Un volo di Alitalia, decollato ieri da Milano Malpensa e diretto a Tokyo, per motivi precauzionali ha tornare indietro. Prima di atterrare, però ha sversato 80 tonnellate di carburante al largo di Genova, proprio nei pressi del cosiddetto “santuario dei cetacei” nel Mar Ligure. Secondo fonti della compagnia l’operazione rientra nelle procedure previste nei casi in cui un aereo appena decollato debba fare rientro a terra: il pilota è stato costretto a invertire la rotta a casua dell’accensione di una spia di allarme. Lo scarico è avvenuto ad un’altezza di 16mila piedi, più del doppio della quota minima prevista dalle norme internazionali, e il materiale si sarebbe nebulizzato in area, comunque a distanza di 70 chilometri dalla costa. Dopodiché l’aereo ha potuto fare rientro a Milano senza problemi. Come comunicato dalla Regione, i primi controlli su un possibile inquinamento delle acque sono tranquillizzanti: le ricognizioni della Capitaneria di porto non hanno trovato chiazze oleose di carburante in mare; sono state rilevate alcune iridescenze, che non si sa se siano imputabili all’evento.
Le molte vite di Antonio Vaccarino, l’infiltrato dei pizzini con la cupola
Antonio Vaccarino, nato a Corleone nel 1943, con la famiglia gestisce una delle sale da cinema più antiche di Sicilia. Prima o poi qualcuno dovrà fare un film sulla sua storia. L’ultima scena è ambientata proprio nel cinema di Castelvetrano dove si incontrava con il tenente colonnello della Dia che poi gli passava (via mail!) le intercettazioni sulla caccia a Messina Denaro, da lui prontamente girate a un amico mafioso. Prima però Vaccarino ha percorso almeno quattro vite. La prima scena è ambientata nei furenti Anni 90, Vaccarino è il giovane sindaco Dc di un paesone ad alta densità mafiosa, Castelvetrano, terra di don Ciccio Messina Denaro, e si fa notare per la prosa colta e gli occhi rampanti.
Poi lo arrestano : un pentito discusso lo accusa di essere il capomafia del paese. Conosce la galera più dura, l’isolamento nel carcere di massima sicurezza di Pianosa. Lo condannano solo per traffico di droga ma viene assolto per associazione mafiosa. Lui proclama la sua innocenza e cerca il rapporto con lo Stato. Il film vira verso un Donnie Brasco all’italiana. Dal 2004 al 2006 fa l’infiltrato e intrattiene, d’accordo con i servizi segreti, una corrispondenza con il superlatitante Messina Denaro. Vaccarino è lontanamente imparentato tramite la moglie con il nipote di Bernardo Provenzano, boss di Corleone. Il fratello di Messina Denaro era stato un suo alunno e quando aveva 12 anni e pochi soldi lui aveva comprato un gelato al boss. Tutto vero ma stupisce la facilità con cui il boss abbocca. Vaccarino chiede di creare una società per costruire insieme grazie alle entrature nell’Anas un’area di servizio sulla Palermo-Mazara, autostrada che in quel punto era e resterà (forse perché o la fa la mafia o non si fa?) senza una pompa di benzina. Messina Denaro accetta ed estende l’invito a Provenzano che però sarà arrestato nel 2006 con i pizzini nel cassetto. Vaccarino era indicato come Vac, o Vc o Svetonio mentre il boss si faceva chiamare Alessio.
Scoppia il caso. I servizi segreti non avevano informato la Procura che un loro infiltrato dialogava con Messina Denaro e trasmetteva i suoi pizzini da due anni. Il fatto che a guidare i servizi sia in quel momento il generale Mario Mori, poi condannato in primo grado per la Trattativa Stato-mafia, non aiuta a dare una lettura univoca.
Quando le indagini della Polizia fanno saltare la corrispondenza di “Svetonio” con “Alessio” scoppiano le polemiche. Ci sono due letture inconciliabili come sempre capita con Vaccarino: i servizi di Mario Mori sostengono di avere infiltrato l’ex sindaco nella mafia al massimo livello. Se li avessero lasciati fare alla fine avrebbero arrestato Messina Denaro e pure Provenzano. Altri fanno notare che non risultano pedinamenti dei postini per trovare i boss. Comunque Messina Denaro legge sui giornali le sue missive e si infuria. Il boss fa la figura del tonno nella rete del furbo ex sindaco. Nei bigliettini Matteo si scusava con il politico perché Provenzano si era fatto arrestare con i pizzini e si lasciava andare a confidenze sulla figlia che non aveva mai potuto conoscere perché nata nel 1995 quando era latitante. Il boss scrive un’ultima lettera il 15 novembre 2007: “Ha buttato la sua famiglia in un inferno… la sua illustre persona fa già parte del mio testamento… in mia mancanza verrà qualcuno a riscuotere il credito che ho nei suoi confronti”. Secondo gli investigatori è una sentenza di morte condizionata: “il debito” sarà riscosso “in mia mancanza” cioé dopo un eventuale arresto.
Da allora tutte le mattine la gente di Castelvetrano si chiede come faccia quel professore amante del cinema a prendere il caffè al bar senza scorta. E ora, dieci anni dopo quella lettera, un altro ufficiale della Dia avvicina Vaccarino e gli invia per mail un’intercettazione sulla caccia a Matteo. Siamo all’ultima scena del film. Vaccarino viene intercettato mentre consegna quell’intercettazione a un amico imputato con lui negli Anni 90 ma – a differenza di Vaccarino – condannato per mafia. Lo spettatore si starà chiedendo: perché lo fa? Perché il colonnello della Dia svela le intercettazioni a Vaccarino? E perché Vaccarino le gira a un condannato per mafia? Oggi ci sarà l’interrogatorio di garanzia. Probabile che Vaccarino si difenda sostenendo che non voleva danneggiare l’indagine ma solo fare “l’amico” di questo mafioso per riattivare, a beneficio dell’investigatore della Dia, quel rapporto. Magari per dare la caccia a Messina Denaro. Lo spettatore, per risolvere il giallo, potrebbe ascoltare le parole dette da Vaccarino all’amico. Purtroppo, quando l’ex sindaco consegna al condannato per mafia l’intercettazione, usa una frase degna di una sfinge come lui: “Con l’uso che tu sai di doverne fare e con la motivazione che la tua intelligenza sa che mi spinge”. Il mistero Vaccarino continua.
Messina Denaro, indagini ostacolate da due militari
Chiedi al “tuo ex collaboratore del passato”. Da una parte un carabiniere finito in manette, dall’altra Tonino Vaccarino, soggetto già in contatto epistolare con l’ultimo boss stragista latitante: Matteo Messina Denaro, fuggiasco dal 1993. Era questo il metodo infallibile per ricevere informazioni “di prima mano” sulle indagini per le ricerche del latitante di Castelvetrano. Così a Castelvetrano, roccaforte della mafia trapanese, prede e cacciatori finiscono per invertirsi i ruoli. Avevano paura di essere intercettati. Si incontravano di soppiatto, tenendosi in contatto con telefonate rigorosamente su Whatsapp. “Noi salutiamo sempre, va be a lei sicuramente intercettano, a me non lo so ma”, diceva Marco Zappalà, tenente colonnello dell’Arma ma in servizio alla Dia di Caltanissetta. L’ufficiale però non sapeva di essere intercettato dai colleghi del Ros che ieri lo hanno arrestato assieme all’appuntato Peppe Barcellona in più occasioni addetto alla trascrizione delle intercettazioni del clan Messina Denaro. Per tre anni avevano lavorato insieme ed erano rimasti amici. “Un nominato riservato si può fare?”, chiedeva Zappalà e Barcellona accedeva allo Sdi (Sistema di indagine) riservato dell’Arma. L’inchiesta sui due militari infedeli è stata coordinata dai pm della Dda di Palermo, dall’aggiunto Paolo Guido e dai sostituti Padova e Dessì. I due carabinieri avevano creato un canale di comunicazione “carbonaro” con Vaccarino. Secondo il Ros l’obbiettivo di Zappalà era di “carpire informazioni su un possibile scambio di pizzini che lo stesso Vaccarino, avrebbe potuto riavviare con il latitante Messina Denaro”. Ma nel frattempo era lui a rivelargli notizie riservate sulle indagini antimafia. Il 7 marzo 2017 i carabinieri appuntano l’ingresso di un uomo nell’abitazione dell’ex sindaco di Castelvetrano, soltanto dopo scopriranno che si trattava di Zappalà. Proprio in quell’occasione il militare inviò due email con “quattro fotografie raffiguranti altrettante schermate tratte dal sistema utilzizato per l’ascolto in remoto delle conversazioni intercettate”. È lì che oltre alle informazioni sulla latitanza di Messina Denaro sono emersi gli sfoghi di due persone già sfiorate dai blitz Antimafia: Sebastiano Parrino e Ciro Pellegrino. I due parlano dei funerali di Lorenzo Cimarosa, morto al termine di una lunga malattia mentre stava collaborando con i pm della Dda. Accusavano Vincenzo Santangelo di non essersi fatto pagare per seppellire “quel fradiciume”. Nell’intercettazione integrale (ma non inviata a Vaccarino) si parlava anche di luoghi in cui Messina Denaro avrebbe trascorso la sua latitanza. Fogli alla mano l’ex sindaco di Castelvetrano incontrò Santangelo per mostrargli le intercettazioni, precisando “con l’uso che tu sai di doverne fare e con la motivazione che la tua intelligenza sa che mi spinge”.
Mercatone Uno senza pace, Shernon la rileva ma poi chiede il concordato
Da qualche giorno i 1800 dipendenti della Mercatone Uno salvati dal licenziamento durante la scorsa estate sono di nuovo in bilico. La Shernon Holding, società che a giugno ha acquisito i punti vendita e assorbito buona parte dei lavoratori, ha presentato il 9 aprile al Tribunale di Milano una richiesta di concordato preventivo in bianco. Una mossa che, stando a quanto detto dalla proprietà, serve solo ad affrontare il momento di crisi finanziaria in attesa di trovare nuovi investitori che rafforzino il gruppo. Ma, visti gli esiti incerti, di fatto ha portato con sé di nuovo lo spauracchio di una possibile ennesima riduzione di personale. Insomma, il percorso di ripresa innescato dopo la cessione di nove mesi fa rischia un nuovo brusco stop. La Mercatone Uno è un’azienda che, prima di sprofondare in grandi difficoltà, aveva vissuto lunghi periodi fortunati. Specializzata nella vendita di mobili ed elettrodomestici, è nata nel 1975 e nei momenti di massima espansione è arrivata a un fatturato da 800 milioni, riuscendo a garantire lavoro per 3.700 dipendenti. Dal 2007, però, sono iniziate le difficoltà e l’arrivo della recessione a livello generale ha complicato tutto. Chi ha seguito la vicenda ricorda che questa azienda ha fatto negli ultimi anni un uso massiccio di ammortizzatori sociali, tra contratti di solidarietà e cassa integrazione. Nel 2015 ha chiesto e ottenuto di essere ammessa all’amministrazione straordinaria. Questa fase è stata più volte prorogata, anche perché il primo bando per la vendita dei negozi, nel 2016, non ha ricevuto offerte. Nel secondo, invece, si sono alleggeriti i requisiti ed è stato possibile cedere 64 punti vendita su 74 totali. Ad acquisirli sono state due diverse società: una è la Cosmo, l’altra è la newco Shernon Holding. Le lunghe trattative con i sindacati hanno permesso di salvaguardare buona parte dei posti di lavoro. Con l’accordo firmato tra giugno e luglio 2018, la Cosmo si è fatta carico di 285 dipendenti su 566. La Shernon Holding, invece, ne ha presi circa 1.800 su 2.179. Un processo che quindi si è chiuso con un taglio doloroso – tra licenziamenti, pensionamenti e ricollocazioni – ma inevitabile viste le condizioni di partenza. Il problema è che ora sembra non essere finito, anche perché per far ripartire le attività servono investimenti e ristrutturazioni. “Già il mese scorso – spiega Aurora Blanca della Fisascat Cisl – ci avevano detto che dovevano ricapitalizzare con 20 milioni di euro. Ci risulta però una cifra non sufficiente perché, da quello che riferiscono i lavoratori, i magazzini sembrerebbero essere vuoti”.
I tentativi di neutralizzare le idee radicali di Keynes
Il 16 aprile arriva in libreria la nuova traduzione italiana della Teoria Generale e di altri 28 brillanti saggi di John Maynard Keynes (molti inediti in Italia), curata da Giorgio La Malfa. L’edizione è corredata da 300 pagine di introduzione, biografia e approfondite note (redatte con Giovanni Farese). Filo conduttore del volume è il pathos politico di Keynes: emerge per esempio nella Lettera a Roosevelt del 1933, o quando, in Possibilità economiche per i nostri nipoti, 1929, si schiera “contro i due pessimismi”: quello liberista (che, temendo di danneggiare un sistema fragilissimo, non osa intervenire in modo incisivo) e quello totalitario (che considera la società aperta irriformabile). Il titolo della introduzione di La Malfa, Saggezza nuova per una nuova era, sottolinea la modernità del pensiero di Keynes. In una recensione sul Corriere della Sera, un Michele Salvati ecumenico mette in guardia dal trarre insegnamenti stringenti per l’oggi: “La situazione odierna, in Italia, in Europa, nel mondo, è profondamente diversa da quella sulla quale Keynes ebbe a riflettere. Conflitti rovinosi non minacciano l’ordine internazionale. E siamo nel mezzo di una rivoluzione tecnologica così profonda che non riusciamo a capire come la società del prossimo futuro riuscirà a dar lavoro ai suoi cittadini”. Ma a ben vedere, le novità di oggi non sono poi tali: la Storia non si ripete, ma fa rima! (Mark Twain). L’agnosticismo di Salvati rischia di sbiadire la drammatica, pungente attualità del grande economista inglese.
In verità, sappiamo anche alcune altre cose sul rapporto fra Keynes e l’oggi, oltre a quelle generali e non controverse – “un capitalismo temperato da interventi pubblici… nel contesto di un ordine politico liberaldemocratico, può trovare la migliore soluzione possibile ai problemi della convivenza umana” – cui accenna Salvati. Per esempio, sappiamo che la teoria della gestione della domanda aggregata di Keynes è stata molto sviluppata e raffinata (quindi attualizzata) dagli economisti venuti dopo.
“Sappiamo” inoltre che Keynes affronterebbe le moderne depressioni con politiche di sostegno alla domanda, non con l’austerità e la supply side economics dei liberisti e della gauche caviar europea. Nell’intento di “normalizzare” Keynes, Pierluigi Ciocca (sul Sole 24Ore) lo schiera “contro le spese correnti in disavanzo”, e per “una banca centrale indipendente”: non è così! Keynes non è per uno Stato indebitato nel lungo termine, perché vuole l’alternarsi di surplus e deficit; ma contro le depressioni chiede un bilancio in deficit senza “se” e senza “ma”. Ma oggi metterebbe in guardia i populisti: le politiche espansive (incluso scavare buche nella sabbia e poi richiuderle) risolvono le depressioni non in modo meccanico bensì nella misura in cui sono calibrate per migliorare le aspettative e ridurre incertezze e rischi. Infine, Keynes ogig sottolineerebbe che le aspettative che contano non sono la fiducia frutto di austerity, hard money, e laissez-faire – combinazione evocata inutilmente per anni nel 1929-33 dal presidente Usa Hoover e nel 2010-2011 dalla Bce di Jean Claude Trichet – bensì le aspettative reddituali individuali. Quelle che, per esempio, il Jobs act del governo Renzi ha contribuito a deteriorare.
Per restare all’esempio del Jobs Act, Keynes non ignorava che la mobilità dei fattori produttivi (promossa dal Jobs Act) aumenta l’efficienza generale del sistema quando vi sono: 1) forti variazioni nei vantaggi comparati o nelle preferenze dei consumatori e 2) la piena occupazione, che limita la disponibilità di lavoratori nei settori che vorrebbero espandersi. Ma ci ha spiegato che questo non vale quando c’è ampia disoccupazione. Una delle sue tante lezioni che sono state dimenticate – senza essere contestate con argomenti – dagli “Hooveriani” legati all’euro. Perciò è lecito presumere che oggi Keynes avrebbe contrastato quelle stesse ricette liberiste che contrastò da vivo.
Nella conferenza di Bretton Woods del 1944, Keynes sostenne l’opportunità di un sistema globale di cambi fissi, ma riaggiustabili, e con forti controlli dei capitali. Questo basta a far dire a chi lo vuole strumentalizzare che oggi egli sarebbe un fautore dell’euro. In realtà, negli anni ‘20 e ‘30, individuò nei cambi sopravvalutati una causa fondamentale e primaria della disoccupazione. Denunciò che le classi popolari erano crocifisse su una croce di oro (cambi fissi con la moneta unica dell’epoca); chiese il superamento di quel “barbaro” sistema e nel 1931 festeggiò la svalutazione della sterlina, poi del dollaro e del franco. Nel 1931 era virtualmente il solo a non prevedere catastrofi nel Regno Unito, bensì una ripresa. Ebbe ragione contro i luoghi comuni. Così come oggi è un luogo comune che uscire dall’ euro provocherebbe solo disastri.
Da tempo assistiamo a una campagna di stampa denigratoria contro la svalutazione, che è la medicina di cui da anni ha bisogno disperato la nostra economia. Non è dimostrabile, ma credo che se Keynes fosse vivo si batterebbe per lo smantellamento o l’uscita dall’euro (non dall’Ue): amava battersi solo contro tutti quando sapeva di aver ragione. Ma grazie ai suoi insegnamenti, oggi avrebbe al suo fianco molti economisti e premi Nobel.
Spingere troppo sull’ecumenismo non rende giustizia a Keynes: non era uomo per tutte le stagioni e per tutte le politiche. Resta l’amara conclusione di Miche Salvati sui governanti inadeguati, “capaci di rovinare anche la migliore strategia macroeconomica”: problema irrisolvibile senza una vera separazione “liberaldemocratica” fra governo e Parlamento. Speriamo che l’operazione culturale avviata dall’edizione della Teoria generale curata da La Malfa porti frutti.
Globalizzazione, economia e populismo: il festival resiste
Appena eletto, nel novembre 2018, il leghista neo presidente della Provincia di Trento Maurizio Fugatti era stato bellicoso sui destini del Festival dell’Economia: “Fino a oggi sono stati invitati solo studiosi e luminari con una precisa visione economica e politica del mondo, espressione della cultura della sinistra nazionale e locale. Vedremo come, ma questa distorsione finirà”. Almeno per il 2019, invece, il Festival curato da Tito Boeri e organizzato con la casa editrice Laterza sarà quello di sempre. E, quasi per contrappasso, la Lega ora al potere si troverà a ospitare quattro giorni di dibattiti (30 maggio – 2 giugno) tutti dedicati a “Globalizzazione, nazionalismo e rappresentanza”. Giusto all’indomani delle elezioni europee che si terranno il 26 maggio. “Spesso le ricette sovraniste si scontrano con le necessità di bilancio, con la realtà dei mercati, coi trattati internazionali. Come fanno i governi sovranisti a risolvere questi conflitti economici? E come i partiti e i gruppi non-sovranisti rispondono? In altre parole, quali sono le nuove dimensioni del conflitto politico sui temi dell’economia?”, così scrive nella presentazione del programma Tito Boeri, oggi tornato professore della Bocconi dopo aver chiuso il suo mandato da presidente dell’Inps in aperto contrasto con l’esecutivo gialloverde. Tra gli ospiti ci sono tutti i grandi esperti di populismo internazionali, da Pippa Norris a Cass Mudde a Rafael Di Tella, a Daron Acemoglu. Ci sono poi incontri che piaceranno poco ai sovranisti, tipo “L’austerità sostenibile” con l’ex capo economista del Fmi, Olivier Blanchard. Ci sarà perfino il durissimo (con l’Italia) consigliere di Angela Merkel, Lars Feld, oltre all’economista dell’Università di Chicago Raghuram Rajan. Tra gli ospiti di area governativa, oltre al presidente della Provincia Fugatti, c’è il presidente dell’Inps Pasquale Tridico, autore del reddito di cittadinanza. Chissà se, come con i governi precedenti, qualche ministro si aggiungerà all’ultimo: la discussione sul populismo diventerebbe sicuramente più frizzante.
Asti-Cuneo,dieci chilometri di investimenti per avere milioni di euro anche da Toninelli
Danilo Toninelli batte Graziano Delrio. L’ex ministro dei Trasporti si era dato molto da fare per confezionare un bel pacco regalo ai Gavio, ma Toninelli è più intraprendente e sta facendo molto di più. Con la grande famiglia di costruttori e concessionari delle autostrade del nord-ovest, dalla Torino-Milano A4 alla Asti-Cuneo A33, il ministro a 5 Stelle ha stipulato un accordo vantaggioso per loro, ma poco rispettoso delle regole di mercato. Al punto che quasi sicuramente sarà ritenuto dall’Ue un aiuto di Stato e bocciato.
Tutto l’affare ruota intorno ad appena dieci chilometri che mancano per il completamente di un’autostrada secondaria, la Asti-Cuneo, i cui lavori sono fermi da anni e che il ministro Toninelli avrebbe generosamente voluto fossero sbloccati in fretta. Per quel pezzetto d’asfalto ci vorrebbero 350 milioni di euro, ma i gestori dell’autostrada, i Gavio, con oltre il 60 per cento e il resto Anas, quei soldi non ce li hanno oppure dicono di non averli. Comunque non li tirano fuori se prima non ottengono dallo Stato ciò che vogliono.
Comprensivo, Delrio era venuto incontro alle loro richieste inventando il finanziamento incrociato. Facendo cioè piovere da un’altra concessione dei Gavio assai florida, quella della Torino-Milano, i quattrini necessari per la Asti-Cuneo: 350 milioni di euro più altri 280 per il pagamento di lavori già fatti. In cambio di questo impegno, ai Gavio veniva offerto su un piatto d’argento il prolungamento dal 2026 al 2030 della durata della concessione della Torino-Milano più un bonus di 380 milioni di euro (il diritto di subentro) da esibire al momento della scadenza della concessione stessa. Nello stesso tempo, forse anche per dare un po’ di fumo negli occhi all’Europa, la durata della concessione della secondaria e poco frequentata Asti-Cuneo veniva ridotta e portata dal 2045 al 2030 facendo coincidere così questa scadenza con quella della “casa-madre” Torino-Milano.
La manovra di Delrio aveva tutti i connotati del regalo, ma il pregio di essere formalmente corretta. I 380 milioni di euro previsti come valore di subentro erano infatti l’equivalente dell’Ebitda (il profitto dell’impresa prima delle tasse) della Torino-Milano e della Asti Cuneo per 1,4 che è il moltiplicatore massimo ritenuto congruo dall’Unione europea per queste faccende. La convinzione della Commissione europea per la concorrenza è che valori di subentro superiori all’1,4 dell’Ebitda siano eccessivi perché di fatto impediscono che altri soggetti concorrenti a fine concessione possano subentrare al posto del concessionario in essere.
A Toninelli, però, quell’intesa non era piaciuta, soprattutto nella parte che riguardava il prolungamento quadriennale della concessione per la Torino-Milano e quindi si era messo al lavoro per impostare la faccenda su altre basi. Il nuovo ministro ha accettato l’idea del finanziamento incrociato tra la concessione della Torino-Milano e la Asti-Cuneo, ha detto sì al finanziamento di 350 milioni di euro per la decina di chilometri della Asti-Cuneo più i 280 milioni per i lavori pregressi. Ma ha bocciato la proroga della concessione per la Torino-Milano. In cambio non ha toccato la durata della concessione dell’Asti-Cuneo che rimane fissata al 2045 e ha regalato ai Gavio un valore di subentro stellare, 800 milioni di euro. Che sono circa tre volte l’Ebitda della Torino-Milano, quindi il doppio di quell’1,4 tollerato dall’Unione europea. Risultato: la manovra di Toninelli è fuori dalle regole, altera la concorrenza e difficilmente supererà lo scoglio dell’Europa.
Di più: con l’operazione Toninelli, i connotati della Asti-Cuneo cambiano sostanzialmente e quell’autostrada da concessione diventa di fatto un appalto concesso ai Gavio. Viene così stravolta a tutto vantaggio dell’attuale concessionario la gara con cui nel 2003 venne assegnata l’Asti-Cuneo. È facile prevedere che gli esclusi (Gruppo Toto e Sis-Dogliani) impugneranno la soluzione Toninelli che di fatto azzera sia i rischi della costruzione in quanto i costi sono integralmente coperti da un soggetto terzo sia i rischi di gestione collegati al traffico garantendo all’attuale concessionario una remunerazione di mercato maggiore di quella offerta in sede di gara.
“Ma io lavoravo soltanto per il ministero con l’Ue”
Non ne so niente. Io non ero consulente di Gavio, ero nella Struttura di Missione”. Il professor Maurizio Maresca sembra cadere dalle nuvole quando, contattato dal Fatto, viene informato che esistono atti stilati dai carabinieri di Firenze in cui si sostiene che, nel negoziato tra governo, Commissione europea e imprese per il rinnovo delle concessioni autostradali, utilizzasse le informazioni ottenute grazie a un incarico pubblico “per curare nel contempo, remunerato, gli interessi del gruppo Gavio nel settore delle concessioni autostradali”.
Professore, i carabinieri parlano di un suo doppio ruolo.
Assolutamente no. Non ero consulente del gruppo Gavio.
Mai avuto rapporti con il gruppo Gavio?
Non ho mai lavorato per il gruppo Gavio. Forse prima, ma non per cose strategiche
Agli atti ci sono telefonate in cui i carabinieri dicono che lei si sentiva con Gavio e, parlando dei negoziati con l’Ue, assicurava il suo appoggio
Mi dice cose di cui non so nulla. Io parlavo coi concessionari, anche il capo di gabinetto, il ministro, i direttori generali. Le trattative con i concessionari non le facevo io ma le faceva il direttore generale. Io mi occupavo della trattativa con la Commissione Ue, ma solo del profilo di diritto tra governo e Bruxelles.
In una telefonata intercettata e riportata dai carabinieri lei chiede a suo figlio: “Fino a oggi noi abbiamo avuto mandato da Gavio a fare i suoi interessi… e questo va benissimo… ma in una logica di collaborazione con lo Stato… se adesso noi… cosa facciamo?”.
Ero con mio figlio in studio insieme, adesso non più. Ma non so di cosa sta parlando
A Gavio, prima di andare a Bruxelles, diceva “vedo cosa posso fare”.
Non è così. C’era una trattativa con la Commissione in cui il ministero aveva una linea e io difendevo il ministero. Poi, e non dipendeva da me, l’interesse del ministero coincideva con quello del concessionario.
No, non coincideva. Il concessionario cercava un rinnovo delle concessioni maggiore di quello prospettato dall’allora ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio.
Può essere, ma io non c’entravo, mi occupavo della trattativa con la Commissione con durezza. Delrio ha messo paletti con i concessionari molto giusti.
Emergono anche una serie di incontri tra lei e l’avvocato renziano Alberto Bianchi.
È un collega di Firenze che avrò incrociato qualche volta.
In alcune telefonate lo definisce un “grande amico”.
Con Bianchi abbiamo avuto delle pratiche insieme, ma non nel periodo della trattativa con la commissione.
Ci sono telefonate in cui parla anche con Fabrizio Palenzona.
Palenzona era il presidente di Aiscat, c’era una trattativa tra governo e Commissione europea sugli aiuti di Stato in materia di concessioni, ovvio che Aiscat fosse un interlocutore.
Però lei provava a parlare con Bianchi, con l’ex ministro dello Sport Luca Lotti e con altri.
Dai concessionari ero considerato una specie di, non dico cane da guardia, ma uno troppo legato alle regole europee, e le regole europee sono dure e rigide.
In una telefonata però lei dice a Gavio “qualsiasi scelta tu voglia fare io sono con te”.
Io quelle telefonate non le conosco. Certo che parlavo con il gruppo Gavio ma non per fare quelle trattative. Io mi occupo di diritto europeo. E in quella trattativa io ho lavorato a supporto del capo di gabinetto o del ministro.
Autostrade, al servizio dei Gavio c’era l’uomo del governo Renzi
“Fino a oggi noi abbiamo avuto mandato da Gavio a fare i suoi interessi… e questo va benissimo… ma in una logica di collaborazione con lo Stato… se adesso noi… cosa facciamo?… a parte che non ce lo chiedono… non ce lo hanno nemmeno chiesto…”. Il 20 giugno 2015 il professor Maurizio Maresca, ordinario di diritto internazionale all’Univesità di Udine, chiama il figlio per parlare della sua duplice veste di “consigliere della Presidenza del Consiglio in materia giuridico-economica” e di consulente del gruppo Gavio, il terzo operatore mondiale delle concessioni autostradali. Maresca era stato chiamato da Matteo Renzi per riformare il sistema autostradale. I militari dell’Arma sostengono però che lui, storico consulente dell’Associazione delle società concessionarie di autostrade (Aiscat), rappresentasse anche interessi privati.
L’inchiesta Grandi Opere sugli appalti nelle infrastrutture, è fatta da migliaia di atti. Tra questi ce n’è uno del 19 luglio 2015, una richiesta di proroga delle intercettazioni a carico di Maresca e Paolo Emilio Signorini, oggi presidente dell’Autorità portuale di Genova. Entrambi non risultano indagati, ma i militari sostengono che nonostante Maresca lavorasse per lo Stato, “nel contempo, per come emerge dalle conversazioni rilevate, utilizza informazioni e contatti che gli derivano da questo incarico, per curare, remunerato, gli interessi del gruppo Gavio, interessi confliggenti con quelli rappresentati dal neo ministro alle Infrastrutture Graziano Delrio che intende rinegoziare le favorevoli condizioni concesse dal precedessore Maurizio Lupi”. Ipotesi d’accusa che non avranno seguito. Forse perché, come ha spiegato Maresca al Fatto, “non ero consulente di Gavio, lavoravo nella struttura di missione del ministero, non retribuito”. O perché Maresca, interrogato a Firenze, avrebbe spiegato che il suo ruolo pubblico non era operativo. Anche se il professore spiega di non essere stato “chiamato dalla Procura fiorentina per quei fatti”. Il nome di Maresca non compare nel registro degli indagati delle inchieste fiorentine, né negli stralci approdati a Milano, Brescia e Roma. Ma le pagine stilate dai carabinieri in Toscana ritraggono il suo tentativo di tenere un piede in due staffe.
“Io non sapevo che era un consulente di Gavio – racconta al Fatto Mauro Bonaretti, ex capo di gabinetto del ministro Delrio –. Noi lo inserimmo nella struttura tecnica di missione quando terminò il suo incarico per il presidente Renzi. Era operativo anche a Bruxelles nelle trattative per valutare gli investimenti e i rendimenti”. Nell’estate 2015 il governo deve discutere con l’Ue la proroga delle concessioni autostradali. Delrio vorrebbe un rinnovo fino al 2028. I vertici di Gavio chiedono più tempo. “C’era un accordo fatto dal precedente ministro, Lupi, sull’estensione al 2042 – continua Bonaretti – con l’Ue decidemmo che non era plausibile, al massimo potevano esserci accordi puntuali su alcuni investimenti in cambio di piccoli allungamenti”.
Oggi Maresca sostiene di non aver avuto nulla a che fare con la trattativa, ma gli atti firmati dai carabinieri toscani raccontano altro. Per esempio gli incontri con l’avvocato Alberto Bianchi, allora presidente della Fondazione Open, la cassaforte politica di Renzi. “Ho conosciuto Maresca per un incarico professionale tra il 2014 e il 2015 – spiega Bianchi al Fatto –. I miei rapporti con lui, esauriti nel 2016, riguardano strettamente la mia attività professionale, della quale rispondo solo ai miei clienti e all’Autorità giudiziaria se riterrà di chiedermelo”.
L’11 giugno 2015 Maresca riceve un sms da Bianchi: “Riusciamo a vederci prima di martedì? Alle 9 devo vedere Bonaretti (Mauro, capo di gabinetto di Delrio, ndr)”. Di quell’incontro Maresca informa poi Fabrizio Palenzona che “come presidente dell’Aiscat, l’Associazione delle concessionarie, è interessato alla questione del rinnovo delle concessioni, argomento oggetto dell’incontro Maresca/Bianchi”, annotano i carabinieri. “Sto andando da un nostro amico… ma non amico amico che uno pensa amico… amico! Nostro amico!”, dice Maresca a Palenzona. I due si sentiranno tre volte in dieci minuti. Palenzona raccomanda a Maresca “di non accontentarsi di una semplice rassicurazione da parte dell’amico, nella considerazione che gli eventi si stanno sviluppando in senso opposto ai loro interessi”. “È noto che mi ritengo amico di Palenzona”, ricorda Bianchi al Fatto. I carabinieri non sanno quello che si dicono Bianchi e Maresca. Ma sanno che Maresca chiama “Paolo Pierantoni, consigliere delegato della Cisa spa, e premettendo di essere da Bianchi, si accorda per incontrarsi a Firenze alle 17 del 18 giugno, presso lo studio di Bianchi, prevedendo la partecipazione anche di Mino Gavio, del Gruppo Itinera”.
Nonostante i molti incontri, la situazione non sembra sbloccarsi. Lo rivela un’intercettazione del 25 giugno 2015: Maresca spiega al figlio Davide che “Delrio non intende avallare le pretese dei Gavio”. La faccenda, dicono i militari dell’Arma, crea problemi a Maresca che dice al figlio: “Noi stiamo collaborando con la Presidenza del Consiglio… col ministero… per fare delle cose… se cambiano le posizioni del governo su queste vicende qua è chiaro che i nostri clienti potranno non essere contenti”. Il gruppo Gavio, secondo Maresca, pensa che “tanto questi cadono da un momento all’altro… domani ci troviamo non più Delrio che è uno un po’ ostico… ma uno tipo Lupi”.
Il doppio ruolo di Maresca, secondo gli atti, emerge prima dell’incontro tra governo italiano e Ue. Con Gavio, Maresca “si impegna per fare in modo che in occasione dell’incontro dell’indomani a Bruxelles non venga determinata la data, assicurando il suo appoggio a Gavio anche per il futuro”, scrivono i carabinieri. E rassicura il cliente: “Faccio quello che posso… qualunque scelta tu voglia fare, sappi che io sono con te…”. L’8 luglio Maresca prova anche a parlare con Bianchi: “La mia sensazione è che… a Bruxelles non si porta a casa nulla… anche arrivare al 2028 è una cosa molto complessa”. E al telefono con Pierantoni della Cisa, il 16 luglio, riflette: “Forse io contornerei ad esempio… lo contornerei informandone Lotti”. L’ex ministro Luca Lotti spiega però al Fatto di non aver avuto un ruolo nella vicenda dei rinnovi e di non essere a conoscenza del doppio incarico di Maresca. Ad aprile 2018 la Sias dei Gavio ha ottenuto la proroga della concessione al 2030.
Il lavoratore non si misura dall’orario
Sta diventando senso comune che si debba “lavorare meno, lavorare tutti”. Lo ha detto per ultimo il presidente dell’Inps Pasquale Tridico, che da accademico si occupa proprio di Economia del lavoro. In un Paese a crescita zero, è il ragionamento, meglio redistribuire il lavoro che c’è invece che avere tanti disoccupati e tanti lavoratori oberati e sottopagati. I primi avranno un reddito e una dignità, i secondi più tempo libero (anche se, forse, salari più bassi). Così i disoccupati consumeranno di più, il Pil crescerà e avremo più lavoro per tutti. Peccato che l’Italia segua già questa ricetta dal 2008: oggi c’è il record di occupati, 23,3 milioni, ma queste persone con un impiego lavorano il 6 per cento di ore in meno che dieci anni fa e producono il 5,5 per cento di Pil in meno. Come si spiega? Hanno contratti peggiori, che occupano meno ore (tanti part time involontari) e con salari più bassi. Non sembra essere un approccio capace di far ripartire la crescita, anzi. Su Lavoce.info Andrea Garnero Cyprien Batut e Alessandro Tondini spiegano come la letteratura accademica offra ben poche certezze su cosa succede limitando per legge l’orario di lavoro: solo in alcuni Paesi e in alcuni momenti storici (Francia e Portogallo, anni Novanta) ci sono effetti positivi sull’occupazione. Ma nessun automatismo. Tagliare gli orari di lavoro per legge serve poi a ben poco in un Paese fatto di artigiani e piccole imprese, dove nessuno timbra il cartellino. Il dibattito sul “lavorare meno, lavorare tutti” è ben poco sostenibile con dati e argomenti economici. Ma indica un tema reale: in Italia lavoriamo troppo perché la produttività è bassa, per mille ragioni strutturali e contingenti ma anche per una cultura del lavoro che premia il numero di ore alla scrivania invece che i risultati, in cui tutti sognano lo stipendio fisso uniforme invece che i bonus a fine anno. La vera battaglia non è per ridurre l’orario di lavoro ma per renderlo meno rilevante possibile. In un’economia di servizi quasi tutto si può fare lontano da un ufficio. L’importante è il risultato.