Dieselgate, l’ex capo di Volkswagen accusato di frode

Ancora guai per l’ex amministratore delegato di Volkswagen, già accusato di truffa negli Stati Uniti. Martin Winterkorn rischia ora fino a 10 anni di carcere in Germania. Le accuse mosse dall’ufficio del procuratore di Braunschweig nei confronti dell’ex capo dell’azienda automobilistica sono di “frode” e “violazione contro la legge della concorrenza sleale”. Il Dieselgate, lo scandalo dei motori diesel truccati, risale al 2015 quando Winterkorn era ancora in carica. Volkswagen allora ammise di aver installato su 11 milioni di automobili, sparse per il mondo, un software che conteneva le emissioni in caso di test di rilevamento da parte degli enti di controllo. L’anno prima, infatti, secondo l’accusa, avrebbe investito ben 23 milioni per aggiornarlo e Winterkorn non avrebbe rivelato “alle autorità e ai clienti in Europa e negli Stati Uniti la manipolazione dei motori diesel illegali”. Ne sarebbe venuto a conoscenza, stando alle dichiarazioni dell’azienda, nel maggio del 2014. Nelle indagini sono coinvolti anche altri quattro responsabili. Al momento il caso Dieselgate è costato all’azienda circa 29 miliardi di euro tra i procedimenti giudiziari e il richiamo dei veicoli coinvolti.

JuicePlus, multa dell’Antitrust da 1 milione

Frullati, barrette, capsule e pastiglie gommose da assumere in sostituzione dei pasti per la perdita di peso sono stati venduti con modalità di promozione non trasparenti attraverso un meccanismo multilevel in cui i venditori si sono spacciati per clienti raccontando sui canali social come quei prodotti fossero mirabolanti e ingannando così i reali acquirenti.

Questa la motivazione con cui l’Antitrust ha sanzionato varie società riconducibili al marchio JuicePlus+ per un totale di 1 milione di euro. Un meccanismo che per primo ha svelato il Fatto Quotidiano nel luglio dello scorso anno con un’inchiesta di Selvaggia Lucarelli. Tramite pagine Facebook e gruppi segreti (nel dicembre 2018 l’Antitrust ne ha censiti tra 600 e 700) si è svolta una forma di marketing occulto in cui la stessa JuicePlus – si legge nel provvedimento – ha invitato i propri venditori “a proporsi come consumatori, facendo largo uso dei social, costruendo la propria immagine pubblica di venditore/consumatore, senza però mai insistere sulla necessità di palesare le finalità commerciali e pubblicitarie perseguite, al fine di suscitare interesse nei potenziali clienti”. Ma il garante – che ha avviato l’istruttoria in seguito a una segnalazione del Codacons – ha anche accertato che in quei gruppi su Facebook sono state diffuse informazioni ingannevoli sia sulle proprietà dei prodotti, sia sui risultati che si possono ottenere con l’assunzione, promettendo anche di curare alcune malattie e di far perdere peso in tempi rapidi.

“Ho risolto i miei problemi di colesterolo (…) per tre anni insieme al mio medico non abbiamo risolto nulla. Giorni fa ho rifatto le analisi e miei valori sono perfetti”, si legge, ad esempio, nel gruppo segreto “Trasforma la ciccia in roccia”, con circa 30.000 membri. L’Antitrust ha poi rilevato anche una strategia “ben strutturata”. Ai venditori sono stati forniti numerosi “tutorial” e “brochure” che rappresentano una vera e propria guida alla “costruzione” delle proprie pagine personali sui social network. Il tutto rispettando “8 comandamenti”: “Sii autentico, stimolante, coinvolgente, entusiasta, modesto, rispettoso, onesto, disponibile”.

Una vendita definita “molto grave” per la sua “insidiosità ed elevata potenzialità offensiva”, perché diretta a un “ampio target” di consumatori costituiti “da soggetti particolarmente vulnerabili”. Ed anche se durante il procedimento del garante la Juiceplus ha fornito “indicazioni più prudenti” sull’uso degli integratori da parte di bimbi e donne in gravidanza, per l’Antitrust questa parziale modifica non ha inciso “in maniera sostanziale su ogni aspetto rilevante” della strategia di promozione.

“Abbiamo sempre condannato i comportamenti che violano le norme aziendali, così come le pratiche scorrette di vendita del prodotto che, quando dimostrate, sono sempre state punite”, ha commentato la Juice Plus+ che, in una nota, ha fatto sapere di stare “valutando la decisione presa dall’Agcm al fine di far accertare la legittimità dell’operato dell’Azienda”.

Complotto Eni: ecco com’è nato il “piano Odessa”

C’era un piano, studiato in ogni particolare, per indebolire l’inchiesta della Procura di Milano sul caso della presunta corruzione internazionale da 1,2 miliardi per il giacimento nigeriano Opl245 e spingere alle dimissioni Luca Zingales e Karina Litvack dal consiglio d’amministrazione Eni. Il piano aveva un nome in codice: “Odessa”, come l’operazione che permise la fuga dei gerarchi fascisti verso l’America Latina al termine della seconda guerra mondiale. A raccontarlo è uno dei principali artefici, l’ex legale dell’Eni Piero Amara, che ha già patteggiato una pena di tre anni per corruzione in atti giudiziari. L’avvocato è al centro delle inchieste congiunte delle Procure di Roma e Messina sulla compravendita di sentenze e la corruzione di magistrati per indirizzare processi nei tribunali ordinari e amministrativi, fino al Consiglio di Stato.

Nel corso della puntata di Report (L’Amara giustizia), andata in onda ieri sera su Rai3, Amara parla degli incontri segreti che dice di aver avuto con Claudio Granata, alto dirigente dell’Eni, responsabile delle relazioni istituzionali del gruppo petrolifero e braccio destro dell’amministratore delegato Claudio Descalzi. “Quando c’era un’esigenza, Granata mi telefonava e ci incontravamo”.

Gli appuntamenti avvenivano in centro a Roma, in piazza Campitelli 10. Un appartamento “schermato”, “dove i cellulari non prendevano”. Una sede utilizzata dai vertici Eni per incontri riservati. Lì si sarebbero dati appuntamento anche Paolo Scaroni, all’epoca ad del gruppo petrolifero fino al 2014 e imputato a Milano per corruzione internazionale, e il potente l’uomo d’affari Luigi Bisignani: lo ha riferito Angela Fusco, l’ex segretaria personale di Scaroni, sentita come testimone alcune settimane fa nello stesso processo milanese.

“C’era un profilo di rapporti istituzionali, tra virgolette puliti, che venivano seguiti in modo istituzionale – racconta Amara a Luca Chianca di Report –, poi c’era un profilo su un canale diciamo non istituzionale, e il canale non istituzionale ero io”. Un esempio? “Non è istituzionale cercare di capire Armanna cosa sta facendo – precisa Amara –, si cercava di capire in che modo fermare questo Armanna”. Vincenzo Armanna, ex manager Eni, stava accusando Scaroni e Descalzi nell’inchiesta condotta da Fabio De Pasquale sulla maxi tangente, di circa un miliardo di euro, che il colosso dell’energia avrebbe versato tra il 2011 e 2012 per l’operazione di acquisizione del campo petrolifero Opl245 in Nigeria. Armanna, imputato nello stesso processo, incontra diverse volte il legale Amara. “L’abbiamo registrato durante tutte le conversazioni – racconta Amara – perché ritenevamo di potergli chiedere informazioni che potevano poi essere utili per la vicenda Opl 245”.

L’avvocato Amara trasforma le registrazioni in esposti anonimi da inviare alla Procura di Trani. L’obiettivo è quello di far aprire un fascicolo su un possibile complotto internazionale ai danni di Descalzi, in modo da poter sviare l’inchiesta milanese sulla presunta tangente, e spingere alle dimissioni Zingales e Litvack.

Nonostante i tre esposti anonimi, l’indagine di Trani non ottiene gli sviluppi sperati, e Amara decide di usare una seconda strada. Con la compiacenza dell’imprenditore Alessandro Ferraro, del collega Giuseppe Calafiore (ha patteggiato 2 anni e 6 mesi), e versando somme di denaro al magistrato Giancarlo Longo (ha patteggiato a 5 anni), prende vita a Siracusa una seconda indagine sul “complotto Descalzi”, che in seguito acquisisce i fascicoli di Trani. A chi serviva quella manovra? “A me principalmente e ad un’altra persona in particolare”, risponde Amara a Report. Tutti gli atti stati trasferiti a Milano, nell’indagine per depistaggio, oltre ad Amara, Ferraro e Gaboardi, è stato iscritto anche Massimo Mantovani, ex capo dell’ufficio legale Eni.

L’azienda nega che Granata abbia “mai incontrato Amara per tali finalità”, e “non è mai stato in alcun modo al corrente di eventuali rapporti tra Armanna e Amara”. La sede è stata “presa in affitto nel 2009 e utilizzata fino a novembre dello scorso anno”, e usata “dal management Eni” per “vicinanza alle sedi istituzionali e rappresentava una soluzione più comoda dal punto di vista logistico rispetto alla sede dell’Eur”.

Più welfare, sinistra (e tasse): doccia finlandese sui sovranisti

Un’eccezione che conferma la regola o un segnale di inversione di tendenza nell’Unione che teme l’onda populista e sovranista? A leggerli in chiave europea, e non solo nazionale, i risultati delle elezioni politiche finlandesi si prestano a chiavi d’interpretazione diverse: i socialdemocratici vincono e tornano a proporsi alla guida del governo per la prima volta dopo vent’anni – non accadeva dal 1999 –; i populisti, che qui si chiamano Veri Finlandesi e che sono da tempo radicati nel Parlamento, guadagnano voti e seggi e tallonano i vincitori, 17,7% contro 17,5% e 40 seggi contro 39; le tre maggiori formazioni sono vicinissime – il partito della Coalizione nazionale, conservatore, è terzo con 38 seggi, un risultato migliore delle attese –; il nuovo Parlamento vede frammentati in dieci formazioni i suoi 180 seggi; e, alla conta dei voti, solo un finlandese su sei sceglie un partito euro-scettico.

La proposta di Antti Rinne, il leader del Partito socialdemocratico (Sdp), era alternativa sia rispetto ai proclami di populisti e sovranisti sia rispetto all’austerità imposta dal premier uscente Juha Sipilä il cui Centro è il grande sconfitto – perde 18 seggi e scende a 31, dopo quattro anni al potere –. La composizione frastagliata del nuovo Parlamento e il grande equilibrio fra le maggiori forze politiche creano possibilità di coalizioni svariate. Ma un’alleanza di Rinne con l’ultradestra appare esclusa: Jussi Kristian Halla-aho e Olli Kotro, gli uomini immagine dei Veri Finlandesi, giocavano sul tasto dell’immigrazione, attribuendo agli extra-comunitari l’aumento dei reati sessuali, ed erano critici sui sacrifici richiesti per contrastare i cambiamenti climatici, fino a parlare di “isteria verde”. L’avanzata dei Veri Finlandesi è stata contenuta: nelle ultime politiche, ebbero il 15% dei suffragi.

Kotro è uno dei partner su cui Matteo Salvini e Marine Le Pen puntano per rafforzare, nell’Assemblea europea che uscirà dal voto del 23 e 26 maggio, il loro gruppo xenofobo e sovranista: l’esponente dei “Veri Finlandesi” era presente all’evento populista organizzato dal leader della Lega lunedì 8 aprile a Milano e sarebbe disponibile a spostare i suoi futuri eurodeputati dal gruppo conservatore, dove attualmente siedono, a quello di Europa delle Nazioni e della Libertà.

I negoziati per definire un programma di governo e per formare l’esecutivo dureranno certamente settimane, forse mesi, come è accaduto nella vicina Svezia, dove i populisti sono stati tenuti fuori dal governo. Una spinta ad accelerare i tempi potrebbe venire dal fatto che la Finlandia assumerà, dal primo luglio, la presidenza di turno del Consiglio dell’Ue, dando il cambio alla Romania.

L’affermazione dell’Sdp di Rinne, un ex sindacalista, leader del partito dal 2014, testimonia la presa del suo programma che unisce la lotta al cambiamento climatico alla difesa del modello di welfare finlandese, generoso e invidiato in tutto il mondo, ma indebolito da anni di austerità e messo in crisi dalla demografia del Paese, con una popolazione per oltre un quinto ‘over 65’. Rinne s’è duramente opposto allo smantellamento del servizio sanitario nazionale e ha proposto un modello di sviluppo “sociale, sostenibile, solidale”. Sipilä si era dimesso il mese scorso proprio dopo la bocciatura della sua riforma sanitaria, che voleva ridurre sensibilmente i costi. Rinne, al contrario, ha puntato sul rafforzamento dello stato sociale, promettendo tra le altre cose di aumentare le pensioni di 100 euro al mese, così da fare uscire dalla povertà oltre 55mila persone. Il leader dell’Sdp ha pure prospettato un aumento delle tasse, già tra le più alte nell’Ue, con un’aliquota massima per le persone fisiche di oltre il 51%.

“Rivivo la stessa disperazione per La Fenice. La fragilità delle opere d’arte va protetta”

“Èun dramma tremendo, sembra di rivivere la distruzione della Fenice a Venezia”. Guardando le fiamme attorno a Notre-Dame, la mente di Stefano Gasparri, professore ordinario di Storia medievale all’Università Ca’ Foscari, torna veloce a quel 29 gennaio 1996, giorno dell’incendio al più celebre teatro veneziano. E alla sofferenza per il crollo di un simbolo storico per l’Occidente si uniscono i ricordi personali di quelle ore.

Professor Gasparri, cosa le provocano le immagini di Notre-Dame?

Posso solo rimanere senza parole. E torno a quella mattina di gennaio del 1996, quando andai al mio Dipartimento che si trovava proprio lì vicino alla Fenice, tanto che rischiò di prendere fuoco anch’esso, e mi trovai di fronte quella folla muta che rimaneva immobile a guardare le ceneri.

Un dramma simile a quello di Parigi.

Ricordo che allora la città rimase traumatizzata, d’altra parte assieme a San Marco il vecchio teatro era uno dei simboli più noti di Venezia. In quel caso l’incendio era doloso, ma cambia poco nell’impatto emotivo che può avere sulla comunità.

Proprio la Fenice però è anche un simbolo positivo di ricostruzione.

Oggi il teatro è forse anche più bello di prima, è stato fatto un ottimo lavoro. Per questo sono ottimista, da un punto di vista artistico, che anche Notre-Dame possa tornare a risplendere.

I danni sembrano irreparabili per l’intera struttura.

Sì, ed è anche vero che la Cattedrale ne aveva già passate molte: durante la Rivoluzione francese fu vandalizzata in larga parte e furono distrutti diversi simboli religiosi presenti all’interno. Già allora qualche fanatico aveva addirittura pensato di darle fuoco, ma poi per fortuna non si arrivò a tanto.

Ci sarà una nuova Notre-Dame?

Oggi siamo in grado di ricostruire tutto e la stessa Notre-Dame era stata rimaneggiata più volte. Sarà impossibile eliminare la ferita emozionale, ma credo che la cattedrale supererà anche questa e tornerà in piedi. Mi auguro però che l’incendio, in attesa di conoscere nel dettaglio le cause, sia occasione per riflettere sulla fragilità di queste opere.

Cosa intende?

Le immagini delle fiamme ci mostrano quanto il nostro passato sia esposto a imprevisti di questo genere. È chiaro che la fragilità a volte è intrinseca nel valore di un’opera, perché se si pensasse a costruire i monumenti soltanto con i criteri della sicurezza avrebbero tutt’altro pregio, ma bisogna trovare un equilibrio. Vedere la facilità con cui sono crollate le guglie o con cui hanno bruciato le parti in legno del tetto è impressionante.

Di questo dovrà tenere conto la nuova cattedrale.

Sono certo che avranno le accortezze per renderla meno esposta a questi rischi, preservandone il valore artistico e ricostruendola in maniera filologica, senza lasciare traccia di quanto accaduto. Proprio come è successo a Venezia.

Dal Gobbo di Hugo a Napoleone sovrano è la Storia d’Europa

alle otto meno dieci di una sera che non dimenticheremo mai – maledetto 16 aprile, lunedì di una Settimana Santa che si è trasformato in catastrofe culturale – la sottile ed altissima guglia di Notre-Dame de Paris, avvolta dalle fiamme, s’inclina lentamente e crolla, tra vampate che si alzano improvvise e feroci al cielo, tra colonne di fumo dense come nuvole di tempesta, ed è come una freccia che si ficca nel cuore di tutti i parigini, di tutti i francesi, di tutti noi. Quel che resta della cattedrale di Parigi è ormai una gigantesca macchia rossa, il rosone scaglia lampi color carminio perché il fuoco spinto dal vento si riflette come i fari che regolano le navi, il tetto non c’è più, il fumo impesta l’aria. Brucia il monumento che incarna la storia, la cultura, l’identità di Parigi e dei francesi.

Certe volte, la sera, camminando alla sua ombra, Notre-Dame de Paris diventava più viva di me. Mi raccontava il passato della nostra comune cultura, la fatica geniale di chi l’aveva ideata e costruita, come tutte le grandi cattedrali, un’opera cominciata nel dodicesimo secolo e durata quasi duecento anni: l’era delle cattedrali attraversava e, in un certo modo, creava l’Europa unita dalla fede ma anche dalla cultura, dall’arte, dalla speranza. Più di un semplice luogo di culto, Notre-Dame de Paris…

Louis-Sébastien Mercier che pubblicò alla fine del Diciottesimo secolo, Tableau de Paris (preziosa guida che inaugura il gusto del dettaglio che Proust renderà immortale) diceva che provava l’illusione – come un ultimo battito davanti all’Eterno – di percepire il Bene e il Male separati dai suoi muri, l’illusione resa ancor più fantastica perché credeva di captare l’odore mescolato di rose e di sangue. Victor Hugo ci sedusse con il dramma del gobbo Quasimodo, disperato protagonista di Notre-Dame de Paris.

E ancora, oltre a queste fascinazioni letterarie, c’è lo scorrere lento e magico della Senna vicina, il rumore avvolgente della città, i passi rispettosi degli ultimi turisti mentre la notte le faceva da sudario, l’eco di musiche lontane (il Quartiere Latino oltre il ponte), il ricordo meraviglioso di quando a Natale, tra sciabolate di formidabili son et lumières, cantava Madeleine Renaud, ed era un inno alla sfida dell’ingegno, un omaggio alla nostra comune civiltà, uno sberleffo all’usura del tempo. Notre-Dame era scampata agli agguati bellici: qualche colpo del Parisgeschütz il gigantesco cannone tedesco (cugino della Grosse Berthe) l’avevano sfiorata, nella Prima guerra mondiale e altre cannonate avevano provato a scalfirne la maestosità.

Ecco, mistero e ideali. Per i parigini, il luogo dove trovare riparo dalla rovina dell’attualità: uno spazio anacronistico, un monumento dall’aspetto e dal carattere fortemente simbolici, quindi indispensabile. Più della Tour Eiffel, alla quale contendeva il plebeo ma vantato record di monumento più visitato d’Europa (14 milioni ogni anno). Simbolo di pace, di concordia, di unità. Che supera largamente la sua funzione religiosa. Se la Tour Eiffel è Parigi, Notre-Dame de Paris è la Francia.

Qualche amico francese raggiunto per telefono, non cela lo choc, però mi dice: “La vie continue”, la vita continua, domani, aggiunge, l’incendio sarà domato, “ci sono 400 vigili del fuoco. Poi, ci vorranno venti, forse trent’anni perché torni come prima, semmai la vera questione è: quanto ci costerà?”.

Ma intanto, quelle fiamme iconoclaste divorano la storia, bruciano il cuore di Parigi, inceneriscono la memoria, offendono l’identità di un popolo. Re, papi, imperatori, presidenti sono stati osannati e pianti, in quella magnifica cattedrale gotica, dove le cerimonie religiose erano spesso cerimonie di Stato, come se l’anima della Francia fosse affidata (talvolta consacrata) tra le mani di Dio.

Le immagini sono impietose. Improvvidi paragoni con le Twin Towers dell’11 settembre. Lì fu un attentato e un olocausto. Qui è un disastro. Propagato dal fuoco che illumina dantescamente la notte di Parigi, come una discesa all’Inferno. Trasmettono una grande tristezza: il fumo generato dalle fiamme è la nebbia del nostro dolore. Dicono, gli amici di Parigi, che all’ombra di quelle pietre si è più pensato, più scritto, più immaginato.

Il fuoco mangia Notre-Dame Parigi prega in ginocchio

Alle 21, lungo il quai Montebello, la folla si ammassa sul lungosenna e guarda davanti a sé. Notre-Dame sta bruciando. Negli occhi c’è lo sgomento. Tra di loro c’è chi è lì da due ore, dalle prime fiamme, a guardare, senza staccare gli occhi dalla cattedrale. Prima c’erano state le lacrime. Poi le grida di fronte alla guglia che crollava. Ora, mentre si fa buio, delle donne si inginocchiano a pregare.

Ma Notre-Dame continua a bruciare. Il Pont-au-change è chiuso. Una fila di poliziotti fa barriera. Dall’altra parte del ponte 400 pompieri stanno tentando di spegnere le fiamme. L’incendio è stato segnalato poco prima delle 19. Le fiamme sarebbero partite dal tetto del XIII secolo. Erano state montate delle impalcature negli ultimi mesi per permettere di avviare dei lavori di restuaro sull’abside che sarebbero dovuti durare almeno fino al 2022.

Appena alcuni giorni fa le statue di bronzo della guglia erano state smontate per la prima volta dall’800. La cattedrale aveva bisogno di lavori urgenti. Un doccione era caduto l’estate scorsa. Dei gargoyle si stavano sbriciolando. Lo Stato francese aveva promesso di sbloccare 2 milioni di euro ogni anno (e 150 per il restauro completo), ma la diocesi stava ancora raccogliendo fondi privati internazionali. Mentre il mondo intero scopriva in televisione quello che sta succedendo a Parigi, tutta l’Ile de la Cité è stata isolata da un cordone di sicurezza. Centinaia di parigini cominciavano a affollarsi sul lungosenna.

La procura ha annunciato l’apertura di un’inchiesta per “distruzione involontaria”. Emmanuel Macron ha annullato l’atteso discorso che avrebbe dovuto tenere in televisione alle 20 per tirare il bilancio del grande dibattito nazionale. Quando arriva volava un drone su Notre-Dame, i pompieri scaricano litri e litri di acqua sul tetto in fiamme. Dietro le torri c’era un buco rosso. Il volto del presidente è scuro: “Stasera sono triste mentre vedo una parte di noi che sta bruciando”. “È un incendio terribile. Una tristezza immensa, una prova terribile, un dramma per il mondo intero”, ha detto la sindaca Anne Hidalgo. Dentro la cattedrale si faceva la corsa contro il tempo per mettere in salvo le opere d’arte, la corona di spine, la tunica di Saint Louis. Una colletta internazionale di fondi è lanciata oggi. “Per la ricostruzione ci vorranno degli anni”, ha detto il presidente della Conferenza dei vescovi di Francia, Eric de Moulins-Beaufort.

Sulla piazza dell’Hotel de ville si intonano canti. C’è chi prega. Centinaia di persone si interrogano, scattano foto, riprendono la scena col telefonino. Laurenzo è tra quelli che ha visto le prime fiamme: “Sono cattolico e ora senza speranza. Spero che non sia un atto criminale. Non si brucia il nostro patrimonio”. Anche Pauline è cattolica. Ha visto tutto dal suo ufficio, al terzo piano di un palazzo vicino: “Ho sentito le sirene delle polizia e mi sono affacciata alla finestra. Ho visto una colonna di fumo che saliva da Notre-Dame. È stato spaventoso. Ho visto il fuoco avanzare velocemente lungo il tetto e bruciare tutto. È l’anima della Francia che sta bruciando”. Katarina è tedesca ma vive e lavora da più di 20 anni a Parigi. “Ho visto la notizia in televisione, ma volevo vedere con i miei, ecco perché sono qui. Mi sento triste, è una perdita immensa per il mondo intero”.

Marie si chiede perché i pompieri ci hanno messo così tanto a arrivare, se la prende con la sindaca di Parigi, Anne Hildago, con le autorità che non fanno il necessario per proteggere il patrimonio: “Non è possibile che sono due ore che bruci così e non si riesce a spegnere”.

Sui social esplodono le polemiche. Il sistema anti-incendio della cattedrale funzionava? Perché non si è gettata dell’acqua dagli elicotteri? I pompieri lo hanno spiegato: la massa d’acqua lanciata dai canadair avrebbe potuto danneggiare il monumento. Le cause del rogo non sono ancora del tutto chiare. E su Twitter alcuni profili innefggianti alla jihad festeggiano postando foto della Cattedrale in fiamme. I pompieri privilegiava l’ipotesi dell’incidente, mentre c’era il pericolo che tutto crollasse. Secondo il ministero dell’Interno: “Non è sicuro che la cattedrale sarà salvata”. Ma dai pompieri arriva almeno una buona notizia: le torri e la struttura della chiesa sono salve.

Il capo del Viminale: “Presto stop ingresso nelle nostre acque”

“Sto lavorando a una direttiva per impedire l’ingresso” alle navi delle ong “non solo nei porti ma anche nelle acque italiane: come a teatro si va se si ha il biglietto, in un Paese si entra se si ha il diritto ad entrare. “Potete indagarmi 132 volte non mi farete cambiare idea”, ha annunciato ieri Matteo Salvini rinfocolando la polemica che lo ha impegnato per tutta la giornata di ieri con altri esponenti del governo gialloverde.

“La Trenta è ministro della Difesa quindi dovrebbe difendere, invece invita a aprire i porti. Tu difendi, io mi occupo di pubblica sicurezza, che i confini vanno difesi”, ha scritto il leader leghista su Facebook: “Se lei o Fico la pensano così mi dispiace per lei, ma il ministro dell’Interno è la massima autorità in materia in Italia”. “La competenza dei porti di sbarco – spiega – dipende dal ministro dell’Interno, se qualche ministro dice che qua c’è posto per tutti non fa un favore all’Italia”.

“Sono gli altri che devono aprire i porti e per altri mi riferisco anche agli alleati della Lega. Sono loro che devono cambiare atteggiamento nei confronti del nostro Paese. Anche le forze politiche alleate della Lega che fanno i sovranisti con le frontiere italiane”.

Il “pizzino” del raìs: “Roma invia armi a Sarraj”

L’avanzata delle truppe del generale Khalifa Haftar verso Tripoli è lenta ma sembra inarrestabile. Il governo riconosciuto dall’Onu di Fayez Al Sarraj ha chiesto l’aiuto internazionale ma ha anche spiegato che finché le truppe degli aggressori non si ritireranno sulle posizioni che occupavano prima di quest’ultima offensiva, non intende accettare il cessate il fuoco.

L’Onu ammonisce in continuazione i due antagonisti che una soluzione militare è improponibile e se si continua a combattere si rischia di prolungare lo stato di belligeranza all’infinito. La tregua che l’inviato speciale del Palazzo di Vetro, Ghassan Salamé, propone è già stata rifiutata da Haftar. Secondo le Nazioni Unite, i morti dall’inizio degli ultimi combattimenti sono 147, i feriti 614 e sono fuggiti dalle loro case 16.000 persone.

Ma la guerra civile non si combatte solo sul campo di battaglia. I social network sono pieni di notizie che è difficile controllare. Ma non sono solo i blogger ha immettere notizie false e tendenziose nel circuito informativo, anche i governi sono reticenti nel spiegare le proprie posizioni.

Il portavoce di Haftar, Ahmed Al-Mismari, in conferenza stampa, ha dichiarato che i jet dell’aeronautica militare impiegati dalla milizia di Misurata, fedele a Sarraj, sono manovrati da mercenari stranieri. Qualcuno ha rilanciato la notizia accusando piloti italiani e americani. Le parole di Al Mismari possono essere interpretate come un monito rivolto a Roma e a tutti i governi che sostengono Sarraj perché cambino alleanza e si schierino con il generale e il parlamento di Tobruk. La guerra psicologica fa meno vittime di quella combattuta ma non è meno tragica. Verificata, invece, la notizia dell’attentato organizzato ieri mattina dall’Isis in un quartiere nordorientale di Bengasi contro il colonnello Adel Marfuna, capo del controspionaggio di Haftar. L’ufficiale è scampato per miracolo perché l’autobomba con esplosivo e di bombole di gas è esplosa pochi secondi prima del passaggio del suo blindato, che non avrebbe resistito all’esplosione. L’anno scorso, dopo che le truppe del generale avevano condotto varie operazioni per spazzare via i miliziani dell’Isis e di al Qaeda da Bengasi, Marfuna era stato incaricato di inseguire le cellule in fuga per annientarle. C’era riuscito, ma il repulisti gli ha provocato sentimenti di vendetta. Da qui l’attentato di ieri che conferma la presenza di terroristi anche nei territori controllati da Haftar.

Nel pomeriggio è circolata sull’Ansa la segnalazione che un gruppo di tredici diplomatici francesi era stato fermato alla frontiera tra Tunisia e Libia con le loro automobili cariche di armi. La notizia è stata confermata dall’Agenzia Nova. Lo stringer del Fatto Quotidiano ha potuto accertare che si trattava del personale dell’ambasciata che stava rientrando a Parigi via Tunisia. L’arsenale a bordo era la loro dotazione personale. Sulla notizia si era buttato a pesce, parlando di mercenari, il giornale online Arabi21, con sede a Londra e finanziato dal Qatar, fedele alleato del governo di Sarraj. I francesi appoggiano Haftar. Il coinvolgimento di potenze straniere nel conflitto è testimoniato da altre informazioni che purtroppo non è stato possibile verificare persino da chi è a Tripoli. Una nave piena di armi starebbe viaggiando tra Turchia e Tripoli e ha fatto scalo (chissà perché) a La Valletta. Il suo carico sarebbe destinato alle milizie fedeli a Fayez Al Sarraj. La notizia è comparsa sul The Malta Independent che cita il portavoce di Haftar, generale Ahmed Al-Mismari, secondo cui la merce delle stive è destinata “a gruppi terroristi nella capitale”. Tutto da dimostrare.

L’alleanza per fermare Haftar

“Noi vi chiediamo di fare pressioni, assieme agli Stati Uniti, sul generale Haftar e i Paesi che lo finanziano e lo sostengono per interrompere la sua avanzata verso la capitale Tripoli, una mossa che non ha sbocchi, una guerra che non ha data”. Questo è il messaggio che il vicepremier libico Ahmed Maitig e il vicepremier qatariota Mohammed Al-Thani hanno recapitato al premier Giuseppe Conte e al ministro Enzo Moavero Milanesi negli incontri di Roma tra Palazzo Chigi e il ministero degli Esteri.

Al messaggio s’è aggiunta una maldestra postilla del premier Fayez al-Sarraj, che resiste a Tripoli protetto da gruppi di tribù e milizie di Misurata e che conserva ancora la copertura e la fiducia delle Nazioni Unite: “Il peggioramento della situazione in Libia potrebbe spingere 800.000 migranti e cittadini libici in Europa e in Italia, tra loro anche criminali e jihadisti legati all’Isis”. Al momento, per l’Italia l’esodo migratorio dalle coste della Libia è un pericolo inesistente, appare come uno sciocco allarmismo, oggi come ieri al-Sarraj non può garantire un blocco dei flussi. Quel che incute timore, invece, è l’ipotesi che l’Isis possa risorgere tra le macerie del Paese e sfruttare il confuso terreno di battaglia tra l’esercito di Khalifa Belqasim Haftar, che partito Bengasi s’è fermato a 20 chilometri da Tripoli e ora è retrocesso a 50, e la controffensiva delle forze leali al presidente riconosciuto Sarraj. Il premier Conte ha implorato un immediato cessate il fuoco: “La soluzione politica, su cui abbiamo lavorato da quando ci siamo insediati come governo e che ha avuto tappa significativa nella Conferenza di Palermo, resta l’unica plausibile, per evitare una crisi umanitaria”.

Fonti italiane in contatto con i libici, la spiegano così: “È l’ora che finisca la sanguinosa pantomima di Haftar. Non c’è stata alcuna sollevazione popolare, la sua marcia su Tripoli non ci sarà. Adesso, però, va trattato col giusto riguardo e gli va assegnato un posto di prestigio ai tavoli del negoziato e nel futuro della Libia”. Conte ammette che la pace in Libia va cercata oltre la Libia e oltre il binomio Haftar-Sarraj: “Ci sono attori globali, stranieri, che stanno avendo un’incidenza forte in questa situazione”. Questi attori, al fianco di Haftar, sono Egitto, Arabia Saudita, Emirati Arabi e, soprattutto, la Francia, anche se è semplicistico, nonché sbagliato, ridurre il dossier libico a una rivalità tra Roma e Parigi. Con discrezione, il governo italiano ha avviato trattative con egiziani, sauditi, emiratini, con le potenze non amiche di Sarraj (e degli sceicchi del Qatar) che possono convincere Haftar a desistere.

Roma si ritrova al centro del dossier libico perché delegata dagli Stati Uniti a occuparsi di una vicenda che, per ovvie ragioni, riguarda da vicino gli interessi italiani. Il vecchio ordine geopolitico torna in auge per la Libia.

Adesso c’è una traccia diplomatica per tentare di sedare l’onda di morte che avvolge da anni la Libia e nell’ultimo mese ha provocato 147 morti, 614 feriti e 16.000 sfollati. Non c’è un tempo, però. Il generale Haftar e Sarraj – oppure un altro al posto di Fayez, perché non è una figura imprescindibile – si possono incontrare tra pochi giorni, tra mesi o tra anni per riscrivere assieme il futuro dei libici. Questa è la preoccupazione maggiore: un vuoto di potere consolidato e una divisione ormai atroce possono trasformare la Libia in un luogo di esercitazioni per nuovi terroristi. A chi conviene?