Dal paradiso (fiscale) all’inferno della crisi: i guai di San Marino

Il paradiso (fiscale) perduto. Si stava meglio quando si era peggio. Ora che San Marino si è messa in regola con la trasparenza bancaria, il meccanismo perfetto come l’orologio del Palazzo del governo sembra bloccato. Un paese spaccato: si dilania la politica, tremano le banche, lotte intestine dividono la magistratura. Si scoprono disoccupazione e debito pubblico. Ogni anno uno scandalo. L’ultimo è di due giorni fa, quando il Commissario della Legge (in pratica il pm) Alberto Buriani ha indagato due pezzi grossi: Catia Tomasetti, presidente della Banca centrale di San Marino, e Sandro Gozi, ex sottosegretario con Matteo Renzi e Paolo Gentiloni, oggi candidato alle Europee con Emmanuel Macron. L’accusa è amministrazione infedele.

Dice l’ordinanza: “Inducevano il consiglio direttivo della banca centrale a stipulare un contratto con Gozi avente a oggetto una ‘consulenza per adeguamenti normativi e per i rapporti con istituzioni estere’ poi rivelatasi fittizia… Tomasetti – è scritto nelle carte – ‘raccomanda l’adozione in data odierna della delibera’… Tomasetti ometteva di informare il consiglio direttivo del suo pregresso rapporto con Gozi che l’aveva introdotta come candidata alla carica di presidente della Banca Centrale e che già in passato si era adoperato perché Tomasetti ricevesse incarichi presso Cassa di Risparmio di Ferrara e Cassa di Risparmio di Cesena”. Il commissario sostiene che l’incarico “era privo di effettività”, per un compenso annuale di 120mila euro (10mila al mese), più rimborso spese e un success fee di 100mila euro. Tomasetti replica: “Il Commissario dice che ho lavorato a Ferrara e non è vero. Sostiene che ho taciuto i rapporti con Gozi, quando ne parlai pubblicamente”. La consulenza di Gozi? “Non l’ho conferita io, ma il consiglio direttivo, e ha prodotto risultati notevoli”.

Ma il punto non è l’inchiesta. Sono le polemiche. Dietro i cristalli del Tribunale si respira aria tesa. La magistratura è spaccata. C’è chi parla di un “un colpo da una parte e uno dall’altra”. Pettegolezzi, non c’è dubbio. Nel 2017 c’era stata, su un esposto del partito Movimento Rete, l’inchiesta sui passati vertici della Banca Centrale accusati, si leggeva nelle carte, “di concorso nel misfatto di amministrazione infedele”. Di che cosa erano accusati? “Operando al di fuori dei poteri istituzionali e del mandato” avrebbero impiegato “non meno di 49 milioni” pubblici nell’acquisto di “titoli illiquidi e privi di rating” per sostenere la banca sanmarinese Cis (privata).

“Le inchieste sono partite nel 2008 con l’indagine su due istituti locali – racconta Antonio Fabbri che vi ha dedicato un libro – Si parlava di esercizio abusivo di attività finanziarie in Italia. I dipendenti delle banche, secondo il pm, venivano in Italia per piazzare prodotti finanziari”. scandali a raffica, talvolta conditi con parentele, rapporti economici non sempre alla luce del sole. Un’Italia in miniatura, San Marino ha 33mila abitanti: qui i Capitani Reggenti, massima carica della Repubblica, cambiano ogni sei mesi e li incontri al bar a parlare di calcio. Ma l’esperienza del Titano racconta qualcosa anche all’Europa (pure se San Marino è fuori dalla Ue): se fai le regole, porti giustizia, ma – se altri non fanno altrettanto – rischi di metterti in ginocchio. Riferisce un alto funzionario che chiede riservatezza: “Abbiamo tolto il segreto bancario ed eliminato le società anonime, inaugurato la cooperazione con l’Italia per i dati tributari. Abbiamo introdotto l’autoriciclaggio prima di voi”. Ce n’era bisogno, a San Marino le inchieste rivelarono investimenti della Camorra e di esponenti della ’ndrangheta poi uccisi in Calabria.

Ma San Marino ora implode. Lo vedi nei negozi: una teoria di vetrine con magliette della Ferrari e della Juve. Le auto non sono le Lamborghini che incroci a Montecarlo. Per non parlare dei telefonini: “Qui la linea cade a ogni curva e ti tocca pagare il roaming”, racconta David Oddone del giornale sammarinese Repubblica. Negli anni del paradiso le banche erano 13, oggi sono 5 (ci sono sammarinesi che portano soldi in Italia!). La raccolta è scesa da 15 a 5 miliardi e gli Npl sono 500 milioni. “Avevamo la disoccupazione più bassa d’Europa, il 3%, ora siamo all’8%”, racconta William Vagnini, segretario generale dell’Anis (l’equivalente di Confindustria). Aggiunge: “Non c’era debito pubblico. Ora siamo a 300 milioni, oltre ai 530 per tappare le falle della Cassa di Risparmio (proprietà pubblica)”. Oltre 800 milioni, su 1,4 miliardi di Pil. In un anno la gente ha ingoiato due patrimoniali. “Peccato”, scuotono la testa Vagnini e Romina Menicucci dell’Anis, “C’è differenza tra San Marino e, per dire, Montecarlo. Qui ci sono oltre 300 industrie. Nel 2017 hanno aumentato il fatturato del 2,63%, investendo risorse proprie (le banche locali devono prendere soldi fuori a costi maggiori, ndr). Danno lavoro a 6mila italiani”. Ecco San Marino, che avrà un duemillesimo degli abitanti dell’Italia, ma è indipendente dal 301 o dal 1291, a seconda delle ricostruzioni storiche. San Marino che ha un caso diplomatico con il vicino: le targhe. Con le leggi del governo giallo-verde, se un’impresa manda in Italia un camion con autista italiano rischia il sequestro. La vivono come uno schiaffo: “Vero, abbiamo fatto i furbi con le banche, ma ora che siamo in regola ci lasciano affondare”.

Def, Upb: “Primi segnali di ripresa ma forti rischi al ribasso”

La prossima manovra parte già da 25 miliardi di euro prima ancora di valutare il costo di misure annunciate come la flat tax. È quanto segnala l’Ufficio Parlamentare di Bilancio nel corso di un’audizione alle commissioni Bilancio di Camera e Senato sul Def. Risorse necessarie per evitare l’aumento dell’Iva (per 23,1 miliardi circa) e per aumentare (1,8 miliardi) gli investimenti. Quanto agli ulteriori 2 miliardi necessari per portare il deficit al 2,1% programmatico, l’Upb ha ricordato che è già prevista ulteriore spending review per 2 miliardi. Anche Istat e Bankitalia, in audizione, hanno apprezzato il realismo della pesante revisione della crescita 2019 allo 0,2% a soli quattro mesi dall’indicazione di un +1%. Un quadro “complessivamente condivisibile”, dice il capo economista di Bankitalia Eugenio Gaiotti, “verosimile” anche per l’Istat dopo il recupero della produzione industriale d’inizio anno che fa sperare. Ma il contesto globale, alla guerra dei dazi alla Cina, espone anche quello 0,2% a “forti rischi” tanto per Bankitalia (“rischi notevoli”) che per l’Istat. E il percorso “più che impegnativo” con 3 anni di manovre da 21, 29 e 36 miliardi per rispettare la riduzione del deficit indicata, ha sottolineato la Corte dei Conti.

Eterno Bassanini, Cdp lo lascia in Open Fiber

È l’eterno ritorno di uno dei boiardi di Stato politicamente più longevi. Anche se Franco Bassanini non se n’è mai andato da Open Fiber, la società della fibra controllata 50 e 50 dalla Cassa Depositi e Prestiti e dall’Enel. Dopo un scontro tra i due azionisti, all’assemblea di domani Bassanini sarà riconfermato presidente ed Elisabetta Ripa amministratore delegato.

Si chiude così uno scontro durato settimane. Per statuto alla Cdp spetta la presidenza, e all’Enel l’ad, entrambi possono poi pronunciarsi sulla poltrona riservata all’altro. L’ad di Cdp, Fabrizio Palermo avrebbe voluto un avvicendamento della Ripa con il direttore finanziario Mario Rossetti, considerato il vero manager operativo dell’azienda. Contrario l’ad di Enel, Francesco Starace, che nel 2016 ha messo in piedi Open Fiber spinto da Matteo Renzi nella strampalata idea che fosse l’unico modo per costringere Tim a investire sulla rete.

Passato dalla Dc alla margherita e poi ai Ds, costituzionalista, ministro più volte, membro di associazioni bipartisan a partire dalla sua Astrid e già presidente di Cdp, Bassanini ottiene così la riconferma anche dalla nuova Cassa a trazione M5S, in passato poco tenero verso il boiardo. Oggi ai piani alti di via Goito e tra i grillini di sottopotere è considerato l’unico manager in grado di guidare il progetto della rete unica che punta a fondere le infrastrutture di Tim e Open Fiber creando una società che finisca sotto il cappello della Cdp, che di Telecom è già azionista col 10%. Operazione che si cerca di accelerare, visto che Open Fiber non se la passa bene (il 2017 si è chiuso in rosso per 37 milioni e nel 2018 si prevede una nuova perdita). La poltrona in OF consente a Bassanini di spendersi in altre partite aperte, dalla presidenza della Cassa, dove Massimo Tononi è considerato ormai in uscita nonostante le ripetute smentite, a quella di Tim, dove anche Fulvio Conti traballa.

Reddito, vincono le Regioni: 3 mila navigator “dimezzati”

L’attesa per gli aspiranti navigator sta per finire: domani l’Anpal Servizi pubblicherà il bando per la selezione dei tremila collaboratori che si dovranno occupare del reddito di cittadinanza. Una volta assunti, però, questi non avranno il compito di seguire direttamente i beneficiari del sussidio nella ricerca di un’occupazione; si dovranno limitare ad aiutare i Centri per l’impiego nel preparare i progetti personalizzati e nel costruire la rete con enti di formazione e imprese. Insomma, contrariamente alle iniziali intenzioni di Luigi Di Maio, saranno solo assistenti tecnici, anche se – per comodità – tutti continuano a chiamarli navigator.

Il lungo braccio di ferro col Governo è stato vinto dalle Regioni. Nonostante il ministro Di Maio ci abbia provato fino all’ultimo, oggi sarà firmata l’intesa che mette nero su bianco le mansioni di chi sarà assunto presso la società in house dell’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro (Anpal). “I servizi erogati dai navigator – si legge nel documento – non sono in alcun modo da intendersi in sostituzione delle funzioni dei centri per l’impiego o di altri servizi erogati a livello locale o regionale, ma in raccordo e supporto degli stessi”. Una dicitura pretesa dai venti assessori al fine di proteggere il territorio da invasioni di campo. La Costituzione affida infatti le politiche attive del lavoro alle Regioni, mentre il progetto originario di Di Maio prevedeva ben 6mila navigator guidati dall’Anpal Servizi, quindi dal ministero del Lavoro, e investiti di un ruolo centrale nella macchina del reddito di cittadinanza. Alla fine, come detto, le Regioni sono riuscite a far ridimensionare il tutto. I navigator sono diventati 3 mila e lavoreranno dietro le quinte, studiando i piani di inserimento lavorativo per i disoccupati sostenuti con il reddito. La presa in carico resta invece una prerogativa dei centri per l’impiego regionali, che saranno rinforzati con 5.600 nuovi operatori subito e altri 6mila dal 2021 (ma per tutti questi mancano ancora i decreti di riparto). Le Regioni si aspettano che non contenga alcun riferimento al “case management”, cioè la modalità di gestione che prevede l’uso del software pensato dal neo-presidente Anpal Mimmo Parisi. Nel caso ci fosse, le Regioni storcerebbero il naso perché sarebbe interpretato come un nuovo tentativo del governo di insistere sul progetto iniziale. Saranno ammessi i laureati magistrali in Economia, Giurisprudenza, Scienze politiche, Sociologia, Psicologia e Scienze della Formazione, e secondo le ultime indiscrezioni non dovrebbe essere richiesto un voto minimo di laurea.

L’arrivo dei navigator ha creato scetticismo tra gli attuali dipendenti dei centri per l’impiego. Qualcuno fa notare che molti candidati sono oggi gli utenti degli ex uffici di collocamento: giovani laureati che chiedono informazioni sul concorso. Qualche altro è contrariato sapendo che nei centri ci sono orientatori che prendono circa 22 mila euro lordi all’anno, mentre la retribuzione dei navigator sarà di 27 mila euro. Tra l’altro, nei primi sei mesi di servizio i nuovi arrivati dovranno essere formati, anche se l’addestramento sarà per il 60% svolto direttamente al lavoro. Insomma, impareranno facendo.

Nonostante l’avviso con i requisiti arriverà nelle prossime ore, già da settimane è partito il business dei corsi di formazione per il concorso navigator. Si tratta per lo più di lezioni online, con prezzi che partono da 120 euro e arrivano in alcuni casi quasi a 500 euro.

L’urlo di “Monica” che nessuno riesce ad ascoltare

Vorrei urlare il suo nome. Ma non posso. Capita, nel mio mestiere, di incrociare la disperazione e non saper cosa fare: devo aiutarla, ma come? La lettera di Monica (il nome è di fantasia) mi è arrivata via Twitter dal suo attuale compagno. Sì, proprio quei social di cui si parla solo come luogo di indignazione, maleducazione e rabbia, e dove invece, accanto a hater e webeti, ci sono persone comuni, portatrici di drammi o semplici storie quotidiane, che vogliono solo condividere. Ti raccontano i loro problemi, chiedendoti una mano “visto che lei va in tv e scrive, e la stimiamo tanto”. E tu (almeno io) non puoi sfuggire alla responsabilità di quella vita che ti si consegna, vita a rischio in questo caso, che potrebbe essere cancellata perché nessuno l’ha difesa. Cara Monica, io non posso accettare il pensiero di non aver risposto alla tua richiesta d’aiuto e il rischio di leggere il tuo vero nome – dopo – su un articolo di giornale il cui titolo parla, classicamente, di “tragedia annunciata”. Accetto le tue condizioni – non renderti riconoscibile – ma la tua storia la racconto, sperando che almeno questo possa servire a qualcosa.

Monica in 20 anni di matrimonio ha “subito di tutto: botte, minacce, insulti” dall’ex marito. Anche una violenza sessuale: “Dopo una discussione in cui gli dicevo che mi trattava da ‘prostituta’, mi ha letteralmente violentata, dicendomi ‘Ti faccio vedere io come si tratta una puttana’ e quando ha finito, mi ha lanciato dei soldi sul comodino ridendo di me”. Monica allora ha chiamato i carabinieri: “Signora, dai, non esageriamo…”, le hanno detto, e invece di invitarla a denunciarlo si sono limitati ad accompagnarla dal padre: “Ci dorma su stanotte…”. Monica ha provato per ben tre volte a separarsi, ma nemmeno i suoi familiari l’hanno aiutata: “Hanno sempre minimizzato tutto”, e poi “magari le cose cambieranno”, “non si può abbandonare la famiglia” e “sono arrivati i figli”. Monica ha resistito finché ha potuto, poi, un paio d’anni fa, non ce l’ha più fatta: “Ho preso i miei due figli e sono letteralmente scappata di casa”. Nuova vita? No, l’inferno che pensava di essersi lasciata alle spalle lo aveva davanti: “Lui era sempre dov’ero io”, “minacciava di morte il mio nuovo compagno e mio padre”, “dovevo essere scortata ovunque”… Monica sporge denuncia per violenza domestica e stalking (non per violenza sessuale perché non vuole lo sappiano i figli) e riesce a ottenere dal Tribunale un divieto temporaneo di avvicinamento, “ma terminati i 60 giorni è ancora dietro casa”. Come se non bastasse, il box misteriosamente prende fuoco: “I carabinieri pensano sia stato lui, ma non essendoci prove, non posso far altro che stare attenta”. Monica ha paura, per sé e i figli, che il padre “non ha mai cercato” e per i quali non paga tutto il dovuto. Constatato che “non c’è modo di fermarlo”, la sua domanda è sconfortata e sconfortante: “Nulla può la legge”?

Monica grida disperata: ha fatto tutto quello che doveva fare, ha avuto coraggio, ma ora ha paura. Vorrei anch’io urlare il suo nome, se solo questo non rischiasse di esporla ancora di più alla furia del suo persecutore. Ma lei esiste. In carne e ossa. Allora chi aiuta Monica e le (tante, troppe) altre costrette al buio delle minacce senza difesa? Dov’è lo Stato che chiede di denunciare? Aspetta di scuotere la testa di fronte a un’altra vittima che la testa ha provato ad alzarla?

Rustichelli, il “fuori ruolo” non cambia mai

Il 20 febbraio 2019 – e cioè a distanza di ben tre anni dalla prima delibera del 25 febbraio 2016 che nominava Lucia Musti (procuratore aggiunto) Procuratore capo di Modena – il plenum del Csm, all’unanimità, ha nominato a tale incarico direttivo Paolo Giovagnoli (da anni Procuratore della Repubblica di Rimini) ponendo, così, termine a un lungo braccio di ferro tra Csm e Consiglio di Stato, avendo quest’ultimo annullato, per ben tre volte, le delibere con le quali pervicacemente il Csm insisteva sulla nomina della Musti costringendo il Giovagnoli a promuovere i relativi ricorsi giurisdizionali.

Ecco le tappe di questa incredibile vicenda: a) annullamento della prima nomina della Musti da parte del C.d.S. con decisione del 17.1.2018 n. 271; b) seconda nomina della Musti con delibera del Csm del 14.3.2018; c) annullamento della seconda nomina da parte del C.d.S. con decisione del 2.7.2018 n. 4042, che accoglie il ricorso del Giovagnoli per ottenere l’ottemperanza alla sentenza n. 271/2018; d) terza nomina della Musti con delibera del Csm 25.7.2018 (e cioè quasi in articulo mortis del precedente Consiglio); e) annullamento della terza nomina da parte del C.d.S. dell’8.1.2019 n. 191, che ordina l’ottemperanza alle sue decisioni 271 e 4042 del 2018; f) quarta delibera del (nuovo) Csm del 20.2.2019 di nomina di Giovagnoli.

Ci sono, quindi, voluti tre anni di contenzioso (e un nuovo Csm) per prendere atto di una verità incontestabile e, cioè, che “la Musti non ha mai ricoperto un incarico direttivo né ha conseguito, pertanto, i risultati del dr. Giovagnoli”, peraltro più anziano nel ruolo della magistratura rispetto alla Musti.

Sembra, quindi, che il nuovo Csm abbia “recepito” il basilare principio – quasi sempre, in un delirio di onnipotenza, disatteso in passato con pregiudizio per la funzionalità degli uffici e dei diritti degli interessati – per il quale tutti, senza eccezione alcuna, in uno Stato di diritto, devono ottemperare alle decisioni del loro giudice naturale.

Di converso, va segnalato il recentissimo parere favorevole rilasciato dalla Commissione competente del Csm al “fuori ruolo” del magistrato Roberto Rustichelli, nominato alla presidenza dell’Antitrust con un provvedimento congiunto dei presidenti di Camera e Senato. Con tale parere – adottato a maggioranza avendo votato contro il consigliere togato di Area, mentre si è astenuto il componente laico in quota M5S – si è ritenuto che la legge Severino e una circolare del Csm del 2014 non fossero ostativi a tale incarico pur avendo il Rustichelli già superato il tetto dei dieci anni consentito per il “fuori ruolo”. Ora, in verità, ci si sarebbe aspettato che i componenti laici in quota del cosiddetto “governo del cambiamento” (tre per il M5S, due per la Lega) fossero, già per principio, contrari agli incarichi “fuori ruolo” e fossero fautori di una sua drastica riduzione sia nella consistenza numerica che nei tempi e ciò perché i magistrati (attesa anche la grave carenza di organico) devono fare esclusivamente il loro lavoro che consiste nello svolgimento dell’attività giurisdizionale senza la necessità – se non in casi del tutto eccezionali: esperti presso le Commissioni parlamentari di inchiesta ovvero, e in numero limitato, presso il solo ministero di Giustizia – di dover occupare importanti poltrone dei ministeri o delle varie Authority o di ottenere prolungati incarichi in Europa e nel mondo (ad es., Commissione europea, Consiglio d’Europa, Onu, ecc.).

Vedremo se mercoledì, in “Plenum”, i consiglieri in quota “governo del cambiamento” voteranno contro il “fuori ruolo”, così appoggiando il sicuro no di quel rigoroso magistrato che è Piercamillo Davigo.

La Francia confusa sotto la cenere

Alzare gli occhi verso Notre-Dame: è questo gesto – prima negato, poi di colpo possibile – che segna la scena madre dell’ultimo film di Nadav Lapid, Sinonimi (Orso d’Oro a Berlino quest’inverno), quando il protagonista, israeliano immigrato a Parigi per il disgusto del suo Paese, e in cerca di un’identità che la Francia medesima stenta a riconoscere, s’illude finalmente di potersi appropriare di quanto la sua patria d’elezione avrebbe da offrirgli – la lingua, la storia, la libertà religiosa e di parola. Perché, come dicevano coloro che lunedì a Saint-Michel, attorno ai salmodianti genuflessi, non cantavano canti di fede, la cattedrale è un simbolo che trascende di molto i valori cristiani, anche al di là della contaminazione turistica: la sindaca Anne Hidalgo rammentava che la vera svolta della liberazione di Parigi, nell’agosto del 1944, fu quando suonarono le campane di Quasimodo e furono udite – si dice – fino a Buenos Aires.

Eppure. Se anche, come i giudici della procura di Parigi finora, escludiamo a priori che sia stato doloso il falò della cattedrale (evento mille volte evocato e auspicato dai fanatici che proprio in Francia pochi anni fa avevano dichiarato guerra all’Occidente), non si può non rilevare – i flagellanti, i millenaristi e gli integralisti del web lo stanno già facendo – la sinistra coincidenza di questa catastrofe con uno dei momenti più cupi della storia della Chiesa d’Oltralpe.

Da un lato c’è lo scacco subito, durante la presidenza del socialista François Hollande, con l’approvazione della legge Taubira sui matrimoni gay, vanamente osteggiati da grandi manifestazioni, le manifs pour tous, che raccoglievano a Parigi (e proprio attorno alla chiesa di Notre-Dame) decine di migliaia di cittadini antiabortisti e un poco omofobi, già distintisi negli anni per scandalizzate veglie di esorcismo fuori dai teatri dove si teneva uno spettacolo “blasfemo” di Romeo Castellucci – molte, in quel contesto, le donne della buona società di provincia, pronte a sacrificare la solidarietà di genere al recupero di un’identità confessionale e di un latente spirito di classe, come ha mostrato Marine Nguyen in un lancinante monologo (Il figlio) da poco ripreso al Théâtre du Rond-Point.

D’altra parte, c’è lo scandalo della pedofilia che ha travolto il primate delle Gallie, l’arcivescovo di Lione Philippe Barbarin, condannato poche settimane fa per aver coperto per molti anni gli abusi di un prete della sua diocesi: se ne parla nell’ultimo film di François Ozon (Gran Premio della Giuria all’ultima Berlinale), che ha per titolo Grazie a Dio, le incredibili parole pubblicamente pronunciate da Barbarin per salutare l’intervenuta prescrizione di parte degli abusi. In un racconto avvincente, Ozon ha ricostruito la lenta presa di coscienza, la difficile nascita di un’associazione, “La parola liberata”, che ha pian piano raccolto le vittime, delle classi sociali le più disparate – i bambini di un tempo diventati intanto uomini d’affari, rustici allevatori, o emarginati della società – attorno alla denuncia di una Chiesa distante, sorda quando non complice. Incomprensibile dunque, per molti fedeli poco addentro alle dinamiche della Curia, il fatto che papa Francesco, in occasione dell’incontro del mese scorso in Vaticano, abbia respinto le dimissioni presentate da monsignor Barbarin all’indomani della condanna.

Chissà se ora, caduta la guglia e salvate le reliquie, l’Église de France proverà a rilanciare se stessa e la sua immagine sull’onda di una solidarietà piovuta dal cielo. Di certo lo sta facendo l’élite industriale e del lusso (già vittima dei casseurs sugli Champs-Elysées) che prova a rifarsi un’immagine donando milioni; di certo lo farà il presidente Emmanuel Macron, che proprio lunedì sera avrebbe dovuto parlare alla nazione per rilanciare il suo mandato e tirare le somme del moscio “dibattito nazionale” in risposta ai Gilet gialli, e che ora spera di schivare le polemiche per un cantiere maldestro e di saltare sul sentimento di rinascita dalle ceneri di un popolo provato: spera insomma che quelle fiamme, con l’aiuto di Dio, allontanino il Crepuscolo che gli preconizza sin dal titolo l’impietosa requisitoria di Juan Branco (Au diable vauvert, 2019), dove si denunciano le sue compromissioni, i poteri occulti che l’hanno spedito all’Eliseo, e il suo sempre più pericolante cerchio magico, dai Kohler ai Benalla ai tanti che ormai, vista la malaparata, alla spicciolata lo stanno abbandonando.

*Professore ordinario di Filologia classica all’Università Ca’ Foscari di Venezia

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L’incendio di Notre-Dame risveglia il nostro europeismo

Fino a ieri uno spettro si aggirava per l’Europa: il nazionalismo. Nell’imbrunire della luce parigina, però, e nel suo scivolare nell’oscurità della notte, un fuoco si è alzato incandescente nel buio. A ricordare chi siamo. Italiani, si! Francesi, si! Tedeschi, si! Spagnoli, si! Mediterranei greci e nordici sassoni, si! Ognuno con la sua fiera appartenenza nazionale. Ognuno, però, in un intarsio secolare con l’altro come il soffitto ligneo della cattedrale che ieri abbiamo visto bruciare nello stesso bruciare del nostro stesso sentimento. Ed è qui, per questo sentimento, che la cattedrale parigina ha offerto il suo corpo; ha offerto il suo corpo sull’altare del sentimento a cui nessun obnubilato nazionalista ha potuto sottrarsi: il sentimento per cui, dai Pirenei alle Madonie, dal Manzanarre al Reno, in quell’isola di Francia bruciava una parte di sé. La ragione può ben essere appunto obnubilata; ma al cuore non si può comandare. E il cuore di ognuno di noi è costituito da quell’intarsio di tessuti vascolari che ognuno ha visto ieri proiettati sulla navata della cattedrale di Francia; sopra quella navata su cui si leva il soffitto che gli storici dell’arte chiamano “la foresta”. Proprio per l’inestricabile intarsio di legni e controlegni che nei secoli si sono intrecciati inestricabilmente e indissolubilmente fra di loro. La foresta lignea ha bruciato e dentro ognuno di noi ha bruciato la foresta cardiaca; la foresta lignea ha bruciato e ha acceso nel buio la fiaccola di un intero continente; perché dentro di noi, nel buio della ragione, il sentimento dell’apparteneza a una stessa storia secolare, pure lì dove la consapevolezza intellettuale della ragione e della cultura non siano arrivati, ha bruciato la foresta cardiaca. Nella cui luce del sacrificio a ognuno non è più concesso di dirsi italiano senza dirsi europeo; di dirsi francese senza dirsi europeo; di dirsi tedesco senza dirsi europeo; di dirsi spagnolo senza dirsi europeo; di dirsi greco o nordico sassone senza dirsi europeo. In cui a nessuno è più concesso di dirsi, senza dirsi nel fuoco sacro della Nostra Signora d’Europa!

Giuseppe Cappello

 

La questione libica ci riguarda tutti 

In questa fase di conflitto in Libia si fa concreto il rischio che possano ripartire i barconi dei migranti. Tutto ciò metterebbe a dura prova il sistema di accoglienza europeo e scaricherebbe ancora una volta sull’Italia il peso delle migrazioni. Una ragione in più per risolvere diplomaticamente l’instabilità libica.

Gabriele Salini

 

Salvare le Gualchiere di Remole è un dovere

Il 28 giugno 2017 i comitati e le associazioni rispondevano con un’offerta simbolica all’asta del Comune di Firenze del “complesso immobiliare ‘Gualchiere di Remole’ posto in Comune di Bagno a Ripoli”. Da allora si sono succedute assemblee pubbliche, convegni, numerosi articoli sui quotidiani e diverse iniziative tesi a ricordare il valore culturale, identitario e storico di quello che viene definito ed è “uno dei maggiori esempi di archeologia industriale in Europa”. Dopo quasi due anni di assordante silenzio, ai primi di marzo, Palazzo Vecchio e il sindaco di Bagno a Ripoli annunciano che le Gualchiere non si vendono più e che attiveranno un percorso congiunto di riqualificazione del complesso. Salta subito all’occhio la tempistica e il carattere strumentale dell’annuncio: uno spot elettorale in piena regola. Non possiamo credere, infatti, al repentino cambiamento di rotta di un’Amministrazione come quella fiorentina che da anni persegue la politica della svendita al migliore offerente dei beni culturali a lei affidati, piuttosto che garantire la loro sicurezza e conservazione. Palazzo Vecchio avrebbe dovuto da tempo iscrivere le Gualchiere nell’elenco dei beni beneficiari dell’Art bonus (introdotto dal decreto-legge nel 2014, poi convertito in legge) e avviare, di intesa con la Soprintendenza, un serio progetto di restauro, protezione e manutenzione del bene.

Se si lasceranno passare altri mesi credo non resti altra scelta che chiedere al Ministero di imporre al Comune di Firenze gli interventi necessari per assicurare la conservazione delle Gualchiere, ovvero provvedervi direttamente: la tutela e la conservazione sono preliminari a qualsiasi altro intervento, non si può pensare di utilizzare e/o valorizzare ciò che non si sa conservare!

Lucia Lepore

 

Salvini deve pensare a parlare meno e a lavorare di più

È da un po’ di tempo che imperversa sulla stampa nazionale e nelle televisioni la polemica tra Salvini e tutto il mondo 5 Stelle. Sicuramente l’effetto europee fa sentire il suo peso. Però diventa ogni giorno più evidente la strana idea del governare che ha il “cazzaro verde”.

Nella sua logica alterata ogni questione inerente la sicurezza riguarda lui e solo lui, che pensa di avere sempre e comunque l’ultima parola. Eppure pensavo che le scelte di ogni ministro fossero frutto della condivisione delle forze politiche che hanno dato vita al governo.

Gli suggerirei di apparire meno e di lavorare e studiare di più, perchè i problemi italiani non si risolvono con i suoi tweet e tra poco gli elettori chiederanno il conto delle promesse fatte e di quelle mantenute.

Leonardo Gentile

Lo scontro di ideologie va a discapito dei fatti

Gentile redazione, sto seguendo il dibattito sul farmaco “triptorelina” che, da quanto ho letto, viene usato per i ragazzi “libellula”, quelli che vogliono cambiare sesso, trovandosi costretti nel proprio corpo. È un tema delicato, che andrebbe affrontato anche su basi scientifiche. E invece, tra politica e media, vedo sempre solo uno scontro di ideologie.

Cara Silvia Lari, su questo tema – come su altri che riguardano più in generale il “corpo” e il controllo del corpo – si misura uno scontro per cui, da una parte, si parla di “crociate medievali post-Verona” (per chi chiede che la triptorelina venga vietata ai ragazzi perché nociva); dall’altra, di “lobby Lgbt” (tra cui, per esempio, per i colleghi de “La Verità” ci saremmo anche noi, per “La Storia” pubblicata sabato scorso sui giovani adolescenti in transizione). Sarebbe però interessante, oltreché doveroso visto che si parla prima di tutto di persone, in questo caso pure minori, partire dai fatti, anziché dalle ideologie. Nessuno dice che la triptorelina sia cosa buona e giusta. Ma il professor Lucio Romano, in quanto rappresentante del Comitato nazionale per la bioetica, ha presentato la settimana scorsa uno studio in Commissione Sanità al Senato, nell’ambito del dibattito sull’“eticità” dell’uso della triptorelina per i casi di disforia di genere. “In questi bambini e adolescenti, l’incongruenza tra identità di genere e identità biologica fa vivere la pubertà come un ‘disastro naturale’. La disforia di genere si presenta frequentemente associata con problemi emotivi e comportamentali: quali autolesionismo (24% dei casi), ideazione suicidaria (45-65%), precoce abbandono scolastico (43%)”. Ecco perché, ha concluso il prof. Romano – già presidente dell’associazione Scienza e Vita, quindi difficilmente annoverabile nella “lobby Lgbt” – “i rischi possibili legati a un intervento precoce sono minori rispetto ai rischi derivati da un mancato intervento”.

Qui non si sta dibattendo di “più triptorelina libera per tutti”, ma sempre e comunque di un utilizzo per casi limitati, e dopo una stringente valutazione multidisciplinare, che accompagnerà il ragazzo/a in tutto il percorso. Un percorso che è soprattutto dolore, dolore fisico e psicologico: l’ho visto riflesso negli occhi delle tante persone incontrate all’Ospedale Cattinara di Trieste, all’avanguardia col professor Carlo Trombetta nelle operazioni chirurgiche di cambio di sesso. E non è facendo soffrire di più le persone che si discostano dal biopotere dominante, direbbe Michel Foucault, che queste si adegueranno…

Socialisti e M5S tifano no-Brexit Poi Juncker-bis alla Napolitano?

I laburisti di Jeremy Corbyn sono in testa con il 24%, mentre i Tories si attestano sul 16%, meno della metà di quanto hanno preso alle ultime elezioni nazionali. Seguono, quasi in parità, il Brexit Party – nuova creatura politica dell’euroscettico Nigel Farage – al 15% e lo Ukip con il 14%, ma un risultato ragguardevole lo raggiungono anche i Verdi, che con l’8% eguagliano i Libdem. Sono i risultati del primo sondaggio condotto da YouGov sull’elettorato britannico. I dati, già piuttosto sorprendenti nel dare in testa la sinistra e la destra conservatrice di Theresa May svuotata da nazionalisti e pro-Brexit, non si riferiscono a Westminster, ma al Parlamento europeo. Dove torneranno, ormai è certo, i 71 rappresentanti del Regno Unito, dopo la decisione d’estendere la proroga per l’uscita di Londra fino al 31 ottobre.

Era previsto, con la Brexit, di tagliare i seggi di Strasburgo dagli attuali 751 a 705, ripartendo su altri Paesi una quota dei 71 assegnati al Regno Unito. A Francia e Spagna ne sarebbero toccati 5 in più, all’Italia 3. Contrordine: i numeri restano quelli di prima.

Inoltre il “tutto come prima”, in realtà cambia tutto. Apparirà più chiaro non appena il Parlamento avrà pubblicato, domattina, le prime proiezioni di nuovo a 28 Paesi (non a 27 come finora), ma una considerazione si può già fare. Da un lato, i socialisti perderanno molto meno del previsto, grazie all’apporto del Labour. La maggioranza tra socialisti e popolari a questo punto avrà ancora i numeri, a discapito dell’ipotetica alleanza sovranista? E che succederà poi con il ritorno di Farage? Resterà alleato degli M5S, che a questo punto potrebbero non doversi più arrovellarsi per comporre il loro gruppo politico in Europa?

Ci sono poi conseguenze che sfiorano il surreale. Quando, entro l’autunno, si dovrà eleggere la nuova Commissione, bisognerà governare il caos e così Juncker potrebbe restare in carica. Fino a definitiva Brexit.