Grillo in Giappone: “Anche loro vogliono fare un Movimento”

Beppe Grillotorna a parlare, e lo fa dal Giappone. Invitato a intervenire ieri in una conferenza sulla democrazia diretta che si è tenuta ieri alla Camera Alta del Parlamento Giapponese e a un dibattito sui temi etico-sociali in una dei principali ministeri governativi a Tokyo, il fondatore del M5S ha parlato di agricoltura sostenibile, inquinamento, e di quella che ha definito una rivoluzione antropologica del movimento da lui fondato, davanti a una platea di 200 persone. “Mi hanno invitato perché vogliono vedere come costituire un movimento simile al nostro, vogliono capire perché i sistemi poi sono sempre gli stessi, gli stati, la corruzione, il cambiamento di generazione”, ha detto Grillo all’Ansa.

In riferimento all’alleanza tra il movimento da lui fondato e la Lega, si è definito “entusiasta”, sebbene ha ricordato che esistano differenze di posizione, riguardanti principalmente il clima e le questioni ideologiche.

Tuttavia, Grillo ritiene che la collaborazione tra i due partiti sia stata inevitabile: “Lavorare assieme è stato l’unico modo per portare a casa dei risultati, come la lotta alla corruzione”.

Il mare e i porti, ecco chi decide e perché

Un esodo massiccio dalla Libia, nell’ordine delle decine o addirittura delle centinaia di migliaia di persone, non è all’ordine del giorno. Non ancora, forse. Diplomazia e intelligence italiane lavorano per scongiurarlo. Potrebbero partire in cinque-seimila, senz’altro troppi per Matteo Salvini che, dal Viminale, ribadisce: “Porti chiusi, decido io”.

È la bandiera della Lega che guarda alle Europee. Poco importa che un provvedimento generalizzato di chiusura delle acque territoriali e dei porti non sia mai stato adottato e spetterebbe comunque – anche per motivi di ordine pubblico – al ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti (articolo 83 del codice della navigazione), il grillino Danilo Toninelli. Appartiene tuttavia al Viminale, secondo le procedure in vigore dal 2015, il potere di indicare il Pos (Place of safety, porto sicuro) per le imbarcazioni che trasportano migranti, ma l’uso politico di questo potere ha già portato per due volte i magistrati a ipotizzare reati gravissimi a carico di Salvini, “salvato” nel caso Diciotti dal “soccorso grillino” in Senato.

Con le elezioni in vista, lo scontro tra i Cinque Stelle e il leader leghista è furibondo. Luigi Di Maio, oltre a criticare l’alleato per gli attacchi frontali alla politica libica della Francia, ieri al Corriere diceva che “chiudere un porto è una misura occasionale (…) ma di fronte a un intensificarsi della crisi non basterebbe”. E la ministra della Difesa, Elisabetta Trenta: “In caso di una nuova guerra non avremmo migranti ma rifugiati. E i rifugiati si accolgono”. Salvini però rivendica: “Sui temi di controllo dei confini e di criminalità organizzata sono io a decidere. Se Di Maio e Trenta la pensano in modo diverso lo dicano in Consiglio dei ministri e faremo una franca discussione”. Seguono controrepliche acide; le schermaglie elettorali investono in pieno i temi della sicurezza interna ed esterna e quelli, altrettanto cruciali, della politica italiana in Libia.

Migranti o rifugiati? Per Salvini, si sa, sono tutti “clandestini”. In realtà e non da oggi, molti cittadini africani o asiatici che attraversano il Mediterraneo o vengono soccorsi in mare hanno diritto allo status di rifugiato o alla protezione sussidiaria, come prevedono le Convenzioni internazionali sottoscritte dall’Italia, perché rischiano persecuzioni o violenze nei Paesi d’origine. Infatti respingerli collettivamente, senza identificarli e senza consentire loro di chiedere asilo, viola la Convenzione europea dei diritti umani.

L’Italia, in passato, è già stata condannata dalla Corte di Strasburgo quando altri governi ci hanno provato. Salvini ha ostacolato i soccorsi in mare, criminalizzando le Ong e arretrando il dispositivo della Guardia costiera, facendo attendere per giorni e giorni perfino un mezzo militare come la nave Diciotti, ma per ora non risulta abbia fatto respingimenti collettivii. Tutt’al più ha dirottato barconi e naufraghi su Malta. Se l’escalation militare in Libia proseguirà, gli stessi libici in fuga via mare dovranno essere considerati profughi di guerra, cioè rifugiati come dice la Trenta.

E sul mare chi decide? Ferme restando le competenze della Guardia costiera sulla sicurezza della navigazione e della Marina militare in alto mare, dal 2017 le funzioni di polizia nelle acque territoriali e nella cosiddetta “zona contigua” sono affidate alla Guardia di Finanza, che a questi fini dipende dal ministero dell’Interno. Ma un eventuale esodo di massa dalla Libia investirebbe l’intero governo. E forse nemmeno Salvini potrebbe pensare di respingere migliaia di boat people.

Salvini indagato con Di Maio. Ma ora sui migranti litigano

È il giorno della marmotta, come nel film in cui Bill Murray rivive continuamente la stessa giornata: Matteo Salvini ricomincia daccapo. È indagato di nuovo per una nave e un porto chiuso: stavolta non è la Diciotti ma la Sea Watch 3; non è Catania ma Siracusa; non sono 137 migranti tenuti bloccati per 5 giorni, ma 47 trattenuti per 6 giorni.

L’accusa invece è la stessa: sequestro di persona. La dinamica pure è quasi identica: il pm di Catania Carmelo Zuccaro ha già compilato la richiesta di archiviazione ma la decisione spetta al tribunale dei ministri, che ha 90 giorni di tempo per accogliere la proposta del procuratore o al contrario chiedere il processo per il vicepremier (come successe appunto per il caso Diciotti). Allora la vicenda fu risolta prima in Giunta e poi in Senato: a Salvini fu risparmiato il rinvio a giudizio grazie ai voti provvidenziali del Movimento Cinque Stelle. Anche stavolta – in ossequio al giorno della marmotta – è probabile che gli eventi si svolgano nella stessa maniera, tanto più che insieme al leghista sono indagati anche il premier Giuseppe Conte e i ministri grillini Luigi Di Maio e Danilo Toninelli (che in occasione dell’inchiesta sulla Diciotti si autodenunciarono).

Ma c’è un però. Nel frattempo le elezioni europee si sono sensibilmente avvicinate e i rapporti tra i due alleati di governo sono cambiati nella stessa misura in cui si lavora per cambiare le cifre dei sondaggi. Le parole dei Cinque Stelle sull’immigrazione non sono più quelle di alcune settimane fa. M5S ha virato verso sinistra e il bisogno di sottrarsi all’abbraccio mortale del partner di governo ha stravolto diverse parole d’ordine. Se ai tempi del caso Diciotti la decisione di sbarrare i porti alle navi delle ong era una “strategia condivisa” da tutto il governo, ora evidentemente quella strategia è cambiata. È lo stesso Di Maio ad annunciare la nuova linea in un’intervista sul Corriere della Sera: “Chiudere un porto è una misura occasionale, risultata efficace in alcuni casi quando abbiamo dovuto scuotere l’Ue”, spiega il ministro, ma di fronte a una nuova crisi migratoria resa probabile dalla guerra in Libia, l’Italia deve “prepararsi in modo più strutturato, a livello europeo, nel rispetto del diritto internazionale”. La risposta di Salvini all’amico e alleato è un ringhio: “Rispetto il collega Di Maio che si occupa di lavoro, ma sui temi di controllo dei confini e di criminalità organizzata sono io a decidere”.

L’offensiva dei Cinque Stelle però ha più di una punta. Oltre al “solito” Roberto Fico, l’altra stoccata arriva dal ministero della Difesa e dalla sua titolare, Elisabetta Trenta: “Con la guerra i migranti diventano rifugiati. E i rifugiati vanno accolti”. E ancora: “Sono appena tornata da un ultimo viaggio nel Corno d’Africa, in questi Paesi abbiamo dei tassi di crescita demografica incredibili. Come pensiamo di poter gestire questo futuro con la chiusura dei porti? È impossibile, bisogna lavorare su una soluzione alternativa. Non sono quella che dice ‘apriamo a tutti’, però ragioniamo sul futuro perché prima o poi questo futuro ci sfugge di mano”.

Insomma la guerriglia politica totale impostata dal “nuovo” Movimento 5 Stelle per recuperare un po’ del terreno perduto dalla Lega è approdata nel cuore del campo salviniano: le politiche sull’immigrazione. Salvini osserva il cambio di passo degli alleati e a chi gli chiede se possa portare a una crisi di governo replica con fastidio: “Non lo so. Io non cambio idea. Con me i porti rimangono indisponibili, chiusi e sigillati. Possono aprire altri 18 procedimenti penali nei miei confronti, non cambio atteggiamento”. L’invito ai grillini è di farsi cortesemente gli affari propri: “Di Maio si occupa di lavoro e di sviluppo economico e non mi permetto di dargli lezioni su come risolvere le centinaia di crisi aziendali che sono ferme sul suo tavolo”. Stesse parole sulla Trenta: “Sei ministro della Difesa? E allora difendi, invece di incitare ad aprire i porti”.

La controreplica viene fatta filtrare da chi è vicino al capo dei Cinque Stelle, ed è altrettanto velenosa: “Quando teme di essere processato dice che le cose si fanno insieme, quando invece è in campagna elettorale dice che decide da solo sui porti. Hai capito Salvini…”. Presto i due litigiosi alleati potrebbero trovarsi “alla sbarra”, in Parlamento, proprio sui migranti della Sea Watch. Sarà curioso ascoltarli allora. Nel frattempo “il Capitano” scarta l’ennesima lettera che annuncia l’ennesima indagine a beneficio del suo pubblico su Facebook. Unica novità: la promessa di una direttiva per impedire l’ingresso alle navi delle ong “non solo nei porti ma anche nelle acque italiane”. Per il resto è la solita scena: è il giorno della marmotta.

Che s’ha da fare per una cena

Com’è tenera l’amicizia tra Annalisa Chirico e Matteo Salvini. Ricordate? La giornalista-salottiera del Foglio è riuscita a far parlare di sé organizzando una cena (a pagamento, per la sua fondazione) con la crema del mondo imprenditoriale e della magistratura italiana. L’ospite d’onore era ovviamente lui, il capo della Lega, che con la Chirico ha un rapporto affettuosissimo. Ma le amicizie, come le piante più delicate, vanno annaffiate bene. E Annalisa lo sa. Così quando non organizza cene, scrive. E quando scrive, le sue parole grondano di sentimenti per “il Capitano”. Qui, per esempio, Chirico commenta un articolo dell’Espresso che ribadisce i successi di Salvini sui social network: “Salvini reagisce com’è nel suo spirito: zero compiacimento, urge una passeggiata a piedi nei pressi di Fontana di Trevi, nell’ora di punta, fra la folla incredula”. Salvini insomma non si compiace mai: cammina. E cammina in mezzo alla gente, mica sulle acque. E la gente, per giunta, quando lo vede è incredula. Ma Chirico non ha finito di vergare: “La gente, le masse, il suo habitat naturale. Il ragazzo di Bande nere stringe le mani, posa per i selfie, sorride a tutti”. È un bel ministro! È un santo! “E se fosse lui – si chiede la dolce Annalisa – alla fine a fare quel partito della nazione che in tanti hanno provato a fare senza mai riuscirci? Chissà”. Chissà.

Salvini e il rebus delle candidature al Sud

Le liste ufficiali dei candidati che correranno per Lega alle Europee di maggio verranno rivelate solo oggi dopo l’imprimatur che ha impegnato fino all’ultimo istante Matteo Salvini. Che lo slogan di questa campagna elettorale su cui ha puntato molto, ossia “Prima l’Italia, il buonsenso in Europa” l’ha invece scelto da tempo. Per chiudere le candidature invece ha dovuto sudare sette camicie.

È da sabato scorso che il primo gruppo degli aspiranti a staccare un biglietto per il Parlamento europeo ha compiuto il rito dell’autenticazione delle firme a via Bellerio a Milano. Ma la cautela è massima perché sono “un esercito” quelli che hanno dato la disponibilità. E pure chi ha firmato la candidatura dovrà attendere per sapere se davvero è in lista. “Non do nulla per scontato, come ci hanno detto di fare” dice Matteo Gazzini l’imprenditore bolzanino in predicato di correre nel nord est. E lo stesso fa Matteo Adinolfi, consigliere comunale di Latina e portavoce provinciale della Lega. Che l’accettazione l’ha firmata a Roma in occasione dell’assemblea programmatica del partito di due giorni fa a cui ha presenziato lo stesso Salvini. “Finché non vedo scritto il mio nome, posso solo dire che ho firmato l’accettazione”.

Hanno firmato sempre per la lista della circoscrizione Centro anche l’economista Antonio Maria Rinaldi e la senatrice Cinzia Bonfrisco (e dovrebbe essere in corsa anche l’altra euroscettica Francesca Donato, presidente di Eurexit). In campo, a quanto pare, pure Susanna Ceccardi, ras leghista della Toscana che è data anche in pole position per la corsa alla presidenza della Regione, quando sarà il momento.

È al sud invece che si è andati con i piedi di piombo. “Abbiamo proposto solo candidati che eravamo certi passassero i raggi x di Salvini oltre che i nostri” giurano in coro quanti hanno avuto una responsabilità diretta nella proposta dei nomi. Tra cui c’è quello del rettore dell’Università degli Studi di Salerno Aurelio Tommasetti, un big della società civile. E un profilo di cui la Lega è andata a caccia in un contesto dove il partito è meno radicato e più esposto al rischio, o meglio al sospetto, di imbarcare opportunisti dell’ultima ora per non dire peggio.

Sempre al Sud è data per sicura pure la candidatura di Vincenzo Sofo fidanzato di Marion Le Pen (ieri Marine ha proposto Salvini come portavoce dell’eurogruppo nazionalista). Per l’Abruzzo avanza il nome di Antonello D’Aloisio, avvocato e già candidato sindaco a Chieti. Per le isole subito dopo il nome di Salvini capolista sembrano sicuri quelli dei dioscuri di Stefano Candiani, commissario del Carroccio in Sicilia, ossia Igor Gelarda e Fabio Cantarella. Al nord in campo il segretario organizzativo Alessandro Panza, Isabella Tovaglieri, indicata dai giovani leghisti, Marta Casiraghi, la consigliera comunale di Milano Laura Molteni, Gianna Gancia, già legata a Roberto Calderoli. Tra gli europarlamentari uscenti, via libera a Angelo Ciocca mentre rischia di restare fuori Mario Borghezio. Lui non l’ha presa bene: “È un errore politico. E in politica un errore è peggio di un crimine”. E al Nordest? I due romagnoli Gabriele Padovani, capogruppo a Faenza e Vallì Cipriani sindaca di un comune del riminese hanno sicuramente firmato la candidatura a via Bellerio.

Asse fra Cairo e Giorgetti: il Giro 2020 si fa sovranista

Giro d’Italia, “Tobb mint Verseny”: tradotto dall’ostica lingua ungherese, “Giro, più della concorrenza”. Abbiamo un anno per prepararci al lessico ugro. Il Giro aveva già inquietato la Farnesina con la Grande Partenza del 2018 a Gerusalemme, suscitando le proteste dei palestinesi, bypassati da Netanyahu e dagli organizzatori italiani. L’anno prossimo, altra scommessa. Dal Muro del Pianto alla via Pal. La geopolitica delle due ruote rosa ha infatti scelto Budapest, per la Grande Partenza 2020. Il primo via nella capitale del controverso Viktor Orban, e le prime tre tappe tutte ungheresi, in diretta mondovisione. La Rcs di Urbano Cairo che gestisce il Giro incassa tanti soldi. In cambio, Orban incassa un’opportunità mediatica di questi tempi assai apprezzata, considerando che il regime illiberale del suo governo è sempre più isolato nel contesto europeo, ma sempre più corteggiato da Matteo Salvini, per via dell’ambizioso progetto di creare una destra sovranista continentale. Non a caso Giancarlo Giorgetti, suo fedelissimo vice, è sottosegretario di Stato alla presidenza del Consiglio, con delega allo Sport: in questi ultimi tribolati mesi, serrato terreno di confronto tra Lega e Cinquestelle (Olimpiadi a Milano, finale di tennis a Torino, stadio di Roma).

Un Giro, dunque, all’insegna del sovranismo? Il sospetto c’è, del resto tutta la vicenda è stata condotta con diplomatica riservatezza… e con grande soddisfazione degli ungheresi. Alla presentazione ufficiale presso l’Istituto Italiano di Cultura di Budapest c’erano Tünde Szabó, ministro dello Sport, e Tamás Menczer, ministro degli Esteri, oltre a Mariusz Révész, Commissario governativo per l’Ungheria Attiva. Un coro di elogi nella speranza di sdoganare la cattiva immagine del Paese: “È un sogno, lo sport è molto importante: grazie al Giro vogliamo che la gente venga a visitarci, e mettere in mostra tutti i nostri valori”.

Di Maio blinda le esterne. Nel M5S monta la rabbia

L’aspetto che fa ridere è l’errore da matita da blu, nel quesito sottoposto agli iscritti: “Approvi i cinque capilisti proposti dal capo politico Luigi Di Maio?”. L’aspetto che invece non fa ridere bensì infuriare tanti 5Stelle è che proprio lui, il capo, porta a casa il via libera della piattaforma web Rousseau alle cinque esterne donne che ha calato dall’alto per le Europee, ma con uno stratagemma quasi beffardo.

Perché ieri dalle 10 alle 19 gli iscritti hanno votato sì o no in blocco a tutto il pacchetto, ossia a tutte e cinque le capolista, mentre invece l’articolo 5 del regolamento per le europee prevedeva un voto “su base circoscrizionale”. E tutti avevano interpretato la norma con una logica immediata: gli iscritti di ciascun collegio avrebbero detto sì o no alla capolista della loro zona.

Invece i vertici hanno imposto la ratifica in blocco, perché temevano che qualcuna delle esterne venisse bocciata nel voto differenziato, vista l’aria di rivolta. E per indorare la pillola ieri sera hanno diffuso i risultati suddividendoli per ciascuna circoscrizione. “Una brutta pagina” scuote la testa a tarda sera un big. Mentre sulle chat e nelle telefonate trabocca l’ira degli europarlamentari uscenti, che nelle selezioni web di pochi giorni fa erano risultati primi o comunque in eccellente posizione in tutte le circoscrizioni. E che ora dovranno scalare nelle liste, rischiando parecchio. Perché è vero, il 26 maggio si voterà con le preferenze, ma l’ordine di collocazione sulla scheda peserà, e parecchio. E infatti sono in subbuglio anche molti candidati e tanta base. E durante la giornata ad alimentare i mal di pancia piovono altre tegole. Per esempio la notizia che Maria Angela Danzì, segretario generale in Comuni e Province, capolista nel Nord Ovest, è indagata a Brindisi per invasione di terreni pubblici per una vicenda risalente a quando era subcommissario del Comune pugliese.

Un’indagine che ruoterebbe attorno alla realizzazione di un varco dogane in area comunale e per cui la capolista non ha ricevuto avvisi di garanzia. Candidati e iscritti rimangono molto colpiti. Ma i vertici non fanno una piega, e fanno sapere che Danzì non verrà fatta ritirare, perché si tratta di “un’indagine irrilevante”. Come ininfluente ai loro occhi è anche il fatto che Forza Italia volesse candidarla come sindaco proprio a Brindisi, l’anno scorso.

Nel frattempo nella chat del Movimento circola una lettera del dicembre 2011 in cui tutti i consiglieri del Cese, organo consultivo dell’Unione europea, esprimevano a Mario Monti “il più vivo apprezzamento e auguri non rituali per la sua nomina a presidente del Consiglio”. E tra le firme c’era quella di Daniela Rondinelli, la capolista scelta da Di Maio per la circoscrizione Centro. Ed è un’altra miccia del malcontento che si dilata da nord a sud dentro il M5S. Su Facebook diversi eletti locali si accapigliano tra loro. E il deputato pugliese Davide Galantino trova il coraggio di scriverlo nero su bianco: “Dico no alla ratifica delle capolista, attivisti e portavoce che hanno lavorato anni sul territorio vengono messi in secondo piano, e non mi pare un metodo meritocratico”.

Ma la piattaforma dà comunque ragione a Di Maio. Anche se i votanti sono pochissimi, poco più di 20 mila. Ma c’è anche l’onda lunga degli strascichi. Perché, raccontano, giorni fa il vicepremier aveva chiesto al comitato di garanzia del Movimento, composto da Vito Crimi, da Roberta Lombardi e dal capogruppo in Sicilia Giancarlo Cancelleri, se le capolista potessero essere votate in blocco. E l’organo di garanzia aveva detto no, “perché il regolamento parla chiaro”. Con il capo che pareva essersi convinto. Invece ieri è arrivato l’espediente sul web. E nel comitato a occhio non hanno gradito. Ma è solo una delle tante facce della serataccia a 5Stelle. Quella del voto che pare una crepa, tra il capo e tanti eletti.

Il cellulare ha ridotto noi genitori a follower dei figli

“Il telefonino è un grande aiuto, un grande progresso, va usato, ma c’è il pericolo che questa droga riduca la comunicazione in contatti. La vita non è per contattarsi, è per comunicare”. Lo ha detto Papa Francesco nell’aula Paolo VI agli studenti di un liceo romano. Per una curiosa coincidenza (o chissà che non fosse un disegno divino), nelle stesse identiche ore il pluripremiato rapper e attore Childish Gambino, sul palco del Coachella Festival, diceva qualcosa di non molto diverso al suo pubblico di giovanissimi e con un registro quasi più mistico di quello del papa: “Lasciate stare i telefoni. Questo non è un concerto. Questa è una chiesa. Se siete venuti qua per ascoltare solo la vostra canzone preferita, potevate starvene a casa. Se siete venuti qua soltanto per fare foto su Instagram, andatevene. Voglio che questa cosa la sentiate tutti. Questa è la mia chiesa. Qua mi sento a casa!”. Potrei aggiungere il testo dell’ultimo discorso a mio figlio sul tema dell’utilizzo compulsivo del suo cellulare, ma temo che non avrebbe lo stesso misticismo e la stessa sobria lucidità dei due esempi citati. Il mio solito “Adesso quel telefonino te lo frullo!”, di solito non prevede ulteriori approfondimenti. Almeno in sua presenza, perché poi, in sua assenza, da madre di domande me ne pongo parecchie.

Ho comprato il primo telefonino a mio figlio quando ha iniziato la prima media. Ho cercato di spiegargli che era un’arma e che da quel momento il mio legame di parentela con lui si sarebbe trasformato da semplice Madre in Grande Fratello. Non è libero di avere un pin di accesso che non sia a me noto e se lo cambia senza informarmi è costretto a rivelarmi la nuova combinazione con interrogatori che la Gestapo in confronto era il coro dello Zecchino d’oro. Nonostante le mie precauzioni, i problemi sono iniziati subito. E investono tutta una serie di campi che hanno a che fare col linguaggio, la socialità, la soglia dell’attenzione e i famosi “contatti” di cui ha parlato il Papa.

Tanto per cominciare, partiamo dai presunti vantaggi: comprare un cellulare a un figlio vuol dire comunicare più facilmente con lui. Falso. Mio figlio, un ragazzino estroverso e loquace, quando è fuori casa e riceve un mio messaggio su Whatsapp contenente un qualsiasi tipo di domanda, da “A che ora torni a casa?” a “Che ne pensi del tramonto della spiritualità nella società occidentale?”, dopo circa tre ore risponde “Ok”. Per poi sparire in una dimensione così buia e ignota che quando ho visto la prima foto del buco nero mi è parso di scorgere lui col suo cellulare in mano sullo sfondo.

Un paio di settimane fa è partito per una gita in Sicilia e l’ho guardato con sgomento infilare una ciabatta multipresa nella sua valigia. Mi ha spiegato che dividendo la camera con tre compagni probabilmente non avrebbero avuto il numero di prese necessarie per caricare i cellulari. Mi sono stupita della sua sorprendente capacità di prevenire le urgenze importanti della vita e ho sperato che questo potesse aiutarmi ad avere contatti con lui mentre era lontano. Questa è stata la nostra conversazione via Whatsapp in cinque giorni di gita: “Leon ti diverti?”. Due giorni dopo: “Sì”. “Che avete visto?”. Il giorno del ritorno: “Niente”. In compenso si è fatto dare un euro a ricarica da chiunque attaccasse il cellulare alla ciabatta.

Ho poi scoperto che le altre madri, come me, erano ridotte a sapere qualcosa del destino dei loro figli in gita spiando le storie dei figli su Instagram. In pratica, siamo stati declassati da genitori a follower, sempre che i figli non ci blocchino sui social come spesso accade e non ci tocchi chiedergli l’amicizia con un profilo fake tipo “LauraFragolina08”. La questione “contatti” anziché “comunicazione” accennata da Papa Francesco è però la più preoccupante.

Ora, non ho alcuna intenzione di fare la madre polverosa con la cantilena “ai miei tempi”, però farò la madre polverosa che dice “Ai miei tempi, finiti i compiti o nel weekend, io non vedevo l’ora di precipitarmi fuori di casa e incontrare al bar, in piazza, al muretto, sul lungomare i miei amici”. Mio figlio – nonostante sia un evidente animale sociale – esce pochissimo. Chatta, si whatsappa, manda note vocali, foto, canzoni, video di YouTube e ha “contatti” con i suoi amici fino all’ora di cena, ma li incontra di rado. È completamente appagato da questo livello di comunicazione. E così la maggior parte dei suoi compagni. Le famose “comitive” sotto casa oggi sono community, social, gruppi whatsapp.

L’urgenza di vedersi nei ragazzini non esiste più. E infatti non è più il linguaggio orale a condizionare, plasmare la lingua scritta, ma il contrario. Ora è la lingua scritta a dettare regole e neologismi, è da quello che digitiamo che arriva la maggior parte degli aggiornamenti importanti della Treccani. (a quando l’inserimento di “triggerato” nel vocabolario?) Anche senza scomodare il cyberbullismo, ci sarebbe poi da discutere di quanto i cellulari abbiano fornito facili strumenti all’invidia e alla meschinità tipicamente adolescenziale della battutina feroce, della frase cattiva e dello sfogo emotivo di quell’età che prima si risolveva il giorno dopo a scuola o con due cuffie e gli Iron Maiden a palla, ora con scambi di messaggi che, spesso, feriscono.

Il comico Louis C. K. in un suo show ha spiegato: “Io non compro il cellulare alle mie figlie adolescenti perché gli adolescenti sanno essere molto cattivi. Io non posso prevenire la cattiveria. Voglio però che la usino guardando la reazione negli occhi dei destinatari. Se dai del ciccione a un compagno, devi vedere sulla sua faccia quanto gli fai male. Da un telefonino non lo saprai mai”. L’importanza di insegnare ai figli le conseguenze delle azioni, in un mondo completamente filtrato da cellulari e computer, è una delle missioni più complesse.

Infine, leggevo un articolo qualche giorno fa, che spiegava quanto tutti noi, figli compresi, torniamo a dedicarci ad attività “sociali”, stimolanti e creative quando i cellulari, i social “dormono”. Ovvero quando sentiamo che gli altri non sono connessi, virtualmente raggiungibili, “telefonabili”. Un discorso che mi evocava vagamente la vecchia leggenda metropolitana dei tantissimi figli che nacquero dopo nove mesi dal black-out, solo che quella era, appunto una leggenda. Io ho sequestrato per sette giorni il cellulare a mio figlio per una punizione, mesi fa. In quella settimana ha riesumato l’album da disegno, ha visto un film al giorno e mi ha chiesto perché io e il padre avessimo divorziato. Non lo aveva mai fatto in 12 anni. Non so se è stato perché senza cellulare ha avuto il tempo per comunicare con se stesso, di farsi delle domande adolescenziali un po’ più profonde di “Perché non va il wi-fi in camera?”, ma il dubbio mi è rimasto.

 

“Salviamo subito Ventotene o sprecheremo 70 milioni”

Settanta milioni di euro. Il finanziamento esiste già ma è chiuso in un cassetto a Roma insieme al progetto di recupero dell’Ergastolo di Santo Stefano, il super carcere con la pianta sovrapponibile a un teatro – esattamente il San Carlo di Napoli – in cui dal 1965 aleggiano solo fantasmi, ombre di detenuti celebri come il patriota Luigi Settembrini (1813-1877) e Sandro Pertini (1886-1990).

Monumento storico, quindi, e architettonico: il modello panopticon realizzato permetteva al centro, la croce e la guardia, il potere spirituale e quello temporale, di tenere sott’occhio tutte le celle, tutti gli sventurati condannati all’Ergastolo, nome proprio della struttura (dal greco ergastèrion, luogo di lavoro) che ha contribuito nel corso del tempo a dar appellativo alla pena senza fine. L’isola disabitata di Santo Stefano, in mezzo al Tirreno, a poche miglia da Ventotene – cuore dell’Europa romantica nata dal confino di Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni – è inaccessibile proprio a causa delle condizioni pericolanti dell’Ergastolo.

Così Guido Garavoglia, presidente della onlus “per Santo Stefano in Ventotene” ieri prende carta e penna e scrive alla Presidenza del Consiglio: “Egregio sottosegretario Giancarlo Giorgetti, le scrivo per rappresentarle la gravissima situazione in cui si trova l’ex carcere borbonico di Santo Stefano, dichiarato monumento nazionale dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel 2008, che versa ormai in uno stato di degrado tale da comprometterne la stessa esistenza”. L’associazione chiede “la sollecita ricostituzione del Tavolo permanente per proseguire l’iter del progetto di recupero avviato e scongiurare la scomparsa di un luogo simbolo della nostra memoria collettiva e del processo di formazione dell’identità nazionale”.

Il “Tavolo” viene costituito dall’allora ministro dei Beni culturali Dario Franceschini con Regione Lazio, Demanio e Comune di Ventotene nel novembre 2015. Il 30 gennaio 2016 va in scena la visita a Ventotene del premier Renzi, insieme con lo stesso ministro Franceschini e col governatore Nicola Zingaretti. Sarà “un luogo della rivincita della libertà” annuncia in pompa magna Renzi riferendosi al recupero dell’Ergastolo, destinato secondo i proclami dell’allora premier a diventare Centro di formazione europeo per “le élite delle classi dirigenti che governeranno l’Europa nei prossimi decenni”. L’avvio dei lavori è annunciato – e confermato nella visita di agosto 2016 con Angela Merkel e François Hollande – per il marzo 2017, a 60 anni dai Trattati di Roma fondativi dell’Unione europea. I fantasmi di Santo Stefano, però, non accolgono finora nessun operaio nonostante lo stanziamento del Cipe di 70 milioni nell’ambito del piano stralcio “Cultura e turismo” del ministero dei Beni culturali: la spesa più importante delle 33 previste dal programma “un miliardo per la cultura” finanziato dal Fondo per sviluppo e coesione 2014-2020. Al 2020 mancano otto mesi.

Intanto il 25 agosto 2016 i vigili del fuoco di Latina dichiarano l’inagibilità dell’Ergastolo: “Pericolante in più punti”. Da quel momento, il Comune di Ventotene serra le porte del vecchio carcere chiudendo l’isola ai turisti: un danno per l’economia locale che con le visite al monumento di Santo Stefano staccava 6 mila biglietti l’anno. Nell’agosto 2017 con il Cis (Contratto istituzionale di sviluppo) è avviato l’iter del progetto, la società Invitalia stazione appaltante unica, e la sottosegretaria Maria Elena Boschi inaugura addirittura l’elisuperficie realizzata dall’Aeronautica militare: per un milione e mezzo (presi dai 70 milioni complessivi stanziati dal Cipe) la “pista” è stata realizzata cancellando per sempre il campo da calcio dove i detenuti dell’Ergastolo sfidavano gli abitanti di Ventotene nell’ambito dei programmi carcerari di Eugenio Perucatti, illuminato direttore del penitenziario dal 1952 al 1960.

L’ultima riunione del “Tavolo” è datata 21 febbraio 2018, con l’audizione di tutti gli enti e le associazioni interessate. “Dopo le elezioni del 4 marzo 2018 – si legge nella lettera inviata ieri a Giorgetti da Ventotene – e la formazione del nuovo governo, il Tavolo permanente su Santo Stefano non è più stato ricostituito”. Fino a oggi, passato più di un anno dall’insediamento del governo M5S-Lega, nulla si è mosso, solo il vento si alza su Santo Stefano e l’Ergastolo cade a pezzi.

Costruito su ordine di re Ferdinando IV di Borbone dall’architetto Francesco Carpi; terminato nel 1797 su 28 ettari, con un perimetro di 207 metri e 99 celle di 16 metri quadri ciascuna: al piano terra, l’inferno, senza “bocche di lupo”, poi il purgatorio al secondo piano, dalla cui feritoia si vede solo il cortile, e il paradiso al terzo che regala anche un pezzetto di cielo. I Savoia “ereditano” il carcere e l’esercito sabaudo nel 1960 seda la rivolta dopo la proclamazione della libera Repubblica di Santo Stefano da parte dei camorristi rinchiusi. Vengono sbattuti qui dai piemontesi anche briganti tra i più feroci, come Carmine Crocco e Giuseppe Musolino. Nel 1901 muore in una di queste celle, in circostanze mai chiarite, l’anarchico Gaetano Bresci, assassino di re Umberto I. Il regime fascista spedisce a Santo Stefano, fra gli altri, il comunista Umberto Terracini e il socialista Sandro Pertini, che (come si legge nel saggio di Antonio Parente in Biografia di una prigione, volume a cura di Anthony Santilli) scrisse: “La sveglia suona: è l’alba. Dal mare giunge un canto d’amore, da lontano il suono delle campane di Ventotene. Dalla ‘bocca di lupo’ guardo il cielo, azzurro come non mai, senza una nuvola, e d’improvviso un soffio di vento mi investe, denso di profumo dei fiori sbocciati durante la notte. Ricado sul mio giaciglio. Acuto, doloroso, mi batte nelle vene il rimpianto della mia giovinezza che giorno per giorno, tra queste mura, si spegne. La volontà lotta contro il doloroso smarrimento. È un attimo: mi rialzo, mi getto l’acqua gelida sul viso. Lo smarrimento è vicino, la solita vita riprende: rifare il letto, pulire la cella, far ginnastica, leggere, studiare”.

Stadio della Roma: i 5Stelle prendono ancora tempo

Il progetto della As Roma di costruire lo stadio a Tor di Valle continua ad agitare il Campidoglio. Dopo l’inchiesta della Procura di Roma, che ha portato all’arresto del presidente dell’Assemblea Marcello De Vito e ad indagare per corruzione l’immobiliarista Luca Parnasi, ora due consiglieri di opposizione (Cristina Grancio e Stefano Fassina) chiedono con una delibera l’annullamento del pubblico interesse all’opera. Ieri la Commissione Sport, la prima delle 5 competenti a votare il testo, non ha espresso parere in attesa della valutazione tecnica dei dipartimenti Lavori Pubblici, Mobilità e Sport, contraria invece quella dell’Urbanistica. La Grancio ha letto degli stralci del parere dell’avvocatura capitolina per la sindaca sulla possibilità o meno di arrivare ad un annullamento in autotutela della procedura senza costi per il Campidoglio. Nel testo si parla di “rischio annullamento” qualora la scelta di costruire in area non edificata non sia ben motivata. La maggioranza attende i pareri come avallo tecnico per bocciare la delibera Grancio-Fassina e proseguire con l’iter dello stadio, che per l’estate prevede l’approvazione della variante urbanistica.