Sorpresa: pure i grillini “processano” Foa

Chi comanda in Rai? Questo interrogativo è stato il protagonista dell’audizione di Fabrizio Salini e Marcello Foa in commissione di Vigilanza. La domanda è rimbalzata esplicitamente nelle domande con cui i parlamentari hanno bombardato amministratore delegato e presidente. Più quest’ultimo, in realtà.

Foa, infatti, è stato sottoposto a un “processo” da 5 Stelle, Pd, Forza Italia e Fdi, con la sola Lega a difendere l’uomo che Matteo Salvini ha voluto alla presidenza della tv pubblica. L’accusa rivolta a Foa è di aver travalicato il suo ruolo e di essersi accaparrato fette di potere che, evidentemente, Salini gli ha lasciato.

Così, fuoco alle polveri. Gianluigi Paragone (5 Stelle): “Presidente, abbiamo un problema. La legge non prevede una diarchia. Se lei vuole il posto di Salini, lo dica chiaramente. Come direbbe Berlusconi: si contenga!”. Davide Faraone (Pd): “Lei non è una figura di garanzia. Sul pluralismo nei Tg è venuto a raccontarci una storiella che avevamo già ascoltato da Sangiuliano, ma il Tg2 sembra la caricatura della parodia che Corrado Guzzanti faceva del Tg4”. Stessa esortazione da Antonello Giacomelli (Pd): “Mi sorprende che l’ad interpreti il suo ruolo in maniera così debole. Se c’è qualcosa che le impedisce di lavorare, ce lo dica…”.

Se Primo Di Nicola punta poi il dito contro il doppio ruolo di Foa presidente di Rai e RaiCom (“c’è conflitto d’interessi”), Daniela Santanchè la tocca piano: “Presidente, è una grande delusione. Le sue parole sul pluralismo sono come quelle di Alice nel paese delle meraviglie. Non si può permettere di venire qui con dei dati falsi! E poi perché ancora non si nominano ancora i direttori di rete? Si aspetta forse il 27 maggio?”.

A far innervosire i parlamentari è stata la relazione di sette giorni fa con cui Foa, numeri alla mano (dati di Agcom e Osservatorio di Pavia) ha dimostrato che il tempo nei Tg di governo e maggioranza gialloverde è inferiore a quello di Renzi & C. Insomma, un plotone d’esecuzione, col volto del presidente che diventa sempre più cupo, assumendo una tonalità grigioverde.

Alla fine, però, a rispondere alla domanda iniziale (chi comanda in Rai?) è Salini. “Credo di svolgere al meglio il mio ruolo, ho sempre agito in autonomia”, afferma l’ad. Mentre Foa, dopo esser tornato ancora sui numeri (“sono oggettivi, poi ognuno li interpreta come vuole”), risponde su RaiCom. “Non ho ruoli operativi, ho accettato su richiesta dell’ad”, precisa il presidente. Si difende anche sul contratto a due del suo staff, Cotone e Ventura: “È tutto regolare”.

Infine, la rissa sfiorata al Tg1 e la soppressione di Rai Movie. “Non ne posso parlare, c’è un audit in corso”, dice Salini sul caso Carboni-Polimeno. “Il brand Rai Movie non ci sarà più, ma i film aumenteranno”, conclude l’ad. Che però si becca una tirata d’orecchie da Carmen Di Lauro (5 Stelle): “Spero che il canale femminile non sia come quello di Mediaset. Io non lo guardo mai…”.

Interno contro Difesa, sulla Libia è rissa totale

Uno scontro durissimo tra Lega e M5S, un presidente della Repubblica preoccupato per “l’isolamento” italiano, un primo ministro, Giuseppe Conte, che cerca di far quadrare curve complesse, un governo, quello libico, che gioca alla minaccia del terrorismo.

Dietro la tragedia libica prevale il gioco politico e la propaganda. Lo scontro furibondo che si è avuto ieri tra il ministro dell’Interno, Matteo Salvini da un lato e i vertici della Difesa e il vicepremier Luigi Di Maio dall’altro, ne costituisce una prova.

Il leader della Lega, infatti, ha emanato una direttiva indirizzata alle forze di sicurezza, comprese quelle di competenza della Difesa – qui l’errore, voluto o meno – per isolare e bloccare qualsiasi iniziativa in mare della Ong Mediterranea, animata, tra gli altri, anche da Luca Casarini.

Il testo “intima” ai vertici della sicurezza di “vigilare affinché il comandante e la proprietà della Nave ‘Mare Jonio’ non reiterino condotte in contrasto con la vigente normativa nazionale e internazionale, nonché con le istruzioni di coordinamento delle competenti Autorità”. Insomma, se ne stiano buone.

Salvini invia la direttiva a carabinieri, Guardia di Finanza, Capitanerie di porto, ma anche ai vertici della Marina mettendo per conoscenza il Capo di Stato maggiore. Dai vertici militari si propaga, via note informali, una irritazione che raggiunge gli uffici del ministero della Difesa generando da qui, sempre tramite vie informali, l’accusa di “ingerenza” al ministro degli Interni. La stessa ministra della Difesa, Elisabetta Trenta, in mattinata aveva utilizzato la parola “vaneggiamenti” per prendere le distanze dalle parole di Salvini sui porti chiusi e sul rischio di sbarchi di terroristi in Italia.

E qui siamo al secondo terreno di gioco, quello tra Italia e Libia. Salvini, infatti, ha basato la sua direttiva sulle parole del vicepremier libico, Ahmed Maitig, incontrato in mattinata, che ha fatto riferimento ad almeno 400 terroristi dell’Isis pronti a fuggire in Italia. Maitig ha di fatto rilanciato l’allarme del primo ministro libico, Fayez al Serraj, secondo il quale ci sarebbero almeno 800 mila immigrati pronti lasciare la Libia per l’Italia. Allarmi su allarmi, propagati da un governo che cerca di trovare appoggi in Europa soprattutto nel governo italiano con cui ha condiviso finora una forte intesa e con cui, tramite i buoni uffici del Qatar – con cui proprio Salvini ha riannodato il dialogo qualche mese fa – punta a un intervento in chiave anti-Haftar.

L’annuncio sui terroristi e gli sbarchi serve a mettere in mora la Mediterranea – che, ovviamente, ha respinto gli addebiti garantendo di attenersi al rispetto del diritto internazionale – mettendo, tra l’altro, sullo stesso piano la complessità della guerra libica e il conflitto con la nave Mar Jonio.

Dietro la polemica c’è, ancora più in profondità, la diversità di posizioni tra Lega e M5S sui “porti chiusi” – diversità frutto della necessità dei pentastellati di distanziarsi dall’alleato in campagna elettorale – ed è questa la sostanza che induce Luigi Di Maio a rimproverare Salvini: “Se veramente abbiamo il problema di 800 mila migranti in arrivo – dice il vicepremier intervenendo, paradossalmente, da Abu Dhabi, paese che in questo scontro appoggia Haftar – di certo non li fermi con una direttiva che nessuno ha mai ascoltato”. Di Maio allarga la polemica anche alle alleanze europee di Salvini, in particolare il premier ungherese Viktor Orbàn, la cui linea punta a lasciare l’Italia sola con il problema dei migranti.

A cercare di tenere il filo di un governo litigioso è ancora una volta Giuseppe Conte che va al Quirinale a riferire al capo dello Stato. Il quale ascolta, attento, ma non evita di trasmettere al premier la sua preoccupazione per il possibile “isolamento” dell’Italia sulla Libia. In realtà, Conte sta sostenendo la linea della demilitarizzazione del conflitto e dell’accordo. La stessa linea che sta per discutere il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite su iniziativa della Gran Bretagna. Si vedrà se le potenze occidentali parleranno o meno con una voce sola.

Contro il Matteo “sfaticato”. La tattica 5Stelle per le urne

Insisteranno sui diritti civili, finti immemori dei loro strali alle Ong “taxi del mare” (Luigi Di Maio dixit). E soprattutto ricorderanno senza sosta che a darsi da fare nel governo gialloverde sono solo loro, i Cinque Stelle. Mentre il contraente di cui hanno scoperto i difetti, Matteo Salvini, fa poco o nulla, “non lavora”. Parte (e di fatto continua) da questi due dogmi la campagna elettorale del M5S in vista delle Europee del 26 maggio, con ogni evidenza un corpo a corpo con la Lega. Anche se l’obiettivo minimo quanto fondamentale sarà tenere a distanza il Pd.

E anche per questo, il Movimento parlerà molto di ambiente da qui alle urne, innanzitutto con gli eurodeputati uscenti, per rosicchiare a sinistra. Ma c’è pure altro a cui Di Maio, ormai sempre più un autocrate, pensa e lavora assieme al suo cerchio ristretto. Per esempio a come riprendere spazio e peso in Rai.

Perché serve anche frapporsi al dilagare del Carroccio in viale Mazzini, per raggiungere il vero obiettivo che il vicepremier si è dato per le elezioni, il 25 per cento. Anche se ufficiosamente tutti dal M5S mettono le mani avanti, sostenendo che “l’importante sarà superare il 20”, ossia la quota che nel 2014 valse 17 eletti. “Già con un 22-23 per cento potremmo mettere assieme tra i 18 e i 20 eletti”, ragionano ai piani alti. La certezza è che la virata a sinistra sarà sempre più marcata, per segnare le differenze con la Lega e recuperare un po’ di base. “I sondaggi confermano che funziona” dicono dal Movimento, dove compulsano stime e ricerche di mercato come il breviario.

Ma il primo mantra sarà un altro, ribadire ovunque che i provvedimenti del governo fatti finora sono quasi tutti a firma 5Stelle, e che mentre Di Maio e i suoi sono sempre impegnati sul fronte del governo, “Salvini fa solo propaganda, e al ministero passa ogni tanto”. Non è un caso che vicepremier e ministri del M5S ripetano sempre quel verbo, “lavorare”. Di Maio lo ha detto anche in assemblea congiunta davanti ai parlamentari, una settimana fa, naturalmente per farlo trapelare: “Non è un mistero che qui lavoriamo più di Salvini”. E non è affatto casuale che anche la sindaca di Roma, Virginia Raggi, abbia suonato la stessa nota per replicare agli attacchi del ministro dell’Interno: “Noi in Comune pensiamo a lavorare”. E l’infierire sul presunto lassismo di Salvini punta anche a indebolirlo agli occhi dell’elettorato del Nord, la sua prima riserva di caccia. Certo, poi ci sarebbero anche i temi. Come il lavoro e l’economia, e come è ovvio nel M5S si augurano che i primi soldi distribuiti con il reddito di cittadinanza diano spinta ai consensi. E di reddito i 5Stelle parleranno molto sui territori, che verranno battuti innanzitutto dagli europarlamentari uscenti. Furibondi per le 5 capolista calate dall’alto, cioè da Di Maio, ma forti di una rete costruita in questi anni.

E un argomento su cui batteranno parecchio sarà l’ambiente, sempre per succhiare voti a sinistra, ma pure per ricucire con la base delusa dai tradimenti su Tap e Ilva. Un indizio è la nota di ieri, in cui gli europarlamentari Piernicola Pedicini e Dario Tamburrano attaccano “quelli che hanno applaudito Greta Thunberg nel Parlamento europeo, ma che in cinque anni non hanno mosso un dito in difesa dell’ambiente”. E allo studio c’è anche una proposta di legge, per eliminare i vincoli di bilancio europei per gli investimenti nei progetti per contrastare i cambiamenti climatici.

Sullo sfondo, il nodo Rai. Perché i 5Stelle che “vedono” le urne stanno alzando la voce, sostenendo di essere penalizzati nei tg. “Protestano molto di più negli ultimi giorni, telefonano spesso” soffiano da Saxa Rubra. Ma la partita è molto più larga, ribattono dal M5S. E in quest’ottica va letto anche lo stop del senatore Primo Di Nicola al doppio incarico del presidente della Rai Foa, ossia come “un segnale”. Alla Lega e a Salvini, l’avversario.

Renato Soru assolto con formula piena per la vicenda Tiscali

Dopo due anni dall’avvio del dibattimento, si è chiuso a Cagliari il processo a Renato Soru e ai vertici di Tiscali imputati per la cessione nel 2005 di un ramo di azienda. Un’ora e mezza circa di camera di consiglio, poi i giudici della seconda sezione del tribunale hanno letto il verdetto: assoluzione con formula piena, perché il fatto non sussiste, dall’accusa di false comunicazioni sociali. “Bisogna avere pazienza e continuare a credere nella giustizia”, il commento dell’ex governatore della Sardegna. I pm invece avevano chiesto la condanna a 3 anni. L’inchiesta aveva scandagliato i bilanci e gli atti di vendita dei rami d’azienda dalla capogruppo Tiscali Spa a Tiscali Italia Srl e Tiscali Service Srl. Un’operazione da 162 milioni di euro, inseriti in bilancio nel 2005, che secondo la Procura avrebbe potuto influenzare l’andamento di Tiscali nel mercato borsistico. Ma nessun illecito è stato provato: oltre a Soru sono stati assolti Mario Rosso, ex ad, Luca Scano, membro del Cda, e gli altri vertici Salvatore Pulvirenti, Andrea Podda e Roberto Lai e gli allora amministratori Romano Fischietti e Ernesto Fava.

Forestale assorbita dai carabinieri: il sì della Consulta

Legittimo l’assorbimento del corpo forestale nell’Arma dei carabinieri. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale che ha ritenuto così infondate le questioni sollevate dai Tar di Abruzzo, Veneto e Molise sulla legittimità della riforma del governo Renzi che nel 2016 ha soppresso il Corpo forestale e ha previsto l’assorbimento del personale nell’Arma dei carabinieri. La Corte ha ritenuto che sia la legge delega sia il decreto delegato “non presentano vizi di costituzionalità in quanto le relative scelte sono il frutto di un bilanciamento non irragionevole tra le esigenze di riorganizzazione dei servizi di tutela forestale e quelle di salvaguardia delle posizioni del personale forestale”. Nel novembre 2018, invece, la stessa Corte Costituzionale aveva dichiarato illegittima la parte di quella riforma – approvata alla chetichella a ferragosto – che prevedeva il rischioso obbligo per la polizia giudiziaria di riferire delle indagini ai superiori gerarchici e non solo ai pubblici ministeri. A sollevare la questione era stata la Procura di Bari. In quel caso la Consulta ritenne lesiva delle attribuzioni costituzionali del pm “la specifica disciplina della trasmissione per via gerarchica delle informative di reato”.

Corruzione, la Bruno Bossio indagata a Catanzaro

Nell’inchiesta “Lande desolate” sul governatore della Calabria Mario Oliverio sono indagati anche la deputata Enza Bruno Bossio e suo marito Nicola Adamo, ex vicepresidente della Regione. Tutti e tre del Pd adesso sono accusati di corruzione. È quanto si legge nell’avviso di conclusione indagini notificato ieri dalla guardia di finanza ai 19 indagati. Per la Procura di Catanzaro, guidata da Nicola Gratteri, ci sarebbe stato una sorta di “accordo illecito” affinché l’impresa di Giorgio Ottavio Barbieri rallentasse i lavori di ristrutturazione di piazza Bilotti a Cosenza. L’obiettivo sarebbe stato quello di penalizzare il sindaco Mario Occhiuto. In cambio, la ditta Barbieri avrebbe ottenuto un finanziamento extra per completare, in Sila, i lavori delle piste di sci di Lorica.

Nelle carte dell’inchiesta si parla di “ordini di scuderia” che sono “tassativi”. “Ho avuto una riunione con il presidente – si legge in un’intercettazione – e il presidente mi ha detto: ‘Ti devi fermare su piazza Bilotti’”. Nell’accordo illecito, secondo la Procura un ruolo preciso lo hanno avuto anche Enza Bruno Bossio e suo marito. In sostanza avrebbero fatto pressioni sul direttore dei lavori Francesco Tucci affinché aderisse alla richiesta del presidente Oliverio, chiedendogli “anche di inibire l’accesso al cantiere” al sindaco Mario Occhiuto e a un assessore.

Oliverio avrebbe agito “per un mero tornaconto politico consistito nel privare il sindaco di Cosenza della possibilità di pregiarsi della inaugurazione dell’opera in vista delle imminenti elezioni a seguito del commissariamento del Comune”.

L’inchiesta era costata alcuni mesi di obbligo di dimora (annullato poi dalla Cassazione) al presidente della Regione accusato anche di abuso d’ufficio per i lavori della pista di scii di Lorica e dell’avio-superficie di Scalea.

Mafia Capitale, quei 39 “non ricordo” costano il processo alla dem Campana

I 39 “non so, non ricordo”, ripetuti durante il processo Mafia Capitale, sono costati alla deputata del Partito democratico Micaela Campana un posto nel banco degli imputati. Ieri è stata rinviata a giudizio perché accusata di falsa testimonianza: secondo i magistrati ha negato “reiteratamente di ricordare alcune circostanze della sua vita politica e privata”. Con lei, dovranno affrontare un processo penale anche altre 12 persone, tra cui l’ex braccio destro di Gianni Alemanno, Antonio Lucarelli, e Angelo Scozzafava, ex direttore del Dipartimento promozione dei servizi sociali del Comune di Roma.

In particolare Micaela Campana, ricandidata ed eletta tra le file del Pd alla Camera nonostante pendesse nei suoi confronti una richiesta di rinvio a giudizio, avrebbe “dimenticato” i motivi che spinsero il patron della “29 Giugno”, Salvatore Buzzi (condannato in appello a 18 anni di reclusione per associazione mafiosa), a contattare l’ex viceministro dell’Interno Filippo Bubbico (estraneo alle indagini). Il 17 ottobre 2016, chiamata a testimoniare nell’aula bunker di Rebibbia, la Campana disse di non ricordare “la richiesta rivolta a Buzzi di curare il trasloco per il cognato Nicolò Corrado, le ragioni dell’incontro del 4 aprile 2014 con Buzzi presso la sua abitazione, i collegamenti diretti di Buzzi con l’ex viceministro Bubbico e l’interessamento di quest’ultimo alle vicende inerenti alla gara per la gestione del Cara di Castelnuovo di Porto”.

“Lei è anche una persona giovane, quindi questo ‘non ricordo’ continuo come ce lo spiega?”, aveva domandato il giudice del processo “Mafia Capitale” in primo grado, Rossana Ianniello, ricordando alla Campana – lì come testimone – il suo ruolo in commissione Giustizia della Camera: “Dovrebbe sapere che il testimone ha l’obbligo di dire la verità”. Il giudice aveva anche chiesto spiegazioni sul famoso messaggio in cui la Campana chiamava Buzzi “grande capo”. “Per rispetto nei confronti di una persona più anziana di me e capo di una cooperativa”, aveva risposto la deputata considerata da Buzzi come una “referente” nel Pd.

“Una volta il rispetto si esprimeva dando del ‘lei’ alle persone più anziane”, aveva ribattuto la presidente del Collegio giudicante. Che poi ha trasmesso gli atti in Procura. Così i pm per alcuni hanno chiesto l’archiviazione (come per il segretario Pd Nicola Zingaretti, inizialmente indagato per falsa testimonianza), per altri hanno chiesto il processo. “Ancora una volta, come in passato, sono a disposizione dei giudici per fare chiarezza e le prove che potrò fornire in sede dibattimentale sono certa saranno utili a chiarire la mia posizione”, dice ora la deputata Pd.

Tra gli imputati del processo che inizierà il prossimo 13 novembre c’è Antonio Lucarelli. L’ex braccio destro di Alemanno è accusato di aver “taciuto in tutto o in parte ciò che sapeva intorno ai fatti sui quali era stato interrogato”, come testimone. Ossia “di non conoscere Massimo Carminati (l’ex Nar condannato in appello per associazione mafiosa, ndr)” e “ di non essere mai stato contattato dallo stesso nel quinquennio in cui ha svolto le mansioni di caposegreteria del sindaco Alemanno”. Angelo Scozzafava dovrà invece difendersi dall’accusa di falso documentale, perché come avrebbe attestato falsamente, tra le altre cose, l’avvenuto avvio dei lavori di ampliamento “del villaggio Castel Romano-Monte Melara, al fine di consentire l’allestimento e l’attrezzaggio con 46 moduli abitativi”.

Con Scozzafava, la Campana e Lucarelli, altri dieci andranno a processo. Quattro invece coloro che hanno ottenuto ieri il proscioglimento.

L’ultimo passo falso: la delibera-monstre che portò alla retata

Nessuno può restituire a Roberto B. quel posto di lavoro che probabilmente, se il Pd umbro non avesse innescato le sue pressioni e le sue raccomandazioni nei concorsi, gli sarebbe spettato per merito. “Un disabile vero, poverino”, diceva di lui la presidente della commissione, Rosa Maria Franconi. Nessuno può restituirgli quel probabile posto di lavoro. Però da ieri, quando percorre i suoi 60 km al giorno per un tirocinio, sa che per quel tipo di ingiustizia – ma secondo i pm per averla commessa e non subìta – il “posto” l’ha perso qualcun altro: la governatrice umbra Catiuscia Marini ieri s’è dimessa. È caduto l’ultimo bastione della tracotanza d’un sistema di potere che, stando alle accuse della Procura di Perugia e alle indagini della Guardia di Finanza, aveva permeato ogni spazio della sanità regionale: “Nessun concorso finalizzato alla selezione del personale dell’Azienda ospedaliera di Perugia – scrivono i magistrati – è risultato regolare”. Nessuno .

Roberto B. due giorni fa l’aveva detto al Fatto: “Marini – ha spiegato al nostro Thomas Mackinson – dovrebbe dimettersi. Fa malissimo sapere di essere stati esclusi per far posto ad altri, di più che la raccomandazione arrivava da qualcuno di sinistra, come noi”. A sinistra, Roberto B. ha chiesto le dimissioni 24 ore prima del segretario nazionale del Pd, Nicola Zingaretti. Indifendibile chiunque tarocchi una selezione pubblica, per favorire propri candidati, come è avvenuto – secondo i pm – per Marini (accusata di abuso d’ufficio, falso e rivelazione di segreto) che spingeva Anna C.. La sua condotta politica, intrecciata con le prove raccolte dagli inquirenti, dimostra che il potere a volte sopravvaluta se stesso fino a suicidarsi platealmente. Il Fatto ieri ha rivelato che, pochi giorni dopo la richiesta di domiciliari per il direttore generale dell’azienda sanitaria perugina, Emilio Duca, la giunta guidata da Marini ha firmato uno degli ultimi atti politici: la delibera che prorogava l’incarico a Duca, fino al 30 giugno, con la qualifica di commissario straordinario. La delibera è del 25 marzo. La richiesta di arresto è del 13.

Se Marini non avesse prorogato Duca, quegli arresti forse non ci sarebbero stati: con lui fuori dalla gestione dell’azienda sanitaria, i reati non potevano essere reiterati e le esigenze cautelari non sarebbero state necessarie. Eppure, leggendo gli atti, sembra che gli indagati sapessero dell’inchiesta in corso. Marini briga sul telefono di Duca per capire se è possibile cancellare messaggi intercettabili da un “captatore”. L’ex segretario regionale del Pd Gianpiero Bocci riesce a sapere come e quando sono state installate le microspie negli uffici pubblici. A spese nostre – e qui siamo al capolavoro – i dirigenti fanno bonificare i loro uffici dalle cimici.

Ma allora: perché prorogare l’incarico all’uomo che, per i pm, era il motore delle loro raccomandazioni, ovvero il funzionario che commentava: “Se ci intercettano scoprono 5 reati al minuto”. Disabili danneggiati nei loro diritti, uffici pubblici bonificati a spese nostre, la conferma dell’incarico a chi gestiva i “segnalati” della politica. Marini ha detto di essere estranea a tutto questo. Dagli atti emerge che per raccomandare Anna C. si faceva consegnare le tracce d’esame, le affidava al suo braccio destro affinché poi le portasse “a Marisa, quella della Coop” e giungessero a destinazioni. Le microspie hanno intercettato la conversazione. Le sentenze diranno se Marini sarà colpevole o innocente. Ma qui non è questione di reati. In una Regione dove nessun concorso esaminato dagli inquirenti è risultato regolare, se Marini avesse rispettato le regole, la Procura avrebbe potuto segnalarne almeno uno corretto. E la governatrice oggi sarebbe ancora al suo posto. Invece non ci sono eccezioni. Marini lascia il suo scranno perché, con le sue parole intercettate, ha dimostrato d’incarnare una regola brutale: fottere il disabile senza santi in paradiso.

Pd, la spinta di Zingaretti: Marini costretta a dimettersi

“Ritengo doloroso, ma giusto, rassegnare ora le mie dimissioni da presidente della Regione Umbria, perché ritengo di tutelare così l’istituzione che ho avuto l’onore di guidare, salvaguardare l’immagine della mia regione e della mia comunità e al tempo stesso avere la libertà di dimostrare la mia correttezza come persona e come amministratore pubblico”. Mancano pochi minuti alle 20 quando Catiuscia Marini, governatrice dell’Umbria, si dimette. Ha resistito per giorni e ha provato a capire se c’erano i margini per farlo anche ieri. È stata determinante la posizione del segretario del Pd, Nicola Zingaretti, che senza “mollarla” esplicitamente, l’ha però spinta verso l’uscita.

Già dalla mattina si capisce che la giornata sta per prendere una piega definitiva. Alle 9 e 30 è fissata la riunione del consiglio regionale, dove sono all’ordine del giorno 3 mozioni di sfiducia nei confronti della governatrice. Lei in origine era determinata ad andare avanti, ma dopo l’uscita dei giornali comincia a rendersi conto che non può: l’inchiesta si allarga, i vertici nazionali sono preoccupati.

Dunque, l’inizio del consiglio slitta, un minuto dopo l’altro, un’ora dopo l’altra. La Marini è in una stanza con i consiglieri di maggioranza Pd per decidere che fare. I contatti con il Nazareno sono costanti. Alle prossime amministrative si vota in 63 Comuni su 90, il rischio disfatta è alto. Così come per il Pd, l’Umbria rischia di essere un macigno nella campagna elettorale per le Europee.

Zingaretti prende la sua posizione parlando di fronte alla stampa estera: “Confido nella capacità di valutazione e nel senso di responsabilità della presidente perché faccia ciò che è più utile all’Umbria e alla sua comunità. Attendiamo di verificare le sue valutazioni”. Una presa di distanza evidente. Fino a lunedì, il segretario aveva esitato, commissariando il Pd locale, con Walter Verini, ma provando a distinguere il suo ruolo rispetto alla governatrice. “È stata scelta dai cittadini, non dal partito”, la linea che si andava ripetendo al Nazareno. Sullo sfondo, la paura di consegnare l’Umbria, una delle poche Regioni rosse rimaste, alla Lega. Ma poi, diventa chiaro che non si regge più. Zingaretti pranza con Verini, a Roma. Subito dopo il commissario parte per Perugia. Quando arriva dentro il Palazzo della Regione, c’è anche l’avvocato della governatrice, Nicola Pepe. Poi esce e i due rimangono soli.

Un lungo colloquio, nel quale soppesano gli scenari, i pro e i contro. Discutono, come hanno sempre fatto. Si conoscono da 30 anni, vengono entrambi dai Ds, anche se negli anni si sono scontrati, come quando la Marini decise di appoggiare per le primarie da segretario regionale Bocci (ora agli arresti domiciliari) contro lo stesso Verini. Ma non è il momento delle rivendicazioni. “Devi fare quello che è meglio per la Regione. Se resti, devi essere sicura di non fare peggio”, le dice Verini. Le prospetta le due possibilità: “Se lasci, metti al riparo le istituzioni. Se vai avanti, hai l’obbligo morale di mettere in sicurezza il sistema, che ha mostrato una falla enorme”. È chiaro che sia lui sia Zingaretti sono più che scettici sulla sua possibilità di rimettere le cose a posto. Ma entrambi vogliono far passare un messaggio: “Dev’essere una scelta tua”, le ripete il commissario. Poi se ne va.

Lei rimane da sola con il suo avvocato. Sente Matteo Orfini, il suo referente a Roma. Non sono ancora le 19, quando parla con Zingaretti. Una lunga telefonata affettuosa. Anche loro si conoscono da sempre: quando il segretario si dimise da europarlamentare perché eletto presidente della Provincia, fu proprio la Marini a subentrare. La decisione a quel punto è già presa, anche se ci vorrà un’ora a renderla pubblica.

La governatrice sceglie di farlo con una lettera inviata alla presidente dell’Assemblea legislativa, Donatella Porzi, nella quale ribadisce: “Sono una persona perbene”. “Ha scelto lei”, ci tengono a darle atto sia Verini sia Zingaretti.

A quel punto, Paola De Micheli risponde a Di Maio, che aveva definito l’inchiesta l’“ennesimo autogol” dei primi mesi della segreteria Zingaretti: “Hai aspettato tre anni sulle inchieste e sui processi della Raggi senza fare nulla”.

A Perugia si fa sera. Le elezioni regionali si avvicinano, anche se in casa Pd si scommette che non saranno prima dell’autunno. Ma intanto Matteo Salvini non si fa aspettare: oggi pomeriggio sarà in città. Al Nazareno, la sensazione è di sollievo. Il passo indietro è arrivato. La strada resta in salita.

Il “golpe di Mara”, l’ultimo guaio per Forza Italia

La notizia inizia a circolare freneticamente nel pomeriggio: un anonimo “big” di Forza Italia denuncia il fattaccio. Mara Carfagna starebbe compiendo “un golpe contro il partito, un blitz per tentare di rottamare Silvio Berlusconi e sfilargli il partito a 24 ore dalla consegna in Corte d’appello delle liste che sono state già compilate”. Grande allarme nelle file azzurre, si susseguono dichiarazioni roventi dei “carfagnani” e degli “anticarfagnani”. Ma cos’è successo? La deputata campana ha chiesto di essere candidata alle Europee nella circoscrizione Italia Meridionale e avrebbe inoltre invitato anche altri nomi pesanti del partito a farsi avanti per essere inseriti in lista. L’obiettivo – secondo i nemici interni – sarebbe quello di “contarsi”: Carfagna al Sud è convinta di poter raccogliere un grande numero di preferenze e magari anche di sconfiggere lo stesso ex Cavaliere, in modo da aumentare il suo peso nel partito e di fatto sottrarre il ruolo di numero 2 ad Antonio Tajani (che in effetti in questa fase non brilla per popolarità). Fatto sta che la presunta scalata della Carfagna ha gettato ulteriore sconforto in un partito già in evidente difficoltà (per i sondaggi deludenti e per il gran numero di transfughi che stanno lasciando Forza Italia per approdare nei partiti di Giorgia Meloni e Matteo Salvini). C’è poi la figura misteriosa del “big anonimo” che ha bloccato la scalata di Mara: il profilo – raccontano fonti azzurre – dovrebbe corrispondere a quello di Niccolò Ghedini, l’uomo che si occupa delle candidature per conto di Berlusconi. Il povero Renato Brunetta prova a smontare il caso con l’ironia: “ È certamente una divertente fake news. Se a parlare è un big non può essere anonimo, se è anonimo non può essere un big. Delle due, l’una. La partita è chiusa”. Ma al di là dell’umorismo dell’ex ministro, il clima nel partito non è mai stato tanto pesante e funereo. Come emerge anche dalle parole amare della parlamentare-amazzone Michaela Biancofiore: “Un partito dovrebbe essere una famiglia e nelle famiglie quando ci sono problemi ci si dovrebbe stringere tutti intorno al capostipite grazie al quale la famiglia stessa origina. Lottare dentro e fuori la famiglia è un atto masochistico che non lascerà nessuno illeso”.