Emissioni CO2 in crescita? È sfiducia

“Per raggiungere il target del 2021 di 95 g/km di CO2 nell’Unione europea, occorre che la media delle emissioni si riduca ancora di 23,5 g/km, un’impresa impossibile senza il contributo delle auto nuove diesel, che producono meno CO2 delle auto a benzina, o senza un aumento esponenziale di auto elettriche, impensabile con l’attuale rete infrastrutturale di ricarica e senza un sostegno economico prolungato alla domanda”. A dirlo è l’Anfia, l’Associazione nazionale della filiera automobilistica, che punta il dito soprattutto contro la crociata anti gasolio portata avanti dalle amministrazioni locali e dai policy maker.

Argomenti condivisibili ma ampiamente prevedibili, e soprattutto figli di un peccato originale. La corsa forzata a una tecnologia ancora non matura come l’elettrico, come pure il virare sui motori a benzina, come noto non dei campioni di contenimento dell’anidride carbonica, sono la conseguenza di quanto successo dal Dieselgate in poi. Ovvero la perdita progressiva di fiducia nei confronti di quei costruttori che prima godevano di appoggio quasi incondizionato, soprattutto a livello europeo. Appoggio che ora non c’è più.

Prima di accusare, non ingiustamente per la verità, di dilettantismo o scarsa conoscenza della materia chi prende decisioni sui limiti alle emissioni e la stretta sul diesel, gli addetti ai lavori (almeno quelli che hanno imbrogliato) dovrebbero ricordare che sono stati proprio loro a metterli nelle condizioni di sbagliare.

New York e Shanghai: i due saloni degli altri Mondi

Dodicimila chilometri di volo sul Pacifico con tutte le sfumature possibili tra attesa e recessione. Ovvero l’industria statunitense e quella cinese che dedicano praticamente gli stessi istanti ai rispettivi saloni dell’auto: dal 19 al 28 aprile a New York e dal 18 al 25 a Shanghai. Dalla Grande Mela alla Grande Muraglia, per non capirsi in una guerra tra dazi commerciali e lazzi spionistici sui brevetti, ma con indicatori di vendita al negativo in comune e la stessa voglia di invertire la rotta e puntare su Parigi, Wolfsburg e Stoccarda: ovvero l’accoppiata tra tecnologia verde e design all’europea.

Gli States a quattro ruote non sono più di Trump e di quella ortodossia da inimitabili consumatori americani. Il 2018 si è chiuso con 17,3 milioni di auto vendute, quarto miglior risultato di sempre, ma le stime della National automobile dealers association vedono un 2019 in discesa netta per via di gusti che cambiano. Non si vendono più berline o wagon, che erano oltre il 50% del mercato pochi anni fa, ma oggi sono ferme al 31% e picchieranno al 21,5% entro il 2025. Detroit ci aveva puntato tutto, ma da tempo i clienti hanno messo nel mirino gli sport utility, anche di taglia medio-piccola, di cui i costruttori che operano negli Usa stanno riempiendo i listini. Al Salone di New York allora ci pensa Hyundai, ad esempio, con Venue: il mini suv più compatto mai realizzato dal marchio coreano. Risponde più in grande Ford Escape nelle varianti ibrida e plug-in, ma salire di livello compete a Mercedes, alla Glc Coupé rinnovata e soprattutto alla nuova Mercedes Gls. L’ammiraglia in sport utility della Stella, con uno spazio a bordo cresciuto in modo esponenziale, costruita in Alabama. A Porsche stavolta tocca il ruolo di splendida comparsa, con la 911 Speedster. Un tributo alla meravigliosa 356 Speedster del 1952, mentre tutto il resto del gruppo Volkswagen punta a Shanghai e all’attesa che attanaglia tutto il mercato cinese. Malino nel 2018, con 28,1 milioni di auto vendute: un’enormità, ma in calo del 2,8% sull’anno precedente. L’associazione dei costruttori vede un 2019 piatto e congelato, nell’attesa di una nuova ondata di incentivi governativi all’acquisto.

Nel frattempo a Shanghai il gusto di scegliersi il futuro tra la concept car Audi AI:ME, monovolume dotata di intelligenza artificiale e guida autonoma di Livello 4, oppure l’anteprima maxisuv elettrico Volkswagen ID Roomzz, che arriverà nel 2021. Renault insieme alla cinese Dongfeng presenta City K-ZE, il suv urbano della svolta ad emissioni zero con 250 km di autonomia e destinato ad atterrare sul mercato cinese già quest’anno. Servirà più tempo per Glb Concept, che anticipa il nuovo sport utility compatto della Stella, ma almeno Mercedes è volata nella direzione giusta.

La conversazione continua. “Citto” Maselli, il regista n. 1

La maggior parte dei grandi registi non ama parlare, certo non del suo cinema. Antonioni aveva sempre una riserva di storie e battute umoristiche (Tonino Guerra gliele forniva a palate), Fellini mentiva, e subito ti raccontava un film che non aveva mai fatto o non avrebbe mai fatto, Francesco Rosi ti parlava di televisione con attenzione spietata e implacabile, Scola ti raccontava una storia vera, qualcosa che gli era accaduto davvero e che lui narrava con realistica bravura, e molta distanza da quello che stava progettando o facendo davvero.

Con Francesco (Citto) Maselli questo non sarebbe stato possibile. Citto ha sempre vissuto, come in una grande Jacuzzi, in un mondo di amici e di affini con cui la conversazione ferveva (ferve) ininterrotta. Gli interessano la vita, i fatti, le persone, gli amori, la bellezza (i pettegolezzi no, perché è materiale usato ). Ma il gioco consiste nel dare un senso alle cose.

Dare un senso vuol dire: in che mondo, in che epoca, in che frazione di epoca viviamo, chi sono loro, chi siamo noi? Attenzione, non scambiatelo per un tormentato. Citto Maselli, nei momenti più duri e in quelli più belli e festosi della sua vita, è sempre stato di un suo umore stabile, quasi allegro, con uno strano e insolito misto di coerenza anche dura, e di mitezza.

La sua incapacità di disprezzare, irridere, anche quando sembrava necessario (certi fascisti) era la sua impronta più evidente. Citto non è il tipo che si dedica al perdono, ma non gli interessa la condanna. Nel senso che nei suoi film cerca la condizione, la situazione, la storia da condannare, non qualcuno da mettere alla berlina. Attenzione, non dite che è uno buono.

Ma l’orizzonte largo della sua vita gli ha sempre impedito l’angustia di certi giudizi. Ne parlo adesso, in questa pagina, perché a Francesco (Citto) Maselli è dedicato un libro che, per amore di storia italiana (ora massacrata da cumuli di detriti del passato) e per interesse e passione per il cinema italiano, è meglio avere (“Il cinema di Francesco ‘Citto’ Maselli” a cura di Giacomo Martini, I quaderni del Battello Ebbro). Antonioni, come ricorda la prima pagina del testo, sosteneva che Maselli fosse il più importante regista italiano. La frase, che non è di un critico, è di un grande dello stesso cinema, negli stessi anni, ha una ragione che spiega il libro, spiega Maselli e spiega il suo cinema. Grande vuol dire che Maselli è capace di un abbraccio in cui la vicenda privata, quella d’amore e il senso di qualunque unica storia umana, sono comprensibili solo nel grande contesto che è la politica, solo nei progetti di liberazione e nella dannazione di tutto ciò che opprime, dal danaro al fascismo. Citto Maselli, il suo cinema e questo libro sono, per fortuna e purtroppo, nel tempo giusto.

Una notte con Monna Lisa: Louvre “si vende” ad Airbnb

“Una notte con Monna Lisa: Airbnb e il Museo del Louvre rivelano un’esperienza inedita del museo. Per festeggiare i 30 anni della Pyramide, il Louvre si associa a Airbnb per offrire un accesso esclusivo al museo e ai suoi capolavori”.
Il sito ufficiale del Louvre ha indetto il concorso, aperto dal 3 al 12 aprile: si trattava di scrivere, in poche righe, perché il candidato si riteneva l’invitato ideale di Monna Lisa.

La coppia che avrà vinto entrerà nel Louvre dopo la chiusura serale, godrà di un aperitivo di fronte alla Gioconda, di una cena di fronte alla Venere di Milo, di un concerto negli appartamenti di Napoleone III, e poi passerà la notte in una piccola piramide costruita sotto la Pyramide. Ed è solo l’inizio, annuncia ancora il sito, di uno strettissimo rapporto tra il museo e la grande impresa pseudo alberghiera.

È difficile anche solo elencare le tantissime ragioni per cui si tratta di un’idea aberrante, che segna – dopo tante altre iniziative assai discutibili – il passaggio del Louvre al “lato oscuro della forza”, cioè all’uso regressivo, diseducativo e perfino distruttivo del patrimonio culturale e del suo potentissimo immaginario.

Il motto dell’iniziativa potrebbe essere “una lotteria del lusso estremo”. Per anni si è costruita la retorica dell’accesso “esclusivo” al patrimonio culturale: in un ritorno all’antico regime, a prima delle costituzioni novecentesche, i grandi ricchi possono di nuovo fare quello che vogliono dei beni comuni culturali. Feste esclusive nei musei, accessi riservati, addirittura mostre delle proprie “opere d’arte” in luoghi di culto.

A Beyoncé e Jay-Z è stato consentito di trascorrere una notte con la Gioconda. E al misterioso donatore Ahae fu concesso di esporre le proprie fotografie naturalistiche sotto l’egida del Louvre: salvo poi scoprire che si trattava di YooByung-e un, milionario e predicatore sudcoreano che poi morirà inseguito dalla polizia, dopo la tragedia dell’affondamento di un suo battello cui era stato aggiunto un ponte abusivo che impedì l’evacuazione dei passeggeri.

Il messaggio è chiaro: il denaro può comprare tutto. E nella stagione “culturale” in cui gli oligarchi russi fanno a gara a farsi lavare le Ferrari con lo champagne da modelle nude, i musei si adeguano, compiendo un passo ulteriore: consentire, tramite un concorso, di essere oligarchi per un giorno. Prima si crea il modello “esclusivo”, e lo si rende desiderabile: poi si gioca con la frustrazione collettiva, gettando al popolo senza pane qualche brioche. Difficile capire come tutto questo c’entri con la missione di un grande istituto di ricerca e di condivisione della conoscenza qual è il Louvre.

E poi c’è un problema non meno rilevante: la scelta del partner, Airbnb.

La città di Parigi è in prima fila nella lotta internazionale contro questo colosso alberghiero mascherato, che è uno dei principali responsabili della turistificazione delle città. L’assessore alla casa parigino Ian Brossat ha scritto un bel libro (Airbnb, la villeuberisée, 2018) in cui mostra come, “allontanandosi dalla sua promessa iniziale, l’economia di condivisione è divenuta una economia di predazione: Parigi ha visto sparire 20.000 alloggi, inghiottiti dalla piattaforma Airbnb, che ne ha fatto la sua prima destinazione mondiale”.

Le conseguenze di questa uberizzazione della città sono “speculazione edilizia, affitti più cari, espulsione dei residenti dai centri storici e segregazione economica degli abitanti per zone omogenee per censo”, cioè i ricchi con i ricchi e i poveri con i poveri. E poi ancora “standardizzazione e sparizione delle attività commerciali, trasformazione dei ritmi e degli usi della città, perdita di identità dei quartieri”.

Il libro di Brossat è un manifesto politico “per lottare contro l’uberizzazione della città, bisogna tornare a porsi la questione della geografia del potere: una questione urgente, visto che Airbnb non è che la parte emersa di un iceberg nel quale Google si lancia nel mercato immobiliare, Amazon monopolizza il commercio, Uber privatizza la mobilità urbana”. È per questo che, nello scorso febbraio, la sindaca di Parigi, Anne Hidalgo, ha annunciato una multa di 12 milioni e mezzo di euro contro Airbnb, colpevole di non aver rispettato il regolamento comunale che fissa un limite di 120 giorni l’anno per un’attività ricettiva “spontanea” e di condivisione. “Diciamo no a questa economia di predazione perché non vogliamo trovarci come a Venezia o a Barcellona”, ha spiegato la sindaca commentando il repentino calo dei residenti nei quartieri centrali di Parigi.

Ora, nella geografia del potere di cui parla Brossat, il Louvre sceglie di prender posto contro la città e con le grandi corporation, mettendo in gioco il suo immenso prestigio culturale per legittimare Airbnb.

E lo fa incurante di un precedente che pure dovrebbe allarmare. L’anno scorso Airbnb fu costretta ad annullare un concorso identico (già, perché l’uso dei format fa parte integrante di questo modello di marketing globale) in Cina. In quel caso ,era stata messa in palio una notte sulla Grande Muraglia: ma la vera e propria insurrezione dell’opinione pubblica cinese, che trovava indecente questa bassa operazione pubblicitaria giocata su un monumento nazionale, aveva portato ad una polemica pubblica così seria da costringere Airbnb alla ritirata.

Sarebbe davvero paradossale scoprire che gli anticorpi democratici cinesi sono più attivi di quelli parigini. In ogni caso, in fatto di coscienza del proprio scopo la Grande Muraglia batte il Louvre 1 a 0.

La caccia (infinita) alle SS che sognano il nuovo Reich

Mauthausen. Verso la fine della guerra, un caporale tedesco di nome Merz si avvicina al prigioniero ebreo Simon Wiesenthal. Gli chiede come avrebbe descritto le atrocità alle quali aveva assistito a chi non le aveva mai viste.

“Credo che dirò la verità”, rispose Wiesenthal.

“Giusto. E sai cosa accadrebbe?”, replicò il caporale, sogghignando, “Non ti crederebbero. Direbbero che sei pazzo. Magari ti rinchiuderanno in manicomio. Come può una persona credere a un tale orrore, a meno di averlo vissuto?”.

L’episodio è ricordato a pagina 209 di un saggio appena pubblicato da Sperling&Kupfer che si intitola “Caccia alle SS”. Delle quali Wiesenthal divenne uno dei più celebri cacciatori, una figura mitica. Colpiva la sua tenacia nel portare di fronte ai tribunali d’Europa i responsabili piccoli e grandi dell’Olocausto, spinto, precisava sempre – anche a me, quando lo conobbi a Vienna – che il suo scopo non era la vendetta, ma la giustizia. Sono stati tanti i cacciatori di SS. Qualcuno opera ancora. Per svelare i lasciti dei criminali di guerra ed i legami con le organizzazioni neonaziste. Un ruolo di primo piano l’ebbero alcuni istituti del Vaticano: tra il 1946 e il 1951 diedero rifugio nei loro conventi e monasteri a centinaia di nazisti. La Croce Rossa distribuì 120mila titoli di viaggio. C’erano reti che organizzavano le vie di fuga, come Odessa e Die Spinne, “Ratline” le battezzarono gli americani, la rotta dei topi. Di queste filiere si sono a fatica ricostruite trame ed affari: complicità delle autorità elvetiche, basi italiane (Merano, Bolzano, Verona, Genova); resta il muro del silenzio sui trasferimenti finanziari (frutti della spoliazione di ebrei, serbi, croati, opere d’arte trafugate).

La memoria del nazifascismo è labile, attaccata dal revisionismo e dal negazionismo di gruppi, partiti e movimenti dell’estrema destra. Raccontare ciò che è stato è dunque fondamentale. La lezione del passato, come ha detto Liliana Segre, “diventa paradigma per il riconoscimento dei segnali di devianza nella realtà attuale”. Libri come “Caccia alle SS” sono divulgativi, destinati al grande pubblico. Dunque, utili.

Peccato per il titolo. La banalità del male forse ispira titoli banali? In verità, il titolo originale made in Usa è meno generico, e più salviniano: “Uccidere le SS: la caccia ai peggiori criminali di guerra della storia”. Uccidere, è una chiave di lettura ben precisa. Da giustizieri della Storia. Significa che la colpevolezza dei criminali nazisti non può essere diluita negli ingranaggi melmosi di un sistema, di una macchina burocratica spietata in cui ogni individuo è una rotella cieca, senza passione né morale, un esecutore meccanico degli ordini venuti dall’autorità suprema.

Indubbiamente il saggio riflette il dna degli autori. In particolare, di Bill O’Reilly, 69 anni, fisico da giocatore di basket, un noto e discusso anchorman della Fox – spregiudicato quanto abilissimo nel condurre i suoi popolari programmi tv d’inchiesta e perché impelagato in numerose azioni legali per molestie sessuali, rivelate dal New York Times che gli causarono l’estromissione da Fox News, dove conduceva The O’Reilly Factor, programma che ha scatenato polemiche a non finire: lo accusavano di falsare i fatti e di usare statistiche fuorvianti se non addirittura errate.

Bill O’Reilly è autore e co-autore di una lunga sfilza di libri nei cui titoli ricorre spesso la parola Killing. Uccidere Kennedy. Uccidere Gesù. Uccidere Patton. Uccidere Reagan. Uccidere il Sol Levante. Killing England è il penultimo. “Guerriero della cultura” (2006), in soli tre mesi ha venduto più di un milione di copie. Con Martin Dugard, ha stampato Killing Lincoln: “Lo scioccante assassinio che ha cambiato l’America per sempre” (2011). Ad ogni killing segue un altro libro di approfondimento sugli ultimi giorni di vita delle grandi vittime. Insomma, O’Reilly è una fucina di bestsellers di facile lettura. Come questo scorrevole e non impegnativo baedeker sulle fughe dei gerarchi di Hitler e dei loro collaboratori, alcuni catturati (uno, Gustav Franz Wagner, la “Bestia di Sobibor” che infilzava i bambini con la baionetta, finirà ucciso da un killer nell’ottobre 1980), molti altri, invece, di cui si sono perse le tracce.

Dalla caccia alle SS emerge il progetto di un esilio finalizzato per salvaguardare il “Terzo Reich” e prepararne la riscossa, in cui sono coinvolti migliaia di nazisti che dispongono di ingenti capitali, società, fabbriche: settecento imprese (78 solo in Argentina). In Sudamerica i fuggitivi nazisti – inseriti nelle comunità tedesche locali – sviluppano un processo di assimilazione politica ed economica. Gli autori, però, non approfondiscono quest’aspetto, preferiscono dilungarsi sull’avventuroso caso Adolf Eichmann, incrociandolo sommariamente con quello del sinistro dottor Josef Mengele, “l’Angelo della Morte di Auschwitz”. La prima “caccia” conclusa positivamente. La seconda, un fallimento. Che fa il paio con quella all’inafferrabile Martin Bormann, il segretario di Hitler, svanito (forse) in Sudamerica. Il Gran Capo dei fuggiaschi. Tra i più ricercati: Klaus Barbie, Erich Priebke, Frank Stangl (il comandante di Treblinka), Otto Skorzeny (clamorosa la sua collaborazione con il Mossad), Elfriede Rinkel, volontaria SS a Ravensbruck, dove persero la vita 20mila donne: si nascondeva a San Francisco, aveva sposato un ebreo. Espulsa, morirà nel luglio del 2018, a 96 anni.

Cuore del saggio, la minuziosa cattura e il processo epocale di Eichmann, cominciato a Gerusalemme l’11 aprile del 1961. Il giorno dopo Yurij Gagarin, il primo cosmonauta della Storia, avrebbe esclamato: “La Terra è meravigliosa!”. Dal suo punto di vista. Ma sotto, la Terra mostrava il suo inferno. Il processo Eichmann giocò un ruolo decisivo nella presa di coscienza del genocidio. Creò una domanda sociale di testimonianza e la pretesa che gli aguzzini di Hitler venissero catturati e puniti. Senza pietà.

Un’onda di tweet anonimi: fake news di mister Macron

Prendiamo un tweet a caso: “Buongiorno, mi chiamo Mireille e il #26mai (maggio, ndr) voto per la lista #RenaissanceEuropéenne perché credo nell’Europa proposta da @NathalieLoiseau e dal suo gruppo. A tutti i #MacronistesAnonymes: non dimenticate le urne”. Come giovedì 28 marzo, “Mireille”, alias @MamaMimi161820, passa giornate a twittare per sostenere la République en marche (Lrem). Dalla creazione del suo profilo, nel febbraio 2017, e cioè dalla fase finale della campagna presidenziale, “Mireille” ha diffuso ai suoi soli 264 follower circa 54.000 tweet. “Mireille” a volte cambia nome. Il 28 marzo è diventata “Sophie”: “Mi chiamo Sophie e il #26mai voto per la lista #RenaissanceEuropéenne perché il futuro dell’Europa non può essere affidato a persone che la vogliono distruggere. #MacronistesAnonymes”. Sui social, il partito di Emmanuel Macron abbonda di “Mireille” e di “Sophie”, cioè di profili anonimi, molto attivi, ma i cui titolari non possono essere identificati. Lo dimostra un’inchiesta di Mediapart che, assieme al ricercatore indipendente Baptiste Robert, ha analizzato l’attività sui social dell’esercito di cybermilitanti del partito al potere. I dati sono stati raccolti tra venerdì 29 marzo e la mattina del primo aprile, un fine settimana politicamente molto ricco, con l’atto XX del movimento dei Gilet gialli, il lancio della campagna Lrem per le Europee, e un mini rimpasto di governo annunciato domenica sera. I dati confermano che la comunità Lrem, su Twitter, si basa sull’iperattività di un centinaio di account, per lo più anonimi. Una volta raccolti i dati, Robert ha calcolato il coefficiente di manipolazione del traffico social, uno strumento sviluppato all’Oxford Internet Institut dell’università, nell’ambito di una ricerca sulla propaganda informatica. Risultato: il coefficiente della comunità Lrem è di 16, “sopra la media osservata” in caso di attività normale. Ad esempio, lo studio dell’attività che si sviluppa intorno a parole chiave banali, senza significato, come #venerdì o #mercoledì, genera un coefficiente tra 8 e 10. Quando il coefficiente è il doppio, come nel caso di Lrem, “si può dedurre un tentativo di manipolazione del traffico da parte della comunità”, afferma Robert. Una bolla artificiale, dunque, ma anche un paradosso, visto che il presidente difende la fine dell’anonimato, “diventato problematico”, sui social network. Questa proposta, al centro di dibattiti anche nel partito di Macron, potrebbe rientrare nel progetto di legge che sarà presentato “prima dell’estate” dalla deputata Lrem di Parigi, Laetitia Avia. Il testo ha lo scopo di contrastare il cyberbullismo. Poco importa però che metodi usa il partito presidenziale! Come farà la Lrem a imporre alla società una trasparenza di cui lei stessa si fa beffa sui social? La questione si è posta quando, il 4 aprile, Marlène Schiappa, segretario di Stato alle Pari opportunità, ha rifiutato di dire chi si nasconde dietro l’account #Avec_Marlène che la sostiene. E si è riposta in altre circostanze. Per esempio quando Ismaël Emelien, l’ormai ex consigliere di Macron, non è stato in grado di spiegare la diffusione anonima di immagini di videosorveglianza della prefettura di Parigi e di un montaggio grossolano servito a proteggere l’ex collaboratore dell’Eliseo Alexandre Benalla. Ma anche quando i media hanno rivelato che questa controffensiva era stata organizzata e coordinata con l’allora responsabile dell’ufficio stampa dell’Eliseo e attuale portavoce del governo. Nonché quando si è saputo che l’account anonimo in questione è in realtà amministrato dal responsabile della cosiddetta “unità di reazione” di Lrem. Sin dalle presidenziali, l’esempio viene dai vertici della Macronia. I dati di Robert confermano che l’anonimato è presente a tutti i livelli del movimento. Al gioco di “chi retwitta chi” e “chi risponde a chi”, la visualizzazione dei feedback tra account permette di disegnare delle comunità, cioè dei “gruppi di persone che interagiscono tra di loro”. E la più attiva, nel nostro studio, è la comunità Lrem. Tutti questi gruppi si strutturano intorno a #EnsembleEMacron, uno degli account più attivi, probabilmente tenuto da più persone (profilo usato tutti i giorni, dalle 7 a mezzanotte). Solo pochi di questi sono ufficiali, come @enmarchefr e @JeunesMacron o i deputati Pierre Person e Stanilas Guérini che dirigono il partito.

Questo uso dei social network può essere paragonato ad una campagna di astroturfing, un fenomeno che Romain Badouard, insegnante-ricercatore all’università Paris II, descrive come “il fatto di simulare artificialmente un movimento di opinione on line”. L’autore di Désanchentement de l’Internet: désinformation, rumeur et propogande (FYP Éditions, 2017) ricorda a Mediapart che “l’interesse dei social è di generare movimenti d’opinione spontanei. Si ricorre all’astroturfing quando si cerca di riprodurre, di simulare questa spontaneità”. “L’astroturfing – spiega Badouard – è nato come strumento di propaganda nei paesi totalitari. Alla fine degli anni 2000, per esempio, la Cina lo ha usato per contrastare i dissidenti sui social: è più efficace inondare i social di messaggi pro-regime che impedire ai dissidenti di esprimersi. Oggi dei piccoli gruppi politici, di alcune decine di persone, se ne servono per l’azione politica: alcuni gruppi di estrema destra lanciano dei raid contro le pagine Facebook di associazioni di difesa dei migranti. In questo caso si può parlare di astroturfing perché non si tratta di attaccare personalmente qualcuno, ma di rendere invisibile un discorso o di intaccare la notorietà”. “Oggi esistono sia account fake amministrati da persone reali che account reali alimentati da robot, cosa che rende impossibile la loro identificazione”, constata Badouard. Non potendo individuare i robot, Robert censisce le anomalie. I dati che ha raccolto sulla comunità Lrem rivelano statistiche inconsuete. È il caso di @COSTESLionelEr, secondo profilo più attivo con 611 feedback durante lo scorso fine settimana dopo @EnsembleEMacron. I ricercatori concordano sul fatto che un account è sospetto dagli 80 tweet e/o retweet al giorno. Mediapart ha verificato l’identità di Lionel Costes, ma la sua frequenza di pubblicazione resta comunque atipica (fino a 115 tweet l’ora). Dal dicembre 2016, questo account ha diffuso in media 519 tweet al giorno. I primi tre account, @EnsembleEMacron, @COSTESLionelEr e @EnMarcheMoulins, “riescono a fare il doppio di quello che farebbe un robot”, osserva Robert. Gli utilizzatori che hanno accettato di risponderci sono pochissimi. Pierre Le Texier, responsabile dell’“unità di reazione” di Lrem e della diffusione dei video in difesa di Benalla su un account anonimo, non vuole “fare commenti”. Texier è sospettato di tenere le fila di un altro account anonimo, “Alain Grand Bernard”, che recentemente ha organizzato una controffensiva dopo le rivelazioni di Mediapart su Benalla. Un altro macronista attivo sui social, Snipe, giudica “inutile” legiferare sull’anonimato on line.

Il comportamento di migliaia di account anonimi non è sconnesso dunque dagli apparati politici e dalle loro strategie. Se diversi utilizzatori che abbiamo contattato rivendicano la loro “indipendenza”, la comunità Lrem si coordina, come nel caso di “Yohann En marche” (@EnPoutine), che “è inscritto ad un filo Telegram per lottare contro le fake news”. La campagna “Mi chiamo [X] e il #26maggio voto per la lista #RenaissanceEuropéenne” è un esempio di questa coordinazione. Lanciata da un account anonimo l’operazione, ritiene Robert, “deriva molto probabilmente” da una campagna precedente lanciata a metà febbraio con l’hashtag #MacronistesAnonymes e lo stesso tipo di retorica, cioè: “Mi chiamo X, ho votato Macron e voterò Lrem alle Europee”. In tutto 606 tweet, di cui il 90% retweet, sono stati pubblicati da 287 account, per lo più anonimi. Un fiasco. Il messaggio più condiviso, quello di @Sylvie5064 (292 follower, 7.599 tweet dal 30 dicembre 2018) è stato ripreso solo 100 volte. Il paradosso della comunità Lrem è questo: i macronisti vagheggiano e non riescono a uscire da una cerchia ristretta. Durante il nostro fine settimana di studi, i media più condivisi e i tweet più retweettati mostrano che il discorso del governo non riesce a diffondersi sui social. Tra i sei tweet più diffusi nel corpus studiato quel fine settimana, due soli riguardano la Francia e sono ostili a Lrem, come il tweet dell’economista Thomas Porcher o quello di @tropical_boy. Per Lrem va meglio solo quando si considerano gli account più citati, come quello di Nathalie Loiseau, capolista per le europee, ampiamente in testa. Un successo però relativo: “Nathalie Loiseau viene citata ma non retweettata”, nota Robert. La consequenza è che: se la comunità è iperattiva, non è molto potente. Gli account ufficiali sono a un punto morto: quello della campagna delle europee @Renaissance_UE conta solo 8.200 follower, @NathalieLoiseau si ferma a 28.200 e @pcanfin, il profilo dell’ex direttore generale del Wwf, Pascal Canfin, attuale numero 2 nella lista Lrem per le Europee, a 35.000. Nonostante il bilancio non soddisfacente e le tante contraddizioni, Lrem non sembra voler cambiare strategia. Il 14 febbraio scorso, Benjamin Grivaux, l’ex portavoce del governo e candidato al comune di Parigi ha ringraziato pubblicamente gli account anonimi: “A tutti i #MacronistesAnonymes… davvero, GRAZIE!”.

(traduzione Luana De Micco)

Pasqua, la Passione dimenticata: l’Occidente è ancora cristiano?

Tra cinque giorni sarà venerdì e quel che è stato nel rintocco alle nostre spalle – all’ombra dei campanili – non c’è più. Il giorno in cui l’Altissimo accoglie le condoglianze degli uomini ed è come una strana scena nel palinsesto di terza serata su Rai1: la Via Crucis. L’ultimo fotogramma nel collage dell’immaginario è quello dello sforzo immane di Giovanni Paolo II – icona d’immedesimazione dell’Ecce Homo – ma non c’è altra colonna cui incatenarsi, adesso, che l’indifferenza.

Il disincanto del mondo ha strappato dal sentimento diffuso degli europei la sacralità del venerdì appunto santo, quello della settimana che comincia oggi e il martirio di Gesù sul Golgota evapora dal nostro orizzonte, come perfino la croce – il legno del condannato a morte – che non è più il segno identificativo dell’Occidente. Il “Dio è morto” di Friedrich Nietzsche non è una professione di ateismo bensì un episodio del compimento della metafisica se quel che capitava nel Venerdì Santo dei Misteri oggi si trasfigura nel simbolo, più che nella vivida scansione del Rito.

Quel che accade in Andalusia, in Campania, in Sicilia e nel più vasto Sud del Sud dei Santi con le processioni di gente al seguito della carne martoriata ai più suona come folklore del pittoresco e solo per pochissimi – sempre più pochi, radunati nelle confraternite di popolo – è l’appuntamento col Segreto. Un sabba di buio e di empietà. Come più avanti nel tempo, nel 680, nelle sabbie di Kerbala, una pioggia di frecce, spade e lance si avventa su Hosseyn – nipote di Maometto, figlio della figlia Fatima e di Alì – fino a farlo simile a un riccio.

È il giorno di Ashura, ossia il decimo giorno del mese di muharram. La testa mozza del Signore dei Martiri – questo è l’appellativo di Hosseyn – infilzata sulla punta di una lancia delle truppe ommaydi apre il macabro corteo per farne scempio. Sale alta la luna in cielo, il freddo punge la notte della primavera e l’alito dei sepolcri avvolge di spavento il sangue dell’innocente chiamato all’effusione.

Come già è accaduto al disturbante Dioniso – nell’eucarestia delle Menadi che se ne cibano, squartandolo – così Cristo, nella sua Passione, flagellato, schernito, gettato dal ponte e poi ancora trascinato tra i lazzi dei traviati quasi preavvisati dell’oblio di oggi.

Il Golgota è, di fatto, cancellato dalla memoria. Ogni segno sacro nel calendario trova presto parodia: l’otto marzo delle donne sull’otto dicembre dell’Immacolata – e va bene, non si può dire … – quindi il primo maggio sul 19 marzo di San Giuseppe lavoratore, per non parlare di scherzetto o dolcetto di Halloween sul 2 novembre dei morticini, fino al XMas che di feste sacrissime ne sfascia almeno due: il Natale della mangiatoia e il santissimo Deus Sol Invictus dei devoti, pii e fortunati nostri antenati.

La freccia che scocca dall’arco del divenire si fa storia. E però è una mistificazione che quel dardo trovi traiettoria dal peggio verso il meglio dell’umanità emancipandoci tutti. Il servo di scena nella rappresentazione – accanto alla colonna cui siamo incatenati, nell’Ecce Homo – è sempre lui, il buco nero che divora ogni riverbero di luce.

Mel Gibson, nel suo film ormai all’indice – The Passion, 2004 – gli diede le fattezze di un’affascinante Rosalinda Celentano. Ed è lui quello che se ne sta sul ponte. Per farci servi.

Benedetto XVI, Bannon e Salvini: le “coincidenze” contro Bergoglio

La scelta del periodo innanzitutto: gli ormai ben noti appunti del papa emerito Benedetto XVI (diciotto pagine) su pedofilia e Sessantotto nella Chiesa irrompono a gamba tesa alla vigilia del momento liturgico più importante dell’anno: la Settimana Santa, che va dalla domenica delle Palme (ieri) alla Pasqua.

Poi le domande: quelle riflessioni, decisamente scontate e che aderiscono a una visione clericale e rozza del Sessantotto, tipica dei tradizionalisti, davvero sono state scritte da Ratzinger, che domani peraltro compie 92 anni? Un quesito non secondario che rimanda a un altro dubbio, legato al suo “cerchio magico” ferreo oppositore del pontificato di Francesco, a partire dallo storico assistente monsignor Georg Gänswein, che in un’occasione tempo fa rivendicò un ruolo attivo di BXVI nel regno della Chiesa. Appunto. Altra domanda: sei anni di coabitazione tra due papi come hanno inciso sul trono di Pietro?

Infine: c’è un filo tra la divulgazione a scoppio ritardato del cosiddetto Viganò sugli abusi, usato dal network dei clericali di destra contro Bergoglio, e la diffusione di questi “appunti”? Di dubbio in dubbio si arriva finanche a una matrice politica di questa vicenda. Per un motivo semplice: tutti coloro che hanno rilanciato, tracimanti di gioia e in chiave anti-francescana, il manoscritto ratzingeriano, hanno forgiato la loro opposizione a Bergoglio nel sostegno all’internazionale sovranista che va da Steve Bannon, l’ex consigliere di Trump, alla xenofobia di Matteo Salvini. I referenti di questo fronte sono due cardinali, l’americano Burke e il tedesco Müller, ex inquisitore sotto Benedetto XVI.

Non solo. Sabato scorso l’inglese Guardian ha anticipato un retroscena del sito SourceMaterial in cui “fonti dell’estrema destra italiana”, cioè la Lega, hanno rivelato che nell’aprile 2016 Bannon consigliò a Salvini di attaccare frontalmente Bergoglio sull’immigrazione. “Francesco è un nemico”, disse Bannon, e Salvini indossò anche una t-shirt con la scritta “Benedetto XVI è il mio papa”. Forse non è un complotto, ma molte cose tornano.

Torre Maura e la prepotenza che toglie il pane ai deboli

Che schifo immenso, caro Coen, quel gesto a Torre Maura. I lettori di questa rubrica hanno visto la scena dei fascisti che calpestavano il pane destinato ai rom. Donne, vecchi e bambini compresi. Lo slogan era “dovete morì de fame. Prima gli italiani”. Quella vomitevole azione è il simbolo di una ideologia (Leonardo, non sono morte le ideologie, quelle della malvagità fatta politica hanno nomi precisi) che odia i poveri fino a negare loro l’essenziale. Il pane. Tutto si giustifica davanti ai microfoni di una tv. La decisione di un sindaco che in nome delle “regole” nega la mensa scolastica ad un bambina che ha un unico torto, la povertà della sua famiglia. Il divieto di sbarco a poche decine di affamati provenienti dall’Africa e stipati sulla nave che li ha soccorsi. Si battono il petto in chiesa i fascisti, difendono la famiglia tradizionale contro gay, coppie di fatto, “irregolari” di vario tipo, ma contro gli ultimi sono spietati. Perché non sanno cos’è la famiglia, non riescono a capire che il Pane è da secoli uno dei pilastri che la reggono. Il pane è condivisione e solidarietà, dividemmo il pane che non avevamo. Il pane è vita e poesia. Religiosità. Nel suo primo romanzo, “Il sogno di una cosa”, Pasolini ricordava le donne friulane che in chiesa cantavano “del vivo pan del ciel gran sacramento”. Il pane è miseria e dignità nella narrazione dei zolfatari siciliani di Sciascia, mangiavano “pane e coltello”. Corrado Alvaro diceva che “a volte i sassi hanno la forma del pane”. E Vito Teti, antropologo che ama viaggiare tra i mille significati del cibo dei poveri, ricorda la mamma dello scrittore di San Luca che “punta la pagnotta contro il suo tenero seno…”, “taglia il pane con misericordia, come se in quel momento avesse pietà di tutto il mondo senza pane”. I fascisti che sono andati nella dolente periferia romana a schiacciare il pane sotto i loro scarponi chiodati, sono senza misericordia. Non provano pietà del “mondo senza pane”.

Il partigiano Neri dà l’esempio: no al fascismo dalla Serie A

Il vero buco nero sta qui a Milano. La città di un ministro degli Interni alleato coi negazionisti della Shoah. Appoggiato da neonazisti. Ferocemente xenofobo. Che dice no alle cerimonie del 25 Aprile. Ma è pure la città di Tino Casali, tra i fondatori e poi presidente dell’Anpi, l’associazione dei partigiani, scomparso quattro anni fa. Il 10 ottobre del 1993 Casali mi scrisse una lettera, dopo un articolo sui 50 anni della Resistenza. Preoccupato, si chiedeva: esistono ancora le condizioni per “andare avanti sulla strada che la lotta di liberazione ci ha indicato e che, in termini più precisi ed organici la Costituzione repubblicana ha disegnato?”

Il cruccio di Casali precorreva i nostri tempi bui: “La crisi che stiamo soffrendo non dipende forse anche – se non soprattutto – dal fatto, al di là dei dati contingenti, che i gruppi dirigenti non hanno saputo cogliere il senso di questa domanda?”.

Una risposta me la dette mio padre, dalla ricetta semplice: “Mai dimenticare”.

Lui tifava Fiorentina. Mi raccontò che negli Anni Trenta giocava coi viola il talentuoso mediano Bruno Neri. Quando fu inaugurato il nuovo stadio di Firenze (10 settembre 1931), fu l’unico in campo a non fare il saluto fascista. Ma era tanto bravo che se la cavò. Approdò nella Nazionale di Pozzo, concluse la carriera di serie A al Torino, allenò il Faenza. Dopo l’8 settembre, scelse di combattere repubblichini e tedeschi, nome di battaglia “Berni”. Aderì all’Ori (Organizzazione Resistenza Italiana, vicina al Partito d’Azione). Divenne vicecomandante della brigata “Ravenna”, operava sull’Appennino tosco-emiliano. Il 10 luglio 1944, durante una missione, fu ucciso dai tedeschi assieme a Vittorio Bellenghi, il comandante della brigata, nei pressi dell’eremo di Gamogna. Prima di ogni partita diceva ai suoi giocatori: “Se ricevi la palla, devi aver già deciso come giocarla”. Se viviamo in un Paese libero, lo dobbiamo a quelli come Neri che seppero segnare il gol per la vittoria della democrazia e della libertà.