Proroga Radio Radicale: Di Nicola (M5S) contro Crimi

Il sottosegretario all’editoria Vito Crimi tira dritto: la convenzione con Radio Radicale non sarà prorogata. Ma le sue parole scatenano le proteste di mezzo arco costituzionale e persino il presidente del Senato Casellati rompe il silenzio per difendere l’emittente.

Nel M5S si segnala la posizione del senatore Primo Di Nicola: “È una mossa azzardata: l’asset più prezioso dell’emittente ossia l’archivio rischia di andare disperso, con un evidente danno all’interesse pubblico”. Per Di Nicola occorre dunque prorogare di almeno sei mesi la convenzione “per dare la possibilità alla Rai di studiare le mosse necessarie per assicurarsi questo enorme patrimonio che è stato pagato con fondi pubblici”. Un periodo utile anche all’azienda di Viale Mazzini per attrezzarsi con un servizio pubblico “all’altezza delle aspettative. Ossia – spiega – assicurare tutte le coperture sugli avvenimenti di interesse pubblico, da quelli parlamentari ai grandi processi, come quelli sulla mafia o sul Ruby Ter. E magari, viste le risorse che gli abbonati continuano ad assicurare, registrandoli anche in video e mettendoli gratuitamente a disposizione dei cittadini su tutte le piattaforme informative di cui dispone”. Oggi in Vigilanza sfileranno i vertici della Rai. Lo stesso Di Nicola che è vicepresidente dell’organismo ha messo nel mirino la doppia presidenza di Marcello Foa. “Mi auguro che si dimetta presto da RaiCom e rimuova questo conflitto di interessi”. Ma non basta. Per il senatore 5Stelle va finalmente affrontato il tema dell’indipendenza della Rai dalla politica: “Mi farò carico di depositare il mio progetto di riforma attingendo alle riflessioni contenute nella proposta dell’attuale presidente della Camera Fico e dai contenuti della proposta di iniziativa popolare che era stata presentata qualche anno fa e che è stata lasciata cadere nel nulla”.

“Ciarrapico ingrato, fui io a inventarlo”

“Buonasera, sono Francesco Pazienza, ha saputo che è morto il ‘cialtrone’?”. È domenica, tardo pomeriggio, quando l’ex uomo d’affari, ex agente segreto condannato per i depistaggi della strage di Bologna mi raggiunge telefonicamente con l’urgenza di commentare molto liberamente la scomparsa di Ciarrapico, uomo chiave degli intrighi andreottiani e non solo. La conversazione sbatte quasi subito proprio lì, sul sette volte presidente del Consiglio. “Ciarrapico l’ho creato io”.

Va bene, passi il narcisistico racconto di questa pagina buia della storia d’Italia. “In che senso lo ha creato lei?”. “Era uno straccione, non aveva una lira, me lo presentò sa chi?”, eh no proprio non lo posso immaginare: “Umberto Federico D’Amato (la spia numero 1 d’Italia, zar della Divisione Affari riservati del ministero dell’Interno sciolta nel 1974, ndr). D’Amato aveva tutti, dico tutti, alla sua corte. E poi io lo presentai a Roberto Calvi (capo del Banco Ambrosiano trovato morto a Londra sotto il ponte dei Frati neri, ndr). Calvi era appena uscito dalla prigione di Lodi, nell’estate del 1981: andammo insieme in vacanza in Sardegna nella villa che mi aveva prestato l’imprenditore Pino Cabassi, e mi disse: e ora come faccio a tenere i rapporti con Andreotti? Pensai a Ciarrapico. E da quel momento fu lui a fare da ponte tra Calvi e Belzebù”.

Prima l’incarico ovviamente lo aveva… “Ovviamente lo aveva Licio Gelli! Sempre grazie a me, Ciarrapico divenne il re delle acque Fiuggi”. Gli prestò denaro? “Non direttamente, convinsi Calvi a farlo. E Calvi gli diede la somma necessaria nel marzo del 1982. Pensi che Ciarrapico era pieno di cambiali protestate e dunque si avvalse di un prestanome, tal Abinente, un nome che mi fece fare un sacco di battute. È da allora che si trasformò in ricco imprenditore però scordò di darmi la mia parte di commissione. 1 miliardo e 400 milioni”. Non li ha mai visti quei soldi? “No, anzi l’imprenditore degli yacht Sorel, che era mio amico, mi telefonò e mi prese in giro: ‘Sai dove sono finiti i tuoi soldi? Ciarrapico si è comprato un 30 metri!’ Gli feci una guerra totale, lui mi denunciò per estorsione nel 1983, fui assolto e avviai una causa civile per risarcimento, e mi denunciò di nuovo ma perse anche la seconda volta, quando il pm Silverio Piro chiese al Gup di chiudere la faccenda”. Quindi rimase all’asciutto? “Già, e quando Andreotti tentò di corrompermi con 150 milioni, tramite l’avvocato della Democrazia cristiana Pino De Gori, gli dissi di tenerseli perché io volevo tutta la mia parte, non mi accontentavo della carità”. Ma corromperla per cosa? “Quando il giudice Caselli mi chiamò per interrogarmi nell’ambito dell’inchiesta palermitana su Andreotti, fui contattato dall’avvocato De Gori che mi invitò a passare prima da lui, nel suo studio. Io andai e mentre ero lì tirò fuori dalla cassaforte una valigetta con parecchie mazzette di soldi e mi fece l’offerta. Io mandai a quel paese prima lui, poi chiamai lo studio di Andreotti, parlai con la mitica segretaria Enea pregandola di dire al presidente che io volevo i soldi che mi doveva il suo uomo fidato, il Ciarra. Il resto poteva pure tenerseli”. Perché non hai mai raccontato questo tentativo di corruzione? “Perché mi sarei infilato in un gran casino, e ne avevo fin troppi”.

La “sondaggite” di Salvini dietro gli attacchi a Raggi

Si picchiano su Roma, ogni santo giorno. E dietro la battaglia ci sono i sondaggi, i numeri che hanno sloggiato idee e convinzioni. Quelli che consigliano a Matteo Salvini di infierire sul Campidoglio a 5Stelle sempre e comunque, almeno fino alle Europee del 26 maggio. E sono sempre stime e ricerche a suggerire al Movimento di rispondergli sui diritti civili e, incredibile ma anche no, su migranti e sicurezza.

Perché è un gioco a ferirsi sui lati deboli, la lite continua e chissà se sempre sincera tra gli alleati per forza, Lega e Cinque Stelle. E una fonte di peso dal Movimento conferma quello che già sussurravano spifferi vari: “Matteo guarda di continuo sondaggi riservati sui vari temi, ha una squadra che si occupa anche di questo, e quindi in vista delle Europee ci attacca su quelli che considera i nostri punti deboli. E Roma è uno di questi”.

D’altronde è facile e rumoroso insistere su rifiuti, buche e scale mobili rotte. E poi c’è tutta una classe politica che il Salvini non più secessionista – ma che sta imbarcando un po’ di tutto al centro e al sud – deve blandire e tenere assieme. E un mezzo è anche far intravedere la conquista della Capitale, e sarebbe come assistere ai Galli di Brenno che si (ri)prendono il Campidoglio. Così anche ieri il vicepremier è stato duro, anzi di più: “Avevo invitato i romani a scegliere il cambiamento, ma dopo anni, questo cambiamento non mi sembra molto diverso dal passato. E lo dico vivendo Roma da cittadino, come tanti altri romani che si lamentano dell’immondizia, del traffico, dei mezzi pubblici che non funzionano, dei crateri nelle strade. Probabilmente se si votasse domani non inviterei più a scegliere i 5stelle”.

E a ruota sull’AdnKronos plana il vicecapogruppo alla Camera, Francesco Zicchieri, nativo di Alatri (Frosinone): “L’amministrazione Raggi è inefficiente, la gente è stanca. La Lega ha uomini e donne capaci di amministrare Roma e quando ci sarà l’occasione ci presenteremo ai cittadini”. E ovviamente da Dubai il capo del Movimento, Luigi Di Maio, risponde a stretto giro, partendo proprio da lì, dai sondaggi: “Quando la Lega è in difficoltà, come in questo periodo, perché a loro i sondaggi pesano di più, rimettono in mezzo Roma. È un giochino che ho visto fare molte volte in questi anni”.

E non è affatto un caso che per tutta la giornata i 5Stelle alzino il tiro sui migranti. Perché sanno che se vogliono recuperare a sinistra, soliti sondaggi alla mano, devono aggiustare la rotta innanzitutto su quello (e scrollano le spalle quando gli ricordano che Di Maio bollava le navi delle Ong come “taxi del mare”). Ma soprattutto sanno che Salvini è il primo a temere un’invasione di profughi di un’eventuale guerra in Libia, perché è il ministro dell’Interno, lo stesso che ieri lo ha rivendicato: “Sui confini decido io”. E sono quattro sillabe in cui da qui a qualche giorno potrebbe rimanere impigliato, visto che il primo a dover gestire una probabile emergenza sarebbe per competenza lui. Nell’attesa ieri la sindaca Virginia Raggi non gli ha volutamente risposto perché, dicono dal Comune, “noi pensiamo a lavorare”.

Ma fuori taccuino dai consiglieri arrivano gli strali contro il capo della Lega che “qui a Roma si sta affidando alla vecchia ‘rete’ dell’ex sindaco Gianni Alemanno”. E c’è chi ricorda che la legge di conversione del decreto Salva-Roma del 2008, quello con cui il governo Berlusconi istituì la gestione commissariale del debito della Capitale, venne votata anche “dal giovane deputato Salvini”. Polemiche e colpi sotto la cintura. Non i primi, non certo gli ultimi.

Def, Regioni: “Con blocco di 2 miliardi bus fermi a dicembre”

Il blocco di 2 miliardi nel 2019, per rispettare gli impegni di indebitamento presi con Bruxelles, rischia di lasciare gli autobus del trasporto pubblico locale fermi a dicembre. A lanciare l’allarme è la Conferenza delle Regioni nell’audizione nelle commissioni Bilancio di Camera e Senato, impegnate nell’esame del Def. “La riduzione di spesa inciderà sugli enti territoriali per 300 milioni di euro con il rischio che a dicembre tutti i mezzi restino nei depositi perché non si pagano gli autisti, la benzina, la manutenzione”, spiega il rappresentante delle regioni, Davide Caparini. Nel suo intervento Confindustria ha, invece, puntato il dito sull’attivazione delle clausole di salvaguardia sull’Iva “che avrà un impatto nel 2020 pari a 0,3% di minor crescita del PIL e 0,9 % di minor deficit pubblico”. Bocciatura per la flat tax da parte dello Svimez: “Le misure previste avrebbero una ricaduta territoriale fortemente asimmetrica, a svantaggio del Mezzogiorno, l’area con redditi più bassi”. Il quadro stimato dice che il Pil tendenziale è in modesto incremento nel Centro-Nord, +0,2%, mentre nel Sud – anche alla luce dell’inversione di tendenza del mercato del lavoro del 2018 – il Pil è previsto in riduzione di due decimi di punto.

Debito di Roma, ecco il gioco di prestigio degli interessi

Se andrà tutto bene, ci guadagneranno tutti: lo Stato dovrà pagare una quota più bassa rispetto a oggi del debito della Capitale; il Comune di Roma gestirà soltanto i debiti verso i fornitori e non più quelli verso le banche e avrà più soldi da spendere; il sindaco Virginia Raggi potrà ridurre l’addizionale Irpef più alta d’italia che grava sui romani giusto nell’anno delle elezioni, il 2021.

La norma seguita dal viceministro dell’Economia M5S, Laura Castelli, si chiama “Boc Salva Roma” (Boc è un prestito obbligazionario) ed è all’articolo 49 di quel decreto Crescita che il governo continua a riscrivere, senza mai pubblicare. Per capire i suoi effetti bisogna studiare un kamasutra finanziario tra ministero del Tesoro, Comune e banche creditrici. Con molta pazienza si arriva a scoprire perché è così importante, soprattutto per Roma e la Raggi, che 78,8 milioni di interessi vengano pagati direttamente dal Tesoro invece che dalla gestione commissariale del debito (che è una specie di istituzione governativa, non comunale) con fondi ricevuti dal Tesoro.

La sintesi estrema è questa: tra il 2003 e il 2004 il Comune di Roma emette un prestito obbligazionario da 1,4 miliardi di euro con scadenza 2048 su cui paga il 5,34 per cento di interesse (uno sproposito) pari a 74,8 milioni all’anno. Nel 2010 il governo Berlusconi decide di salvare il Comune di Roma guidato da Gianni Alemanno, esponente di An all’epoca in maggioranza, e trasferisce quelli che oggi sono 12 miliardi di euro di debito della Capitale in una “gestione commissariale”, un ente parallelo al bilancio del Comune. Ogni anno, il commissario nominato dal governo, oggi Alessandro Beltrami, riceve 500 milioni di euro, 300 dal ministero del Tesoro, 200 dal Comune di Roma che li raccoglie applicando un’addizionale comunale sull’Irpef dei residenti pari al 9 per mille e con una tassa sui biglietti di chi parte dagli aeroporti della Capitale. Questo schema è stato pensato, nel 2010, senza scadenza: ogni anno il governo e i romani pagano, qualche creditore ottiene il dovuto, le banche incassano interessi milionari.

La Castelli, il Tesoro e il Campidoglio hanno escogitato il seguente sistema: le obbligazioni da 3,6 miliardi (1,4 di capitale e 2,2 di interessi) di cui oggi è titolare Roma, diventano del Tesoro che continua a pagare gli interessi e alla scadenza rimborsa il capitale. Così sarà il Tesoro a trattare con le banche, ben contente di avere a che fare con un debitore più solido della dissestata Capitale e quindi disponibili a rinegoziare un po’ al ribasso gli interessi. Per le casse dello Stato non sarà un aggravio, visto che i trasferimenti alla gestione commissariale si ridurranno di pari importo. Forse ci sarà addirittura un risparmio, se il Tesoro ottiene uno sconto dalle banche.

Il secondo beneficio è per il commissario del debito romano: visto che i suoi predecessori si erano fatti anticipare trasferimenti futuri, nel 2022 Beltrami avrebbe dovuto dichiarare una surreale bancarotta sulla gestione commissariale di un debito insostenibile. Sembra astruso, ma in pratica avrebbe dovuto pagare ai creditori 12 milioni in più di quelli che incassava da Comune e Tesoro, e via con saldi negativi anche di oltre 200 milioni fino al 2034. Con il decreto il problema di liquidità è scongiurato, perché gli interessi vengono pagati direttamente dal Tesoro.

Poi c’è il Comune guidato dalla Raggi: una volta trasferiti al Tesoro gli unici debiti certi, quelli finanziari, al Campidoglio restano quelli commerciali che al 30 novembre 2018 ammontavano a 3 miliardi. Entro il 2021 finalmente il Comune conoscerà la “massa passiva” finale, cioè la somma che deve davvero rimborsare a imprese, cittadini con beni espropriati e così via. Se questa risulterà più bassa dei contributi già deliberati per rimborsarli (i famosi 200 milioni all’anno del Comune più i 300 del Tesoro meno i soldi che il Tesoro sottrae per gli interessi che si accolla), il Campidoglio si ritroverà con una specie di tesoretto giusto nell’anno delle elezioni che farà comodo per ridurre l’Irpef dei romani.

Vincono tutti. Tranne i contribuenti del resto d’Italia che dall’inizio della gestione commissariale nel 2010 a oggi hanno pagato 300 milioni all’anno del debito di Roma. Magari risparmieranno qualcosa sul futuro, ma per il passato si devono mettere l’animo in pace: il tesoretto non andrà a loro.

Movie e Premium incassano 30 milioni ma la Rai li chiude

“Si vuolefar migrare tutti su Netflix”. È questo il tono delle reazioni di fronte alla decisione del vertice Rai di chiudere Rai Movie e Rai Premium, i due canali specializzati rispettivamente nella programmazione di film e fiction. Reazioni che arrivano dai partiti, ma anche da ambienti interni all’azienda. La motivazione della chiusura è che i due canali fanno bassi ascolti. Dato incontestabile: Rai Movie ha uno share medio dell’1,2 %, mentre Rai Premium è intorno all’1,1%. I due canali, però, insieme hanno un costo annuale di circa un milione di euro, a fronte di circa 30 milioni di incassi pubblicitari. Insomma, costano poco e incassano tanto. La critica, poi, riguarda la decisione di sostituirli con un canale maschile (Rai 4) e uno femminile (ancora senza nome). “Rai Movie e Rai Premium non spariranno ma si fonderanno. Film e serie tv continueranno ad andare in onda anche più di prima, ma spalmati su più canali. E diversificare per genere è una scelta che ha senso per proporre contenuti di maggiore fruizione”, spiega una nota di Viale Mazzini. Questa mattina l’ad Rai Fabrizio Salini e il presidente Marcello Foa in Vigilanza saranno chiamati a rispondere anche su questo.

Il sovranista del Tg1 col cognome fascista

Giuseppe Carboni e Angelo Polimeno Bottai hanno entrambi inviato a Fabrizio Salini una propria memoria, per raccontare l’accaduto secondo il loro punto di vista. Nel frattempo saranno sentiti dall’ufficio dell’audit interno: a quanto si sa, il vicedirettore è stato ascoltato ieri, mentre il direttore sarà sentito oggi.

Questi gli strascichi della rissa andata in scena nella redazione del Tg1 sabato pomeriggio. Una litigata tra direttore e vice in cui i toni si sono alzati parecchio, fin quasi allo scontro fisico. A dividere Carboni e Polimeno è stato uno degli altri vice, Filippo Gaudenzi, provvidenzialmente entrato nella stanza giusto un attimo prima che i due venissero alle mani, nel bel mezzo di urla, insulti e minacce. Da quel che si racconta, Polimeno e Carboni erano ai ferri corti da settimane a causa dei turni, col primo che rinfacciava al secondo di decidere la turnazione lavorativa troppo tardi. Ma a far precipitare tutto sono state le 11 promozioni decise da Carboni in solitaria. “Come ti permetti di agire senza consultarmi?! Chi ti credi di essere?!”, è stato il tono delle accuse.

La vicenda di questo giornalista è curiosa. Fino a solo un anno fa per tutti, da Saxa Rubra al Transatlantico di Montecitorio, era Angelo Polimeno e basta. Poi, in concomitanza con le ultime Politiche, è spuntato il nome dell’antenato. Polimeno, infatti, è nipote di Giuseppe Bottai, ex gerarca fascista che durante il Ventennio fu ministro delle Corporazioni e dell’Educazione nazionale, nonché governatore di Addis Abeba, salvo poi mettere in minoranza Mussolini il 25 luglio 1943. E i più maliziosi a Saxa Rubra vedono in questa tardiva riscoperta delle origini un modo per farsi notare dalla destra sovranista ora giunta al potere a Viale Mazzini. Insomma, con l’aria che tira, certe origini meglio evidenziarle.

Ma che Polimeno, con o senza l’aggiunta Bottai, venga da quell’area – prima in quota An e poi Fratelli d’Italia – è cosa nota. Nato professionalmente al Tempo di Gianni Letta, poi preso da Bruno Vespa a Porta a Porta, Polimeno arriva al Tg1 nel 2002 sotto la direzione di Clemente Mimun. E il suo raggio d’azione è sempre stato il centrodestra: An, il Pdl, Forza Italia, Gianfranco Fini prima come presidente della Camera e poi come dissidente di Berlusconi. Dai colleghi viene descritto come persona assai riservata, quasi sottotraccia, un gentleman, cui però è meglio non mettere i piedi in testa. Il giornalista, infatti, non è nuovo a scatti del genere. Tra il 2010 e il 2011, sotto la direzione di Augusto Minzolini, ebbe un acceso diverbio con Francesco Giorgino, all’epoca caporedattore di line. Polimeno accusava Giorgino di non saper gestire il lavoro e di emarginarlo. Anche in quel caso furiosa litigata e rissa sfiorata in redazione. L’indagine dell’audit, però, diede ragione a Giorgino.

Ora ci risiamo. E nel suo diverbio con Carboni qualcuno ci vede una strategia precisa: marcare il territorio e fare da sponda alla Lega nella sua azione di assedio al direttore indicato dai 5Stelle. Nel frattempo, da cronista politico, ha scritto libri. Il suo ultimo lavoro, Alto tradimento, racconta come, tra euro e privatizzazioni, l’Italia sia stata svenduta.

Ruby ter, Polanco avvisa B.: “Voglio dire tutta la verità”

Griffatissima, Marysthell Polanco chiacchiera passeggiando per Milano, dopo essere uscita dal Palazzo di giustizia. Annuncia di voler cambiare versione sulle “cene eleganti” di Arcore: “Ho deciso di dire le cose come stanno”. Ricorda Imane Fadil, la ragazza morta in circostanze ancora misteriose: “È stata la migliore di tutte noi, la più coraggiosa. Ha avuto il coraggio di dire la verità”. Poi attacca: “Voi del Fatto Quotidiano riceverete però una mia querela”. Si riferisce all’articolo in cui il Fatto rivelava le sue dichiarazioni ai pm milanesi del processo Ruby 3 e al suo urlo: “No, il polonio!”, non appena saputo della scomparsa di Imane. “Io non ho mai fatto il nome di Vladimir Putin, perché mi volete mettere in una situazione così pericolosa?”.

Marysthelle era appena uscita da un’udienza del processo Ruby 3 che avrebbe dovuto essere di routine e che si è trasformata invece in una promessa di svolte processuali. Dentro e fuori dell’aula. Fuori, la protagonista è stata lei, Marysthell Polanco, imputata di corruzione in atti giudiziari e falsa testimonianza. Insieme a Silvio Berlusconi e in compagnia di altre 26 ragazze e testimoni, è accusata di aver mentito ai giudici, dietro compenso dell’ex presidente del Consiglio. “Erano solo cene eleganti. Con qualche spettacolino di burlesque”, aveva raccontato nei processi Ruby 1 e Ruby 2. Ora promette (ai cronisti, ma non ancora ai magistrati) di invertire la rotta: “Può darsi che la mia versione davanti ai giudici sarà diversa rispetto a quella del processo Ruby 2, ho deciso di dire le cose come stanno, adesso mi sento una donna con dei figli e voglio dire la verità”. Chissà se gli annunci a favor di telecamera si trasformeranno anche in condotte processuali. Intanto Marysthell moltiplica gli elogi per Imane Fadil, fino a ieri “traditrice”, ospite di Arcore “colpevole” di aver rotto il fronte delle ragazze che nel 2010 avevano partecipato ai festini del bunga-bunga, raccontando ai magistrati le scene di sesso che vi si svolgevano; e oggi invece “eroina, ragazza coraggiosa, la migliore di noi”. Imane intanto è morta e ancora non si conoscono i motivi del decesso: malattia ancora non individuata, o misterioso avvelenamento? Appena avuta dai pm del processo Ruby 3, Tiziana Siciliano e Luca Gaglio, la notizia ancora inedita che Fadil si era spenta il 1° marzo all’ospedale Humanitas di Rozzano, Marysthell era scoppiata in un grido (“No, il polonio!”) e aveva aggiunto: “L’anno scorso una persona disse a me, ma anche ad altre ragazze, ‘basta una punturina e siete fatte’”. Ieri ha cercato di correggere, rettificare, attutire. Ma non ha smentito quanto scritto dal Fatto. “Non ho mai detto che è stato Putin”. Infatti il riferimento al presidente russo non le era stato attribuito. “E non è vero che sono stata minacciata”. Ma la showgirl dominicana conferma le sue paure: “È molto strano che ancora non si sia scoperto che cosa è stato a farla morire, certo che ti viene l’ansia, mi è dispiaciuto tanto per lei, è una cosa assurda. E io mi sono fatta tante idee”.

Questo succedeva fuori dall’aula. Dentro, i giudici decidevano di accettare la richiesta dei difensori di sospendere il processo (fino al 10 giugno) per consentire all’imputato Berlusconi di partecipare alla campagna elettorale per le europee. Un tuffo nel passato, come ai bei tempi. E i pm annunciavano che saranno presto depositati gli atti provenienti da una rogatoria in Svizzera che dovrebbero chiudere il cerchio sui soldi pagati da Berlusconi per la ragazza da cui tutta questa storia è nata, Karima el Mahroug detta Ruby, minorenne all’epoca delle feste. È un flusso di denaro di oltre 400 mila euro trasferiti da Milano a Playa del Carmen, in Messico, passando per Francoforte, Londra e Lugano. Su un conto bancario sta scritto chiaro: “Intestatario Risso”. Cioè Luca Risso, l’ex fidanzato di Ruby.

Intanto Emilio Fede, condannato a 4 anni e 7 mesi per aver procurato ragazze per le feste del bunga-bunga, ha annunciato di aver presentato altre carte, documenti medici per cercare di evitare l’arresto. “Rischio di finire a Poggioreale. Ora voglio chiedere la grazia”.

Unicredit, c’è l’accordo con gli Usa: pagherà 1,3 miliardi

Il colosso bancario Unicredit ha chiuso l’accordo con gli Stati Uniti. Pagherà 1,3 miliardi di dollari per aver effettuato transazioni con l’Iran, paese sottoposto a sanzioni. Lo ha reso noto il Dipartimento del Tesoro statunitense. Stessa cosa per due sussidiarie che dovranno versare 158 milioni di dollari. Inizialmente si stimava un importo inferiore, attorno agli 800 milioni. La responsabilità di Unicredit, fa sapere la Federal Reserve in una nota, è di aver avviato “pratiche non sicure relative a controlli inadeguati sulle sanzioni e a una supervisione inadeguata delle sue sussidiarie”. Con l’uscita degli Stati Uniti dal Piano d’azione congiunto globale, ovvero l’accordo sul nucleare firmato nel 2015 con l’Iran (JCPOA), su Teheran sono tornate a incombere pesanti sanzioni finanziarie secondarie. Quelle primarie non sono mai state sospese. Perciò gli istituti di credito italiani hanno rifiutato pagamenti provenienti dal paese islamico. Tuttavia Unicredit aveva rilevato la banca tedesca Hypo Vereinsbank, che nel 2011 era stata citata in giudizio a New York per alcune transazioni effettuate con società iraniane.

“Quando toccai i prodiani mi tolsero l’inchiesta”

Sandro Gozi indagato a San Marino per una consulenza fantasma e per i suoi rapporti col sistema bancario sammarinese: le ricorda qualcosa, sindaco Luigi de Magistris?

Mi viene in mente che nel 2007 da pm di Catanzaro dell’inchiesta Why Not, stavo indagando su Sandro Gozi e sui rapporti con Piero Scarpellini (poi archiviato, ndr) e la società Pragmata, con sede a San Marino, anche lui nella rete di collaboratori e fedelissimi dell’allora premier Romano Prodi. E si coniò il termine ‘Loggia di San Marino’ per i collegamenti stretti, anche di natura occulta, tra indagati calabresi e altri operanti in altri territori, tra cui San Marino.

Why Not era un’inchiesta sulla malagestione dei finanziamenti europei alle imprese calabresi e il personaggio chiave era l’imprenditore Antonio Saladino.

Nel corso di una perquisizione anche il nome di Gozi fu ritrovato nell’agenda telefonica di Saladino. E durante le indagini, anche grazie alle dichiarazioni della teste chiave Caterina Merante, incrociammo i rapporti tra personaggi vicini a Prodi e società calabresi in affari con società sammarinesi. Indagai insieme a Gozi anche Pietro Macrì, amministratore di Met, una società informatica, anche lui molto vicino a Prodi.

Met ebbe incarichi da Pragmata e Macrì, che secondo alcuni verbali ‘vantava amicizie e rapporti molto stretti con Prodi’ per il tramite di un altro imprenditore a lui molto vicino, è stato condannato in primo grado a nove mesi e assolto in appello in Why Not: lei su un documento giudiziario lo definì “rappresentante della cosiddetta Loggia di San Marino in Calabria”, ma l’esistenza di una loggia non ha trovato prove, anche perché le sue richieste di rogatoria rimasero senza risposta. Le indagini volevano appurare se dalla Calabria attraverso San Marino fossero arrivati finanziamenti alle campagne elettorali del 2006 di Prodi e Gozi. Entrambi archiviati dalla Procura Generale che le avocò le indagini nell’ottobre 2007.

Mi hanno tolto l’inchiesta proprio quando arrivai all’entourage di Prodi. Indagai il premier e Gozi nel luglio 2007, pochi giorni dopo la cosiddetta ‘perquisizione San Marino’ del 20 giugno 2007 relativa proprio a indagati in queste vicende. Con quella perquisizione entrai nel cuore delle deviazioni dello Stato. L’intervento a gamba tesa di Mastella non fu casuale. Un ministro di Prodi, a sua volta indagato (e archiviato, ndr), che usa il suo potere disciplinare per chiedere l’immediato trasferimento del pm che lavorava su di loro, fu una cosa che non aveva precedenti. Con Gozi stavamo per collegare gli affari tra Calabria, San Marino e Bruxelles, la centrale del fiume dei finanziamenti europei. Ma mi fu impedito.

Le iscrizioni di Prodi e Mastella finirono dritte sui giornali.

Fughe di notizie fatte apposta con lo scopo di danneggiare me e le mie indagini.

E lei perse il fascicolo.

Mentre stavo scrivendo le richieste di misure cautelari.

E ora Gozi si candida a Bruxelles con Macron.

Dopo più di 10 anni gli indagati di Why Not tornano alle cronache più per nuove vicende investigative che politiche (a novembre è stato arrestato l’ex sottosegretario Pino Galati in un’inchiesta sulla ’ndrangheta, ndr). A novembre la Corte d’appello di Salerno ha sentenziato che l’avocazione di Why Not fu illegittima: se mi avessero consentito di andare fino in fondo, avrei individuato le singole responsabilità.