Amazon è accusata dall’Antitrust di sfruttare la propria posizione dominante nel mercato dell’e-commerce. In particolare, “Amazon conferirebbe ai venditori che aderiscono al suo sistema di logistica vantaggi in termini di visibilità della propria offerta e di miglioramento delle proprie vendite”. Questo a discapito dei venditori che non sono clienti Amazon. Funzionari dell’Autorità ieri hanno svolto ispezioni nelle sedi di alcune delle società interessate, con l’ausilio del Nucleo speciale Antitrust della Guardia di Finanza. Secondo le ricostruzioni del garante, la condotta di Amazon, contraria a un confronto competitivo basato sul merito, si tradurrebbe in una discriminazione dei venditori sulla base dell’adesione o meno al sistema di logistica. In questo modo, l’azienda potrebbe sfruttare la propria posizione dominante per restringere significativamente la concorrenza nel mercato dei servizi di gestione del magazzino e di spedizione degli ordini dell’ e-commerce e nel mercato d’intermediazione sui marketplace. Tutto, a danno dei consumatori finali. Il procedimento si concluderà entro il 15 aprile 2020. “Stiamo offrendo la massima collaborazione all’Autorità”, ha fatto sapere l’azienda.
Modem libero, la guerra da 2,7 miliardi
Libero modem in libero Stato. Più o meno. Anche se dal primo gennaio una delibera dell’Agcom consente ai clienti di scegliere liberamente quali apparecchiature usare per la connessione a Internet, secondo il principio della neutralità della Rete, poi l’effettiva attuazione della normativa fatica a farsi strada: quasi tutti gli operatori negano ai nuovi clienti la possibilità di utilizzare un modem diverso dal loro. Mentre per i 7,5 milioni di vecchi clienti la chanche addirittura non esiste: il Tar del Lazio, in seguito al ricorso al Consiglio di Stato presentato a dicembre 2018 da Tim, ha deciso di non anticipare l’udienza (prevista il 23 ottobre 2019) sulla validità della delibera per i contratti in essere.
Tutto a discapito delle tasche dei clienti che sono costretti a sborsare circa 5 euro al mese per un minimo di 4 anni (vale a dire circa 250 euro, contro i circa 100 euro di costo effettivo dell’apparecchio acquistato in un negozio di elettronica) perché gli viene impedito di esercitare il diritto al modem libero.
Insomma, un altro di quei costi nascosti (come gli elenchi telefonici, la segreteria telefonica o il servizio “Chi ti ha cercato”) che fanno la fortuna degli operatori: tanto che secondo l’ultima Relazione annuale dell’Agcom, la voce di spesa per gli utenti di rete fissa (“e correlativamente di ricavo per i gestori”) denominata “Altro” (che include proprio i “ricavi da vendita/noleggio di apparati, terminali e accessori”) è pari a 2,68 miliardi di euro. Un tesoretto il cui ammanco causerebbe un peggioramento dei ricavi, già schiantati dalla guerra della tariffe e dagli investimenti nel 5G, che spinge gli operatori a rallentare la piena applicazione della delibera Agcom (che ha già avviato dei controlli), come dimostra l’ultima inchiesta realizzata da Altroconsumo Inchieste in edicola a maggio, secondo cui alcuni gestori negano ancora questa possibilità, altri la scoraggiano e alcuni la comunicano a fatica.
Una sonora bocciatura che arriva con una prova sul campo (documentata con un video con telecamera nascosta): Altroconsumo ha verificato tre punti vendita di Milano per ciascun provider, fingendosi utenti interessati a un contratto. È stata poi fatta un’analisi dei siti degli operatori, confrontandola con le risposte fornite dagli addetti nei negozi. E il risultato è che mentre online le tariffe senza modem ci sono, nei negozi invece non tutti spiegano che esiste la libertà di scelta del modem. Solo Tim ha superato la prova fornendo ai propri clienti informazioni adeguate per la corretta e semplificata modalità di connessione e la configurazione dei modem di propria scelta. Mentre Vodafone, Wind Tre, Tiscali e Fastweb – spiega Altroconsumo – si stanno adeguando molto lentamente e ai nuovi clienti forniscono ancora risposte come: “È obbligatorio usare solo il nostro modem”, “Se si utilizza un altro modem non si raggiunge la velocità che offriamo noi”. O ancora peggio: “Si può usare un altro modem, ma solo dopo aver versato 48 rate da 5,99 euro”.
Un risultato che rispecchia il dossier elaborato dalla Free Modem Alliance (l’associazione che si batte per la piena libertà di modem) secondo cui solo Tim e i piccoli e medi Internet provider si distinguono come best practices, mentre gli altri gestori continuano ad accampare scuse che vanno dalla mancata comunicazione dei nuovi parametri di configurazione del modem all’attivazione di specifiche offerte telefoniche con modem libero che, tuttavia, costano solo 1 euro in meno al mese di quelle che includono l’apparecchio, risultando così meno convenienti.
La Cassazione ferma i boss: “Niente Skype ai 41-bis”
Ci hanno provato a Sassari. Ma a Roma non l’hanno fatta franca, la Cassazione ha detto no. I fratelli Francesco e Giuseppe Pesce, entrambi al carcere duro, eredi dello storico boss di Rosarno Nino detto Testuni, già a capo di una delle più pericolose ’ndrine calabresi, hanno tentato di “bucare” il 41 bis con l’utilizzo di un sistema di videochiamata simile a Skype che gli avrebbe permesso di parlare a distanza davanti ai monitor, generando un precedente che sarebbe stato poi difficile da arginare. Hanno anche ricevuto due sì a Sassari prima del definitivo diniego della Cassazione.; Francesco è detenuto nel supercarcere per i 41 bis dove c’è anche il corleonese di Cosa nostra Leoluca Bagarella.
Ed è proprio Francesco, 39 anni, detenuto a Sassari-Bancali – catturato nel 2011 dopo una latitanza di poco più di un anno – a chiedere nel 2017 l’utilizzo del sistema audiovisivo per poter conferire col fratello Giuseppe, 38 anni, anche lui sfuggito nel 2010 alla retata dell’operazione All Inside della Dda di Reggio Calabria allora coordinata da Giuseppe Pignatone, ma costituitosi nel 2013 mentre la pressione sulla ’ndrina di Rosarno diventava sempre più asfissiante. Alla richiesta si oppone la direzione del penitenziario, così Pesce fa ricorso al magistrato di sorveglianza di Sassari, che invece dà il via libera. A questo punto entra in gioco il Ministero della Giustizia, con la Direzione generale detenuti, al cui vertice siede il magistrato Roberto Piscitello, che impugna il provvedimento. Il Tribunale di sorveglianza di Sassari, quindi, dà torto al Ministero e ragione al ’ndranghetista che incassa il secondo sì per l’utilizzo di un sistema simil Skype nei colloqui col fratello. Secondo il Tribunale di sorveglianza di Sassari “l’adeguamento costante e inevitabile è imposto dall’avanzare della tacnologia” e dunque bisogna consentire i colloqui audiovisivi. È il marzo 2018 e con la sollecitazione della Direzione generale detenuti l’avvocatura dello Stato impugna ancora, rendendo impossibile l’esecutività della sentenza, e rimandando la decisione finale alla Cassazione. Nel frattempo, per un periodo, anche Giuseppe viene trasferito a Sassari, così da consentire i colloqui con il familiare nelle modalità consentite dalla legge. I 41 bis dispongono di un colloquio di un’ora al mese in uditorio, sorvegliato e registrato. Successivamente, dopo qualche incontro Giuseppe viene spostato nuovamente in un altro carcere del nord Italia.
Ieri la Cassazione mette quella che dovrebbe essere la parola definitiva sulla questione: occorre prima una legge che stabilisca “quali strumenti e attrezzature adottare, le regole (più o meno restrittive con riferimento al regime cui sono sottoposti i detenuti), le voci di spesa, i poteri delle Direzioni dei penitenziari e del personale di polizia penitenziaria”. Il rischio, secondo la Cassazione, è che si possano realizzare “comunicazioni non consentite”, violando la parità di trattamento dei detenuti “affidando ai singoli magistrati di sorveglianza la verifica della praticabilità in concreto delle soluzioni tecnologiche ipotizzate”.
Per la Cassazione non sarebbe stato chiaro “nemmeno se i colloqui sono registrabili e in che modo” ma non sarebbe da escludere “la possibilità da parte di terzi di intercettare” le conversazioni. Seguendo le indicazioni del Tribunale di sorveglianza di Sassari, per la Suprema corte, si sarebbe fornito alla “polizia penitenziaria un potere – di interrompere un eventuale colloquio con comunicazioni non consentite – che rischia di essere generico e non effettivo”. Non è il primo conflitto tra la Sorveglianza di Sassari e il Ministero. Tanto che nel 2017 si interessò della questione anche la commissione Antimafia presieduta da Rosy Bindi.
Fece scalpore l’autorizzazione concessa al superboss di Palmi Domenico Gallico ad andare a trovare la madre Lucia in Calabria, anziana, 91 anni, e malata ma ai domiciliari per associazione mafiosa e omicidio. Succedeva un anno fa.
Ok al testo base per istituire la commissione d’inchiesta Regeni
Via libera in Commissione Esteri alla Camera al testo base per l’istituzione di una commissione d’inchiesta su Giulio Regeni. A votare a favore oltre al M5S, al Pd e a LeU anche la Lega che però – secondo quanto viene riferito – dovrebbe presentare emendamenti. Si sblocca così l’esame del provvedimento, atteso in aula fra la fine del mese e gli inizi di maggio. Il testo sul quale il M5S – riferiscono fonti pentastellate – ha voluto puntare con decisione, è formulato sulla falsariga di quello presentato la scorsa Legislatura. “È un passo in avanti verso la ricerca della verità per Giulio Regeni”. commenta la capogruppo M5S in commissione, Sabrina De Carlo.
Donazioni non registrate, 400 mila euro di multa all’Afd
Il parlamento tedesco ha imposto una multa pari a 400mila euro al partito di ultradestra Alternative für Deutschland (Afd) per aver accettato donazioni illegali durante la campagna elettorale per le consultazioni locali del 2016 e del 2017. Si tratta di donazioni ricevute da una società di PR basata in Svizzera. Il Bundestag ha reso noto in un comunicato che in quelle occasioni due figure della dirigenza del partito, Jörg Meuthen e Guido Reil – entrambi candidati alle prossime elezioni europee – non avrebbero dovuto accettare le donazioni in quanto la società interessata all’epoca non era registrata come donatore. L’Afd farà ricorso.
Baby T-Rex messo all’asta su eBay: paleontologi indignati
Un baby T-rex è stato di recente messo all’asta su eBay a un prezzo di quasi 3 milioni di dollari. Il gesto del suo scopritore e proprietario, Alan Detrich, ha scatenato le proteste e l’indignazione dei paleontologi: è probabile che l’esemplare finirà in mano a privati e sarà quindi perduto per la scienza. Ma oltre al danno anche la beffa: il piccolo T-rex è stato finora esposto al Museo di Storia Naturale di Lawrence dell’Università del Kansas, il che ne ha fatto accrescere il valore commerciale. Il baby Tyrannosaurus rex, soprannominato “Figlio di Sampson”, è stato scoperto nel 2013 in Montana da Dietrich e da suo fratello. Si tratta di uno scheletro incompleto di 68 milioni di anni fa, che nel 2017 era stato dato in prestito al Museo di Lawrence. Nella vendita su eBay i proprietari lo “sponsorizzano” come l’unico esemplare giovane di T-rex mai scoperto, affermazione ancora tutta da verificare. Dietrich ha affermato di assumersi la piena responsabilità. Ma non mostra pentimento sottolineando che nessuna legge vieta ai privati di vendete fossili di scheletro. Il direttore del museo, Leonard Krishtalka, su Twitter si dissocia dalla decisione di mettere all’asta il T-rex. E ha ordinato che il ‘Figlio di Sampson’ venga tolto dalle teche.
Donna incinta uccisa in casa dal marito: ha confessato
Una brutale aggressione portata a termine prima con le mani, poi con un cavetto per ricaricare i telefonini e infine con un bastone, probabilmente l’arma letale. È così che è stata uccisa Romina Iannicelli, 44 anni, incinta di due mesi. Una gravidanza giunta dopo anni di attesa, che l’aveva resa felice e che invece si è interrotta tragicamente. Ad ucciderla è stata il marito Giovanni De Cicco, che ha confessato durante l’interrogatorio.
L’omicidio è avvenuto a Cassano allo Jonio, nel cosentino. Il cadavere della donna è stato trovato ieri mattina da alcuni familiari, che l’avevano aspettata invano per un appuntamento preso il giorno prima e che hanno avvisato subito i carabinieri. Una volta entrati nell’appartamento, hanno trovato la casa a soqquadro e la donna a terra con una profonda ferita alla testa. I sospetti da subito si sono concentrati sul marito, inizialmente irreperibile, e poi costituitosi in caserma nel corso del pomeriggio, quando probabilmente si sentiva già braccato per il crimine commesso.
Solo una coincidenza, invece, il fatto che la vittima fosse la sorella di Giuseppe Iannicelli, che nel gennaio 2014 era stato ucciso e poi dato alle fiamme assieme alla sua compagna e al nipotino di tre anni, Cocò Campolongo. Ma questo delitto non c’entra nulla con quel regolamento di conti, come confermato anche dalla confessione dell’uomo: si tratta di femminicidio. Dopo aver ammesso l’omicidio, lui ha cercato di alleggerire la sua posizione dicendo di avere assunto una forte dose di droga prima di tornare a casa e quindi di essere in stato di alterazione, ma la versione non convince. Resta incerto il movente: gli investigatori stanno cercando di ricostruirlo.
11enne ebreo aggredito a scuola “Riapriremo Auschwitz e vi ficcheremo tutti nei forni”
Preso per il collo da tre compagni undicenni e insultato perché ebreo nella città che ospita il Museo nazionale della Shoah. “Quando saremo grandi faremo riaprire Auschwitz e vi ficcheremo tutti nei forni!” ecco la frase urlata in faccia a un bambino nella palestra di una scuola. A pochi minuti di macchina da Ferrara e da quell’indimenticabile campo da tennis ritratto da Giorgio Bassani ne il Giardino dei Finzi Contini. Il piccolo è tornato a casa, stanco e afflitto da quell’ennesimo atto di bullismo e ha raccontato tutto alla madre.
Dopo l’intervento della preside i ragazzi si sono prontamente scusati e adesso sono in attesa delle decisioni dell’ufficio scolastico regionale attivato dal ministro dell’Istruzione Marco Bussetti: “La scuola è e deve essere luogo di solidarietà, di inclusione, di accoglienza. Non sono tollerabili atti di antisemitismo e di razzismo, ho chiesto di approfondire affinchè non si ripeta”.
La famiglia di uno degli aggressori è rimasta sconvolta perchè il figlio è sempre stato educato ai valori dell’antifascismo. Per il rabbino capo di Ferrara Luciano Meir Caro l’episodio è da collocare “in un ambito di ignoranza di due bambini che litigano, senza un retroterreno, insulti gravi” sottolinea, perché “riflettono” quello che i più piccoli “respirano negli stadi, nei manifesti per strada, e non si rendono conto della gravità” di certe affermazioni. Il caso è diventato immediatamente politico e Matteo Salvini, ministro dell’Interno ha annunciato il suo arrivo a breve in città: “Vorrei incontrare il ragazzo e la sua famiglia, anche gli insegnanti che certamente riusciranno a evitare simili episodi di violenza in futuro”. I carabinieri di Ferrara informeranno la Procura per i minorenni “per gli aspetti di competenza”.
“Io muoio, ma a te ti levano la divisa”. Al processo Cucchi la frase (forse) detta da Stefano
“Mi dispiace”. Sono le scuse che il carabiniere Francesco Tedesco porge direttamente a Ilaria Cucchi dopo il controesame dei difensori dei suoi colleghi e coimputati per la morte di Stefano Cucchi, nel 2009. Fra i due c’è stata anche una toccante stretta di mano. Ieri, Tedesco ha ribadito quanto già detto e cioè che Stefano fu picchiato dai colleghi Raffaele D’Alessandro e Alessio Di Bernardo, che lo avevano arrestato insieme a lui. A questo punto viene un passaggio significativo dell’esame condotto dal difensore di D’ Alessandro, Maria Lampitella. “Ricorda – chiede l’avvocato a Tedesco – se in macchina Cucchi abbia detto ‘Io muoio, ma a te tolgono la divisa’?”. Tedesco nega che Cucchi abbia detto nulla di simile. Quella frase non risulta negli atti processuali, né di indagine del pm Giovanni Musarò. Perché il legale di uno degli imputati la tira fuori? Forse per provare a incastrare Tedesco che era l’unico in divisa? In ogni caso è un autogol, sia perché si ammette il pestaggio implicitamente, sia perché il riferimento alla divisa può essere simbolico. Non a caso Ilaria Cucchi su Facebook ringrazia ironicamente l’avvocato per la rivelazione. Il tentativo maldestro di Lampitella non sfugge all’avvocato Pini, legale di Tedesco, che al Fatto dice: “Dopo questa affermazione è una perdita per la verità processuale il mancato consenso del D’Alessandro a sottoporsi all’esame, dato che la frase riportata dal difensore non può che essere stata riferita dallo stesso D’Alessandro ” La versione di Tedesco è confermata da testimoni: l’ex moglie di D’Alessandro e tre ex detenuti secondo i quali Stefano disse loro di essere stato picchiato da due carabinieri in borghese. Gli unici senza divisa erano proprio D’Alessandro e Di Bernardo. Sempre ieri, hanno testimoniato il maresciallo Enrico Mastronardi, ex comandante della caserma di Tor Vergata e il figlio Sabatino, anche lui maresciallo. Entrambi hanno negato di aver saputo del pestaggio di Cucchi, come, invece, ha riferito il carabiniere Riccardo Casamassima, che ha fatto riaprire le indagini.
Circumvesuviana: “Ci fu violenza sessuale. La ragazza reagì mordendo uno dei tre ”
Ci fu violenza sessuale. E i tre presunti stupratori della 24enne di Portici nella stazione della Circumvesuviana di San Giorgio a Cremano devono tornare in carcere. Lo sostiene la Procura di Napoli nel ricorso in Cassazione firmato dal pm Cristina Curatoli e dal procuratore aggiunto Raffaello Falcone. Il ricorso contesta le conclusioni del tribunale del Riesame di Napoli, secondo cui, per tre diversi collegi, le dichiarazioni della ragazza sono state considerate non attendibili e il suo racconto contraddittorio in alcuni punti salienti, facendo così crollare il presupposto della gravità degli indizi di reato nei confronti degli accusati. E proprio i disturbi della personalità di cui soffre la ragazza – patologia certificata dal dipartimento di Igiene Mentale dell’Asl di Napoli presso il quale è in cura da circa tre anni – avrebbe condizionato, dice la Procura, la sua reazione (il riferimento sarebbe rispetto al suo scoppiare in lacrime, a distanza di tempo dal fatto). E il suo comprovato disagio psico-patologico sarebbe da considerare come elemento di ulteriore “vulnerabilità”.
Per la Procura di Napoli, la prova che Antonio Cozzolino, Raffaele Borrelli ed Alessandro Sbrescia meritano il carcere, perché il sesso avvenuto alle 18.10 del 5 marzo scorso nell’ascensore della stazione non fu consensuale, starebbe anche in quei morsi con cui reagì a due ragazzi che le avrebbero imposto un rapporto. La ragazza riferì i morsi solo durante il secondo interrogatorio e secondo il Riesame erano parte di quell’“accrescimento narrativo” con il quale la ragazza, “tra mutamenti e contraddizioni” rispetto alla prima versione, ricostruì la vicenda, “inevitabilmente inficiando – scrive il Riesame – anche la credibilità oggettiva del racconto stesso”. I pm però ricordano che uno degli indagati, Cozzolino, ha confermato a verbale di aver visto la ragazza mordere almeno un altro degli indagati, Borrelli. Un punto a favore dell’attendibilità della studentessa di Portici.
Il ricorso inoltre affronta un’altra questione dibattuta, e severamente censurata dal Riesame: la presunta tentata violenza sessuale avvenuta a inizio febbraio, quando la ragazza fu accompagnata a casa da due dei tre indagati e ha riferito di essere stata molestata già allora. Qui l’incrocio dei verbali fa emergere diverse incongruenze. La ragazza ha detto di aver accompagnato i due ragazzi perché intimorita dalle loro minacce di “aizarsi” (violentare, ndr) la sorella. Ma la sorella dice di averli visti arrivare a casa “ridendo e scherzando”. Ma i pm valorizzano le contraddizioni dei verbali di due indagati: uno dice che in quell’occasione il pomeriggio si concluse con sesso a tre consensuale, l’altro nega. E nega anche la ragazza, ovviamente. Secondo i pm, fu un tentativo malriuscito di screditare la vittima attribuendole sesso consensuale a febbraio per rendere più verosimile anche la consensualità del sesso a marzo. Una circostanza che sarebbe servita, per i pm, a sminuire quanto poi avvenuto in stazione. E infine: la Procura valuta diversamente dal Riesame i video del sistema di videosorveglianza della stazione della Circumvesuviana. Per i pm, si vedrebbe uno degli indagati tenere stretta la spalla della ragazza, e spingerla nell’ascensore. Non erano segnali di affetto e consensualità, ma di coercizione. Per sottometterla. E usare poi violenza nei suoi confronti.