“Salvini mi ha rubato lo slogan e poi mi ha pure rottamato”

“Fossi stato in Salvini invece di rottamarmi avrei puntato sull’usato sicuro. Ci sono rimasto male… Ma io sono un soldato della Lega e rispondo: obbedisco!”. Mario Borghezio è stato una delle colonne del Carroccio che fu. Ai suoi comizi le urla e i vaffa, accompagnati dal gesto dell’ombrello, hanno formato decine di dirigenti lumbard. E bisognava sempre ascoltarlo con attenzione, perché spesso lui, dal palco, diceva quello che Umberto Bossi non poteva dire, con la benedizione occulta del Senatur. Dopo 18 anni di onorato servizio come parlamentare europeo, Borghezio non sarà ricandidato.

Com’è possibile?

Non lo so nemmeno io. I miei colleghi venivano contattati per accettare la candidatura e il mio telefono restava muto. Poi lunedì mattina ho incontrato Salvini in prefettura a Monza, ho chiesto spiegazioni e lui mi ha rassicurato: noi non rottamiamo nessuno. Invece il mio nome nelle liste non c’era. Non candidarmi è un enorme errore politico.

Perché?

Seguire il Parlamento europeo è molto complicato, io stesso ho iniziato capirci qualcosa dopo anni. La Lega, probabilmente quadruplicherà i parlamentari, arriveranno tanti giovani. Ecco, uno con la mia esperienza sarebbe servito. Avrei fatto da guida ai neo eletti nei meandri delle aule di Bruxelles e Strasburgo. E sarei anche stato attento a chi viene imbarcato: nella Lega sta arrivando di tutto. Bisogna avere mille occhi, davanti a dietro.

L’ha chiamata qualcuno?

Non mi hanno fatto nemmeno una telefonata. Ma del resto in questi casi avvertire non è abitudine della casa.

Bossi non l’avrebbe fatto.

Il Senatur mi diceva sempre: tu sei un rivoluzionario, vai avanti così. In Europa credo di aver lavorato bene. L’emendamento Casimirri (la legge votata a Strasburgo per chiedere l’estradizione di Alessio Casimirri, ex brigatista rosso latitante in Nicaragua, ndr) è stato un grande successo. E poi sono sempre qui, tutte le settimane.

Al contrario di Salvini che da europarlamentare non si vedeva mai.

(Borghezio rimane in eloquente silenzio)

La Lega ha sterzato a destra come lei ha sempre predicato. Il successo di Salvini è anche una sua vittoria.

Per primo alla fine degli anni Novanta aveva aperto al dialogo con i movimenti di destra in Italia e in Europa. Che bisognasse parlare col Front National di Marine Le Pen sono stato il primo a dirlo. Ma ormai le definizioni destra e sinistra sono superate. Anche in Europa la contrapposizione è tra chi segue politiche mondialiste o identitarie. Le racconto una cosa.

Prego.

Lo slogan Prima gli italiani era quello della mia ultima campagna elettorale, nel 2014. Salvini se n’è impossessato. Buon per lui perché funziona.

Quanto andrà avanti il governo gialloverde?

Dipende. Lega e Cinque Stelle hanno molti più punti in comune di ciò che si pensa. Tra Salvini e Di Maio c’è feeling anche umano. Ed è un’alleanza che sta dando i suoi frutti, stiamo portando a casa parecchio. Si vedrà.

Farebbe ancora le ronde sui treni contro gli immigrati armato di ddt?

Quelle erano azioni da contestualizzare in quel preciso momento politico. Però del mio passato non rinnego assolutamente nulla.

Le rifarebbe?

No, adesso non è più periodo. Devo stare buono e tranquillo. Sto ancora pagando i 58 mila euro a Cecile Kyenge.

Il tribunale di Milano l’ha condannata per insulti razzisti all’ex ministro: diffamazione aggravata da discriminazione razziale.

Esatto.

Quindi ora cosa farà: passeggiate ai giardinetti?

Sono molto bravo nell’attacchinaggio, anche se sono più lento rispetto a 30 anni fa, quando ho iniziato con i primi manifesti della Lega. E pure nel volantinaggio me la cavo bene. Darò una mano al movimento, come sempre.

Trasformisti, parenti, indagati e l’amico del mare di Matteo

Dopo una lunga genesi, la Lega ha pubblicato le liste per le Europee: pochi nomi pesanti nel partito (come Susanna Ceccardi) e un fritto misto di parenti e sodali, senza risparmiare qualche indagato. In Puglia, ad esempio, il “Capitano” s’è affidato al caro amico Massimo Casanova, uno dei gestori del Papeete Beach, la spiaggia di Milano Marittima dove va a fare le vacanze. L’altra proprietà di Casanova in cui è stato ospite Salvini è a Lesina, nel Foggiano: di recente l’ha visitata anche la Guardia di finanza che indaga per presunti abusi edilizi. Casanova ha pure imposto la brindisina Ilaria Antelmi, nota soprattutto per le foto con “il Capitano” in camicia trasparente su Instragram. Per il resto spiccano i nomi di Antonio Maria Rinaldi e Francesca Donato, i due economisti anti euro che rimbalzano da un talk show all’altro. Oppure quello di Angelo Attaguile, ex responsabile di “Noi con Salvini” in Sicilia esautorato per un’inchiesta sul voto di scambio. In lista anche le ex Forza Italia Silvia Sardone (record di preferenze in Lombardia) e Cinzia Bonfrisco (senatrice che rischia di perdere il posto a Roma per “colpa” di Matteo Salvini). E ancora: c’è Gianna Gancia, sposata (con rito celtico) col senatore Roberto Calderoli. Figura di spicco in Piemonte non amava Salvini né essere associata al marito (ma nelle liste la dicitura è proprio questa: Gianna Gancia in Calderoli). Al Sud c’è spazio pure per Giancarlo Cerrelli, l’autore dell’illuminato manifesto per l’8 marzo che sostiene, in sostanza, il ruolo naturale della donna come angelo del focolar domestico.

È arrivato il conto

Spiace per Nicola Zingaretti, che è appena arrivato alla segreteria del Pd e non ne ha certo selezionato la classe dirigente. Ma quello che sta accadendo con lo scandalo della (in)sanità in Umbria, il rinvio a giudizio della deputata Micaela Campana per falsa testimonianza su Mafia Capitale e la fine delle indagini sul governatore calabrese Oliverio & his friends è la resa dei conti finale di un equivoco durato troppo a lungo, dai tempi di Tangentopoli: quello della “diversità morale” del partito della sinistra. Una diversità che aveva una ragion d’essere ai tempi del vecchio Pci, più per l’onestà personale (indiscutibile) di Enrico Berlinguer che per la correttezza (molto opinabile) delle sue classi dirigenti. Mani Pulite dimostrò che il Pci-Pds era pienamente integrato nel sistema della corruzione. E fu solo per la tenuta stagna dei cassieri-faccendieri alla Primo Greganti se lo scandalo coinvolse solo dirigenti locali, quasi tutti dalla corrente filocraxiana che si faceva chiamare “migliorista” (e tutti chiamavano “pigliorista”). Infatti Greganti, in cambio del suo preziosissimo silenzio sugli anelli superiori della catena, fu sempre protetto dal partito, tant’è che ancora cinque anni fa faceva il bello e il cattivo tempo nel sistema degli appalti per l’Expo di Milano. Ma, nell’immaginario collettivo, anche se decine di ex Pci furono arrestati e condannati per tangenti, la sinistra riuscì a perpetuare la leggenda della sua diversità: un po’ perché i suoi rubavano perlopiù per il partito, senza lo scandalo supplementare degli arricchimenti personali; un po’ perché l’altro fronte era dominato prima dal Caf e poi dal campione mondiale dell’illegalità, Silvio B. che non temeva confronti.

Il centrosinistra s’impegnava allo spasimo per stargli appresso e tenere i suoi ritmi, ma non ce la faceva: e così, per 25 anni, è riuscito a gabellare da “mele marce” (in un cestino sano) e da “compagni che sbagliano” la miriade di amministratori locali e nazionali presi con le mani nel sacco. A ogni elezione l’appello al fronte comune anti-Caimano funzionava, almeno fra chi non fuggiva nell’astensione: il giorno del voto milioni di persone, imprecando e giurando che era l’ultima volta, accettavano di subire il ricatto e si turavano il naso sugli scandali del centrosinistra per non ritrovarsi nella Cloaca Maxima. Il bipolarismo penale fra berlusconiani e menopeggisti è durato fino al 2013, quando il sistema è diventato tripolare con l’avvento dei 5Stelle. Che proprio della questione morale facevano una delle loro bandiere. Infatti i due vecchi poli si misero insieme al seguito di Letta, Renzi e Gentiloni.

Prima direttamente con B., poi coi suoi cascami (alfanidi e verdiniani). Per la prima volta in 25 anni il centrosinistra che aveva sempre finto di opporsi a B., salvo poi chiedere i voti contro di lui e sopravvivere a se stesso grazie a lui, dimostrò quanto era simile a lui. Al punto da governare per cinque anni (e riformare la Costituzione e la legge elettorale) con lui o chi per lui. Così, alle elezioni del 2018, il ricatto “votateci o vince B.” smise di funzionare. Infatti il Pd si ritrovò a tifare espressamente per lui, in vista di nuove “larghe intese” contro il nuovo spaventapasseri creato ad arte per gabbare gli elettori più gonzi e trascinarli un’altra volta alle urne con gli occhi tappati e il naso turato: i “populisti”. Contro di loro si invocava un nuovo fronte comune senza andare troppo per il sottile, un’Union Sacrée per stomaci forti dal Pd a FI. Lo spauracchio funzionò all’incontrario: Pd e FI ai minimi storici, M5S e Lega ai massimi.

Finalmente liberi da tutti i ricatti (prima “votate Dc sennò vince il Pci”, poi “votate B. se no vincono i comunisti”, infine “votate Pd se no vince B.”), gli elettori hanno ritrovato la vista e l’olfatto, e si sono divisi secondo le proprie inclinazioni: uno strano e confuso movimento post-ideologico di centro, che però assorbe molte battaglie disertate dalla sinistra, cioè i 5Stelle; e una destra estrema, popolare, demagogica e xenofoba che si identifica fideisticamente in un capo rude e parolaio, ma empatico e abile a spacciare la vecchia Lega per una novità. Ed ecco questo governo Frankenstein che ha senso solo come espiazione di tutti i precedenti. Convinti di aver visto tutto il peggio possibile, gli elettori rifiutano i tentativi dei partiti sconfitti di ricondurli all’ovile con nuovi ricatti: tipo “votateci sennò torna il fascismo”, “votateci perché siamo competenti”, “votateci perché siamo cambiati”. Il fascismo era una cosa seria (purtroppo), la Lega è una mezza farsa. Di competenza se ne vedeva poca anche prima, altrimenti non saremmo da 30 anni sull’orlo della bancarotta. Quanto al cambiamento, be’, un pregiudicato mezzo rintronato di 82 anni che si ricandida in Europa parla da sé. E Zingaretti, col poco tempo che ha avuto dal congresso alle Europee, ha cambiato poco o nulla. E lo scandalo dell’Umbria, come se non bastassero quelli in Campania, in Basilicata, in Calabria ecc., sembra fatto apposta per fotografare un partito sopravvissuto a ogni “rottamazione” e rimasto fermo a Tangentopoli. Ma ormai nudo, senza più il trio Craxi-Forlani-Andreotti e la Banda B. a fare da schermo e da alibi. Le carte dell’inchiesta sui concorsi truccati nella sede del Pd umbro, sui disabili costretti a farsi raccomandare dal partito per non essere scavalcati da quelli con tessera e padrino, sui direttori generali di stretta osservanza che “se mi intercettano mi scoprono cinque reati all’ora”, richiederebbero ben altro che le giaculatorie di padre Zinga sulla “fiducia nei magistrati” e sul “senso di responsabilità della governatrice Marini” (che finalmente se n’è andata). Sennò la gente scuote il capo e, casomai si fosse riavvicinata al Pd, scappa a gambe levate.

Aprite gli occhi

Ieri ho creduto di avere un incubo. Ho visto un manifesto 6×3 con la foto di Berlusconi alla prima comunione che mi guardava e mi diceva, a caratteri cubitali: “Apri gli occhi”. A parte il fatto che la frase va a capo dopo “gli” (roba che neanche i grafici delle bocciofile), ho subito guardato i suoi, di occhi: per tenerli aperti, avendo ormai più borse della Samsonite, ha dovuto riesumare un’immagine di almeno vent’anni fa, quella dei manifesti “Meno tasse per tutti”, “Un milione di posti di lavoro”, “Pensioni più dignitose”, “Città più sicure”. Ha cambiato solo gli slogan, onde evitare che qualcuno gli domandi perché le tasse sono rimaste alte (fuorché per gli evasori come lui), la disoccupazione pure (fuorché per i suoi servi e serve), le pensioni fanno mediamente schifo e le città restano insicure. Dopo aver fatto tante promesse e averle disattese tutte, ora se la prende con noi, con quell’“Apri gli occhi” che tradotto in italiano significa: coglioni, come osate non votarmi più? Non è un processo alle intenzioni: è quel che va ripetendo nei suoi comizi geriatrici in giro per l’Italia. Ora, a parte il fatto che, se tutti gli italiani avessero gli occhi aperti, Forza Italia un anno fa non avrebbe preso 4.602.489 voti alla Camera, non si capisce che gli salti in mente di invitarli ad aguzzare la vista alle Europee.

Chiunque lo facesse vedrebbe un vecchio malvissuto e pregiudicato che ritenta la sorte a 82 anni suonati, un anziano guitto a caccia di applausi con vecchie gag che non divertono più nemmeno lui, un quarto di secolo dopo la sua “discesa in campo”. E rischia addirittura di essere eletto al Parlamento europeo per rappresentare l’Italia con una condanna definitiva per frode fiscale, 8 prescrizioni per reati gravissimi dalla corruzione al falso in bilancio, mezza dozzina di processi in corso per corruzione di testimoni e induzione di imputati a mentire, un’indagine per concorso nelle stragi mafiose del 1993 a Firenze, Roma e Milano. Una bella vetrina per il made in Italy. È proprio sicuro che gli convenga un intero corpo elettorale con 10 decimi di diottrie? Solo qualche elettore totalmente cieco, o almeno mezzo guercio, potrebbe cascarci ancora. Tantopiù che B., nel frattempo, ha perso pure l’esclusiva dell’anticomunismo e dell’antisinistrismo: quella parte in commedia la recitano molto meglio Salvini, che non si vergogna a difendere Casa Pound e a citare i motti mussoliniani sperando che qualcuno lo scambi per il Duce e, da buon ex “comunista padano”, diserterà il 25 Aprile come faceva B.; e la Meloni, che ha scovato nella famiglia Mussolini un altro portatore sano del cognome.

Nell’entourage nanesco si respira aria pesante: c’è chi teme addirittura che B., per la prima volta, non risulti il primo degli eletti, a favore di ras e capibastone locali tipo Saverio Romano in Sicilia o Aldo Patriciello in Molise o Fulvio Martusciello in Campania o altri molto più clientelisti di lui (che ha sempre curato un solo orticello: il suo). Infatti i/le pochi/e fedelissimi/e rimasti/e – riconoscibili dalla crestina, dal grembiule, dal pitale e dal pannolone da badanti – cercano disperatamente di tenerlo lontano dalle telecamere e dalle piazze. Onde evitare che qualcuno con gli occhi aperti constati in presa diretta le sue tragicomiche condizioni psicofisiche. Nella campagna elettorale del 2018, i sondaggi lo diedero in rimonta finché nessuno lo vide e lo sentì parlare: poi ne fece e ne disse tali e tante che Forza Italia precipitò. Se, anziché il 4 marzo, si fosse votato il 4 giugno o il 4 luglio, sarebbe andata ancora peggio. Sostenne di essere il più caro amico della Merkel, dopo averla insultata per dieci anni. Si spacciò per l’unica “diga contro il populismo”, dopo averlo inventato lui. Mise in guardia dal sovranista Orbán, scordandosi che siede con lui nel Ppe. Raccontò di aver posto personalmente “fine alla guerra fredda fra Usa e Urss”, ignaro del fatto che il muro di Berlino e l’Urss erano caduti 5 anni prima del suo ingresso in politica. Si vantò di aver “fatto entrare nel 2002 la Russia nella Nato”, con gran sorpresa dell’amico Putin che ignorava e tuttora ignora di averne mai fatto parte. Maledisse la demenziale guerra a Ghedafi che ci ha riempiti di clandestini, peccato che l’avesse fatta pure il suo governo.

Poi iniziò a dare i numeri. Promise “un reddito di cittadinanza di 12-13 mila euro al mese a 5 milioni di poveri”, destando una certa invidia fra le Olgettine. Narrò di aver “aumentato le pensioni minime di 1 milione e 835 mila pensionati a mille lire al mese, che allora bastavano per arrivare a fine mese”. Poi una badante sotto la scrivania gli ricordò l’esistenza dell’euro e lui si corresse: “Scusate, volevo dire 1 milione di euro”. Svelò una prassi, finora sconosciuta, degli immigrati clandestini: quella di intrufolarsi di soppiatto nelle ville degli italiani per svaligiarle e poi correre inopinatamente al frigorifero per bere a canna dalla bottiglia dell’olio. Poi, dopo il consueto calcio negli stinchi della badante, citò come fonte la polizia scientifica che rileva le inconfondibili impronte labiali di migrante dal collo di ogni singola bottiglia, forse col guanto di paraffina. E allora, prima del 4 marzo 2018, era oltre un anno più giovane di oggi. Figurarsi di cosa sarà capace in questa campagna elettorale. Il guaio, o la fortuna, è che nessuno dei suoi osa dirgli che stavolta è meglio non farsi vedere troppo in giro: qualcuno potrebbe prendere sul serio i manifesti, aprire gli occhi e scoprire come si è ridotto. Noi comunque, allergici come siamo a ogni forma di censura, ci schieriamo senza se e senza ma contro i tentativi di privarci di lui. La politica italiana è così noiosa che abbiamo diritto a qualche momento di svago. E poi B. anche da morto sarà sempre più pimpante di Tajani da vivo.

Paolo Tarsi, scrivere per chi verrà dopo

Considerando che la musica indie è divenuta mainstream (vedi Calcutta o Thegiornalisti) e l’hip pop, il rap e la trap praticamente sono il “nuovo pop”, forse a essere underground oggi sono le opere concettuali, come questo A Perfect Cut in the Vacuum di Paolo Tarsi, uno che, si potrebbe dire, “scrive per le generazioni future”. Di quelli che vengono considerati geni (leggi John Cage) una volta trapassati. E speriamo non sia il caso di Tarsi. Certo, nel regno delle idee nulla nasce dal nulla, ogni cosa si ricollega a qualcos’altro, e l’arte di Tarsi ha legami con il teatro, la musica orientale e occidentale, con le tendenze artistiche originate dall’insoddisfazione politica e artistica e per larga parte è caratterizzata da un complesso uso della ripetizione per un viaggio tra cosmo e introspezione. Un doppio cd per 21 pezzi che scavano nell’abisso dell’anima sfruttando movimenti sinuosi e ipnotici dalla perfetta geometria, che scomodano gli insegnamenti di John Cage e l’efficacia di macchine e intelligenza artificiale.

Billie Eilish, una stella a rischio esplosione

Empatia. La diciassettenne Billie Eilish di Los Angeles si è sintonizzata perfettamente con la sua generazione rappresentandola al meglio. È anche la dimostrazione di come oggi sia possibile emergere e affermarsi in tutto il mondo grazie a una canzone postata su Soundcloud e ripresa da Spotify, diventata subito virale. Con una manciata di singoli e un piccolo tour nei club Billie si è fatta conoscere, usando sapientemente anche i social sino alla pubblicazione del suo album d’esordio, When We All Fall Asleep Where Do We Go?, registrato praticamente nella sua casa insieme al fratello polistrumentista. Non un dettaglio da poco perché suo fratello è un innesto fondamentale nella credibilità di Billie, essendo fonte d’ispirazione, produttore e valido musicista (“wish you were gay” è tutta da studiare tanto è innovativa). I tormenti dei testi dell’album rispecchiano il disagio della sua età, la disillusione, l’amore senza fronzoli: ogni relazione dichiarata è fragile e complicata e sempre fuori dagli schemi, tra ansia e paura.

Parlando di relazioni sentimentali può essere dichiaratamente esplicita come in “bad guy” (“Mi piace quando prendi il controllo, sarò il tuo animale”) oppure meditativa e profonda (“il tuo silenzio è il mio rumore preferito” canta in “you should see me in a crown”). Musicalmente riesce bene a bilanciare l’elettronica e il beat hip hop con il rock, quello che una volta era conosciuto come il grunge. Non sarà un caso che Dave Grohl è un fan sfegatato di Billie e si è esposto per farle arrivare i suoi complimenti. La sua voce ha un timbro unico e trafigge il cuore quando soffre (“when the party’s over”), diverte quando rappa ispirandosi a Eminem (“my strange addiction”) e commuove quando prende il volo (“ilomilo”) con acuti degni di Kate Bush. “Non ho bisogno di uno Xanni per stare meglio” (“xanny”) sembra quasi un messaggio destinato a chi non riesce ad avere altra linfa creativa nella scena musicale. La settimana scorsa Billie ha incendiato Coachella dopo aver raggiunto la vetta delle classifiche inglesi e americane: la vera battaglia inizia adesso, quella di non bruciarsi.

Deproducers, musica al servizio della scienza

Se l’intera storia dell’universo fosse compressa nell’arco di un anno terrestre – così l’astronomo americano Carl Sagan intese il suo “calendario cosmico” – l’homo sapiens farebbe la sua comparsa, giocandosi il tutto per tutto, nell’ultima mezzora (scarsa) del 31 dicembre. Tanto basta a sentirsi piccoli così e forse, in fondo, rincuorati dell’inadeguatezza a molte cose e rinfrancati dalla possibilità di quanto ancora si possa (e debba) scoprire. Non male, acquisire certe consapevolezze nel corso di un concerto. I Deproducers – Vittorio Cosma, Gianni Maroccolo, Max Casacci e Riccardo Sinigallia – proseguono il corso delle loro musiche per conferenze scientifiche. L’inizio è stato con “Planetario” nel 2012, mentre nel 2016 è arrivato il secondo capitolo, “Botanica”. Lo schema dello show prevede ancora un solo frontman, che è l’unico non-artista del gruppo: sono accademici, filosofi, uomini di studio e dalle grandi capacità divulgative. Il resto è in ombra, su un palco minimale. L’occhio di bue spetta al filosofo Telmo Pievani che con Cosma ha scritto i testi del loro nuovo DNA. Come il disco, disponibile anche in vinile, lo spettacolo si divide in otto capitoli, dall’abiogenesi a “L.u.c.a” (Last Universal Common Ancestor) passando per una suite cellulare. “Il Dna è qualcosa che non possiamo vedere e lo abbiamo affrontato in maniera serendipica – racconta Cosma –. Lavoriamo in uno studio dove dormiamo anche, una volta ogni tre o quattro mesi. Io appendevo alla parete dei fogli con gli argomenti e man mano che suonavamo, ci rendevamo conto di quale brano raccontasse meglio il concetto, in un rimando continuo tra testo e musica”. E funziona. Funziona nell’armonia con chi spiega e narra e con chi crea la parte delle immagini. Fondamentale e altro elemento del gruppo Marino Capitanio. I Deproducers dicono cose che sembrano fuori dal tempo, in questo tempo di furia e blackout sincopati. Dicono che “il lavoro, il tempo e l’approfondimento sono cose che servono”, ma lo fanno senza rinchiudersi nell’eremo, continuando a parlare a tutti. Quello che Vittorio Cosma esige è che ci sia “rigore scientifico affrontato in modo fruibile” perché “è una palla che il pubblico voglia solo una cosa”. Con i Deproducers, racconta, hanno riempito i matinée per le scuole, ma anche le piazza la sera. Hanno un pubblico che va dagli otto agli ottant’anni e non hanno nessuna paura di definire ciò che fanno: “Il messaggio è politico e sociale, certo. Parlando con gli scienziati in questi anni, una pensiero ricorre, ovvero che la terra sia un sistema chiuso. Parlare di crescita è una follia, va trovato un equilibrio”.

Quattro pezzi da novanta della musica italiana non hanno paura di sporcarsi le mani, tradurre il loro impegno in un linguaggio comprensibile a tutti. La musica, dice Cosma, “è il cavallo di Troia”. E già si pensano nuovi capitoli, nello studio pieno di fogli appiccicati alle pareti: Economia, Energia, Matematica e Intelligenza Artificiale.

Simona Sparaco e DeA Planeta, un premio da blockbuster (e 150 mila euro)

Per confezionarsi uno pseudonimo Amantine Aurore Lucile Dupin storpiò il nome del suo toy boy (George Sand); Simona Sparaco invece si è ispirata ai due figli, vincendo, con il nom de plume di Diego Tommasini e il romanzo inedito Nel silenzio delle nostre parole, la prima edizione del DeA Planeta. Il 14 maggio la casa editrice pubblicherà l’opera in Italia e in spagnolo, la tradurrà in inglese e francese e remunererà l’autrice con 150 mila euro: un lusso, nel povero mondo delle Belle Lettere in cui lo Strega vale 5 mila euro e il Campiello 15. Premiata ieri sera, nella Milano post-sbornia da Salone, Sparaco parla del libro che l’ha “accompagnata durante la gravidanza: quando ho saputo che la consegna coincideva con la data del parto, l’ho letto come un segno… Tommaso è nato insieme al romanzo” (ed è figlio di Massimo Gramellini). La trama è sentimentale, mutuata dall’incendio della Grenfell Tower di Londra “per raccontare la difficoltà di comunicare, l’incapacità di mostrarci”.

La scrittrice non è stata l’unica a concorrere in incognito: in cinquina l’hanno fatto anche David Mancini e CP, accanto alle vere Silvia Bottani e Rosa Matteucci. Delle 1.169 opere in gara, 208 sono state licenziate con falso nome: quasi il 18 per cento, mentre in finale la percentuale è salita al 60. Può essere un caso, o un indizio che lo pseudonimo nasconda perlopiù autori scafati, se non affermati, magari restii a competere per un premio pop, ma danaroso, e ancora più restii a perderlo. “Cerchiamo il nuovo King, non Gadda”, sussurravano in giuria. Più che il blasone poté il blockbuster.

“La danza non è una scelta Putin? Un uomo sincero”. Un ribelle di nome Sergei

“Mi sento una spugna, che tutto assorbe, trattiene, impara. Ma dopo che l’ho fatto, non vedo il motivo per rimanere fermo”. Sergei Polunin non è un danzatore qualunque: ucraino di nascita, passaporto russo, a 19 anni è stato il più giovane primo ballerino del Royal Ballet. Ma poi, due anni, tanti tatuaggi e tante sbronze dopo, se n’è andato. Sentimento, non ragione, per il genio ribelle. Appartenere a una sola compagnia gli sta stretto, è un concetto superato, lui che non vuole confini e non smette di attirarsi critiche per le sue posizioni omofobe e filo-Putin, e dal 2012 danza dove lo porta il vento. Come una colomba. E così il 26 agosto sarà all’Arena di Verona in prima mondiale, con il Romeo & Giulietta (coreografia di Johan Kobborg), accanto all’etoile romena Alina Cojocaru.

Come sarà il suo Romeo?

Ci stiamo lavorando, lo spettacolo è in fase di creazione. Ma le posso dire che, come sempre, trasporrò nel personaggio le mie emozioni e le mie intuizioni. Sarà un Romeo attuale, che parla alle nuove generazioni.

Lei cerca di rendere la danza un’arte pop: lo ha fatto anche nel 2014 sulle note di “Take me to Church” diretto dal regista e fotografo David LaChapelle. Ma i balletti classici possono ancora essere pop?

Il mio obiettivo è proprio utilizzare i classici per renderli comprensibili alle masse. La cultura deve uscire dalle élite. Proprio come faceva Sergej Djagilev (fondatore della compagnia dei Balletti russi, ndr), che riusciva attraverso il “classico” a innalzare le coscienze e la comprensione delle masse.

Djagilev fu legato sentimentalmente a Vaclav Nižinskij, uno dei maggiori talenti di sempre, che finì i suoi giorni però da malato psichiatrico in Svizzera. In molti la paragonano a lui. Se ne sente l’erede?

Ci sono dei ballerini che cambiano la danza e il modo di concepirla. Nižinskij è stato uno di loro: non mi sento vicino a lui come persona, ma considero anche mia la sua missione, il suo ruolo di innovatore.

Addirittura una missione?

La danza non è una scelta.

A dicembre lei si è attirato gli strali di tutti per aver invitato i colleghi a riconquistare il proprio ruolo di “guerrieri, leoni, lupi. In scena esiste già una ballerina, non c’è bisogno di averne due”. L’Opera di Parigi ha dovuto cancellare un suo spettacolo.

Stiamo parlando di energie, maschile e femminile, che devono rimanere tali. Come in Romeo & Giulietta. Credo sia pericoloso e perverso lo scambio di ruoli: sul palco non si può vedere un uomo che indossa i tacchi o si mette il rossetto. Non è omofobia, ma integrità.

E fuori dal palco?

L’energia maschile è un valore anche nella vita reale. La televisione e i mass media ci bombardano di messaggi che mischiano i generi, e accade soprattutto nei confronti dei bambini. Che invece andrebbero tutelati.

Lei, ucraino, si è tatuato la faccia di Putin sul petto, non senza altre polemiche. Sostiene che nei confronti di Putin vengono montate fake news, quando parte dell’Europa è convinta del contrario.

La politica è questione di interessi finanziari ed è spesso costituita da bugie. Per rimanere in tema di energia, mi piace quella che Putin trasmette. E lo reputo il più sincero tra tutti i politici occidentali.


Ha mollato il Royal Ballet, ma gira lo stesso il mondo come étoile. Come vede il suo futuro?

Sono passato dal Balletto di Mosca a quello serbo a quello di Monaco. E tutto grazie a Igor Zelensky, ballerino e direttore di compagnie. Ora il mio obiettivo è incrementare la piattaforma Art Up 3 di collaborazione tra artisti, una fondazione, una sorta di factory alla Warhol, nella quale le arti possano incontrarsi e interagire. E, perché no, unire il mondo senza confini.


Perciò si è tatuato sulla tempia quei simboli?

Un cuore e una colomba, l’incontro tra arti e Paesi. Uniti sotto il segno della danza.

Cattelan torna sulla Terra: un giovedì basta e avanza

Alessando Cattelan è tornato sui suoi passi, e ha fatto bene. Dopo due anni di appuntamenti quotidiani in seconda serata, EPCC ridiventa settimanale nella prima di giovedì (SkyUno, 21.15). Ereditare il posto di Cannavacciuolo non è un invention test, è un bagno di realtà. Cattelan vuo’ fa l’americano, americano, però vive a Rogoredo. In effetti è l’unico in grado di provarci, potrebbe dare a Renzi lezioni di inglese con profitto. Ma poi? Lo showbiz di casa nostra è una compagnia di giro in spola perenne tra via Teulada e Cologno Monzese, e New York City non è esattamente sulla strada. Se Fazio si è ridotto a pendere dalle labbra di Marzullo, ci sarà un perché. E poi il Late Night Show alla Letterman non è un modello alla portata di questo conduttore domotico, che pare uscito da un’installazione del Salone del mobile in doppiopetto grigio e scarpe da tennis, l’unico dotato di personalità della sua generazione, ma in costante debito di irriverenza e di sarcasmo. Se deve presentare, Cattelan è 5G. Se fa battute, siamo in zona Settimana Enigmistica. Se propone qualche sfida agli ospiti, ci ritroviamo all’oratorio. Non è colpa sua, è figlio di tempi che hanno completamente asfaltato il terreno. Se uno vuole proprio fare l’americano, meglio ispirarsi alla linea giocherellona di Johnny Carson e Jimmy Fallon, che ha benevolmente accolto il suo allievo negli studi della Nbc. Non è stato un duetto memorabile; ma se l’alternativa è il siparietto con Beppe Sala per salvare Milano…