“Il telefonino è un grande aiuto, un grande progresso, va usato, ma c’è il pericolo che questa droga riduca la comunicazione in contatti. La vita non è per contattarsi, è per comunicare”. Lo ha detto Papa Francesco nell’aula Paolo VI agli studenti di un liceo romano. Per una curiosa coincidenza (o chissà che non fosse un disegno divino), nelle stesse identiche ore il pluripremiato rapper e attore Childish Gambino, sul palco del Coachella Festival, diceva qualcosa di non molto diverso al suo pubblico di giovanissimi e con un registro quasi più mistico di quello del papa: “Lasciate stare i telefoni. Questo non è un concerto. Questa è una chiesa. Se siete venuti qua per ascoltare solo la vostra canzone preferita, potevate starvene a casa. Se siete venuti qua soltanto per fare foto su Instagram, andatevene. Voglio che questa cosa la sentiate tutti. Questa è la mia chiesa. Qua mi sento a casa!”. Potrei aggiungere il testo dell’ultimo discorso a mio figlio sul tema dell’utilizzo compulsivo del suo cellulare, ma temo che non avrebbe lo stesso misticismo e la stessa sobria lucidità dei due esempi citati. Il mio solito “Adesso quel telefonino te lo frullo!”, di solito non prevede ulteriori approfondimenti. Almeno in sua presenza, perché poi, in sua assenza, da madre di domande me ne pongo parecchie.
Ho comprato il primo telefonino a mio figlio quando ha iniziato la prima media. Ho cercato di spiegargli che era un’arma e che da quel momento il mio legame di parentela con lui si sarebbe trasformato da semplice Madre in Grande Fratello. Non è libero di avere un pin di accesso che non sia a me noto e se lo cambia senza informarmi è costretto a rivelarmi la nuova combinazione con interrogatori che la Gestapo in confronto era il coro dello Zecchino d’oro. Nonostante le mie precauzioni, i problemi sono iniziati subito. E investono tutta una serie di campi che hanno a che fare col linguaggio, la socialità, la soglia dell’attenzione e i famosi “contatti” di cui ha parlato il Papa.
Tanto per cominciare, partiamo dai presunti vantaggi: comprare un cellulare a un figlio vuol dire comunicare più facilmente con lui. Falso. Mio figlio, un ragazzino estroverso e loquace, quando è fuori casa e riceve un mio messaggio su Whatsapp contenente un qualsiasi tipo di domanda, da “A che ora torni a casa?” a “Che ne pensi del tramonto della spiritualità nella società occidentale?”, dopo circa tre ore risponde “Ok”. Per poi sparire in una dimensione così buia e ignota che quando ho visto la prima foto del buco nero mi è parso di scorgere lui col suo cellulare in mano sullo sfondo.
Un paio di settimane fa è partito per una gita in Sicilia e l’ho guardato con sgomento infilare una ciabatta multipresa nella sua valigia. Mi ha spiegato che dividendo la camera con tre compagni probabilmente non avrebbero avuto il numero di prese necessarie per caricare i cellulari. Mi sono stupita della sua sorprendente capacità di prevenire le urgenze importanti della vita e ho sperato che questo potesse aiutarmi ad avere contatti con lui mentre era lontano. Questa è stata la nostra conversazione via Whatsapp in cinque giorni di gita: “Leon ti diverti?”. Due giorni dopo: “Sì”. “Che avete visto?”. Il giorno del ritorno: “Niente”. In compenso si è fatto dare un euro a ricarica da chiunque attaccasse il cellulare alla ciabatta.
Ho poi scoperto che le altre madri, come me, erano ridotte a sapere qualcosa del destino dei loro figli in gita spiando le storie dei figli su Instagram. In pratica, siamo stati declassati da genitori a follower, sempre che i figli non ci blocchino sui social come spesso accade e non ci tocchi chiedergli l’amicizia con un profilo fake tipo “LauraFragolina08”. La questione “contatti” anziché “comunicazione” accennata da Papa Francesco è però la più preoccupante.
Ora, non ho alcuna intenzione di fare la madre polverosa con la cantilena “ai miei tempi”, però farò la madre polverosa che dice “Ai miei tempi, finiti i compiti o nel weekend, io non vedevo l’ora di precipitarmi fuori di casa e incontrare al bar, in piazza, al muretto, sul lungomare i miei amici”. Mio figlio – nonostante sia un evidente animale sociale – esce pochissimo. Chatta, si whatsappa, manda note vocali, foto, canzoni, video di YouTube e ha “contatti” con i suoi amici fino all’ora di cena, ma li incontra di rado. È completamente appagato da questo livello di comunicazione. E così la maggior parte dei suoi compagni. Le famose “comitive” sotto casa oggi sono community, social, gruppi whatsapp.
L’urgenza di vedersi nei ragazzini non esiste più. E infatti non è più il linguaggio orale a condizionare, plasmare la lingua scritta, ma il contrario. Ora è la lingua scritta a dettare regole e neologismi, è da quello che digitiamo che arriva la maggior parte degli aggiornamenti importanti della Treccani. (a quando l’inserimento di “triggerato” nel vocabolario?) Anche senza scomodare il cyberbullismo, ci sarebbe poi da discutere di quanto i cellulari abbiano fornito facili strumenti all’invidia e alla meschinità tipicamente adolescenziale della battutina feroce, della frase cattiva e dello sfogo emotivo di quell’età che prima si risolveva il giorno dopo a scuola o con due cuffie e gli Iron Maiden a palla, ora con scambi di messaggi che, spesso, feriscono.
Il comico Louis C. K. in un suo show ha spiegato: “Io non compro il cellulare alle mie figlie adolescenti perché gli adolescenti sanno essere molto cattivi. Io non posso prevenire la cattiveria. Voglio però che la usino guardando la reazione negli occhi dei destinatari. Se dai del ciccione a un compagno, devi vedere sulla sua faccia quanto gli fai male. Da un telefonino non lo saprai mai”. L’importanza di insegnare ai figli le conseguenze delle azioni, in un mondo completamente filtrato da cellulari e computer, è una delle missioni più complesse.
Infine, leggevo un articolo qualche giorno fa, che spiegava quanto tutti noi, figli compresi, torniamo a dedicarci ad attività “sociali”, stimolanti e creative quando i cellulari, i social “dormono”. Ovvero quando sentiamo che gli altri non sono connessi, virtualmente raggiungibili, “telefonabili”. Un discorso che mi evocava vagamente la vecchia leggenda metropolitana dei tantissimi figli che nacquero dopo nove mesi dal black-out, solo che quella era, appunto una leggenda. Io ho sequestrato per sette giorni il cellulare a mio figlio per una punizione, mesi fa. In quella settimana ha riesumato l’album da disegno, ha visto un film al giorno e mi ha chiesto perché io e il padre avessimo divorziato. Non lo aveva mai fatto in 12 anni. Non so se è stato perché senza cellulare ha avuto il tempo per comunicare con se stesso, di farsi delle domande adolescenziali un po’ più profonde di “Perché non va il wi-fi in camera?”, ma il dubbio mi è rimasto.