dovrebbe dire il suo sì – senza discuterla, né poterla modificare, pena l’esercizio provvisorio – nei giorni tra il 27 e il 31 dicembre: è il terzo anno di fila che si arriva al via libera definitivo tra Natale e Capodanno, ma non era mai successo che la commissione iniziasse a votare così tardi, dopo estenuanti trattative al suo interno e col governo sugli emendamenti. Siamo ben oltre il vizio di sistema, già scandaloso, noto come “monocameralismo alternato”, in cui i decreti vengono esaminati da una sola Camera mentre l’altra si limita a ratificarli come gli arrivano: qui un pugno di senatori si limiterà a votare testi che avrà avuto appena il tempo di guardare (sperando non ci siano errori materiali o porcherie vere e proprie). Gli altri eletti del popolo diranno sì in coro. Punto.

È solo l’ultimo atto di una legge nata male. Per legge, il Bilancio dovrebbe arrivare in Parlamento entro il 20 ottobre, scadenza quasi mai rispettata. Il governo Draghi ha approvato la manovra in Consiglio dei ministri il 28 ottobre: un testo che, a stare alla bozza entrata in pre-Consiglio, contava 185 articoli ed è poi sparito per due settimane, ricomparendo in Senato l’11 novembre parecchio più pesante (218 articoli).

Dal 16 di novembre, il giorno in cui fu annunciata in Aula e mandato in commissione la manovra, non è successo nulla che non fosse teatro: le audizioni, i migliaia di emendamenti presentati, le trattative infinite. Ieri notte, a giornale chiuso, dovrebbe essere iniziata la maratona dei voti per salvare almeno la forma e poter dire di aver approvato se non altro un testo votato in commissione. È la prima manovra del governo Draghi: il suo iter lascia pensare che è plausibile sia l’ultima.

Sicilia, Fava in campo per le Regionali 2022

Sono trei candidati alle elezioni regionali in Sicilia previste per l’autunno 2022. Dopo il governatore Nello Musumeci e il sindaco di Messina Cateno De Luca scende in campo anche Claudio Fava. “Mi candido, senza giri di parole – ha spiegato il presidente della Commissione Antimafia regionale in un video su Facebook – Mi candido per vincere e per governare. Perché questa terra per essere cambiata deve essere governata e bisogna assumersi la responsabilità del cambiamento. Attraverso le primarie, se ci saranno, per rappresentare le forze politiche e democratiche, le esperienze di civismo importanti che abbiamo conosciuto in questi anni”. Fava aveva corso e perso contro Musumeci nel novembre 2017.