Incendio di Notre-Dame, sotto accusa gli ascensori montati per il restauro

Potrebbe essere stato un cortocircuito a devastare Notre-Dame. Una trentina di tecnici che lavoravano sul cantiere di restauro della guglia sono stati interrogati dagli inquirenti e l’impalcatura di 500 tonnellate montata sul fianco della chiesa è sotto accusa. In particolare, come ha detto una fonte della polizia a Le Parisien, lo sono i due ascensori che erano stati installati per raggiungere il tetto, uno per salire a 24 metri, l’altro a 54 metri. Un terzo doveva essere installato a breve per raggiungere la punta della guglia, a 95 metri. Sul cantiere lavoravano quattro aziende. Ieri i dirigenti della Le Bras Frères, che ha montato l’impalcatura, hanno assicurato in un comunicato che le “procedure sono state rispettate” e che “nessun lavoro di saldatura” era stato effettuato.

L’ultimo operaio ha “lasciato il cantiere alle 17.30” e a ha “tolto l’elettricità”. L’inchiesta prenderà molto tempo. Sessanta pompieri restano al lavoro, stanno mettendo in sicurezza gli elementi architettonici ancora fragili. Il rischio non è del tutto superato. I frontoni, che non poggiano più sul tetto, rischiano di crollare al minimo soffio del vento. Alcune statue che li appesantivano sono state ritirate. C’è da trasferire le ultime opere d’arte che restano nella chiesa e anche da tenere sotto controllo i rimanenti punti critici.

“Più il tempo passa e meno rischi ci sono che il fuoco riparta”, ha assicurato Gabriel Plus, portavoce dei pompieri di Parigi. Bisognerà presto smontare l’impalcatura che si è “deformata con le fiamme” e rischia di cedere e installare un “ombrello” per proteggere la chiesa, oggi a cielo aperto, dalle intemperie. Non è ancora chiaro quando il cantiere di ricostruzione potrà prendere il via, ma Emmanuel Macron vuole fare in fretta. Ha promesso di ricostruire Notre-Dame in 5 anni e per accelerare i tempi ha riunito ieri diversi esperti per porre le basi della ricostruzione. Il primo ministro Edouard Philippe ha annunciato che un progetto di legge sarà lanciato sin dalla settimana prossima per regolamentare la raccolta dei doni e un comitato ad hoc garantirà la “trasparenza” della gestione dei fondi. “Ogni euro versato per la ricostruzione di Notre Dame servirà a questo e non ad altro” ha detto. Per favorire le donazioni sono stati previsti sgravi fiscali: del 75% fino a 1.000 euro e del 66% al di sopra dei 1.000 euro. Lo Stato ha bisogno dei privati. La cattedrale non era assicurata. È una vecchia disposizione che risale alla fine del XIX secolo e che, sulla base del rapporto costi-benefici, permette allo Stato di “auto-finanziare” i suoi monumenti. Sono dunque la Francia e i francesi a doversi fare carico della spesa della ricostruzione. Le assicurazioni saranno chiamate a intervenire solo se l’inchiesta individuerà la responsabilità delle imprese coinvolte nel restauro. La gara di solidarietà che è partita sin dalla sera del rogo ha permesso già di raccogliere quasi un miliardo di euro. I grandi imprenditori di Francia hanno promesso milioni e più di 140 sono già stati raccolti dalla colletta della Fondation du Patrimoine. Ma è anche scoppiata la polemica. Ieri il leader della France Insoumise, Jean-Luc Mélenchon, che ha sospeso la campagna per le elezioni europee come gli altri esponenti politici, ha accusato i grandi gruppi di montare “una campagna di comunicazione” sul disastro. “Che qualcuno sia in grido di sbloccare 100 milioni di euro in un clic, mostra quanto sono profonde le disuguaglianze nel paese”, ha detto Philippe Martinez, segretario del sindacato CGT. La polemica cresce sul web anche dopo che il gilet giallo Ingrid Levavasseur ha accusato i grandi gruppi imprenditoriali di mobilitarsi per Notre-Dame ma di restare “inerti di fronte alla miseria sociale”. Per tenersi fuori la famiglia Pinault, che dona 100 milioni di euro, ha rinunciato ai vantaggi fiscali.

Un’altra polemica accompagna il cantiere di ricostruzione: cinque anni saranno sufficienti? La sindaca Anne Hidalgo, appoggia Macron: nel 2024 Parigi accoglierà le Olimpiadi e l’evento sportivo è una scadenza importante per la città poiché, stando a uno studio del 2016, potrebbe fruttare più di 10 miliardi di euro. È meno ottimista l’Unesco: “La fase di ispezione non è neanche finita, è prematuro fare previsioni”, ha spiegato Ernesto Ottone, vice-direttore Cultura dell’agenzia Onu. C’è chi teme la fretta. Alcuni specialisti ritengono che il cantiere non potrà durare meno di 10-15 anni. Ma per alcuni architetti la sfida è possibile. Per Jean-Michel Wilmotte, 5 anni bastano “se si usano materiali e tecniche moderne”. E per Stéphan Bern, il giornalista tv a cui Macron ha affidato alcuni mesi fa una missione di salvataggio del patrimonio storico francese, e che ieri era presente alla riunione all’Eliseo: “Velocità non vuol dire precipitazione”. Resta la questione di come ricostruire la cattedrale. Il premier Philippe ha annunciato il lancio di un concorso internazionale di architettura per la ricostruzione della guglia, che aveva fatto costruire Eugène Viollet-le-Duc nel 1859. “L’obiettivo – ha detto Philippe – sarà stabilire se e come bisognerà ricostruire la guglia: identica alla precedente o adatta alle tecniche e alle sfide della nostra epoca”.

Bombe sul dialogo, Sarraj tira in ballo l’aiuto di Roma

L a notte scorsa è stata un incubo per gli abitanti di Tripoli. Una gragnola di missili Grad, di fabbricazione sovietica, si è abbattuta sui quartieri civili, il particolare su quello di Abu Slim nel centro della capitale, e i due arcinemici, il governo del primo ministro Hafez al Sarraj e l’esercito Nazionale Libico del generale Khalifa Haftar, si sono accusati vicendevolmente della carneficina: poco meno di 200 morti. Naturalmente le due parti negano qualunque responsabilità, ma il premier è andato oltre: ha annunciato di avere prove schiaccianti sulle responsabilità del suo avversario che deferirà alla Corte Penale Internazionale per crimini contro l’umanità.

Haftar invece accusa le milizie “islamiste per convenienza” (cioè quando fa a loro comodo) del gruppo Aghnewat, di Misurata, pagate dal governo, che in passato si sono macchiate di parecchi crimini, compreso i sequestri di persona. Guerra di nervi e di comunicati che, se mai ce ne fosse bisogno, gettano ancor più confusione nel teatro libico. L’ultimo atto l’ha compiuto il portavoce di Sarraj, colonnello Mohammed Qnounou. Durante una conferenza stampa l’ufficiale ha annunciato che l’aeronautica governativa ha colpito le retrovie di Haftar e i convogli incaricati di provvedere al trasporto dei suoi rifornimenti. Ma si è lasciato sfuggire una battuta: “Abbiamo monitorato tutto con i satelliti”. Qualcuno, sapendo che la Libia non possiede satelliti, gli ha chiesto chi avesse mai messo a disposizione quegli strumenti di guerra: “Segreto di Stato – ha risposto. Aggiungendo però – sappiate che abbiamo ottimi rapporti con il governo e con i militari italiani”. Altro messaggio subliminale a Roma? Ghassan Salamé, l’inviato speciale dell’Onu in Libia, ha condannato la strage di civili senza però attribuire colpe e cause. Così la sua dichiarazione è comparsa su diversi siti, forzata da titoli fuorvianti che invece hanno letto nelle parole di Salamé attribuzioni di responsabilità all’uno o all’altro dei contendenti. Anche sul raid con i missili dell’altra notte ci sono stati, come accennato qui su, scambi di accuse. La televisione filo governativa Panorama ha mandato in onda e messo sulla sua pagina web alcuni filmati di distruzione e morte, sostenendo che erano stati girati nel rione di Abu Slim. Lo stringer del Fatto Quotidiano, cui è stato chiesto un parere, ha controllato e scoperto che si tratta di alcune sequenze girate nel 2015 in Yemen. Quello che invece è stato possibile appurare e che l’attacco ai civili è stato un errore di tiro perché il quartiere si trova nel bel mezzo delle linee di combattimento: i missili dovevano colpire gli avversari, invece hanno sbagliato obiettivo.

Il fallimento della diplomazia è sotto gli occhi di tutti. Salamé si sgola chiedendo una tregua che nessuno vuole accettare (è stata respinta anche quella di due ore chiesta congiuntamente con la Croce Rossa, per soccorrere i civili intrappolati tra le macerie dei palazzi bombardati) mentre proseguono frenetici i colloqui tra i Paesi interessati.

Non è un mistero che i fondamentalisti si siano schierati dalla parte di Sarraj e che Haftar abbia scatenato l’attuale offensiva, cominciata il 4 aprile, annunciandola proprio come volontà precisa di cacciare i terroristi dalla capitale. Ma se si dà un’occhiata agli schieramenti in campo, si rimane sorpresi e perplessi dal groviglio di interessi e dall’intreccio di alleanze.

Dietro Sarraj, oltre ai gruppi integralisti, troviamo Gran Bretagna (la banca centrale libica è gestita da società londinesi), il Qatar (accusato in Siria di fiancheggiare il terrorismo), gli Stati Uniti (che hanno lanciato quelle accuse rivelando finanziamenti e conti correnti), la Turchia (il governo Erdogan è molto “aperto” verso gli islamici), l’Italia e Onu. Dietro Haftar oltre all’Egitto (Paese arabo numero 1 contro il terrorismo), Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti (che hanno finanziato il governo di Bengasi mettendo a disposizione i loro titoli di Stato e arcinemici del Qatar), Russia (il terrorismo islamico è forte in quel Paese e almeno 4 mila ceceni combattono con Isis in Siria) e infine Francia (che ha grossi problemi con le formazioni jihadiste in Ciad e in Mali). Ieri il ministro degli Esteri francese, Jean-Yves Le Drian, nel corso di un colloquio telefonico avuto con il rappresentante speciale Onu per la Libia, Ghassan Salamé, ha ricordato “l’imperativo di un cessate il fuoco” e di una ripresa immediata del dialogo, “in vista di rilanciare un processo politico credibile”.

I militari lo scrivono chiaro: no alle ingerenze di Salvini

Matteo Salvini fa infuriare i vertici militari, anche se fa finta di non accorgersene. Lo dimostra la nota, alquanto inusuale, dello Stato maggiore della Difesa: “Alla luce delle notizie stampa emerse in queste ore, lo Stato maggiore della Difesa evidenzia che le Forze Armate sono uno strumento tecnico operativo al servizio del Paese e che ogni attività viene pertanto svolta in aderenza alle indicazioni politiche e secondo la prevista linea gerarchica”. Elementi di fedeltà costituzionale, ma anche un riferimento esplicito a una “linea gerarchica” che riconduce al capo dello Stato e al ministero della Difesa. Non certo al ministero degli Interni. Il quale deve aver sottovalutato la portata del problema quando ha diramato alle forze di sicurezza, Carabinieri, Guardia di Finanza e Polizia una “direttiva” indirizzata anche al Comando della Marina e, sia pure “per conoscenza”, allo Stato maggiore. I quali si sono visti recapitare la richiesta di “vigilare” sull’attività nel mare Mediterraneo della nave Jonio al servizio della Ong Mediterranea. Un po’ troppo.

Salvini, però, fa finta di niente: “Mai avuto un problema con i vertici militari, li ho sentiti anche oggi, io lavoro quotidianamente nel rispetto di tutti”, ha dichiarato a margine di un question time.

La polemica riguarda i porti italiani in presenza di una possibile crisi umanitaria in Libia. Salvini ha ribadito che rimarranno “sigillati”. La ministra della Difesa, Elisabetta Trenta, aveva definito “vaneggiamenti” certe posizioni sulla chiusura dei porti. Trenta e Salvini ieri hanno evitato qualsiasi incontro alla Camera, segno di una distanza ostentata. La ministra, però, rispondendo a una interrogazione parlamentare è stata molto netta nel negare possibili interventi militari dell’Italia. Posizione che il premier Conte ha riferito a Donald Trump, ricevendo un attestato di “stima e fiducia”. Un appoggio che verrà utilizzato sia nell’opera di mediazione con i libici sia nei confronti dei partner europei. Per avere davvero un ruolo, però, Conte deve ottenere risultati concreti. Che per il momento non ci sono.

Antitrust, via libera a nomina di Rustichelli Ma il Csm si spacca

Il plenum del Consiglio superiore della magistratura ha concesso a maggioranza (12 si, 6 no e 5 astensioni) il collocamento fuori ruolo a Roberto Rustichelli, presidente di sezione al tribunale delle imprese di Napoli, nominato dai presidenti di Camera e Senato presidente dell’Antitrust, nonostante avesse superato il tetto indicato dalla legge Severino. La motivazione: la 190/2012, che ha stabilito un tetto massimo di 10 anni per il collocamento fuori ruolo dei magistrati, non ha abrogato le norme precedenti sui pubblici dipendenti che non prevedevano un simile limite per i giudici costituzionali e per i componenti delle autorità indipendenti. A votare questa tesi i 10 togati di Magistratura Indipendente e di Unicost, il presidente della Cassazione Giovanni Mammone (MI) e i due laici di Forza Italia Michele Cerabona e Alessio Lanzi. Si sono astenuti i laici di M5s (Benedetti e Donati, Gigliotti era assente) e della Lega (Cavanna e Basile) e il procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio. Contrari i 4 togati di Area, Giovanni Zaccaro, Giuseppe Cascini, Mario Suriano e Alessandra dal Moro e i due consiglieri di Autonomia e Indipendenza, Sebastiano Ardita e Piercamillo Davigo.

L’ultima di Renzi: c’è una querela pronta per tutti

Da Piero Pelù a Marco Travaglio, passando per lo chef Vissani, la giornalista Costanza Mariano, e lo stesso Fatto Quotidiano: Matteo Renzi ha una querela per ciascuno. Lo annuncia egli stesso ieri, nella sua enews: parla di dieci atti formalmente predisposti contro i soggetti sopracitati, a cui si aggiungono la giornalista D’Eusanio, per averlo insultato in Tv; il ministro Trenta e la senatrice Lupo, per le dichiarazioni sull’aereo di Stato; Il Corriere di Caserta per un editoriale ancora sull’aereo di Stato e Panorama, sulla vicenda Paita – alluvione di Genova. L’ex premier conclude la lista con “chi l’ha accusato di essere un ladro per la vicenda delle banche”.

“Avevo promesso di iniziare a chiedere i danni per le infamie che ho ricevuto in questi anni. E vi avevo garantito che vi avrei tenuti informati”, aggiunge Matteo Renzi. I soggetti chiamati in causa rispondono all’annuncio: “Che dirle, a volte ritornano. Se è nostalgico del suo aereo mi dispiace…” ribatte il ministro della Difesa Elisabetta Trenta, e a lei si aggiunge Vissani: “Mi dispiace che Renzi abbia capito male. Era un modo di dire”.

L’ira dei big per le “primarie”. Così Carfagna è rimasta fuori

Forza Italia alla fine imbarca anche due alfaniani. Si vede che il rinnovato rapporto tra Silvio Berlusconi e Angelino Alfano (raccontato sul Fatto qualche giorno fa) ha dato i suoi frutti. E sono due figure non di secondo piano: Valentina Castaldini, ex portavoce di Ncd, è candidata per gli azzurri nel collegio nord est, e Mauro Parolini, ex consigliere regionale lombardo dei centristi, presentato nel nord ovest. La bolognese Castaldini per un periodo è stato il volto del partito alfaniano nelle trasmissioni televisive, molto invitata a ogni ora del palinsesto, da Agorà a Porta a porta. Poi il suo nome era finito nel dimenticatoio, e ora eccola riapparire. Poi ci sono tutti i nomi di cui si è parlato nei giorni scorsi, da Alessandra Mussolini a Irene Pivetti, da Giusy Versace a Piero Tatarella. Altra new entry è Anna Maria Costanza Rozzi, figlia dell’ex presidente dell’Ascoli, Costantino Rozzi.

A mancare, però, è il nome più pesante, quello di Mara Carfagna, che per 48 ore ha terremotato il vertice di Forza Italia. Alla fine la vicepresidente della Camera, dopo una telefonata con Berlusconi, ha deciso di non presentarsi, ma ormai il dado è tratto: con questa mossa Carfagna ha svelato le carte facendo capire a tutti di ambire alla leadership del partito, di puntare al timone e a essere la vice Berlusconi, scalzando Antonio Tajani.

La vicenda, però, è complessa e va raccontata dall’inizio. Un paio di mesi, con i sondaggi a picco, in Forza Italia si era presa in considerazione l’ipotesi di candidare i big, con l’obbiettivo di recuperare voti. Gelmini, Bernini, Carfagna, Toti, Tajani, Gasparri, Romani, ecc..: tutti in lista a tirare la carretta. Chiaro, però, che un’eventualità del genere, col voto di preferenza, si sarebbe trasformata in una sorta di primarie del partito, mettendo in difficoltà proprio Tajani e Berlusconi. I più entusiasti all’idea erano Toti e Carfagna. Poi l’ex premier, proprio per evitare una guerra fratricida e un ulteriore indebolimento del già sbiadito Tajani (che però gode della sua assoluta fiducia, oltre a essere la chiave d’accesso alle istituzioni europee), ci ha ripensato: niente big in lista.

La cosa sembrava finita lì. E invece l’ipotesi è continuata a ronzare nella testa di alcuni, tra cui Carfagna che, non è un mistero, da tempo si muove, e parla, da leader. Così martedì, a poche ore dalla chiusura delle liste, l’ex ministra ha tentato il blitz: due suoi fedelissimi (Paolo Russo e Roberto Occhiuto) l’hanno invitata a candidarsi e lei non si è tirata indietro. “I colleghi mi chiedono di metterci la faccia e io, se il partito lo ritiene utile, sono a disposizione”, la sua risposta. Da quel momento Forza Italia è impazzita come una maionese. “Come? Mara si candida? Ma questo è un golpe a Berlusconi bello e buono!”, la reazione dei peones.

Tanto più che lei, all’ufficio di presidenza della settimana scorsa, dove si parlava di liste, non si era vista. L’iniziativa nel partito azzurro è suonata come un’opa ostile a Tajani, ma pure allo stesso leader, tenuto all’oscuro. “Se Mara prende più voti di Tajani, la nuova leader è lei e tanti saluti ad Antonio…”, si sussurrava tra gli azzurri in Transatlantico.

Un vero e proprio blitz, che ha fatto immediatamente alzare il muro del cerchio magico berlusconiano, a partire da Licia Ronzulli, capofila dell’ala salviniana del partito. L’eventuale successo di Carfagna, infatti, porterebbe il timone nelle mani degli anti-salviniani, l’ala meridionalista del partito, che non vuole correre dietro alla Lega, di cui Mara è punto di riferimento.

Sorpreso e sotto pressione, alla fine Berlusconi ha stoppato il blitz: il leader per ora non ha intenzione di sfiduciare Tajani e tanto meno di rompere definitivamente con Salvini. E l’ex ministra ha fatto un passo indietro. “Avevo dato la mia disponibilità a candidarmi due mesi fa. Non sono candidata ma sarò in prima linea. Chi ha pensato che il nostro partito fosse in svendita dovrà ricredersi”, ha detto ieri Carfagna. Respiro di sollievo da parte di tutti. Ma la guerra è appena cominciata.

 

 

 

 

Salvini in piazza risponde ai fischi: “Avete rotto le palle”

“Avete rotto le palle, la mamma e il papà lo sanno che hanno dei figli maleducati?”. Matteo Salvini, ieri a Perugia dopo le dimissioni della governatrice Catiuscia Marini, risponde così a chi lo ha accolto in piazza tra fischi e cori. “Io difendo i comunisti – ha detto il ministro dell’Interno – come specie in via di estinzione, come i panda e l’orso bruno, vanno difesi, sono pochi e simpatici. Quando approvavano la Fornero erano nei centri sociali a farsi due canne”. Dopo aver salutato “l’ex governatrice Marini che ha finito di fare danni”, Salvini ha dato il via alla campagna elettorale: “Spero che si voti il prima possibile” e ha annunciato la propria candidata: la senatrice Donatella Tesei, sindaco di Montefalco e presidente della Commissione difesa. “Ha fatto molto bene da sindaco e può fare bene come governatrice”, ha detto. “Siamo qui – ha continuato – non perché facciamo i giudici o i magistrati, loro faranno le loro indagini, ma l’Umbria merita un’amministrazione diversa perché da decenni la sinistra sta massacrando questa terra. L’Umbria si merita una sanità con liste di attesa normali, un sistema di trasporti che permetta di arrivare in Umbria. La prossima Regione dovrà investire in strade, autostrade, ferrovie”.

Intercettazioni e incontri: perché è finita sotto inchiesta

La ormai ex governatrice della Regione Umbria, Catiuscia Marini, è accusata dalla Procura di Perugia di abuso d’ufficio, falsità ideologica e materiale e rivelazione di segreto d’ufficio. Secondo le accuse avrebbe “segnalato” una persona, Anna C. nel concorso per assistenti amministrativi categoria C. In mano i pm hanno le intercettazioni captate dal trojan nel frattempo installato sul cellulare di Emilio Duca, l’ex direttore generale dell’azienda ospedaliera di Perugia, ora ai domiciliari. È lui l’uomo al quale la politica, secondo le accuse, si rivolgeva per piazzare i propri raccomandati.

Le intercettazioni.La Marini viene intercettata il 10 maggio 2018 quando Duca va in Regione per incontrarla. Per i pm quel giorno l’ex direttore generale consegna alla Marini le tracce d’esame. La voce della governatrice viene registrata mentre dice al suo segretario Valentino Valentini “di mettere le tracce della prova scritta in una busta e di portarle alla ‘Marisa, quella della Lega Coop’, così da farle avere” ad Anna C, come scrivono i pm. Ecco la conversazione: “Valentì! (…) Te l’ho detto della Marisa? (…) quella della coop (…) le devi portare sta cosa (…) mettetelo in una busta”. Poi però la Marini “concorda con Valentini che avrebbe avvisato la ‘Marisa’ di passare da quest’ultimo”. Così la governatrice chiama tale Marisa e “chiede alla stessa di passare in Regione ‘un minuto’ e cercare ‘Valentini della Segreteria’”. Poi la Marini torna da Duca e insieme “controllano il titolo di studio” di Anna C.. Il manager la tranquillizza: “C’ha 5 giorni di tempo (…) perlomeno, fa lo scritto”.

Cancellare gli sms. Quel giorno, Duca – scrivono i pm – “si lamenta con la Presidente di non riuscire a cancellare dal proprio telefono un messaggio ricevuto, al che la Marini sembra preoccupata di sapere cosa c’è scritto e cerca di aiutarlo nella sua eliminazione”. Dice la Marini: “(…) Leggono il whatsapp, leggono tutto dal remoto”.

L’ex fiorettista finiana candidata dem

Nicola Zingaretti vuole un Pd “da Tsipras a Macron”, ma a giudicare dal curriculum di alcuni candidati alle elezioni europee i confini potrebbero essere ancora più larghi.

Prendiamo Olimpia Troili, giovane e dinamica attivista romana (di Rocca di Papa): ha 32 anni e già una lunga traiettoria politica, partita da molto lontano: quando ne aveva 26 era una militante di Futuro e Libertà, il micro partito fondato da Gianfranco Fini dopo la rottura con Berlusconi e la fuoriuscita dal Pdl. Dalla destra post missina al Pd guidato da un ex comunista, Olimpia ha attraversato l’intero spettro costituzionale.

La candidatura per Strasburgo è l’ultimo passaggio di una biografia precoce ed eclettica (che comprende peraltro un blog sul sito del Fatto Quotidiano). Oggi Troili vanta due lauree (in Filosofia e in Cooperazione internazionale), una carriera da atleta delle Fiamme Gialle e discreti successi agonistici nella scherma (disciplina fioretto), la presidenza di una non illustrissima associazione europeista e federalista (Alternativa europea, meno di 500 “followers” su Facebook), l’attivismo a più livelli nella vasta galassia zingarettiana della regione Lazio.

L’ex finiana infatti ha messo da parte quasi subito gli entusiasmi e la militanza conservatrice per dedicarsi alla causa del futuro governatore. A traghettarla dalle secche di Futuro e Libertà alle limpide acque del centrosinistra è stato Michele Baldi, figura altrettanto eccentrica della politica capitolina. Pure lui partito da destra, (con amicizie anche in quella estrema, si legga alla voce “Mario Corsi”, ex Nar – nuclei armati rivoluzionari – e capopopolo delle radio romaniste), capogruppo di Forza Italia a Palazzo Senatorio nel 2008, all’inizio della drammatica parentesi di Gianni Alemanno, poi diventato braccio destro di Zingaretti e (ancora) capogruppo della lista civica che ha accompagnato la sua elezione nel 2013. Aggrappata a Baldi, insomma, la Troili si è ritagliata un posticino negli uffici della Regione alla Pisana e si è scoperta progressista, europeista, in una parola: democratica.

Il resto l’ha fatto il suo carattere estroverso. Lo stesso che ha ispirato la ricca galleria di selfie in pose audaci sul suo profilo Facebook (i giornali di destra ci sguazzano e l’hanno già ribattezzata “la sexy candidata del Pd”). E lo stesso che nel 2016, a un mese dal referendum costituzionale che ha di fatto chiuso la carriera di Matteo Renzi, le ha dato il coraggio di avvicinare Diego Armando Maradona – incrociato per caso nella sua palestra a Roma – e arruolare l’inconsapevole Pibe de oro nella campagna a favore della riforma Boschi. Ai tempi Olimpia militava nei “Giovani giuristi per il Sì”, pur non essendo giurista. Lo scambio fu notevole: “Diego ti chiedo solo una cosa”, “Sì?”, “Basta un sì?”, “Basta un sì!”, “Grazie Diego”. Non bastò.

La Marini attacca Zinga: “Il Pd ora è giustizialista”

“Il Pd è malato di giustizialismo”. L’accusa (perché di un’accusa si tratta) arriva da Catiuscia Marini, che il giorno dopo le dimissioni alle quali è stata portata, se non costretta, da Nicola Zingaretti, parla dalla mattina alla sera. Lancia accuse, messaggi cifrati, avvertimenti. “Sono l’unica presidente di Regione donna del Pd. Altri presidenti del mio partito sono indagati, ma solo a me viene chiesto un gesto di responsabilità”, dice. Poi, contraddicendosi in parte: “Fermo restando che nessuno mi ha chiesto di dimettermi e che la scelta è avvenuta in totale autonomia, faccio fatica a comprendere perché il segretario a me che sono donna chiede di essere responsabile, mentre non lo fa con i presidenti uomini”.

Sotto accusa, tra gli antizingarettiani, finiscono anche le parole di Paola De Micheli (che proprio ieri è stata nominata vice segretaria Pd, insieme ad Andrea Orlando), pronunciate praticamente in contemporanea con le dimissioni: “Caro Di Maio vergognati tu. Parli di Zingaretti e delle dimissioni della Marini, che ci sono state, mentre hai aspettato tre anni sulle inchieste e sui processi della Raggi senza fare nulla”. Ma lei ci tiene a chiarire: “Sono garantista sempre”.

Matteo Orfini, che del Pd è stato Presidente ed è il primo sponsor della Marini, non ha troppa voglia di parlare. “Non mi occupo di Umbria”, dice (un ritornello che i big dem hanno ripetuto in questi giorni, a scanso di prese di posizione scomode). Però, qualcosa la dice: “Io se fossi stato Zingaretti, non mi sarei comportato così. La Marini è solo indagata, e per concorso in abuso d’ufficio”. Eppure, fu lui a far dimettere Ignazio Marino. “Ma non per l’inchiesta. Per il malgoverno di Roma”, la versione ufficiale. “Non vorrei diventare la Marino di Zingaretti”, ha detto però la Governatrice.

Insomma, di vera svolta giustizialista si tratta? Alla Camera, in più di un esponente dem ricorda quegli altri governatori indagati di cui parlava la Marini. Prima di tutto, il presidente della Regione Calabria, Mario Oliverio (per il quale è appena arrivato l’avviso di chiusura indagini), che è indagato per corruzione e che in un primo momento aveva avuto anche l’obbligo di dimora. E lo stesso Zingaretti è indagato per finanziamento illecito.

La categoria, dunque, resta quella dell’“opportunità politica”. Nei confronti della Marini, quello che ha portato alla pressione di Zingaretti sono state le intercettazioni pubblicate dai giornali. Un rischio, a poco più di un mese dalle Europee. D’altra parte, è un vecchio metodo nel Pd. Proprio prima delle Europee del 2014 l’allora segretario-premier, Matteo Renzi, diede ai suoi deputati l’indicazione di votare per l’arresto di Francantonio Genovese. Molti dem in quel caso si dissero a disagio per la “deriva giustizialista”. Ma in realtà, Renzi negli anni usò garantismo e giustizialismo in maniera alternata, a seconda dell’opportunità politica e del livello di vicinanza, rispetto alla persona coinvolta.

Sembra lo stesso tipo di film. Su Oliverio, Zingaretti non interviene, perché “i casi sono diversi”, ed “è una storia che va avanti da mesi”, dicono i suoi. E il Commissario dell’Umbria, Walter Verini: “Il Pd non è giustizialista. Oliverio? È stato eletto dai cittadini”. E poi: “Il giustizialismo non va più di moda. I Cinque stelle lo sono solo verso gli avversari. Salvini è fuggito dal processo con la loro complicità: così si sono venduti l’anima”.

Nel frattempo, la scelta di Orlando e De Micheli come vice segretari fa parte del tentativo del segretario di blindare il partito, mentre i gruppi parlamentari sono ancora guidati da uomini scelti dalla gestione Renzi.

Intanto, si pensa alle elezioni in Umbria. Una volta che le dimissioni saranno ratificate dall’Assemblea, scatteranno i 90 giorni per il voto. Si arriverà a ridosso dell’estate e dunque la data più probabile per il voto resta l’autunno. Magari insieme all’Emilia Romagna.