L’ex fedelissimo di Casaleggio adesso corre con l’Alde (insieme a Pizzarotti)

Un tempo uomo di fiducia di Casaleggio in Europa, David Borrelli sceglie il gruppo Alde. L’adesione arriva nell’ultimo giorno utile della legislatura, dato che proprio oggi l’Europarlamento viene sciolto in vista delle elezioni di fine maggio e prepara la sua candidatura con +Europa, che proprio alla famiglia liberale aderisce. Imprenditore informatico, 47 anni, inizia da grillino come consigliere nella sua Treviso. A Strasburgo arriva nel 2014, guidando per due anni e mezzo il gruppo parlamentare Efdd insieme a Nigel Farage. Nel 2017 guida il fallito tentativo di portare i 5 Stelle dall’alleanza con gli euroscettici a quella con il super-europeista Guy Verhofstadt, leader appunto dell’Alde. All’inizio del 2018, l’uscita improvvisa dalla delegazione grillina alimenta le voci di un dissidio con Davide Casaleggio, che comunque il deputato veneto ha sempre smentito. Da allora, Borrelli ha continuato la sua attività parlamentare tra i non-iscritti: “Mi sono sempre occupato di impresa, commercio, mercato e credo in un liberalismo moderno”, chiarisce riguardo al suo passaggio e alla sua candidatura. Certo, il salto da Farage a Verhofstadt è notevole. “Però noi non eravamo contro l’Europa, volevamo cambiarla”, spiega. Curiosa parabola, quella dell’ex fedelissimo di Casaleggio. Oggi si ritrova in lista, a combattere per un seggio, insieme al primo e più illustre dei fuoriusciti M5S: il sindaco di Parma Federico Pizzarotti, anche lui in corsa con il partito di Emma Bonino.

L’attesa al buio del reddito di cittadinanza: “Ci serve per campare ma punto al lavoro”

La raffica di messaggi con le risposte alle domande di reddito di cittadinanza è partita ormai da tre giorni, ma buona parte di chi ha ricevuto l’esito positivo ancora non sa quanto prenderà ogni mese. Per il momento, solo quelli che hanno un profilo sul sito dell’Inps o un’identità digitale (Spid) possono scoprire quale importo è stato riconosciuto; tutti gli altri dovranno invece aspettare di essere convocati da Poste per la consegna della card di pagamento e in quell’occasione conosceranno l’entità del loro assegno.

Il testo degli sms è molto scarno: “Gentile utente la domanda Rdc/Pdc è stata accolta. A breve riceverà comunicazione per il ritiro della carta presso gli uffici postali”. Parole che da un lato avranno strappato un sospiro di sollievo, ma dall’altro hanno fatto iniziare una nuova attesa al buio. Quantomeno per tutti quelli che non hanno in passato richiesto il Pin per i servizi online dell’Inps o non si sono dotati di un’identità digitale. Se anche in questo caso sarà rispettato il crono-programma, si tratterà comunque di aspettare solo qualche giorno.

Secondo gli ultimi aggiornamenti, le domande accettate sono circa 500 mila. Considerando che ognuna di esse è riferita a un nucleo famigliare, si può stimare che a maggio i percettori italiani del reddito di cittadinanza supereranno abbondantemente il milione.

Tra questi c’è Mario, nome di fantasia, che ha presentato il modulo in un centro di assistenza fiscale Cisl della periferia di Roma il 6 marzo – prima data utile – e martedì mattina ha letto quelle parole sul display del telefono. Ora però vorrebbe capire a quanto ammonta il beneficio. Lui ha fatto i calcoli e si aspetta quello pieno: “La mia famiglia – racconta – ha zero come Isee (l’indicatore della situazione economica, ndr). Non abbiamo redditi e viviamo in una casa in affitto. Le nostre due bambine hanno lievi problemi disabilità”. Stando alle legge, dovrebbero quindi arrivare 1.180 euro al mese. “In questo momento ne abbiamo bisogno per campare – aggiunge – ma il mio vero obiettivo è che mi trovino un lavoro”.

Le difficoltà della famiglia di Mario sono iniziate circa quattro anni fa, quando è rimasto disoccupato. “Ho lavorato per anni in una grande azienda, poi nel 2006 ho aperto la partita Iva e ho iniziato a fare l’agente di commercio. All’inizio andava bene, poi è calato il fatturato e i costi sono diventati più alti dei guadagni. Ho dovuto chiuderla”. Nel 2015, quindi, ha perso il lavoro a 44 anni e la ricollocazione si è rivelata molto complicata: “Ho avuto un paio di esperienze brevi, ho riaperto la partita Iva per qualche mese, ma ho chiuso la seconda volta. Mi sono arrangiato con cose saltuarie, come per esempio traslochi”. Essendo stato un libero professionista, non ha mai avuto diritto a sussidi di disoccupazione o ammortizzatori sociali. “Ho pagato tanti contributi all’Enasarco (l’ente per gli agenti e i rappresentanti di commercio, ndr), ma questo non mi ha permesso di accedere alla Naspi, che è uno strumento riservato a chi è stato lavoratore dipendente”. Per Mario le “visite” presso i centri per l’impiego non rappresenteranno una novità: li ha frequentati assiduamente in questi anni, ma non ha mai ricevuto alcuna offerta di lavoro.

Solo recentemente ha partecipato a un bando per operatori ambientali, ma è stato escluso ed è pronto a presentare un ricorso. Il reddito di cittadinanza non sarà il suo primo aiuto pubblico: negli scorsi anni ha ricevuto il Sostegno all’inclusione attiva (Sia) mentre negli ultimi sei mesi è riuscito a ottenere 460 euro al mese grazie al Reddito di inclusione (Rei), la misura introdotta a inizio 2018 dal governo Gentiloni. Questi, insieme al welfare famigliare, cioè l’aiuto economico dei suoi genitori, gli hanno dato una mano. Il reddito di cittadinanza gli concederà nuova serenità, ma la speranza è di averne bisogno il minor tempo possibile.

L’europarlamento chiude con il bavaglio ai gruppi

Dalla prossima legislatura formare nuovi gruppi al Parlamento europeo sarà molto più difficile. E se i partiti tradizionali – iscritti per lo più ai Popolari e ai Socialdemocratici – ci vedono una vittoria contro le accozzaglie messe insieme soltanto per ottenere più fondi e più peso in Parlamento, c’è chi, come il Movimento 5 Stelle, denuncia la stretta come un attacco alla democrazia.

La novità è stata varata ieri da Strasburgo, che ha approvato in seduta plenaria – l’ultima prima delle elezioni – un’interpretazione restrittiva di un comma del proprio regolamento, stabilendo che d’ora in poi partiti e movimenti di un nuovo gruppo dovranno dichiarare di avere la stessa affinità politica: “La dichiarazione politica di un gruppo deve indicare i valori che il gruppo rappresenta – si legge nel testo – e i principali obiettivi politici che i suoi membri intendono perseguire”. Non solo: “La dichiarazione deve descrivere l’orientamento politico comune del gruppo in modo sostanziale, distintivo e autentico”.

Il tutto passerà poi sotto la vigilanza degli organi parlamentari, che potranno verificare la fedeltà delle forze politiche alla loro dichiarazione. A votare a favore della stretta sono stati il Partito popolare (a cui è iscritto Forza Italia), i Socialdemocratici (Pd) e i liberali dell’Alde, con l’opposizione dei Verdi, di parte della sinistra e dei due gruppi a cui appartengono Lega e Movimento 5 Stelle, alleato in Europa con l’Ukip inglese. Proprio i grillini, attraverso soprattutto il vicepresidente del Parlamento europeo, Fabio Massimo Castaldo, da mesi si battevano contro i tentativi di contrastare la nascita di nuovi gruppi: “Ci avevano già provato tre volte – denuncia l’eurodeputato – ma finora eravamo riusciti a bloccare tutto. È uno strumento totalmente autodemocratico messo nelle mani del presidente del Parlamento, che potrà decidere arbitrariamente sulla formazione dei gruppi”.

Accuse che non hanno scalfito Jo Leinen, eurodeputato tedesco dei socialdemocratici tra i maggiori sostenitori delle nuove regole, che ha convinto anche Alde e Ppe a votare compatti: “Ukip e Movimento 5 Stelle hanno dato vita a un falso gruppo, a un gruppo artificiale – aveva dichiarato a Eunews qualche mese fa – non hanno un terreno comune. Hanno creato un gruppo solo per goderne dei benefici”. Ma secondo Castaldo, i criteri per stabilire l’affinità – “sostanziale, distintiva e autentica” – sarebbero troppo soggettivi. Col rischio di una deriva autoritaria: “La mia paura è che se ne abuserà per contrastare quei gruppi che si oppongono all’establishment”.

D’altra parte da inizio anno il Movimento 5 Stelle ha incontrato diversi esponenti politici stranieri per gettare le basi di un nuovo gruppo europeo, consentito – stando alle vecchie regole – a chi raccoglie almeno 25 eurodeputati di 7 diverse nazioni. A gennaio, per esempio, Luigi Di Maio si era detto soddisfatto dei colloqui con il polacco Pawel Kukiz, con il croato Ivan Sincic e con il greco Evangelos Tsiobanidis, pur non negando possibili divergenze: “Su alcune cose non la pensiamo allo stesso modo – aveva detto il leader grillino – ma stiamo preparando un manifesto comune la cui stella polare sarà la democrazia diretta”. Difficile dunque, per la natura stessa del Movimento, che si professa al di sopra degli schemi della vecchia politica, trovare alleati con cui si possa sottoscrivere una dichiarazione simile a quella che ora pretende il Parlamento e che prevede piena affinità con i membri dello stesso gruppo. E se la dichiarazione di affinità fosse poi rigettata dal presidente del Parlamento, al momento non è chiaro quale sia lo strumento per fare ricorso: “La norma non dice niente al riguardo – è la versione di Castaldo – e quando ho chiesto in aula mi è stato risposto che c’è la Corte di giustizia. Ma in quel caso i tempi diventano lunghissimi”. E, nel frattempo, il gruppo resta sciolto.

Assedio a Tria, ma nessuno sa come fermare la super Iva

Luigi Di Maio e Matteo Salvini si scatenano contro il ministro dell’Economia, Giovanni Tria. La sua colpa: aver detto in Parlamento quello che c’è scritto in un documento appena approvato da Salvini e Di Maio, cioè il Documento di economia e finanza. “La legislazione vigente in materia fiscale è confermata” e quindi lo scenario tendenziale del Def, quello che indica come andranno le cose in assenza di cambiamenti, “incorpora gli aumenti dell’Iva e delle accise dal 2020-2021”. I due vicepremier ribadiscono che l’Iva non aumenterà, fonti Cinque Stelle dicono alle agenzie: “Se Tria vuole un aumento dell’Iva, può passare al Pd”.

Il problema è che tutti i ministri di Lega e Cinque Stelle hanno approvato un Def in cui gli aumenti dell’Iva ci sono, anche se continuano a parlare di introdurre una flat tax senza altri tagli o nuove tasse. Bisogna guardare il testo dell’audizione di Giuseppe Pisauro, il presidente dell’autorità indipendente sui conti pubblici Upb, per avere la dimensione del problema che Di Maio e Salvini provano a nascondere attaccando Tria. Nei prossimi tre anni il governo indica incassi dall’aumento dell’Iva per 23,1 miliardi nel 2020, 28,7 miliardi nel 2021 e 28,7 nel 2022. A questi si aggiungono 2,7 miliardi nel 2020, 5,1 e 7,7 nei due anni successivi per le “politiche invariate” (missioni di pace e aumenti contrattuali nel pubblico impiego). Non c’è alcuna entrata alternativa indicata. Ma soprattutto la lista delle entrate annunciate per far tornare i conti, ma tutte da determinare, è lunghissima: oltre alle risorse da trovare con l’Iva ci sono i 18 miliardi di privatizzazioni nel 2019 e 5,5, nel 2020 di cui a oggi non c’è traccia. Un obiettivo inverosimile, visto che, nella stima dell’Upb, tutte le partecipazioni finanziarie del Tesoro (Eni, Enel, ecc.) valgono nel complesso 23,6 miliardi. Il Def ha aggiunto anche alcune altre voci rispetto alla legge di Bilancio di dicembre per far quadrare i conti: 2 miliardi di nuovi incassi dalla lotta all’evasione nel 2021 e ben 8 miliardi nel 2022 (oggi se ne incassano 13 all’anno). Non poteva mancare la revisione della spesa: ben 5 miliardi di tagli nel 2021 e 8 miliardi nel 2022. Al netto delle privatizzazioni, il governo Conte si è quindi impegnato a trovare, tra nuove tasse e tagli, 25 miliardi nel 2020, 36 nel 2021 e ben 45 nel 2022. Questi sono gli interventi che permettono di raggiungere gli obiettivi sul deficit, 2,1 per cento nel 2020, 1,8 nel 2021 e 1,5 nel 2022. La combinazione minima che permette una leggera riduzione del debito in un contesto macroeconomico favorevole.

Il retropensiero di Salvini e Di Maio sembra essere che, come negli ultimi anni, gli obiettivi di deficit si possono anche non rispettare, la Commissione europea se ne farà una ragione. Piccolo problema: negli anni scorsi gli scostamenti non erano mai stati così rilevanti, nessun governo si è trovato finora a fare leggi di Bilancio con oltre 25 miliardi di zavorra. Senza le clausole di salvaguardia sull’Iva il deficit sale nel 2020 al 3,4 e arriva al 3,8 nel 2022. Così la procedura d’infrazione Ue è assicurata: soltanto cinque mesi fa lo stesso governo Conte ha fatto di tutto per evitare questa sanzione che ha immediate ripercussioni sui mercati. Dopo i picchi di spread e i problemi con un’asta di Btp Italia, a novembre il governo Conte ha accettato quasi tutte le richieste di Bruxelles, inclusi tagli automatici di spesa per 2 miliardi che dovrebbero scattare ora, perché la bassa crescita ha fatto saltare gli obiettivi di deficit. Se Salvini e Di Maio bloccano l’Iva e non chiariscono le coperture alternative, gli investitori adatteranno le loro aspettative sull’andamento dei conti e il fragile quadro macroeconomico che l’Upb ha appena approvato salterà: basterà l’aumento dei tassi di interesse per lo Stato e le imprese a ridurre la già misera crescita dello 0,2 per cento del Pil prevista per il 2019.

Non ci sono molte vie di uscita. O si va allo scontro con Commissione, mercati e Quirinale con un deficit fuori controllo, o si trovano quei soldi. Una delle ipotesi che circola, per ora solo tra i tecnici, è di rivedere le agevolazioni sull’Iva: un’aliquota unica al 18 per cento permetterebbe di recuperare i 23 miliardi che servono. Qualcuno pagherebbe di più – alberghi, ristorazione, edilizia – ma molti risparmierebbero, visto che l’aliquota massima è oggi al 22. Si potrebbe così eliminare anche una delle principali forme di elusione, quella di chi compra con un’aliquota Iva al 4 o al 10 e poi vende con aliquota al 22. Ma ci vuole una certa dose di realismo politico. È in questo clima pre-elettorale, è troppo presto.

Il Viminale: direttiva per supplire ai sindaci “distratti”

Prefetti al posto dei sindaci. Tradotto: “I prefetti potranno intervenire per supplire alle carenze dei sindaci distratti”. A stabilirlo il ministro dell’Interno Matteo Salvini che ha sottolineato, peraltro, come il Viminale e il decreto sicurezza offrano “armi in più per combattere” degrado, abusivismo e illegalità. “In caso di sindaci distratti – ha ribadito Salvini – c’è sempre il supporto dei prefetti”. Queste dunque le indicazioni contenute nella direttiva per tutti i Palazzi del governo e per conoscenza al capo della polizia Franco Gabrielli. I risultati dell’attività dei Comitati, dovranno essere comunicati “tempestivamente” al gabinetto del ministro, “segnalando mediante una articolata relazione i provvedimenti adottati”, mentre a partire dal prossimo 31 maggio ogni tre mesi i prefetti dovranno inviare al Viminale un report trimestrale “sul monitoraggio condotto in relazione alle ricadute delle ordinanze adottate”. Sul caso di cronaca avvenuto a Ferrara il ministro afferma: “Ennesima lite tra immigrati nel quartiere Gad di Ferrara, con coltellate tra un albanese e due nigeriani, il 3 maggio sarò in città e nelle prossime ore invierò a tutti i prefetti la direttiva per cacciare i balordi dalle città. Dove non arrivano i sindaci, arriviamo noi”. L’invito è seguire i casi di Bologna e Firenze dove i prefetti hanno emesso provvedimenti che “vietano lo stazionamento a persone dedite ad attività illegali disponendone l’allontanamento, nelle aree urbane caratterizzate con una elevata densità abitativa e sensibili flussi turistici, o caratterizzati da una pluralità di istituti scolastici e universitari, complessi monumentali e culturali, aree verdi ed esercizi ricettivi e commerciali”.

Alle novità in termini di sicurezza del ministro Salvini risponde il vicepremier Luigi Di Maio: “La nuova direttiva firmata da Salvini? Ho letto che attribuisce più poteri ai prefetti che ai sindaci in alcuni casi. Non saprei dire, io sono dell’opinione che chi governa lo scelgono i cittadini. È l’abc della democrazia. Esprimi un voto e poi giudichi al termine del mandato. Io la vedo così”. Per Antonio Decaro, sindaco e presidente dell’Anci, “noi sindaci amministriamo ogni giorno, tra mille difficoltà e non abbiamo bisogno di essere commissariati da nessuno. Il ministro non perde occasione per prendersela con i sindaci, che invece dovrebbe considerare come suoi alleati, perché sono gli unici a conoscere il territorio”.

“Salvini e i poteri ai prefetti? È soltanto un foglio di carta”

L’ultimo affronto arriva in forma di “circolare”. E Virginia Raggi la liquida come un “foglio di carta” buono per la campagna elettorale. Lo scontro tra la sindaca di Roma e il ministro dell’Interno va avanti da giorni e ormai ha il sapore della telenovela. E ieri tra Batman e Wonder Woman – come si sono auto-ribattezzati i due rivali gialloverdi – si è messa pure la direttiva del Viminale che permette ai prefetti di sostituirsi ai sindaci “distratti” in tema di sicurezza urbana. Risponde anche su questo, la sindaca, nel forum al Fatto con Marco Travaglio, Antonio Padellaro, Salvatore Cannavò, Paola Zanca e Luca De Carolis.

Salvini la attacca ogni giorno. Lo fa perché ritiene l’amministrazione di Roma un punto debole per il M5S?

In ogni campagna elettorale la Capitale diventa terreno di scontro. Ma i sindaci sono in prima linea e devono rispondere ai cittadini. Abbiamo dovuto rimettere in moto Roma, perché quando siamo arrivati nel 2016 abbiamo trovato il deserto e un Comune coperto di debiti. Trasformare la mia città in un campo di battaglia elettorale mi sembra povero di prospettive.

Ieri sul Corriere il leader della Lega è stato netto: “I soldi per Roma se li scordano”. Si riferisce all’operazione sul debito del Comune, con cui volete trasferirne una parte direttamente allo Stato. Un favore del governo che pagheranno tutti gli italiani, accusano i leghisti.

Finalmente restituiamo i soldi ai cittadini e non mettiamo le mani nelle loro tasche. Fino a oggi, Campidoglio e Stato versavano complessivamente 500 milioni all’anno alla gestione commissariale del debito, che però nel 2021 avrebbe avuto problemi di liquidità. Così, con la viceministra all’Economia Castelli e l’assessore al Bilancio Lemmetti, abbiamo deciso di intervenire, per far sì che il Mef possa rinegoziare con le banche mutui con interessi tra il 5 e il 6 per cento, un tasso assurdo. Ci guadagneranno tutti, lo Stato e Roma, che potranno ridurre il debito a carico degli italiani e le tasse per i romani. Chi critica questa operazione, o non l’ha capita o non vuole bene agli italiani.

Funzionerà solo se il Mef arriverà ad accordi con le banche. E non sarà proprio una passeggiata, non crede?

Perché non dovrebbe riuscirci? Parliamo del ministero dell’Economia. Se non ce la facesse ci troveremmo di fronte a un Mef molto debole, e non credo che questo possa accadere.

Lei e il ministro dell’Interno vi siete incrociati due sera fa al brindisi di saluto del prefetto uscente Paola Basilone. Teme che ora Salvini proponga un sostituto a lei ostile, visto anche che il primo motivo di scontro tra voi è la sicurezza?

Io ho lavorato molto bene con il prefetto Basilone, innanzitutto sul fronte delle occupazioni abusive, creando un modello di gestione. Sono fiduciosa sul prossimo prefetto, perché credo nel dialogo e nella collaborazione.

Però proprio Salvini ha appena diffuso una circolare in base a cui i prefetti potranno di fatto sostituire i sindaci, emanando ordinanze anti-degrado. Non teme di venire commissariata?

Io il Daspo urbano l’ho già inserito nel nuovo regolamento di Polizia di Roma Capitale, che era fermo al 1946. Non vorrei che si riveli l’ennesima trovata elettorale. In base alla legge, i prefetti potrebbero già intervenire. La vera soluzione sarebbe aumentare i finanziamenti per la sicurezza delle periferie e il numero di poliziotti. Sto mettendo strutture a disposizione gratuitamente per aprire nuovi commissariati in città: credo che i cittadini preferiscano un poliziotto in più a un foglio di carta.

In tema di occupazioni abusive, perché lo stabile occupato dai neofascisti di CasaPound pare intoccabile?

Ho fatto tutto il possibile per sollecitare lo sgombero dell’immobile occupato illegalmente da CasaPound. Da mesi, grazie anche alle mie sollecitazioni, la questione è divenuta di rilevanza nazionale. Ho scritto a tutti i ministeri competenti e credo che finalmente qualcosa si possa muovere. Ora è tutto in mano al Mef che, attraverso il Demanio, è proprietario dell’immobile.

Salvini ha lanciato l’assalto a Roma, ormai è evidente.

Non gli consentirò di prendersi la città, non torneremo al passato.

Lei ha accennato all’importanza del dialogo. Ma non pensa che dovrebbe parlare di più con i romani? Forse un suo errore è stato non stabilire un canale di comunicazione diretto, ammettendo quello che non si riesce a fare, anziché parlare soprattutto per fini difensivi.

Su Facebook raccontiamo in modo diretto e senza filtri quanto facciamo, e teniamo delle conferenze stampa itineranti. Ma quando devo andare in tv mi metto in assetto di difesa, perché vengo sempre messa sul banco degli imputati.

È la sindaca di Roma, e i giornalisti fanno domande.

Non mi sottraggo, se questa è la musica mi adeguo. Dopodiché i cittadini li incontro continuamente: mi segnalano problemi da risolvere.

Lo stadio della Roma sembra una vicenda infinita. Quando si arriverà a una decisione definitiva?

Va ricordato che la proposta iniziale sull’impianto non ci piaceva, tanto che l’abbiamo avversata. Ma siamo riusciti a migliorare il progetto riducendo la quantità di cemento e mantenendo le opere pubbliche. D’altronde ho dovuto tenere conto dei pareri dell’Avvocatura del Comune.

Cosa dicono i legali?

Tutti i pareri si concludevano con una certezza: la revoca della proposta comporterà degli oneri per il Comune. Ovvero non era più possibile sfilarsi a costo zero. E quindi la maggioranza ha lavorato con i proponenti per ridurre l’impatto del progetto. Capisco i mal di pancia nei municipi, ma gli oneri dello stop poi ricadrebbero sul Comune e sui cittadini.

Ma la decisione finale?

Credo che l’atto finale, ossia la convenzione tra i proponenti e il Comune, verrà votata in aula entro l’estate e poi ratificata dalla Regione Lazio. E penso proprio che il voto sarà favorevole, a meno che nel frattempo non emergano irregolarità. Finora dai nostri approfondimenti non ne sono emerse.

Pochi giorni fa, l’ex sindaco Ignazio Marino è stato assolto. I suoi guai giudiziari le avevano spalancato le porte del Comune, anche perché voi del M5S avete cavalcato quella inchiesta. Siete stati poco garantisti, non trova?

A me pare che la mancanza di garantismo l’abbia dimostrata il Pd, che andò a sfiduciarlo da un notaio.

All’epoca, con gli altri consiglieri comunali M5S, vi siete fotografati con le arance…

Quella foto la facemmo nel 2014 ai tempi di Mafia Capitale, dopo la retata. Su Marino portammo avanti una battaglia di legalità. E comunque, quando gli siamo subentrati alla guida del Comune abbiamo trovato un’amministrazione ferma, o che andava per conto proprio.

Non pensa che il Pd vi abbia “usati” per liberarsi di lui?

Forse per i dem non andava bene, e hanno usato gli scontrini come un pretesto. Non è un mistero che lo vedessero come un oppositore interno.

A proposito di scontrini, sul sito del Comune ce ne sono pochissimi a suo nome. Spende così poco?

Io non mangio (ride, ndr). Non ho chiesto la carta di credito per il sindaco. Spendo qualcosa solo per i viaggi istituzionali e per motivi di rappresentanza.

L’impressione è che nell’amministrazione tutti abbiano paura di fare, per timore di dover firmare atti ufficiali. L’immobilismo continua?

La macchina si è mossa, e in città si vedono molti cantieri. Ora i dirigenti firmano, perché hanno capito che noi facciamo solo cose nella legalità. Detto questo, è innegabile che il codice degli appalti andrebbe semplificato.

Ma se si rompono le scale mobili in tre fermate della metropolitana il sindaco non può fare nulla? Ci sono tre fermate chiuse, in centro.

Non posso intervenire direttamente. Le metropolitane sono gestite da Atac, una società autonoma. Certo, mi faccio sentire, ma non possono provvedere in prima persona.

Lei è il sindaco, e l’Atac è una partecipata del Comune.

Due fermate, Repubblica e Barberini, sono state sequestrate dall’autorità giudiziaria a causa della condotta scorretta dell’impresa di manutenzione. Abbiamo annullato il contratto.

Repubblica è stata dissequestrata, e per la fermata Spagna ci sono “solo” problemi tecnici. Quando riapriranno?

Stanno lavorando il più velocemente possibile per ripristinare le condizioni di sicurezza. Attendo a giorni una relazione dettagliata.

Pochi giorni fa è caduta la giunta M5S in XI Municipio, ed è il terzo mini-sindaco sfiduciato in meno di tre anni. È la dimostrazione che i 5Stelle non sanno governare?

L’VIII Municipio è caduto su una vicenda urbanistica, quella relativa agli ex Mercati Generali. I consiglieri volevano fermare il progetto, ma ci sarebbero stati oneri per l’amministrazione.

I consiglieri sono stati poco responsabili?

C’è stata la loro incapacità di capire a che punto eravamo arrivati. Quanto agli altri due Municipi ci sono stati problemi tra i presidenti e le loro maggioranze.

E invece tra lei e il M5S nazionale che rapporti ci sono? La difesa dei vertici davanti agli attacchi di Salvini pare debole. E a ridosso della sentenza dell’anno scorso che l’ha assolta lei è sembrata isolata.

Un sindaco è solo a prescindere, perché deve prendere determinate decisioni. Diciamo che ci sono sensibilità diverse. Quando abbiamo abbattuto le villette del clan dei Casamonica e sgomberato le case abusive degli Spada l’ha rivendicato tutto il M5S. E trovo assurdo che gli altri partiti non si siano uniti.

Parlavamo dei 5Stelle e della freddezza verso di lei.

Quando è ora di sostenermi i colleghi del Movimento lo fanno sempre. Ma andare ogni volta a rincorrere la dichiarazione sul giornale non è utile.

In vista delle elezioni europee il M5S ha virato a sinistra, dopo essersi schiacciato sulla Lega, innanzitutto sull’immigrazione. Condivide l’impostazione?

Ci sono fasi politiche diverse. C’è stato un momento in cui l’immigrazione aveva monopolizzato l’attenzione mediatica, quindi si discuteva solo di quello. L’appiattimento era a livello di comunicazione.

No, anche sul piano politico.

Non è vero, in questi mesi Luigi Di Maio e il M5S hanno portato avanti temi come il reddito di cittadinanza e il superamento del Jobs Act. Non hanno mai smesso di lavorare su quei diritti dei lavorati distrutti da quella pseudo sinistra chiamata Pd.

Si è pentita di aver detto no alle Olimpiadi?

Lo rifarei domani. Il modello di gestione era a debito, e infatti altre città nel frattempo si sono sfilate. Io devo ancora finire di pagare per gli espopri per i Giochi del 1960: Roma non poteva caricarsi di altro debito.

Con quella decisione ha scontentato parecchi. Le hanno presentato il conto?

Alcuni sono rimasti con l’amaro in bocca. Dicevano che con i soldi delle Olimpiadi avrei potuto rifare le strade, ma questa è una logica emergenziale, una logica da città fallita. Io voglio fare di Roma la città della legalità, questa è la mia idea di amministrazione. E sto dicendo sì agli investimenti che arricchiscono la città, non a quelli che andrebbero a impoverirla.

Che ne è della sua richiesta al Mef di far pagare l’Imu sulle case sfitte?

Stanno lavorando. Immagino che avremo la risposta nella prossima legge di Bilancio.

Il M5S sta discutendo della sua riorganizzazione, e in ballo c’è anche la cancellazione del limite dei due mandati. Lei che ne pensa?

Siamo cresciuti tanto come Movimento, quindi una riorganizzazione serve.

Se aboliscono il limite lei si ricandiderà?

Ho tanto lavoro davanti a me. E non penso ad altro.

Tre errori per cui si dovrebbe scusare con i romani.

(Riflette, ndr). Mi dovrei scusare per alcune nomine. Tornando indietro non le rifarei.

Quando ha iniziato a fare il sindaco immaginava che Roma fosse ancora così sporca dopo quasi tre anni?

Pensavo che ci sarebbe stata la collaborazione della Regione Lazio, e che non avrei assistito a giochi politici sulla pelle dei romani.

Il M5S in Regione ha una linea molto morbida verso Nicola Zingaretti.

Perché, ha una linea?

Vi siete posti il problema del perché si è arrivati all’arresto del presidente del consiglio comunale De Vito?

Nessuno ha la sfera di cristallo. La risposta è nella reazione, che fa la differenza.

Ha avuto contatti con lui o con qualcuno della sua famiglia ultimamente?

No.

Mussolini o Ridolini?

Come si affronta Salvini? Chi vuole evitare di ritrovarselo a Palazzo Chigi dovrebbe riflettere sulle strategie finora adottate per combatterlo. Sempreché, s’intende, ritenga che sia davvero lui l’avversario più insidioso da battere. Il che non è affatto scontato, neppure nel centrosinistra che tuona contro il “populismo” e il “sovranismo” prima e dopo i pasti. La buonanima di Renzi l’ha detto chiaramente un mese fa: “Il mio no al contratto di governo con Di Maio ha distrutto i 5Stelle”: a parte il fatto che proprio distrutti ancora non sono, Renzi fingeva di non vedere che l’aver regalato a Salvini il palcoscenico del governo ha contribuito a raddoppiare i consensi alla Lega. Il suo è stato un lucido e cinico calcolo per rafforzare la destra peggiore (dopo il tramonto di B., s’intende) nella speranza che, prima o poi, gli elettori fuggiti si spaventassero e tornassero all’ovile. Esperimento finora fallito, visto che al momento non ne è tornato nemmeno uno. Il guaio è che – consapevolmente o meno – il centrosinistra da una parte e i 5Stelle prendono Salvini terribilmente sul serio. Sinistra e Pd lo trattano come la reincarnazione del Duce, che poi è il suo sogno: passare per l’uomo forte sul cui carro i pochi nostalgici del fascismo e i tanti opportunisti fanno a gara a saltare. Col vantaggio aggiuntivo di poter sbeffeggiare la vecchia sinistra che insegue i fantasmi del passato e seguita ad agitare e frusti spauracchi: fino a prova contraria gl’italiani continuano a votare liberamente, i media non sono controllati dal governo (anzi) e nessuno vede marce su Roma, squadracce leghiste, guerre coloniali (almeno italiane: semmai francesi), leggi liberticide o razziali, oppositori agli arresti o al confino.

I 5Stelle, fino a un mese fa, tremavano all’idea di contraddire Salvini, per paura che facesse cadere il governo, tornasse nel centrodestra e li lasciasse in mutande senza alleati alternativi. Il che li ha portati a scelte scellerate, come il salvacondotto sulla Diciotti, e indeboliti sul piano politico e mediatico: in Parlamento e al governo facevano quasi tutto loro, ma la scena la occupava lui, un po’ per i 27 anni di esperienza politica, un po’ per la scelta del Partito degli Affari e dei suoi giornaloni di puntare su di lui per salvare il salvabile dell’Ancien Régime. Ora, dopo le batoste alle Regionali e il calo nei sondaggi, il M5S ha preso a rispondergli colpo su colpo, sottolineando e allargando le distanze su molti punti. È il gioco che faceva Bossi nel ’94, quando fu costretto ad allearsi con B. per non esserne fagocitato, ma nel suo primo governo gli fece vedere i sorci verdi con attacchi quotidiani.

Tant’è che gli antiberlusconiani guardavano più al Senatur che alla sinistra come argine al Caimano. E fu proprio Bossi a sfiduciarlo con un memorabile discorso alla Camera, il 21 dicembre ’94. Dopodiché D’Alema fu abile (per l’unica volta nella sua carriera) ad appoggiare un governo sinistra-Lega presieduto da Dini, per dare al Senatur il tempo di resistere alla campagna acquisti berlusconiana e di presentarsi da solo alle elezioni del 1996: lì il Carroccio toccò il massimo storico del 10% e propiziò la vittoria dell’Ulivo, del tutto inimmaginabile solo due anni prima. Cosa può insegnare la storia del 1994-’96 agli avversari del nuovo uomo forte d’Italia? Intanto che in politica devi sceglierti un solo nemico e diventare amico di tutti i suoi nemici. Eppoi che non sempre la demonizzazione totale e frontale è la migliore arma per combatterlo: Bossi, fra il ’94 e il ’99 (quando tornò ignominiosamente a Canossa, anzi ad Arcore, e fu la sua fine) aveva la straordinaria capacità di dare a B. del mafioso e del corruttore (ben prima delle sentenze su di lui e su Dell’Utri), ma soprattutto dell’“incapace”, “affarista”, “mezza cartuccia”, “pagliaccio”. Gli rideva in faccia, lo trattava come un personaggio tragico, ma non serio. Lo chiamava “Berluskaz”, “Berluskaiser”, “Berluscoso”. Usava immagini sarcastiche: “Quando lui piange, fatevi una risata: vuol dire che va tutto bene, che non ha ancora trovato la combinazione della cassaforte”. B. lo convocava nella sua villa in Sardegna con i maggiordomi in livrea e lui si presentava in canottiera. Aveva colto i suoi talloni d’Achille e lo colpiva proprio lì: nel superego, nell’ansia di passare alla Storia da statista, nella voglia di essere amato e preso sul serio da tutti.

Infatti a B. non davano fastidio le critiche ideologiche della sinistra al “Cavaliere Nero” e allo “sdoganatore dei fascisti”, anzi faceva di tutto per attirarle. Soffriva gli articoli del suo ex amico Montanelli, che lo trattava da “guappo di cartone” e raccomandava: “Guai a prenderlo sul serio, va trattato con tutto il disprezzo che merita”. E pativa la satira, tant’è che l’editto bulgaro partì dall’ostracismo a Luttazzi. Ora, per contrastare Salvini, varrebbe la pena usare le stesse armi: non la demonizzazione fuori tempo e fuori luogo di chi lo dipinge come “nuovo Mussolini” o “ministro della malavita”. Ma una sana presa in giro del miles gloriosus tutto chiacchiere e divise, del Grande Twittatore che non metteva piede al Parlamento europeo e ora si fa vedere di rado al Viminale. I palloni gonfiati si affrontano sgonfiandoli. L’unica che pare averlo capito è Virginia Raggi, che risponde ai suoi assalti quotidiani al Campidoglio con brevi video ironici: gli spiega il debito di Roma con le molliche di pane e gli dice “se tu sei Batman perché ci hai mandato 136 agenti, io che ne ho assunti mille sono Wonder Woman”. Ma anche Giovanni Floris: l’altra sera Salvini ha detto che “tra il suo pubblico ci sono dei delinquenti” e lui ha risposto “Anche tra i suoi elettori”. Il modo più serio per prendere sul serio Salvini è non prenderlo sul serio. Trattarlo, più che da nuovo Mussolini, da nuovo Ridolini.

Il “musicistissimo” Rota, fratello di Fellini

Quarant’anni fa se n’è andato Nino Rota. Federico Fellini gli sarebbe sopravvissuto per altri quattordici, ma rimase, alla sua comparsa, come privo d’una parte di se stesso. Tale era la fratellanza artistica tra un sommo regista e un sommo compositore. Rota era stato un bambino prodigio; la sua prima composizione, un impegnativo Oratorio, venne personalmente diretta da lui a undici anni. Ma quanti bimbi prodigio si perdono per strada! Rota non poteva perdersi. A metà dell’Ottocento, Liszt aveva definito Saint-Saëns “un musicienissime”, “un musicistissimo”. Il neologismo superlativo sembra coniato per Rota. Conosceva tutto, aveva una memoria musicale paragonabile a quella di Giuseppe Patanè e Franco Mannino; era dottissimo e direttore di Conservatorio, oltre che esser stato insegnante di Composizione di livello eccelso. In un secondo articolo, parlerò della sua attività di musicista “in proprio” e del suo rapporto con Eduardo De Filippo.

Oggi lo si ricorda soprattutto quale autore di colonne sonore per il cinema. In quanto tale, è stato il più grande del Novecento: ed è impegnativa affermazione, se si pensa che a fondare quest’arte negli Stati Uniti era stato un compositore del livello di Erich Korngold, in proprio importantissimo operista e sinfonista, e che già nel 1925 una colonna sonora (per il film muto Salammbô di Pierre Marodon), era stata composta da un mammasantissima quale Florent Schmitt. Or non affronterò nemmeno il discorso di natura estetica: se la colonna sonora sia un genere di arte inferiore rispetto alla musica cosiddetta pura. La teoria qui non arriva da nessuna parte: occorre, ripeto, guardare alla qualità artistica.

Rota alle colonne sonore si era sistematicamente dedicato. Se si guarda il suo catalogo si resta sbalorditi per il numero. Più dovrebbe restarsi sbalorditi per la qualità. Per fare un elenco limitato ai soli principali registi con i quali ha collaborato, ecco Soldati, Zampa, Monicelli, Lattuada, Comencini, Bolognini, King Vidor, Zeffirelli (uno dei suoi films migliori: La bisbetica domata), Visconti (nel Gattopardo ha dato un contributo indispensabile), Steno, Coppola. Gli venne negato l’Oscar per Il padrino, ma lo vinse con Il Padrino – Parte seconda.

Ma con Fellini, il genio assoluto, la simbiosi fu totale. Rota possedeva una natura complessa: era come una di quelle bambole aperta la quale ne trovi un’altra, e altre ancora. In lui v’era una vena di surrealismo e grottesco, fin di crudeltà, con improvvisi squarci verso l’etere e di pietà verso tutto ciò ch’è vivente, natura inanimata come animata, che mi pare sia la stessa cifra stilistica di Fellini. Dai Vitelloni a La strada, da La dolce vita a Boccaccio ’70. Mi fermo un attimo su questo film perché l’episodio di Fellini è un tributo alla grandezza, pur essa somma, di Peppino De Filippo quale attore surreale e tragico. Poi 8 e ½, Giulietta degli Spiriti, Satyricon, Roma, Amarcord. Una serie impressionante di capolavori, di veri monumenti della civiltà per un trentennio. È l’intero ritratto dell’Italia: non quella del dopoguerra, dell’Italia eterna. Di tutti noi. Fossero vissuti nel Rinascimento, Fellini sarebbe stato Bronzino, Rota insieme Luca Marenzio e Adriano Banchieri. La “rivoluzione vicissitudinale” ha portato l’arte figurativa e la musica “forte” ai margini della vita artistica e sociale. Restava il cinema. Rota è stato non il collaboratore, il co-autore delle opere del nostro più grande regista.

 

Salone del Libro, la seduzione dietro il “nazional-popolare”

La trentaduesima edizione del Salone internazionale del Libro di Torino, di scena dal 9 al 13 maggio al Lingotto, sarà una “Festa Mobile”. Lo ha detto ieri Giulio Biino, presidente della Fondazione Circolo dei Lettori, uno degli enti che organizzano la kermesse, alla conferenza stampa di presentazione del programma di Librolandia. Parole, le sue, come quelle dello scrittore Nicola Lagioia, direttore culturale del Salone, di dichiarata solidarietà alla Parigi che piange Notre-Dame, ma anche in omaggio augurale alla Parigi vitalissima di Ernest Hemingway e alla Notre-Dame immortalata in letteratura da Victor Hugo. Quella che si aprirà fra meno di un mese, però, sarà soprattutto la classica festa nazionalpopolare della cultura e dei libri, dello spettacolo, della serietà e delle vanità, che si conosce da anni: anima e cuore della fiera torinese. Una manifestazione, in sostanza, in grado di miscelare uno spettacolo scritto da Christian Raimo in ricordo di Leonardo Sciascia, a trent’anni dalla morte, con Pippo Baudo (intervistato da Valeria Parrella), il sanremese (nel senso delle canzonette) Achille Lauro con Fernando Savater. E capace di conciliare Jovanotti e gli 80 anni di Claudio Magris, le stelle del pallone Massimiliano Allegri, Arrigo Sacchi e Gianluca Vialli con un premio Nobel della Letteratura come Wole Soyinka, e con un premio Pulitzer quale il vietnamita Viet Thanh Nguyen.

Nel segno della lingua spagnola, ospite di questa edizione, e del tema portante de “Il Gioco del Mondo”, ispirato a Julio Cortazàr, nonostante i recenti travagli giudiziari e societari, il Salone del 2019, almeno secondo i suoi promotori, avrà “numeri da capogiro”. Tutto ciò in attesa di sapere se si risolverà la questione delle sale per i dibattiti, finite nella liquidazione della vecchia Fondazione per il Libro e per ora non utilizzabili, anche se pare che ci sia un’intesa imminente per sbloccarle. I “numeri da capogiro” per il pubblico che verrà si vogliono ottenere con un cartellone zeppo di appuntamenti. Tra i 63 mila metri quadrati di libri, tre ingressi, una passerella d’accesso dalla stazione ferroviaria del Lingotto, e in mezzo allo sbarco degli editori della Cina e ai 20 mila ragazzi e ragazze attesi, troveranno posto gli altri, ossia gli ospiti. Un piccolo esercito che va dallo scrittore spagnolo Enrique Vila-Matas al cubano Leonardo Padura, da Luis Sepùlveda e Giancarlo De Cataldo (che dialogheranno di letteratura e politica tra un continente e l’altro) a Massimo Cacciari (che rilegge Niccolò Machiavelli). E poi il regista Abel Ferrara, Fanny Goldberg, ex manager dei Nirvana (per i 25 anni dalla morte di Kurt Cobain) e l’attore Fabrizio Gifuni, impegnato a leggere Cortazàr e Roberto Bolaño; fino a Michela Murgia, Gianrico Carofiglio, Antonio Manzini e a Saverio Costanzo, il regista de L’amica geniale di Elena Ferrante, a colloquio con Alba Rohrwacher e Goffredo Fofi. Senza dimenticare, nel grande calderone di Librolandia, i cinquant’anni dell’allunaggio (con Samantha Cristoforetti e Linda Raimondo) e i trent’anni dei Simpson, oltre a Neri Marcoré, che leggerà brani tratti da L’amore ai tempi del colera di Gabriel Garcia Màrquez.

Il programma è dunque servito, pronto e aperto al colto e al meno colto, all’aristocratico e al popolare, all’impegno e al disimpegno. Nazionalpopolare, quindi, da copione. Come è evidente, dice Lagioia, che il Salone del Libro di Torino è ormai “un patrimonio nazionale”. Proprio per questa ragione i suoi promotori ieri hanno lanciato un appello a imprenditori, banche e istituzioni pubbliche varie “affinché il Salone esca davvero dall’emergenza”, se si vuole che “il lavoro svolto non vada sprecato”. Pertanto, ha rimarcato Biino, il presidente della Fondazione Circolo dei Lettori, occorre “programmare il futuro”. E chi finanzia il Salone deve farlo “con regolarità: non obbligateci a inseguirvi”. Anche perché il recente passato, i debiti della vecchia Fondazione, le inchieste giudiziarie, sono un monito duro a non ripetere gli errori.

Con la valigia o sulla croce: Troisi, ultimo attore-poeta

In principio fu Pinocchio. Alla recita di fine anno, in quinta elementare. Oggi quella scuola non solo porta il suo nome, ma ne ostenta la parabola: “Una favola moderna da Pinocchio a Pulcinella”. “Troisi Poeta Massimo” è la mostra fotografica e multimediale, organizzata da Istituto Luce-Cinecittà e curata da Nevio De Pascalis e Marco Dionisi con la supervisione di Stefano Veneruso, che dell’artista campano a 25 anni dalla morte celebra il genio timido, la pigrizia indaffarata, il talento generoso. Allestita al Teatro dei Dioscuri al Quirinale di Roma, è aperta al pubblico, gratuitamente, da oggi al 30 giugno.

Di Massimo è un caleidoscopio familiare, di Troisi una miscellanea di smorfie, pellicole e battute – letteralmente – messe in croce. Enzo Decaro, che con Massimo e Lello Arena avrebbe costituito La Smorfia, ricorda il primo incontro, quando rimase “folgorato sulla via di San Giorgio a Cremano”. Lo spettacolo si chiamava Questi era Cristo!, ai piedi della croce un soldato declamava: “Siamo venuti con spade e bastoni!”. Il regista fece ripetere più volte la scena, spazientendo il Gesù-Troisi esposto alle intemperie. Sicché dalla croce ribatté: “E coppe e denari, dove li avete lasciati?”. “Allora – ricorda Decaro nel catalogo – dissi… ‘Ma questo genio, chi è?’”. Non è l’unico a intenderne il valore, il sommo Eduardo sospende le prove per dare a Massimo, emozionatissimo e inginocchiato al suo cospetto, la propria benedizione: “‘Voi mi piacete, bravo, bravo, continuate. Menomale che ci sta uno che continua…’”.

Avrebbe continuato, e su più spartiti: “La grandezza di Troisi – rileva Verdone – fu quella di essere stato un grande playboy, il vero playboy, forse l’ultimo”. Carlo rammenta un dopocena, “arrivai e lo trovai con una ragazza veramente conturbante, c’era proprio il sesso in lei, una cosa spettacolare. ‘Ma chi è questa?’. Era Moana Pozzi, venuta da Genova per fare dei provini da attrice. ‘La devi prende’ questa Carlo, chist’è brava Carlo!’. A me sinceramente sembrava più bona che brava”.

Non solo attore e regista, non solo istrione malinconico e riservato viveur, Troisi fu un intellettuale, però incompreso: “Invece lo era. L’intellettuale – affermò Ettore Scola, che lo diresse in tre film – non è quello che ha letto o ha studiato, quello è l’acculturato; il vero intellettuale è quello che ha una curiosità che fa parte dell’intelletto, che va oltre i sentimenti. È colui che trasfigura la realtà con il proprio pensiero”. Sempre chiaro, quello di Troisi, anche sul cinema di denuncia: “Vedi tutti i giornali quello che ne pensano, poi li metti insieme e fai un film ‘ncoppa a ‘o terrorismo? Hai raccontato – dichiarava a Goffredo Fofi – una storia che sanno tutti quanti, oltretutto in modo poco serio, solo perché oggi il terrorismo e la droga sono argomenti che vanno”.

Umile: “Recito così perché non ho studiato, nessuno mi ha insegnato il modo migliore per farlo” ai limiti dell’autodenigrazione: “Sono consapevole di essere un attore che non è in grado di entrare in un personaggio che non sia se stesso”, mostra e catalogo ne restituiscono appieno il patchwork creativo: “A me le cose nascono sempre a pezzettini. Ci sono battute, concetti che mi colpiscono. Io quando sto fermo faccio un’operazione di raccolta, poi tiro fuori dalla valigia tutti quei pezzettini di carta e raccolgo le idee”. Da Ricomincio da tre (1983) a Il postino (1994), le avrebbe travasate dietro e davanti la macchina da presa con eleganza di tratto, gusto di popolo e irresistibile attrazione: “Ero andato a Roma con molto entusiasmo, ma poi sono rimasto abbastanza sconcertato per il clima di freddezza e di non-umanità che c’era sul set. (…) Mi piacerebbe, però, ritentare e per questo motivo le chiedo di poter lavorare nel suo prossimo film in qualità di aiuto o di assistente alla regia”. Così gli scrisse un ventunenne napoletano, che abitava al Vomero e studiava – malvolentieri – Economia e Commercio: Paolo Sorrentino.